3645_Quesiti Forum aprile 2012

Transcript

3645_Quesiti Forum aprile 2012
Quesiti Forum aprile 2012.
Domanda posta il 22 febbraio 2012 da BS2034G.
Sanatoria garage con oneri e oblazione.
Risposta.
Innanzi tutto va detto che l’articolo 46, comma 5, del dPR 380/2001 prescrive
all’aggiudicatario di un immobile, la cui costruzione abusiva sia iniziata dopo il 17
marzo 2005, qualora si trovi nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria, di presentare domanda entro 120 giorni dal decreto emesso
dall’autorità giudiziaria.
La precedente formulazione dell’articolo 17 della legge 47/1985, che trattava lo
stesso argomento, faceva riferimento alle condizioni di cui al precedente articolo 13
(ossia l’accertamento di conformità).
Ora, invece, si fa riferimento solo alle condizioni per ottenere la sanatoria edilizia,
senza altra indicazione a quali norme riferirsi.
Una cosa è certa e cioè che la costruzione deve essere realizzata dopo il 17 marzo
1985 come recita proprio il titolo dell’articolo 46 del dPR 380/2011.
Si tenga conto comunque che l’art. 36 del citato decreto prevede l’applicazione della
sanatoria edilizia per qualsiasi abuso che risponda alle condizioni in esso contenute
(anche per il garage del 1977). In tale caso si paga, qualora sia accertata la doppia
conformità, solo il doppio del contributo di costruzione, mentre qualora l’opera fosse
realizzata dopo l’entrata in vigore della legge regionale n. 12 del 2005, l’oblazione
sarebbe dovuta in misura ordinaria in quanto in Lombardia i parcheggi sono gratuiti a
norma dell’articolo 69 stessa legge.
Diversa sarebbe la situazione che riguarda un immobile abusivo acquistato con atto
derivante da procedura esecutiva immobiliare del Tribunale Civile, la cui
realizzazione sia avvenuta dopo il 1985 perché, in questo caso, si potrebbe valutare
anche una sanatoria sulla base delle norme che hanno regolato i tre condoni edilizi (L
47/85, L. 724/94 4 L. 326/03).
Aderendo ad uno dei tre condoni edilizi (a seconda del diverso termine di scadenza di
ultimazione dei lavori dell’abuso), è ovvio che il comune richieda il versamento sia
dell’oblazione che il contributo di costruzione. Le “regole” da rispettare rimangono
quelle stabilite da ciascun condono edilizio, compreso i termini di pagamento e gli
eventuali interessi per i loro ritardi.
Nel caso in esame, però, non si può considerare la sanatoria in base all’articolo 46,
comma 5, del dPR 380/01, così come specificato nel quesito, perché il garage è stato
costruito nel 1977.
Non si capisce perché, se il caso in esame riguarda un garage del 1977, sia stata
calcolata l’oblazione che, viceversa, potrebbe riguardare abusi successivi al 1985.
Il contributo di costruzione si dovrebbe, altresì, pagare, in maniera differenziata, a
seconda appunto se si tratta di una sanatoria ex articolo 36 o diversa se si tratta di
procedura afferente il condono edilizio.
Domanda posta il 23 marzo 2012 da BS5446G.
Requisiti minimi aeroilluminanti
Risposta.
La norma di riferimento è giustamente quella rilevabile dal Regolamento locale
d’Igiene comunale (anche qualora l’amministrazione comunale non abbia approvato
un proprio Regolamento comunale d’igiene diverso da quello tipo regionale del
1989), che prevede i RAI per i locali di civile abitazione con rapporto di 1/8.
Questa norma generale prescrive il requisito che soddisfa i RAI da assicurare agli
spazi degli alloggi per locali di abitazione e locali integrativi, pari appunto ad 1/8.
Il fatto che la norma generale apra alla possibilità di ridurre tale requisito ad 1/10 per
particolari condizioni climatiche, non determina di per sé l’applicabilità, in
automatico, della riduzione, poiché tale requisito può essere applicato solo e soltanto
nell’ipotesi che lo stesso Regolamento Locale d’Igiene preveda tale riduzione a
seguito della sua approvazione da parte dell’Amministrazione comunale.
