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LA FAMA DEL COMMISSARIO
osa ci fa il commissario Giovanni
C
Porzio su un’isoletta a poche miglia da Palermo? Si dedica al riposo?
No, si nutre del piacere di essere riconosciuto per strada, grazie alla popolarità raggiunta dopo aver risolto il caso
del giostraio ucciso all’Annunziata. Ma
un poliziotto è sempre un poliziotto e
se arriva una richiesta d’aiuto bisogna
darsi da fare. Persino se l’appello viene
da un carabiniere. C’è una donna che
teme di essere uccisa, nel segno di una
e-library
Un lungo fidanzamento
Peter e Mary sono fidanzati da
quando erano dei teenagers.Diversi
anni trascorsi insieme gran parte
dei quali felici, ma all’improvviso
qualcosa sembra rompersi. Una
faccenda seria oppure nulla di grave? Hanno bisogno di un aiuto?
Forse,probabilmente no,ma quando si vive in un piccolo paese di
campagna i problemi personali
non restano tali per molto e la vita
privata finisce con il ricevere attenzioni non sempre gradite.
«Quasi quasi» di Damien
Owens; Scritturapura Editore, Villa
San Secondo d’Asti (At).
Gli amori moderni
Gli amori moderni di Ascaride
sono pigiami,telefoni portatili,bidoni
della spazzatura,aspirine,libri di cucina, motel e album di fotografie. L’universo misterioso dell’amore si intreccia indissolubilmente con le piccole ossessioni quotidiane.Quella di
Ascaride è un’ironica e gustosa riflessione sulle idiosincrasie dell’uomo
contemporaneo,sulla sua solitudine,
sulla sua inevitabile misantropia,e di
come questo amore per gli oggetti,
manifestandosi nelle forme più curiose e inattese,si trasformi in una soluzione per ridare un senso alla propria vita.
«Amori moderni» di Gilles
Ascaride; Fernandel edizioni,
Ravenna.
La zuppa di pesce
«La vita è come una zuppa di
pesce e gli uomini insaporiscono il
brodo».Zara è una “ragazza”sotto i
quarant’anni che, rimasta sola con
suo figlio,dopo il divorzio da suo marito,comincia a cercare l’uomo giusto.Ne viene fuori un’insolita galleria di ritratti maschili che vengono
paragonati ciascuno ad un pesce
diverso. Il tema dominante è comunque l’amore, inteso in tutte le
sue sfaccettature:dall’amore paterno, all’amore puramente fisico, per
arrivare all’amore verso un figlio
che conclude la storia.
«Zuppa di pesce» diTiziana Betto;Fermento,Roma
La Stella genovese
leggenda che ha lasciato impronte nella sua vita e in quelle dei suoi cari. C’è
un cadavere in una casa che nasconde
più di un segreto. C’è una squadra di
investigatori raccattata tra i superstiti di
un’intossicazione che costringe a letto
la maggior parte degli isolani. Si cerca
un assassino che ha già colpito e che
potrebbe colpire di nuovo, quella stessa
notte. («Giù dalla rupe» di Gery Palazzotto; Dario Flaccovio editore, Palermo.) TRE KILLER
re Killers è il famigerato appellativo
TArsdietro
il quale si celano Amos Stace,
Argaibi e Opus Opi, spietati assassini
al soldo della mafia, preceduti da una fama in parte "meritata" e in parte autoalimentata: i tre infatti spesso "vivono di rendita", ritrovandosi titolari di una larga parte di omicidi irrisolti in giro per gli States.
La loro sfuggevolezza e il loro anonimato
vengono messi a dura prova quando l’ennesimo omicidio su commissione, al Baltimora Hotel sulla Pacific Coast Hwy, pren-
ne toscane,viene assassinato Fra’ Filippo,
giovane religioso incaricato di un’indagine su cinque dipinti in odore di eresia.Secoli dopo, gli stessi disegni tornano a rappresentare un pericolo e Matteo Salvini si
ritrova, suo malgrado, al centro di un’avventura dai contorni metafisici.Sulle tracce degli antichi alchimisi, studiosi, uomini
di chiesa e agenti segreti si affannano alla
MEMORIA DI UN DISASTRO. RICOSTRUZIONE DI COSA AVVENNE QUEL 25 LUGLIO DI 50 ANNI FA: LE TESTIMONIANZA DI DUE UFFICIALI
la nave si fosse arenata;
qualcun’altro invece sosteneva l’ipotesi di una collisione con una nave bianca
che si era poi defilata sul
lato destro. Intanto lo
sbandamento della nave
aveva assunto valori notevoli. Alle ore 23.15 era di
19 gradi; alle 23.25 era di
22 gradi. In verità c’era
tensione e preoccupazione,
ma non c’era atmosfera da
tragedia. Intanto dal Direttore di Macchina G. Chiappori, presente al momento
dell’urto, erano stati impartiti gli ordini e gli incarichi per i provvedimenti
più urgenti. Qualcuno faceva ogni tanto girare le motrici a lento moto per pochi
attimi, per evitare irregolari dilatazioni; questa operazione non servì, per le
note ragioni che impedirono di andar a fare arenare
la nave, ma in quel momento rappresentava una precauzione essenziale. […]
Quando purtroppo non
rimase più nulla da fare sia
per mancanza di energia
elettrica sia per la impraticabilità dei locali (lo sbandamento aveva ormai raggiunto i 33 gradi) fu deciso
di abbandonare i locali e di
trasferirci alcuni presso il
motore di emergenza e alcuni sul ponte lance nei
Un radar e un timoniere scagionano l’Andrea Doria
Alle 23,11 del 25 Luglio
1956, durante la sua 51° traversata, l’Andrea Doria entrò in collisione con la motonave
rompighiaccio
Stockholm. Undici ore dopo
affondò. L’Andrea Doria,
sotto il comando del Capitano Piero Calamai, viaggiava
da Genova a New York. Non
è mai stato emesso alcun
verdetto che indicasse il colpevole della collisione, ma
gli svedesi attribuirono fin
da subito la responsabilità
alla nave italiana. A 50 anni
di distanza, la ricostruzione
della collisione fatta da alcuni testimoni d’eccezione e i
risultati del gruppo di lavoro che in questi anni ha analizzato l’incidente, sono raccolti nel libro «T/N A. Doria. 1956 - 2006, per non dimenticare» (Fratelli Frilli
Editori, Genova). Di seguito
gli estratti delle testimonianze di due ufficiali di bordo.
