Per una ricerca simbolica e partecipativa

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Per una ricerca simbolica e partecipativa
Per una ricerca simbolica e partecipativa
PAOLO MOTTANA*
Keywords: symbol, simbolic knowledge, imagination, teaching as “gift”.
Abstract: The essay outlines an imaginative way of knowledge in the field of education. This is a boundary research which tries to restore the authentic knowing
power of images which have always been considered as forms of a “ gnoseologia
inferior” (Baumgarten). In particular we refer to symbolic images chased through
a thorny genealogy, or better, a founder archaeology. In ancient times the heuristic
value of symbolic images was supported by Socratic philosophers (who suggested
an enigmatic and allusive knowledge rather than a conceptual and discursive one),
during the Middle Ages and the Renaissance by Gnosticism, Neo-Platonism, Hermetic Philosophies and Theosophical Mystique and then by Romantic thinkers. And
this idea even returns through some voices of the 20th century cultural debate such
as Bergson, Bachelard, Gilbert Durand, Walter Benjamin and Carl Gustav Jung; and
again, more recently, the voices of Gilles Deleuze, James Hillman, Jean Jacques
Wunenburger, Georges Didi-Huberman and the “iconic turn” by Gottfried Böhm
and W.J.T. Mitchell seem to allow their reconsideration as vehicles of an amphibolic,
plural knowledge that is neither evaluating nor normative, neither ideological nor
categorising.
The practise of images as a source of knowledge overthrows the idea that we must
always produce enlightenments and distinctions because, on the contrary, a symbolic
knowledge must learn to yield to the constitutive, ambiguous and inexhaustible structure of meanings of the experience.
Ricerca e conoscenza immaginativa
Il quadro epistemologico in cui si dibatte la ricerca educativa nel nostro
tempo, sembra sempre più restringersi, anziché ampliarsi. Dopo l’affermarsi,
* Dipartimento
di Scienze umane per la formazione R. Massa Università di Milano Bicocca
- [email protected]
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nei decenni passati, di tendenze di sperimentazione e di protocolli di ricerca
aperti alla complessità e alla contraddittorialità, sembra tornare una voglia di
scientificità empirica e quantitativa perlomeno sospetta e inquietante. A me
pare, di fronte a una tendenza sempre più orientata a rafforzare una cultura della ricerca fortemente pragmatica, strumentale, asservita alle attese del
mondo industriale, che sia invece il tempo per produrre una ricerca teoricopratica, diciamo meglio, una ricerca che sia anche “prassi simbolica”, capace
di integrare nel suo profilo un’identità metodologica segnata dall’incontro con
le lezioni più radicali della filosofia del Novecento (che è sempre stata anche
grande pratica culturale e politica) che, dal mio punto di vista, vanno cercate
sulle frontiere che la pedagogia guarda sempre con troppo sospetto oppure con
la preoccupazione di domarle e renderle metabolizzabili alla sua pars giudicante. Una ricerca che, della sua vocazione teorico-pratica, sappia riconoscere
fino in fondo la concretezza prassica delle idee e la vocazione trasformatrice
di simboli, immagini, forme allo stesso modo in cui impari a riconoscere la
componente generativa e simbolica delle pratiche, delle materie e dei corpi in
azione sulla scena educativa.
La pedagogia resta invece per lo più sempre murata nella sua vocazione enciclopedica e bisognosa di attestazioni di credibilità, timorosa di aprire
nuove frontiere e assetata di accreditamenti e validazioni. Una pedagogia in
cui, salvo qualche sporadica eccezione, non si sente mai fare un nome fuori posto se non per reinscriverlo subito in qualche filone predigerito, dove
quando qualcuno prova anche solo a introdurre riferimenti davvero altri, cioè
non sufficientemente bonificati e uniformati all’immaginario disciplinare dominante e piegati all’indole moralistica o applicativa imperante, finisce per
essere emarginato e isolato. Da questo punto di vista, e non vitti misticamente,
semmai proprio per evidenziare questa tendenza omogeneizzante e emarginante, mi permetto di citare il mio caso, il mio tentativo, perlopiù ignorato o
malsopportato, di introdurre la tradizione di una filosofia dell’immaginario e
di una ricerca immaginale (Jung, 1991-2007, Durand, 1972, Bonardel, 1993),
correlata a forme di razionalità di tipo anfibologico e contraddittoriale (Lupasco, 1960), Wunenburger, 1999, 2007, Cazenave, 1996, 1998), cercando
di dare udienza anche all’irrazionale (Feyerabend, 2001, 2002, Corbin, 1958,
1986), o all’immaginazione simbolica (Bachelard, 1972, 1975, Durand, 1999,
Hillman, 1979, 1983) o anche al mio costante sforzo, strettamente imparentato
con il primo, di porre al centro dell’ orizzonte di ricerca le nozioni di eros e
di desiderio in educazione (Mottana, 2000, 2008, 2010, 2011). Tutte frontiere
giudicate, dal razionalismo teorico e dal quietismo metodologico imperante,
troppo estreme o troppo “esotiche”. Non è questo un fatto che riguardi solo
il mondo pedagogico, ovviamente. Le censure culturali del nostro tempo son
diffuse e pervasive, resta comunque che, specie nel mondo accademico, i cri395
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teri di assegnazione delle patenti di rigore metodologico e epistemologico,
appaiono sovente restrittivi e settari.