Ne consegue, quindi, che se il Regolamento Comunale d’Igiene non preveda
espressamente la riduzione dei RAI a 1/10, in luogo di 1/8, della superficie utile
abitabile degli spazi di abitazione, per le particolari condizioni climatiche del comune
interessato, deve essere rispettato il requisito generale.
Domanda posta il 23 marzo 2012 da BS5821G.
Apertura da modificare a confine.
Risposta.
E’ necessario fare alcune precisazioni in ordine agli interventi proposti sia in
relazione all’aspetto edilizio che a quello civilistico.
Partendo dal primo:
1) Il progetto da presentare al comune deve essere rispettoso delle previsioni e
prescrizioni dello strumento urbanistico generale, con particolare riguardo agli
interventi di recupero degli immobili in centro storico,
2) Il responsabile del procedimento, nell’esaminare la pratica, dovrà verificare , tra
l’altro, anche le modifiche delle aperture poste a confine e, se viene rilevata
palesemente la violazione alle distanze di queste dalle altre costruzioni, ha
l’obbligo di non assentirle,
3) Nel caso il responsabile del procedimento rilevasse il suddetto contrasto,
dovrebbe, nel pre avviso di diniego ex art. 10-bis della legge 241/1990, indicare
le motivazioni che ostano al rilascio del titolo abilitativo, in modo che il
richiedente abbia il modo di poter modificare il progetto rendendo lo stesso
conforme a quanto richiesto.
Per quanto riguarda il secondo:
1. le aperture esistenti (presenti da 25 anni) hanno acquisito il diritto di esistere e
il proprietario confinante non può pretendere che vengano chiuse o adeguate
alle norme del codice civile, indipendentemente dal fatto che siano state
autorizzate dallo stesso,
2. le dimensioni delle aperture, però, devono rimanere le stesse anche dopo gli
interventi di finitura dell’appartamento al primo piano, perché la
giurisprudenza civile non consente il loro spostamento o il loro ingrandimento
anche se consentite dalle norme locali; di fatto la servitù di veduta deve
rimanere quella preesistente e non può essere aggravata,
3. eventuali spostamenti o modifiche delle aperture esistenti devono essere
oggetto di una convenzione tra le parti, ma deve essere registrata e trascritta,
altrimenti gli accordi valgono solo fin tanto che gli interessati restano in vita,
dopo di che gli eredi, se non è intervenuto, nel frattempo, il diritto di veduta
per usucapione, potrebbero rivendicare il loro diritto al ripristino della
situazione originaria.
Ne deriva, pertanto , che, indipendentemente dal fatto che le norme del comune
consentano eventuali modifiche o spostamenti delle aperture, il responsabile potrebbe
inibire l’operazione, così come il vicino potrebbe far causa al titolare del permesso di
costruire che ne preveda la modifiche, non rilevate dall’UTC, qualora ritenga che gli
siano stati lesi i diritti previsti dal Codice Civile in materia di distanze delle vedute
tra le costruzioni finitime.
Domanda posta il 19 aprile 2012 da BS5446G
Oggetto: distanza di mt. 10 tra edifici.
Risposta.
Innanzi tutto è necessario dire che i comuni devono attenersi alle disposizioni di
cui al D.M. 1444/1968 in sede di formazione dei nuovi strumenti urbanistici o
della revisione di quelli esistenti per la programmazione edilizia del proprio
territorio. Tale decreto fissa i “limiti inderogabili di densità fondiaria, di altezza,
di distanza tra fabbricati …………….” e, all’interno dell’articolo 9, stabilisce i
limiti da osservare nelle diverse zone omogenee del PRG o PGT.
Nelle zone A non è possibile modificare le distanze preesistenti; nelle altre zone le
nuove costruzioni devono rispettare la distanza minima assoluta di mt. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; nelle zone C è altresì prescritta, tra
pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete è finestrata,
qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a mt. 12.