Che cosa avvenne in plancia prima della collisione.
II 25 luglio 1956, alle
23,11, al largo di Nantucket,
poche ore prima dell’arrivo
a New York, l’A. Doria, speronato nella nebbia dalla
nave svedese Stockholm,
iniziava una lunga agonia.
Alle 10,10 del giorno dopo
l’A. Doria affondava portando con sé 43 dei suoi
passeggeri. Fu una delle
tante tragedie del mare.
Non fu la prima né l’ultima;
tuttavia, quella tragedia mi
coinvolse. Infatti, in quel
tempo, io ero 3° Ufficiale di
coperta e, al momento della
collisione, mi trovavo sul
ponte di comando, in sottordine di guardia, con il Comandante Calamai ed il 2°
Ufficiale Franchini. Io, oggi,
sono qui per dirvi la mia verità poiché io vidi come andarono le cose, io so quello
che accadde e, per di più,
sono convinto di sapere chi
ha torto e chi ha ragione. Io
so chi disse la verità! Un
processo avrebbe chiarito
molte cose; ma non lo si fece e nessuno spiegò mai
perché non lo si fece! Da
più di 30 anni, ogni volta
che si parla dell’A. Doria le
conclusioni, se a delle conclusioni si arriva, sono sempre, diciamo, in un «equilibrio instabile», avvolte in
un alone di mistero, quello
che passa per il «Mistero
dell’A. Doria». In realtà il
mistero dell’A. Doria non
esiste. Dopo tante parole,
dette e scritte, dopo che
molti hanno studiato il caso,
arguendo, supponendo, giustificando e accusando, talvolta ingiuriando e comunque sempre analizzando il
sentito dire, oggi, dopo 32
anni, finalmente, siamo qui
per iniziativa di un gruppo
di persone, che per trovare
la risposta a tanti interrogativi, ha capito che era bene
chiederlo a coloro che potevano parlare con cognizione
di causa. E dunque, noi che
vivemmo così da vicino la
tragedia di quella notte siamo qui per dirvi la verità, la
nostra verità, quella vera; la
verità che comunque molti
altri sapevano e che avrebbero potuto dire: erano voci
autorevoli
quelle
che
avremmo voluto udire. Ma
nessuno le sentì!
Se questa riunione servirà a convincervi della nostra ragione, riscatterà le
amarezze di tanti anni. Non
potrà certo ridare la pace al
nostro Comandante, che fu
l’ultima vittima di quella
notte, ma consolerà le amatissime figlie e tutti coloro
che, assieme, ne difendono
ancora la memoria. Io vi
dirò come la Stockholm
speronò l’A. Doria; vi dirò
chiaro e forte che gravissi-
me responsabilità pesano
su chi ha lasciato un giovane 3° ufficiale solo ad affrontare il comando della
guardia, una responsabilità
troppo grande per le sue
capacità; egli valutò male le
situazioni che, di volta in
volta si crearono attorno:
timoniere, rotte, radar, telefoni, nebbia e altro, portando così la prua della sua
nave diritta sull’A. Doria e
provocandone l’affondamento. Ma soprattutto vi
dirò come e perché la nostra versione dei fatti sia
così diversa dalla sua.
Le cronache dell’epoca
e degli anni che seguirono
descrissero ampiamente le
due navi e credo che non sia
il caso che lo faccia anch’io.
Vi dirò solo un particolare
importante per l’analisi della collisione: l’A. Doria era
dotata di radar muniti di ripetitori di girobussola; equipaggiati cioè di una corona
graduata, collegata alla girobussola madre e sistemata attorno allo schermo radar. Ogni volta che il raggio
polare, ruotando, si ravvivava, indicando la prora della
nave, l’operatore aveva la
possibilità di controllare, in
tempo reale, se questa corrispondeva o meno alla rotta;
di effettuare qualsiasi rilevamento polare senza chiedere al timoniere la posizione della prua e conseguentemente di controllarne il
comportamento al governo.
Questa nostra apparecchiatura funzionava perfettamente; ne avemmo un controllo incontestabile effettuato 51 minuti prima della
collisione. Infatti l’atterraggio a Nantucket era stato
perfetto controllando i punti precedenti con il “loran”.
Questa apparecchiatura
elettronica per la navigazione iperbolica ed il nostro
radar, ci avevano portato al
traverso del battello faro di
Nantucket, esattamente là
dove avevamo deciso di
passare. Apparecchiature
simili purtroppo, non esistevano sulla Stockholm, pertanto, nessun controllo del
governo della nave poteva
essere effettuato direttamente sullo schermo del radar, ma solo attraverso le
dichiarazioni ad alta voce
del timoniere.
Dio sa che tipo di timoniere fosse il marinaio Larsen, definito dallo stesso
Carstens, durante l’inchiesta, «elemento poco affidabile».
II registratore di rotta
della Stockholm denuncia
un governo zigzagante con
escursioni di sette gradi e
scontri di timone, dopo le
accostate, eccessivi.
Un pessimo timoniere
dunque, un timoniere da
controllare spesso. Come se
Carstens non avesse, da solo, abbastanza da fare quella notte!
Queste condizioni negative; pessimo governo e nessuna possibilità di controllo
della prua durante i rilevamenti, come vedremo, saranno determinanti per la
tragica collisione. […]
(Cap. Eugenio Giannini,
3° ufficiale di coperta)
Che cosa avvenne in Macchina dopo la collisione
In quel viaggio ero imbarcato in qualità di 2° ufficiale di macchina; in precedenza ero già stato imbarcato sull’A. Doria e sulla Colombo per parecchi periodi
di imbarco. Tutto quello che
dirò è confortato da quanto
ho visto ed in parte è tratto
dalle lunghe chiacchierate e
dalle memorie scritte del
D.M. Pazzaglia, allora 1° ufficiale di macchina, memorie che gelosamente custodisco. Al momento della
collisione ero in salone in
compagnia di un passeggero, mio compagno di Accademia, che si recava negli
LA FINESTRA SU PIAZZA NAVONA
ra i vicoli pietrosi di Roma, la magia
Tvo. Nel
e il mistero di un passato sempre vi1480, in un monastero tre le colli-
de una brutta piega: 94 colpi scaricati su 2
malcapitati incensurati e una gestione della fuga a dir poco "bizzarra" sono una
cassa di risonanza un po’ troppo rumorosa... Eros Drusiani propone questo giallo
comico, con una miscela di suspence, violenza e soprattutto ironia, costellando il testo di trovate esilaranti che cementano il
rapporto tra il lettore e i protagonisti del libro. ("Killers. The end" di Eros Drusiani;
Alberto Perdisa Editore, Ozzano dell’Emilia (BO).) Il mistero che non c’è. Il disastro della nave italiana speronata dalla svedese
Stockholm ha spiegazioni tecniche e chiare responsabilità, come risulta dall’inchiesta.
La colpa di un uomo poco affidabile cui era affidato il governo della rompighiaccio
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MERCOLEDÌ 26 LUGLIO 2006
MERCOLEDÌ 26 LUGLIO 2006
USA. Nei locali macchine
era di servizio la seconda
guardia, rinforzata dal personale "per nebbia". A questo punto è bene ricordare
che gli spazi sottoposti al
controllo dei personale di
guardia in macchina erano
molto vasti e precisamente
andavano da sotto il ponte
di comando, sino all’estrema poppa, e, fuori AM, fino
al locale della macchina del
timone. In più devono essere compresi in questi spazi i
cofani del locale motrici
principali, i cofani delle caldaie e dei diesel generatori,
nonché tutti i servizi elettrici e ausiliari in coperta, e
circa 60 stazioni di condizionamento sparse per tutta
la nave. Il personale di guardia era «rinforzato per nebbia» composto da 22 persone. […]
Le porte stagne erano
chiuse. Erano da poco passate le ore 23 del 25 luglio
1956 ed il personale di guardia in macchina, oltre ad
adempiere alle proprie
mansioni, sicuramente ogni
tanto guardava l’orologio,
in attesa del cambio guardia, pregustando un giusto
riposo (anche se disturbato
dai fischi per nebbia) e sempre un po’ ansioso per l’arrivo a New York in attesa di
ricevere, con il Pilota, la posta con le ultime notizie di
casa. Allora la posta arrivava a New York in due o tre
giorni...
Nelle condizioni di funzionamento descritte e in
quella atmosfera, improvvisamente un tremendo
colpo allo scafo ed un rapidissimo sbandamento della
nave interrompono la monotonia della guardia. Appena possibile furono fermate le motrici e fu ridotta
conseguentemente l’attività di combustione delle
caldaie principali. In pochi
minuti il piano di manovra
si affollò di personale franco di guardia e giornaliero,
che si era precipitato in
macchina al proprio posto
di emergenza e sicurezza
nave; io ero fra quelli. Cosa
fosse accaduto, subito non
si è saputo e non era chiaro: qualcuno sosteneva che
pressi della aletta del ponte
di comando. Erano le 02,45
del 26 luglio 1956.
Solo allora questo personale che aveva operato in
macchina, personale che
qualcuno aveva chiamato
invisibile, salì in coperta
per imbarcarsi sull’ultima
lancia, quando sulla nave
eravamo rimasti in pochi.
Come avrete notato, in questa parte di relazione volutamente non sono stati fatti
nomi, pur ricordandoli tutti, per non correre il rischio
di dimenticarne qualcuno,
per non creare una graduatoria di merito. Spero però
di essere riuscito ad evidenziare che aver potuto mantenere la luce normale, anche se ridotta, e fino alla fine quella di emergenza ed
aver ritardato con le operazioni di travaso ed esaurimento l’affondamento della nave, permettendo così ai
passeggeri e all’equipaggio
di mettersi in salvo, è stata
opera e merito del personale di macchina.
Ed oggi, dopo tanto tempo e dopo aver acquisito altre esperienze, siamo convinti che ciò che è stato fatto
quella notte è stato il massimo che si poteva fare e - forse - qualcosa di più. (D. di M.
Giovanni Cordera, 2° ufficiale di macchina) DISASTRI
A sinistra una foto del Comandante dell’Andrea Doria, Piero Calamai. Nel riquadro sotto l’Andrea Doria
che sta affondando. A destra
il Comandante del rompighiaccio svedese
Stockholm, Gunnar
Nordenson. Sotto, lo
Stockholm. Al centro, l’Andrea Doria
nel porto di New
York.
ricerca della formula per fare l’oro.