Sono ammesse distanze inferiori a quelle sopra indicate nel caso di gruppi che
formano oggetto di Piani particolareggiati o Piani di lottizzazione convenzionati.
Sin qui quello che dicono le disposizioni ministeriali che hanno valore precettivo
per i PRG o PGT.
Per questi strumenti urbanistici che, in sede di stesura e approvazione, non
rispettano tali prescrizioni, si può prefigurare una illegittimità delle norme.
Infatti alcuni comuni, soffermandosi al solo distacco tra edifici, utilizzano forme
diverse, stabilendo genericamente la distanza di mt. 10, oppure aggiungendo
l’ipotesi di pareti finestrate.
La Giurisprudenza di legittimità, invece, ha da tempo abbandonato
l’interpretazione di norme non propriamente attinenti alle disposizioni ministeriali
affermando che “ il disposto dell’articolo 9 del DM 1444/68, che detta limiti
inderogabili per altezza e distacco dai fabbricati, con obbligo, per il Giudice, di
disapplicare la norma locale ed applicare il DPM (Cass. 10.01.2006, n. 145 –
Cass. 02.10.2000, n. 13051)”.
Merita contestazione l’affermazione di chi sostiene che le disposizioni di cui agli
art. 7 e seguenti del DM 1 aprile 1968, n, 1444 non avrebbero valore “precettivo”
per i cittadini, ma solo per i comuni in sede di programmazione territoriale, ovvero
quella che esclude l’applicabilità della disposizione sul distacco tra edifici perché
non ricorre, in taluni casi, l’ipotesi di pareti finestrate.
Anche per questa ipotesi vale la pena di ricordare come la Giurisprudenza di
legittimità ha costantemente ritenuto che …”la disposizione del DM 2 aprile
1968, n. 1444 va interpretata nel senso che l’adozione da parte degli enti locali di
strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma, comporta l’obbligo per il
Giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni contrastanti perché
illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del menzionato
DM diventa, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata”
(Cass. 30.03.2006, n. 7563 – Cass. 19.11.2004, n. 218789 – Cass. 15.03.2001, n.
3771 – Cass. 27.03.2001, n. 4413).
Non c’è dubbio, dunque, che le incertezze derivano da un’errata applicazione delle
norme che portano ad errate interpretazioni delle stesse.
La norma sopra citata, laddove prescrive, per le zone diverse dal centro storico, la
distanza minima inderogabile di mt. 10 “tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti”, significa solo una cosa e cioè che tale distacco si deve rispettare in
entrambe le ipotesi, poiché, secondo la lingua italiana, la congiunzione “e”
significa “anche”.
La “regola” vale sia per le nuove costruzioni, ma anche per le ricostruzioni in
ampliamento o sopraelevazione, e non solo per le distanze dai fabbricati
circostanti, ma anche dai confini di proprietà
La giurisprudenza unanime sostiene questo principio e credo, a ragione, mentre i
comuni, evidentemente continuano a stabilire norme diverse.
Per completezza è da ribadire che non rileva l’avvenuto rilascio di titolo
autorizzativo, che resta interno ai rapporti tra il richiedente e la P.A., per cui non vi
è necessità di disapplicazione o di annullamento di detto titolo, stante il diritto di
tutela delle posizioni soggettive lese in sede giudiziale, con le statuizioni proprie:
demolizione e risarcimento del danno
Non credo di dover aggiungere altro e di essere stato sufficientemente chiaro.
Domanda posta il 20 febbraio 2012 da BG3666G
Oggetto: cambio destinazione d’uso senza opere.
Risposta.
Premesso che il mutamento delle destinazione d’uso è disciplinato dall’articolo 51
e seguenti della legge regionale n. 12 del 2005, distinto tra quelli connessi o meno
all’esecuzione di opere edilizie.
I mutamenti di destinazione d’uso, senza opere, conformi alle previsioni
urbanistiche comunali, a partire dall’entrata in vigore della LR 12/05, dovevano
essere comunicati preventivamente al comune solo se superiori a 150 mq, salvo
diversa disposizione locale, che ne prescrivesse comunque l’obbligo.