La trasmutazione dei metalli e l’elevazione delle anime, l’amore sensuale e quello
spirituale:l’eterno dualismo tra il bene e il
male, alla luce di una scissione dai confini indefiniti. Un filo sottile lega passato e
presente, luoghi distanti, vicende e persone, realtà e sogno, in un intreccio dai risvolti sorprendenti. ("Codice Picatrix La
finestra su Piazza Navona" di Francesco
Cardone; Laruffa Editore, Reggio Calabria.) L’UOMO DALLE DITA BLU
vacanze in agosto per Mary Lester
Itesansolite
La Baule... Il capo della polizia di Nanle ha chiesto di infiltrarsi tra i soci di un
club privato di golf in cui pare avvengano
loschi traffici. Ed ecco l’ispettrice Lester diventare, di malavoglia, una novella golfista.
Il difficile incarico in un ambiente che si rivela davvero pericoloso permette tuttavia
molte distrazioni: passare per una studentessa, giocare su uno dei più prestigiosi campi
da golf di Francia e di Navarra e, nei momenti di riposo, abbronzarsi sulla spiaggia
CACCIA AL TESORO. UN CROUPIER NEL REGNO ESENTASSE
DI ENRICO CAPPELLETTI
L’avventura subacquea di quattro amici, una ricchezza inaspettata, a bassa profondità (e alto rischio)
1964, Freeport. Isola di Grand
Bahama. Luogo dove inizia e si conclude l’avventura di quattro subacquei che ritrovarono in pochi metri
di profondità migliaia di monete
d’argento spagnole del ’600, imbattendosi nel relitto di una nave sconosciuta. L’autore, Enrico Cappelletti,
allora croupier al Montecarlo Casino dell’isola, racconta, nel suo
“Grand Bahama. L’isola del tesoro”
(Addictions Magenes Editoriale,
Milano), come i giovani scopritori,
incapaci di gestire tanta fortuna, un
anno dopo il ritrovamento furono
costretti a lasciare l’isola inseguiti
dai creditori, abbandonando una
parte del tesoro in fondo al mare e
quella recuperata in mano a personaggi senza scrupoli.
All’inizio del 1963, Freeport era
una città in perenne costruzione.
Un po’ come accadde nell’Ovest
americano durante la corsa dei pionieri, luogo di un impressionante
boom economico. Il progetto prevedeva che fosse costruita dal nulla, che in pochi anni potesse ospitare centomila abitanti che avrebbero
vissuto in una sorta di paradiso, anche fiscale.
Enormi manifesti, appesi ovunque, mostravano stupende case in
riva al mare, campi da golf, aeroporti, marine, casinò, alberghi, ampie
strade; un luogo difficile da immaginare. Tutto tax free, senza tasse.
Freeport, per l’appunto. Gli investimenti piovuti su quella fetta di terra privata, che divideva trasversalmente l’isola, stavano producendo
davvero quello che i progettisti sognavano. Tutto cambiava in continuazione, come nella quinta di un
film. Le case, tutte rigorosamente di
legno, sul modello nord americano,
nascevano, a quartieri interi, nel giro di una notte. Orde di operai bianchi e neri, strapagati a cottimo, riuscivano a erigerle in tempi brevissimi, per poi essere mandati a casa a
lavoro terminato. In tutto questo
bailamme, frotte di turisti arrivavano con l’unica nave di linea o con i
primi voli di compagnie private. Pochi si fermavano per una vacanza,
tutti per una notte al tavolo da gioco: il sole, il caldo e il mare non interessavano a nessuno; il gioco a
tutti. Il denaro correva come acqua,
ovunque, tutto era un enorme affare. Con quello che si spendeva in
una settimana per vivere a Freeport, la mia famiglia in Italia avrebbe vissuto bene un mese. Dopo un
paio d’anni di occupazioni saltuarie
nella mia città natale, andai in Inghilterra per un corso di specializzazione abbastanza inconsueto: impiegato da tavolo da gioco, o più
semplicemente croupier. Mesi passati in fretta imparando a maneggiare carte e gettoni sui tavoli verdi,
a lezione d’inglese da una nobildonna decaduta rientrata dall’India, e
in lunghi viaggi per raggiungere il
cottage a Highgate, quasi al termine
della Black Line della metropolitana londinese, ospite di una famiglia
di emigranti siciliani. Londra, con il
suo perenne grigiore, la pioggerellina sottile, gli incomprensibili abitanti, le regole ferree che Elisabetta
II imponeva ai suoi sudditi, mi stava
stretta. Due le possibilità d’impiego
a fine corso: una delle tante case da
gioco londinesi oppure le Bahamas,
isole sconosciute a poche decine di
miglia dalla costa della Florida. Tropico, mare, caldo e novità. [...]
Lavoravo a un tavolo da
blackjack ormai da qualche ora,
sfornando quattro mazzi di carte
ogni pochi minuti, raccogliendo
centinaia di gettoni di plastica a
ogni mano.
Seduti scompostamente davanti
a me, sei giocatori annichiliti dal ritmo con cui le carte cadevano sul
tappeto. A quell’ora, pochi erano
tanto lucidi da riuscire a seguire il
gioco.