Dopo la LR n. 4/2008 del 14 marzo 2008, tutti i mutamenti di destinazione d’uso
sono soggetti a preventiva comunicazione al comune, indipendentemente dalla
superficie interessata.
E’ ovvio che, alla diversa destinazione dell’unità immobiliare debba
corrispondere la variazione catastale, e tutti gli effetti conseguenti (ICI, TARSU,
etc.), comunicando agli uffici comunali competenti tali variazioni.
Dal punto di vista edilizio è necessario fare le seguenti precisazioni:
1) Se il mutamento di destinazione d’uso era conforme alla disciplina edilizia
locale (ottobre 2008), il proprietario doveva solamente trasmettere all’UTC la
comunicazione prevista dall’articolo 52, della LR 12/05,
2) Se il mutamento di destinazione d’uso non era conforme e il comune, qualora
accerti tale condizione, anche in assenza della prescritta preventiva
comunicazione, può applicare la sanzione di cui al successivo articolo 53,
comma 2, stessa legge. Il pagamento della sanzione “risolve” tutta la questione
e sana la violazione commessa.
3) Per il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie, conformi alle
vigenti previsioni urbanistiche comunali, che non sono stati preventivamente
comunicati dall’interessato al comune, non sono previste sanzioni
amministrative dalla LR 12/05.
Tornando ai fatti che riguardano il caso in esame, è certo che la variazione
catastale è avvenuta nell’ottobre 2008 (presunto periodo del mutamento di
destinazione), per cui, ai sensi dell’articolo 52, comma 2, della LR 12/05, doveva
essere preventivamente fatta la comunicazione al comune.
Di fatto, quindi il nuovo proprietario si ritrova con un appartamento in base
all’atto notarile e all’iscrizione al catasto fabbricati, mentre, in assenza della
comunicazione in base al citato articolo 52, in comune risulta ancora il negozio.
Non mi pare però che la cosa abbia creato un grosso problema, salvo quello di
inquadrare esattamente la negligenza commessa in una delle due ipotesi sopra
esposte e, cioè, o quella del mutamento d’uso conforme, ma senza la preventiva
comunicazione al comune, ovvero, aver mutato la destinazione d’uso che risulta
in contrasto con quelle ammesse dal PRG o PGT, così da dover pagare la
sanzione pecuniaria di cui all’art. 53, comma 2, LR 12/05.
Nel primo caso, e cioè qualora il mutamento d’uso sia conforme al PRG o PGT, il
proprietario non ha commesso nessuna violazione edilizia.
Nel caso in cui, invece, tale mutamento non sia conforme allo strumento
urbanistico generale (nel momento in cui è intervenuto), il comune può applicare
la sanzione di cui all’articolo 53, comma 2, LR 12/05.
Come sopra già precisato, sempre che il mutamento di destinazione d’uso sia
conforme alle previsioni urbanistiche comunali ed il proprietario non abbia
ottemperato alla preventiva comunicazione al comune, non deve pagare alcuna
sanzione, a meno che il comune sia dotato di un Regolamento che preveda le
sanzioni amministrative ai sensi dell’articolo 7-bis della legge n. 267 del 2000.
In base, infatti, a tale articolo del TU – Disposizioni in materia di attuazione e
ordinamento degli Enti Locali – il comune può irrorare una sanzione da 25 a 500
euro, qualora non siano previste sanzioni stabilite da disposizioni specifiche di
legge, come nel caso in esame, purché, però, tali sanzioni siano stabilite in uno
specifico Regolamento comunale.
E’ necessario, quindi, verificare se c’è o meno tale Regolamento e se contiene la
previsione del pagamento di una sanzione amministrativa di questo tipo che,
comunque, non può essere superiore a 500 euro.
In difetto, il comune non può far pagare nemmeno tale sanzione.
E’ altrettanto vero però che, se la modificazione della destinazione d’uso,
avvenuta nell’ottobre 2008, non sia conforme al PRG o PGT, il comune non può
applicare la sanzione di € 516, ma quella di cui all’articolo 53, comma 2, della LR
12/2005.
Resta da definire di chi sia la responsabilità dell’eventuale violazione della
norma, sia quella della eventuale semplice mancata comunicazione al comune che
implica l’applicazione dell’eventuale sanzione pecuniaria da 25 e 500 euro,
ovvero, quella derivante dalla non conformità con le previsioni urbanistiche
comunali (pari all’aumento del valore venale dell’immobile o sua parte), oggetto
di mutamento di destinazione d’uso, accertato in sede tecnica e comunque non
inferiore a 1000 euro (del venditore o del nuovo proprietario).
Domanda posta il 12 gennaio 2012 da BG 3624G
Oggetto: Ristrutturazione edificio rurale.
Risposta.
Il quesito solleva diversi interrogativi.
Partiamo dall’inizio.
E’ giusto che un tecnico si rivolga all’UTC per conoscere quali sono i “margini di
manovra” del proprio progetto, ma è altrettanto vero che le norme e le leggi (e la
giurisprudenza amministrativa) sono a beneficio di chi le utilizza e di chi le deve
far rispettare.
Innanzi tutto è necessario precisare che sia la legislazione nazionale che la
giurisprudenza amministrativa ha chiarito come la ristrutturazione edilizia,
comportante la demolizione con la contestuale ricostruzione dell’edificio, deve
avvenire nel rispetto sia del volume che della sagoma. Ne è la prova la recente
sentenza n. 309 del 2011 della Corte Costituzionale in ordine all’illegittimità
costituzionale dell’articolo 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge
regionale n. 12 del 2005 (e conseguenti art. 103 – parte e art. 22 della LR 7/2010).
Quanto sopra si riferisce alla ristrutturazione edilizia e non anche all’ampliamento
che è consentito dalle NTA del PdR del PGT che dovrà rispettare tutti i parametri
di zona (altezza, distanze e distacchi).
Un particolare appunto viene mosso, semmai, a proposito della norma che regola
gli “Ambiti di valore paesaggistico-ambientale ed ecologico” o negli “Ambiti
agricoli” , in quanto l’articolo 59 della LR 12/2005 prevede il parere della
Commissione del Paesaggio solo per gli interventi di nuova costruzione e
limitatamente alle destinazioni produttive in ordine alle tipologie costruttive che
devono essere congruenti al paesaggio rurale e non anche per gli interventi che
riguardano destinazioni residenziali.
Non deve essere, pertanto, acquisito il parere della commissione del paesaggio nel
caso di interventi di recupero edilizio, nemmeno se accompagnati
dall’ampliamento proprio perché si tratta di destinazioni residenziali.
La norma del PGT è stata forzata nella parte in cui “il progetto di intervento deve
essere finalizzato comunque al mantenimento dei caratteri agricoli e
paesaggistici dei fondi, da sottoporre all’approvazione dell’Amministrazione
Comunale e della preposta Commissione del Paesaggio”.
Restando in tema di “approvazione “ del progetto da parte della preposta
commissione per il paesaggio, c’è da sottolineare che, come già per altro
riscontrabile dalla stessa norma di zona, si fa riferimento al mantenimento dei
caratteri agricoli e paesaggistici del fondo e non alle modalità di intervento e alla
verifica tecnico giuridica che spetta, invece, dell’UTC.
Altro aspetto importante riguarda appunto la conformità del progetto alle
prescrizioni e previsioni del PGT.
Come ho già detto, negli interventi di ristrutturazione edilizia, sono ricompresi
anche quelli della demolizione e fedele ricostruzione, in ossequio appunto alle
disposizioni nazionali e giurisprudenziali sopra richiamate.
Indipendentemente da quanto dispone la norma locale, è utile ricordare che, nei
casi di ricostruzione di un edificio, è necessario rispettare anche il sedime.
Nel caso in esame, proprio a proposito della prima ipotesi di intervento della
norma di zona è evidenziato il divieto a modificare il sedime dell’edificio da
ristrutturare.
E’ evidente che tale disposizione non riguarda l’ampliamento “una tantum” del
10% della Slp.