Dietro di loro, una muraglia di
altri che puntava le scommesse in
società con quelli seduti, allungando il braccio per depositare i gettoni in ciascuno dei sei piccoli riquadri gialli stampati sul tappeto. Una
mano tra le tante superò il muro sul
lato estremo del tavolo a mezzaluna. Depose sul tappeto una moneta
lucida. La osservai distrattamente,
pensando che fosse un raro dollaro
d’argento, la moneta portafortuna
di un giocatore incallito. Finii il giro
di carte e annunciai a voce alta, come da prassi, il cambio della moneta in gettoni. Quando la raccolsi mi
resi conto che non era tonda, ma
più bella d’Europa, facendosi sedurre da un
ricco e fascinoso giovanotto, non è poi così
spiacevole. Ma c’è una cosa cui Mary Lester
non ha mai saputo rinunciare: indagare attorno a un insolito particolare nascosto. La
morte di Victoire Leblond,avvenuta alla buca numero sette, è davvero così "naturale"
come sembra? E come può, "l’uomo dalle
dita blu", tre mesi dopo la sua morte, fare
ancora delle vittime al circolo di golf del
Bois Joli? ("L’uomo dalle dita blu" di Jean
Failler; Robin Edizioni, Roma.) Dobloni facili al largo delle Bahamas
5
spigolosa, e al centro, su entrambe
le facce, aveva una croce. L’avevo
tra le dita da pochi secondi quando
O’Neil, l’anziano controllore, me la
sfilò per rigettarla sul tavolo, aggredendo il giocatore con male parole
e urlandogli in faccia che lo avrebbe
fatto buttar fuori. Veniva da Las Vegas, era della vecchia guardia, uno
che non scherzava quando stava ritto fra i due tavoli a verificare l’andamento del gioco. Ne aveva viste
di tutti i colori, a suo tempo, e pensava che chiunque si avvicinasse a
un tavolo dovesse per forza barare.
La moneta rimase vicino al bordo
imbottito del tavolo soltanto per un
attimo, sufficiente perché la potessi
osservare. Il proprietario dello strano oggetto era nel frattempo sbucato da dietro le spalle che lo coprivano come un paravento, e mi sorrise
imbarazzato. «Dammi 50 dollari»,
mormorò sommessamente, nonostante lo sguardo sospettoso di O’Neil. Sorrisi a mia volta, scuotendo
la testa. Non potevo: se lo avessi fatto, sarei stato immediatamente licenziato, buttato fuori dall’isola.
Mentre facevo scivolare la moneta
sul panno verso la sua direzione,
con le dita ben aperte in modo che
tutti potessero vedere che non c’era
nulla nella mia mano - questa era la
regola - alzai il mento e mossi leggermente la testa di lato per fargli
capire che, se mi avesse aspettato
nella hall dell’albergo, l’affare si poteva anche concludere.
Il mio turno finì dopo alcuni minuti. Lasciai il tavolo, uscii dalla sala e m’infilai nel loungebar passando in rassegna chi era seduto ai tavoli o sugli alti sgabelli al bancone.
Alle spalle di Franky, uno dei baristi, che mi allungò una tazza di
caffè, un gruppo di ballerine avvolte in piume gialle con i seni scoperti si agitava al suono di una musica
fin troppo melodiosa. Mi inoltrai
nel lungo corridoio che dall’ingresso dorato del casinò portava al Lucaya Arcade, stracolmo di negozietti di souvenir da pochi dollari. Non
c’era molta gente. Cercavo di individuare quella faccia tra visi anonimi. Non la ritrovai. Superai la vetrata e andai verso la piscina. A quell’ora non c’era nessuno nonostante
la temperatura elevata. Mi soffer-
mai all’entrata, dove i taxi scaricavano gli avventori. Chiesi al sorridente Joe, il gigantesco e gallonato
portiere nero, se avesse notato
qualcuno aggirarsi lì intorno. L’uomo che cercavo, dal viso giovane e
spavaldo, sembrava svanito con la
sua moneta d’argento. Ricordavo
d’averla già vista, quella moneta
dalla forma così caratteristica. Ma
dove? Aveva una gran croce stampata irregolarmente al centro, i bordi tagliati in modo approssimativo,
a formare un esagono. Le sere successive, osservai con più attenzione
gli avventori che si presentavano al
tavolo; nei momenti di pausa - quindici minuti ogni quarantacinque continuavo a tenere sotto controllo
la spaziosa hall del Lucaya Beach
Hotel e l’andirivieni di clienti nell’Arcade. Qualche sera dopo,
com’ero solito fare, m’infilai nello
stretto corridoio di servizio dietro
al bar per andare a fare quattro
chiacchiere con i ragazzi del ristorante, tutti italiani. Il maître, Lazzaro, un castigliano giramondo, era un
tipo molto particolare, una sorta
d’intrattenitore che ubriacava i suoi
ospiti chiacchierando con loro in
sei, sette lingue, capace di esaudire
non solo i desideri culinari ma qualunque altra richiesta. Nelle sue tasche si potevano trovare rubini malesi, orologi svizzeri, pregiati sigari
Monte Cristo o oro italiano. Tirandomi dietro una pesante tenda, che
nascondeva il passaggio del palcoscenico, mi confessò di avere qualcosa di interessante da mostrarmi:
sapeva che mi immergevo, e quello
che mi proponeva veniva dalle cristalline acque del Mar dei Caraibi.
Dalla tasca del suo panciotto dorato uscì la moneta d’argento che avevo visto al tavolo verde. «Quanto gli
hai dato?»
«Table for four; cena per quattro
con french wine, per la sera dell’ultimo dell’anno.»
«A me ha chiesto di cambiare
con 50 dollari, ma a quanto vedo sono arrivato tardi. Tu gli hai dato 120
dollari, la cena per quattro.»
«Tu sabe che cosa è esta?»