C’è un’ulteriore aspetto da precisare che riguarda la procedura per il rilascio del
permesso di costruire e più precisamente:
1) L’iter per definire una pratica edilizia è quello stabilito dall’articolo 38 della
LR 12/05 e implica la richiesta di integrazioni, il passaggio per l’eventuale
parere della CE, la proposta di provvedimento e l’assunzione del
provvedimento definitivo (rilascio del p.d.c., ovvero, di rigetto). Questo iter,
deve (o, meglio doveva) avvenire, nel caso in esame, nel termine di 75 giorni
dalla data di presentazione dell’istanza, ovvero, dalla data di presentazione
delle integrazioni richieste,
2) Non sono previste sollecitazioni o ulteriori richieste di rilascio del p.d.c., né,
tantomeno, lettere di disappunto, al di fuori dell’intervento sostitutivo di cui al
successivo articolo 39, stessa legge regionale,
3) Non è altresì previsto (almeno all’epoca della pratica) il silenzio-assenso al
permesso di costruire.
PREMESSO QUANTO SOPRA
1) Nelle NTA del PGT ci sono delle forzature burocratiche non previste né
dall’imposizione di prescrizioni legislative regionali, né, tanto meno, da vincoli
ambientali o paesaggistici che richiedano il passaggio del progetto al parere
della commissione del paesaggio,
2) Il precedente RdS doveva attenersi, anche se la norma di riferimento non era
propriamente fondata, alla disposizione dello strumento urbanistico
sottoponendo il progetto alla CdP, ma doveva, altrettanto, rispettare i termini
per adottare il provvedimento finale sulla richiesta di pd.c.
3) Lo stesso RdS. avrebbe dovuto rispondere, per quanto attiene all’aspetto
edilizio, in sede di parere preliminare (anche verbale), ai concetti sopra
espressi in ordine agli interventi di ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione sostenendo l’obbligo di rispettare sia il sedime (per
altro imposto dalla stessa norma di zona) che di sagoma e volume per quanto
riguarda l’edificio esistente.
4) Il nuovo RdS, una volta chiamato a determinarsi sulla richiesta si p.d.c.,
rimasta inevasa, può discostarsi dalla “visione progettuale” che aveva il
precedente RdP, qualora ritenga che il progetto non risponda appieno al
concetto di ristrutturazione edilizia tesa al mantenimento della sagoma e del
volume come tutta la giurisprudenza amministrativa ha da tempo sostenuto e
come la Corte Costituzionale ha definitivamente sancito con la sentenza sopra
richiamata a proposito proprio della norma regionale della Lombardia.
5) L’ultima annotazione risponde alla connessione tra le regole del PGT e il
concetto di ristrutturazione edilizia come risulta dalle sentenze
giurisprudenziali. Infatti si deve distinguere la definizione della ristrutturazione
edilizia (così come emerge dalla conclusione della giurisprudenza
amministrativa sopra ricordata) e quelli che sono gli interventi edilizi che
consentono o meno la ristrutturazione edilizia, mediante demolizione e
ricostruzione, ma sempre in modo fedele per sagoma, volume e, aggiungerei,
anche del sedime.
Domanda posta il 6 aprile 2012 da BG3624G
Oggetto: Rideterminazione del valore dei terreni e delle partecipazioni.
Risposta.
Per la rivalutazione delle aree agricole ed edificabili, consentita fino al 30 giugno
2012, la compensazione di quanto già versato nelle precedenti rivalutazioni opera
anche in caso di pagamento rateale della nuova imposta sostitutiva.
Inoltre, la possibilità di compensazione è riconosciuta anche ai contribuenti che
hanno aderito alla rivalutazione del 2010, e non intendano rideterminare il valore
dell’area anche nel 2011.
Questi i principali chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n.
47/E del 24 ottobre 2011 , che illustra le novità riferite alla nuova riapertura dei
termini per la rivalutazione delle aree agricole ed edificabili possedute da privati
non esercenti attività commerciale alla data del 1 luglio 2011, disposta dall’art. 7,
comma 2, lettera dd-gg del DL 70/2011, convertito, con modifiche, dalla legge
106/2011 (cd. “Decreto Sviluppo”.