«Sì, l’ho vista. Da qualche parte,
ma non ricordo bene. Credo sia antica, forse inglese o spagnola.»
«Real
da
ocho,
moneda
espanola. 1600. En plata. Tien valor,
molto più della cena. Il tizio mi ha
detto che non teneva altro dinero se
non esto e voleva passare una noche
con los hermanos.»
«Ma chi è?»
«Lavora giù al porto. No sabe
mas. È residente sull’isola, americano, forse canadiense». Esiste il colpo di fulmine? Stella
non ci ha mai creduto. Ma quando
incontra Roberto,ci mette un attimo
a innamorarsi.Gelosie,equivoci e intrighi rendono da subito complicata
quella che potrebbe essere una meravigliosa storia d’amore.Entrano in
scena perfide rivali, madri impiccione o eccentriche, amiche complici,
corteggiatori inopportuni, giornalisti
ficcanaso. E così Stella e Roberto si
amano e litigano. Si incontrano, si
perdono e si ritrovano, sullo sfondo
di una Genova seducente e irresistibilmente romantica.
«Un bacio al Porto Antico» di Anna
Parodi;Fratelli Frilli Editori,Genova.
Un rumeno a Milano
Al giovane rumeno Mihai,emi-
grato dal paese del conte Dracula e
del regime di Ceausescu,non poteva
capitare niente di più arduo che vivere a Milano e innamorarsi della bella
Daisy,una giovane leghista militante,
figlia devota di una ricca famiglia
brianzola. La love story, durata diciotto mesi,finisce ovviamente male.
Deluso dalla comica e disperata
esperienza sentimentale nella quale ha investito gran parte dei propri
sogni, Mihai, dopo avere ricevuto
da Daisy una rocambolesca missiva infarcita di velenose recriminazioni, le risponde con un racconto
in forma di diario.
«Allunaggio di un immigrato innamorato» di Mihai Mircea Butcovan;Besa Editrice,Nardò (Le).
«Una vita contro l’imbecillocrazia»:è la
felice sintesi del supplemento culturale del
Sole 24 Ore di qualche settimana fa per ricordare Bruno De Finetti,in occasione del
centenario della sua nascita.Grande matematico, De Finetti, il suo genio è stato ampiamente riconosciuto negli Stati Uniti. In
Italia molto meno, e infatti spesso si trovò
relegato nel ruolo di «rompiscatole». Ha
pagato, evidentemente il suo spirito libero
riformatore,il suo essere sognatore concreto di un mondo più civile e meno ingiusto.
Per descrivere la «dissennata disfunzione
dell’inqualificabile pseudoapparato dello
Stato» coniò termini come «giuridicolaggine», «brurofrenia», «burosadismo…». E,
appunto, «imbecillocrazia».
Riformatore, relegato nel ruolo di
rompiscatole, sognatore concreto…in una
parola: radicale. Come effettivamente De
Finetti era:radicale iscritto al Partito Radicale,per lungo tempo accettò di essere - lui
che non era iscritto ad alcun albo giornalistico - di essere direttore responsabile di
Notizie Radicali.In quella veste si trovò ad
essere protagonista di una vicenda con il
senno di poi,gustosa e di un qualche significato. Che merita di essere ricordata: «descrive» l’uomo;vicenda emblematica di come anche allora poteva funzionare la macchina della giustizia.
Aveva la non più verdissima età di 71
anni, quando De Finetti rischiò di finire in
una cella del carcere romano di Regina
Coeli. Dopo aver militato nel Movimento
Politico dei Lavoratori, l’effimera organizzazione che Livio Labor aveva costituito
fuoriuscendo dalle Acli,De Finetti,che già
era doppia tessera, sempre più si trovò
PROCESSI. CENTO ANNI FA NASCEVA LO STUDIOSO ITALIANO
DI VALTER VECELLIO
Bruno De Finetti, il matematico perseguitato
coinvolto nelle battaglie per l’affermazione tario Roberto Cicciomessere, De Finetti
dei diritti civili. Come s’è detto, pur senza appunto, ed altri tre militanti: Giancarlo
essere iscritto agli albi della corporazione Cancellieri, Andrea Tosa e chi scrive. Segiornalistica, e in dichiarata polemica con condo l’ordine di arresto, eravamo colpele leggi sulla stampa, accettò di assumere voli di aver distribuito materiale sovversivo
la direzione responsabile di NR, ne fu di- all’interno di caserme (dove peraltro mai
rettore per anni senza che le autorità avevamo messo piede) per conto di un’orosassero fiatare.
ganizzazione di cui mai avevamo fatto parUn giorno il giudice romate; di aver organizzato scioperi
no Antonio Alibrandi, noto del rancio e altre simili manifeper le sue simpatie di estrema
stazioni. Accuse che, almeno
Il suo caso fu
destra, diede il via a un’inchieper quel che riguarda i radicauna delle tante
sta su un’ottantina di persone
li,non avevano fondamento;ci
accusate di far parte di un’orsi batteva per l’affermazione
magie del
ganizzazione collaterale all’aldell’obiezione di coscienza, alPartito Radicale tro che per la «proletarizzaziolora Lotta Continua, i Proletari in Divisa.A dar credito ai cane delle forze armate!» Per
pi di imputazione,si trattava di
quel che riguarda De Finetti si
cose gravissime: istigazione a disobbedire ipotizzava tra le altre cose, la distribuzione
rivolta ai militari,associazione sovversiva e di volantini dentro una caserma di Orvieto,
una sfilza di altri reati solitamente conte- città, mi disse, dove da almeno trent’anni
stati a chi si macchiava di terrorismo. Per non metteva piede.Ma il giudice Alibrandi
tutti era stato disposto l’arresto immediato, era un perfetto giudice della giustizia italiae la accurata perquisizione domiciliare,alla na di allora (e anche di ora, a ben vedere).