Come noto, tale possibilità, introdotta originariamente dall’articolo 7 della legge
448/2001, è stata oggetto, nel tempo, di diverse proroghe e riaperture di termini.
In sostanza, il “Decreto Sviluppo” ammette nuovamente la possibilità di
rideterminare il valore d’acquisto dei terreni agricoli ed edificabili, mediante la
redazione di una perizia giurata di stima ed il versamento di un’imposta sostitutiva
delle imposte sul reddito, pari al 4% dell’intero valore rivalutato delle aree, da
effettuarsi in unica rata entro il 30 giugno 2012, ovvero in 3 rate annuali di pari
importo, da corrispondere entro il 30 giugno di ciascuna delle annualità 2012,
2013 e 2014.
A questo proposito meritano attenzione due chiarimenti che ha fornito l’Agenzia
delle Entrate:
1) sono abilitati alla redazione della perizia dei terreni edificabili ed agricoli gli
iscritti agli albi degli ingegneri, architetti, geometri, dottori agronomi,
agrotecnici, periti agrari e periti industriali. Le perizie possono essere
presentate per la asseverazione, oltre che presso la cancelleria del tribunale,
anche presso i notai. Tale documentazione deve essere conservata ed esibita a
richiesta dell’Amministrazione finanziaria
2) sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi nella
misura del 3% annuo, da versarsi contestualmente a ciascuna rata (art. 2,
comma 2, DL 282/2002, convertito, con modificazioni, nella legge 27/2003).
Sotto tale profilo, l’Agenzia delle Entrate, nella citata C.M. n. 47/E/2011,
conferme, innanzitutto, che:
- il contribuente può rideterminare il valore dell’area posseduta alla data del 1
luglio 2011 anche nell’ipotesi in cui abbia già in precedenza usufruito di
precedenti rivalutazioni,
- la nuova rideterminazione è consentita anche nell’ipotesi in cui la perizia
giurata di stima riporti un valore dell’area inferiore a quello risultante dalla
perizia precedente. (Cfr. anche R.M. n. 111/2010)
in merito, si ricorda che la rideterminazione del valore delle aree produce i relativi
effetti fiscali in termini di minore tassazione delle plusvalenze realizzate, ai sensi
dell’art. 67, comma 1, lettere a-b del TUIR (dPR 917/1986 e successive
modificazioni), con la vendita degli stessi immobili.
A seguito della rivalutazione, infatti, il nuovo valore del terreno, risultante dalla
perizia di stima, assume la natura di prezzo di acquisto dello stesso, da portare in
diminuzione del corrispettivo ottenuto al momento della vendita, ai fini della
determinazione delle relative plusvalenze.
Sul punto, la C.M. n. 47/E/2011 ribadisce che, nell’ipotesi in cui, in sede di
determinazione della plusvalenza realizzata con la cessione dei terreni, il
contribuente non tenga conto del valore rivalutato, lo stesso non ha diritto al
recupero di quanto già versato e, in caso di pagamento rateale dell’imposta
sostitutiva, deve comunque procedere ad effettuare i restanti versamenti.
Recupero dell’imposta versta per precedenti rivalutazioni.
Rispetto alle precedenti rivalutazioni, il DL 70/2011 contiene alcune novità
relative alla possibilità di recupero della sostitutiva già pagata in occasione delle
precedenti rivalutazioni, che si possono tradurre in due diverse ipotesi, a seconda
che i contribuenti intendano, o meno, aderire alla nuova rivalutazione 2011.