ricerca (e sequestro) di tutto il materiale
De Finetti e i radicali decisero di stare
che comprovasse l’attività politica. Un al gioco del magistrato. Se aveva spiccato
mandato così ampio che consentiva il se- mandato di cattura, ebbene ci saremmo
questro di qualsiasi cosa, volantino, libro, consegnati. La polizia venne convocata
giornale che fosse. Quasi tutti i colpiti dal una prima volta,e Cicciomessere arrestato
provvedimento erano militanti di Lotta davanti a Montecitorio. Per De Finetti e
Continua (tra gli altri, un paio di direttori noi l’«appuntamento» venne spostato di
dell’omonimo giornale, e i figli del senato- qualche giorno. In coincidenza con la cerire Paolo Emilio Taviani), e chissà perché, monia di apertura dell’Accademia dei Linun pugno di militanti radicali:l’allora segre- cei di cui De Finetti era autorevolissimo
membro, e alla presenza dell’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone.
Non so se sia possibile immaginare la scena di quel giorno: da una parte i solenni
cattedratici convenuti alla cerimonia,e per
l’occasione tutti solidali con De Finetti; e
poco discosti una torma di radicali con i loro eterni cartelloni al collo. Al centro lui,
De Finetti,più vitale e allegro che mai,certo molto più giovanotto di noi che lo seguivamo verso il cellulare in fondo alla strada,
accompagnati da agenti di polizia molto
cerimoniosi e per nulla convinti di arrestarci. A un certo punto anzi dovevamo sembrare un po’ abbattuti, Giancarlo e io, se
De Finetti e un altro «giovanotto", il senatore Umberto Terracini (accorso quella
mattina e che a tutti costi volle assumere la
nostra difesa) si sentirono in dovere di rincuorarci, e raccontarci storielle spiritose.
Fummo portati in questura, sommariamente interrogati; la scena a pensarci
oggi, una comica: chiaramente volevano
perder tempo,non avevano nessuna voglia
di portarci in carcere.Ci chiesero se avevamo mangiato, e osservando che saremmo
arrivati in cella quando il pranzo già era
stato distribuito, vollero a tutti costi che si
mangiasse qualcosa,e fecero portare panini,birra e caffè.Poi,dopo aver esaurito tutti i motivi per ritardare l’«esecuzione», finalmente ci fecero salire sulle volanti direzione Regina Coeli. Solo che sbagliarono
più volte la strada, e per un percorso che
solitamente si fa in pochi minuti, fu impiegata quasi un’ora.Alla fine, si arrivò.Avevamo già varcata la soglia del carcere, stavano per prelevarci le impronte digitali di
rito, ed ecco arrivare da palazzo di Giustizia la revoca dell’ordine di arresto.Ci fecero subito uscire,non so se più noi o loro sollevati. Era accaduto che il capo della procura aveva trovato il marchingegno per
sottrarre noi quattro al suo sostituto e disinnescare la «bomba» che l’arresto di De
Finetti minacciava di far esplodere; noi
radicali beneficiammo dello «scudo» della popolarità e dell’autorevolezza di De
Finetti, e la nostra posizione fu stralciata;
per qualche mese ci venne appioppato
formalmente un più consistente reato di
terrorismo, che consentì di affidare quella parte di inchiesta a un magistrato che
di quelle cose si stava occupando; e poi
tutto finì archiviato.
L’episodio,ad ogni modo,rivela di che
pasta era fatto De Finetti.Lo ricordo bene,
mentre stavamo varcando la soglia del carcere: lo sguardo da eterno fanciullo, rideva
con gli occhi, era molto divertito. Deve essere stato buffo per i passanti di quel giorno,vedere quel vecchio-giovane,che si reggeva aiutandosi con un bastone, circondato da poliziotti ossequienti,mentre rideva e
scherzava con Terracini, e noi che di trascorrere un soggiorno in carcere non eravamo per niente entusiasti.
Quando si parla del Partito Radicale e della «magia» di cui è dotato:
ecco, è una «magia» che si spiega perché in questo partito accade di trovare persone straordinarie e fantastiche
come Bruno De Finetti. Tra il 1996 e il 1997 a Bolo-
gna si consuma un caso giudiziario che vede coinvolti tre
esponenti di un gruppo satanista. Per loro le accuse sono gravissime: stupro, pedofilia e omicidio rituale. Ne nasce un fatto
che esplode in tutta Italia in un
costante crescendo di sensazionalismo giornalistico e giustizialismo spicciolo. Salvo poi concludersi con l’assoluzione degli
imputati: nulla di tutto ciò che si
era detto sul loro conto era vero.
La vicenda dei Bambini di Satana non solo racconta di un clamoroso errore giudiziario, ma
finisce per lambire alcune vicende dolorose della recente storia
italiana, riprende il difficile argomento della violenza sui minori come strumento per favorire il controllo sociale, narra di
come le voci dissidenti siano state tacciate di estremismo e istigazione alla violenza e spiega come la progressiva diffusione di
Internet sia stata considerata come una "licenza per uccidere".