1. Contribuenti che si sono già avvalsi di rivalutare le aree ed intendano
avvalersi nuovamente del beneficio. Per questi sono alternativamente
riconosciute la possibilità di compensare la sostitutiva dovuta per la nuova
rivalutazione con l’importo già versato per le precedenti rideterminazioni,
ovvero chiederne il rimborso entro 48 mesi, decorrenti dalla data di
versamento dell’intera imposta o della prima rata relativa all’ultima
rideterminazione effettuata. Nel caso della compensazione dell’imposta già
versata, il contribuente ha la possibilità di sottrarre, dall’imposta sostitutiva
dovuta per la nuova rivalutazione dell’area, l’importo relativo alla
sostitutiva già versata in precedenza. In tale ipotesi, l’Agenzia delle Entrate,
nella citata CM n. 47/E/2011, chiarisce che il contribuente detrae l’imposta
già versata da quella dovuta per la nuova rivalutazione, e no n è tenuto al
versamento delle rate non ancora scadute, riferite alla precedente
rideterminazione del valore dell’area. L’importo dell’imposta per la nuova
rivalutazione, al netto del tributo corrisposto per la precedente, può essere
rateizzato secondo le modalità indicate nell’esempio fornito dall’Agenzia
delle Entrate. Alternativamente, ai sensi dell’articolo 7, comma 2, lettere ff,
del “Decreto Sviluppo”, i medesimi contribuenti hanno la possibilità di
richiedere a rimborso l’imposta dovuta in relazione a precedenti
rivalutazioni, entro 48 mesi, decorrenti dalla data di versamento dell’intera
imposta o della prima rata relativa all’ultima rideterminazione effettuata. Le
nuove disposizioni, superano, quindi, il passato orientamento
dell’Amministrazione finanziaria che escludeva qualsiasi forma di
compensazione dell’imposta e limitava la possibilità di richiederne il
rimborso, ai sensi dell’art. 38 del dPR 602/1973, solo nell’ipotesi in cui non
fossero ancora trascorsi 48 mesi del termine di versamento della stessa.
Infatti, come confermato dalla C.M. n. 47/E/2011, il termine per il rimborso
”decorre dalla data in cui si verifica la duplicazione del versamento e cioè
dalla data di pagamento dell’intera imposta sostitutiva dovuta per effetto
dell’ultima rideterminazione effettuata ovvero dalla data di versamento
della prima rata” . in ogni caso, l’importo del rimborso non può essere
superiore a quanto dovuto in base alla nuova rideterminazione effettuata.
2. Contribuenti che si sono già avvalsi della facoltà di rivalutare le aree e non
intendono avvalersi nuovamente del beneficio. L’Agenzia delle Entrate si è
espressa, altresì, nella specifica ipotesi in cui il contribuente abbia rivalutato
nuovamente il proprio terreno posseduto al 1 gennaio 2010, e non intenda
avvalersi dell’ultima riapertura dei termini, relativa alle aree possedute al 1
luglio 2011. Per omogeneità di trattamento, anche per tali contribuenti, la
C.M. n. 47/E/2011 precisa che la sostitutiva riferita a precedenti
rivalutazioni può essere sottratta dall’imposta ancora dovuta relativamente
alla rivalutazione dei beni posseduti alla data del 1 gennaio 2010. Pertanto,
il contribuente dovrà ricalcolare l’importo delle rate d’imposta ancora
dovute (in scadenza al 31 ottobre 2011 ed al 31 ottobre 2012), secondo lo
schema riportato sulla stessa Circolare. Ovviamente, tale procedura può
essere applicata, solo nell’ipotesi in cui il contribuente non abbia già
richiesto il rimborso di quanto versato in occasione della precedente
rivalutazione. Diversamente, per tutti gli altri contribuenti, che abbiano
aderito solo a rivalutazioni precedenti al 2010 (e non intendano avvalersi
del beneficio anche nel 2011), l’unica possibilità di recupero di quanto
versato anteriormente all’ultima rideterminazione effettuata consiste nella
richiesta di rimborso. In particolare, il rimborso dell’imposta sostitutiva già
pagata può essere richiesto entro 48 mesi decorrenti dalla data di
versamento dell’intera imposta o della prima rata relativa all’ultima
rideterminazione effettuata. Inoltre, nei casi in cui, alla data del 14 maggio
2011 (data di entrata in vigore del DL 70/2011), siano già trascorsi 48 mesi
dal versamento dell’ultima rivalutazione effettuata, la richiesta di rimborso
può essere comunque fatta entro il termine di 12 mesi a decorrere dalla
medesima data di entrata in vigore del decreto (ossia entro il 14 maggio
2012).