Il libro della giornalista Antonella Beccaria ( "Bambini di
Satana. Processo al diavolo:i
reati mai commessi di Marco
Dimitri", Stampa Alternativa /
Nuovi Equilibri) ricostruisce
un mosaico di avvenimenti che
va dalla fine degli anni Ottanta
all’inizio dell’attuale decennio
in cui i protagonisti sono - oltre
1996-97. IL CASO GIUDIZIARIO DELLA SETTA DI BOLOGNA SI RISOLVE IN UN ERRORE CLAMOROSO
DI CARLO LUCARELLI
Bambini di Satana, storia di un processo al diavolo sbagliato
agli accusati e agli accusatori - le
istituzioni, la Chiesa, la stampa e
un pugno di intellettuali svincolati dalla cultura ufficiale. Di seguito pubblichiamo la prefazione di Carlo Lucarelli.
Questo è un libro che deve
essere letto.
Al di là della simpatia che si
può provare o meno per l’esperienza dei Bambini di Satana, e
al di là della considerazione e
della stima per la magistratura
bolognese - da me personalmente conservata anche nei
confronti dei magistrati citati
qui dentro - credo che dalla lettura di questo libro emergano
due cose molto importanti e
anche di estrema attualità.
La prima è un contributo di
chiarezza su quella nebulosa
complessa e confusa che è il
concetto di Satanismo. Naturalmente, fisiologicamente complessa, visto che contiene in sé
esperienze e riflessioni che vanno dal neopaganesimo all’umanesimo, all’illuminismo, all’anticlericalismo, all’esoterismo e a
tanto altro che ha e dovrebbe
avere pieno diritto di cittadinanza nell’universo del libero
pensiero. Ma anche artificialmente confusa, visto che sempre più spesso, soprattutto nei
media, viene utilizzato come un
semplice aggettivo, un’etichetta
aggravante applicata a qualunque inspiegabile nefandezza finisca sulle pagine di cronaca
nera (c’è anche una proposta di
legge in questo senso, con lo
scopo di sancire questa aggravante anche nell’ambito giudiziario e non solo in quello mediatico). Così, sotto la cappa del
cosiddetto Satanismo finiscono
le inquietudini acide di alcuni
adolescenti e le suggestioni culturali di musica, cinema e letteratura,ma allo stesso tempo anche la follia criminale di serial
killer e sedicenti adepti, efferati
omicidi che rientrerebbero soltanto nella patologia criminale
e a volte anche rituali da criminalità organizzata. Basta che ci
sia qualcosa di strano e di misterioso, o che sia coinvolto un
adolescente, e subito scatta l’ipotesi della setta e del rito satanico. Titoli in prima pagina sui
giornali, lanci cubitali nelle civette sui tabelloni davanti alle
edicole, prime notizie nei telegiornali e poi criminologi, psi-
cologi e politici invitati a raffica
in allarmati e allarmanti talk
show. Salvo poi scoprire che
nella maggior parte dei casi non
è vero e che le radici del problema che sta alla base del fatto di
cronaca sono tutt’altre.
Ecco, in questo libro una riflessione dall’interno sul Satanismo c’è, e attraverso
questa appassionata
e sincera educazione sentimentale di
un Satanista - ripeto, al di là
della simpatia che si può
avere o meno
per quell’esperienza - arriva sicuramente
un
contributo alla conoscenza del
fenomeno e del concetto.
Ma soprattutto credo che in
questo libro ci sia un’altra cosa
fondamentale.
è indubbio che questa sia la
storia di un errore giudiziario,
come la stessa magistratura ha
sancito riconoscendo un risarcimento in solido a Marco Dimitri per ingiusta detenzione, e se
è vero che la libertà non ha
prezzo e che qualunque cifra
sia irrisoria di fronte ad una ingiustizia, l’entità del risarcimento ne certifica comunque l’importanza.
Ma non è sull’errore giudiziario e sulle sue ragioni che
vorrei riflettere, lo fa questo libro e chi lo legge e vorrà approfondire le sue informazioni
avrà modo di farsi un’idea
completa sulla vicenda. A
me, in questo momento, interessa il
fatto che tanta gente, a livello di convinzione
personale, abbia creduto immediatamente e
quasi istintivamente all’esistenza a Bologna di una setta satanica con comportamenti criminali efferatissimi che
arrivavano fino all’omicidio rituale. Attenzione, non è l’ipotesi in sé che mi colpisce, certe
cose da qualche parte accadono veramente e quindi possono anche essere prese in considerazione. è il fatto che tutta
questa ipotesi fosse basata, co-
me è stato riconosciuto, su
niente. Assolutamente niente.
Eppure per tanto tempo
siamo stati convinti, di più, affascinati da una storia del genere.
Ecco, affascinati è la parola giusta. Io per primo. Nonostante
abbia nutrito presto seri dubbi
su quello che sembrava stesse
emergendo, e mi sia capitato
anche di scriverne in qualche
occasione, restavo comunque
morbosamente affascinato - e
me ne vergogno - da una storia che sembrava emergere direttamente da quella metà
oscura che alimenta le nostre
peggiori fantasie. Vedi che ci
sono, sembravano dire i particolari che di volta in volta
emergevano sui giornali, vedi
che abbiamo ragione a pensare male, vedi che queste cose
da film esistono davvero?
E invece no, non era vero.
Non a Bologna, non per i
Bambini di Satana e per non
Marco Dimitri.
è anche su questo morboso
e deviante fascino del male che
questo libro fa riflettere. Su
quell’ansiosa eccitazione che ci
fa correre ai giornali tutte le
volte che leggiamo quella paro-
la,satanico,quasi fossimo assurdamente desiderosi di vedere
avverati i nostri peggiori timori,
invece di chiederci che cosa significhi esattamente quella parola, su cosa si basi concretamente il diritto di evocarla, e di
pretendere correttezza e professionalità da chi la usa.
E poi,magari,estendere questa prudenza a tante altre parole
altrettanto abusate dalla cronaca
e dalla nostra fantasia.