Per conto mio in questi anni ho comunque cercato, nonostante ciò, di aprire
una via di conoscenza immaginativa in campo educativo. Una ricerca di frontiera, ma poi non troppo se è vero che è ormai da diverso tempo che si parla di
un “iconic turn” (Böhm, 2009) o di un “pictorial turn” (Mitchell, 2008), che
avrebbe soppiantanto quel “linguistic turn” da cui siamo stati molto a lungo
dominati, annunciato da Rorty negli anni sessanta del secolo scorso. Una ricerca che tenta di restituire alle immagini, pressocché da sempre defraudate
come fonti di sapere e considerate forme di una “gnoseologia inferior” (Baumgarten, 2000), il loro autentico potere conoscitivo (ma anche performativo e
trasformativo). Le immagini simboliche in particolare, frutto di una ponderazione e di una riformulazione figurale tra il fatto, l’esperienza e lo sfondo ideale e intelligibile su cui si staglia sono diventate il mio campo di esplorazione.
Le immagini simboliche, quelle ricche di interrogazioni, di perturbazioni e
di rielaborazioni del volto letterale della realtà restituito da scienza e tecnica,
rincorse attraverso una faticosa genealogia o forse meglio una archeologia
fondatrice. Immagini il cui valore euristico trova i propri sostenitori spesso
lontano nel tempo, nella filosofia presocratica (con la suggestione di un sapere
di carattere allusivo e enigmatico piuttosto che discorsivo e concettuale) e poi
in taluni ricchi affioramenti medievali e rinascimentali (tra gnosticismo e neoplatonismo, tra filosofie ermetiche e mistica teosofica), fino al romanticismo.
Ma che ritorna con le voci, certo non sempre in accordo e sovrapponibili ma
comunque sensibili a questa emergenza veemente della potenza delle immagini, di un dibattito novecentesco che, da Bergson (2002, 2006) e Bachelard,
attraverso Gilbert Durand, Walter Benjamin (1997, 2002) e Carl Gustav Jung,
e, nel contemporaneo, da Gilles Deleuze (1984, 1989, 2006) a James Hillman
a Jean Jacques Wunenburger e a Georges Didi-Huberman (1990, 1992, 2007),
e più recentemente alla “svolta iconica” appena citata di Gottfried Boehm e
di W.J.T.Mitchell e molti altri, sembra permettere una loro riconsiderazione
come veicoli di una conoscenza anfibologica, plurale, non valutativa né prescrittiva, non ideologica né categorizzante. Una conoscenza che si fonda sulla
ricerca di una materia sottile, quella appunto delle immagini, capace di connettere l’espressione vivente dell’esperienza, perché l’immagine simbolica è
un essere vivente, con uno sfondo di forme mitico-archetipiche, come pensava
Jung, di “figure” in cui il reale si riscopre multiforme e indecibile. La pratica
delle immagini come fonte di sapere, sovverte l’idea che si debba sempre produrre rischiaramenti e distinzioni mentre al contrario una conoscenza di natura simbolica deve imparare a cedere alla struttura costitutivamente ambigua e
inesauribile, anche oscura, dei significati dell’esperienza.
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Le figure simboliche della formazione
Così sottoporre grandi temi, vere e proprie invarianti dell’esperienza e
della discorsività educativa, come la mancanza, la cura, la ferita, il male,
l’infanzia, l’adolescenza, la famiglia, la morte e così via all’esposizione, al
rispecchiamento in opere simboliche che lavorano questi temi nella direzione
di una loro riformulazione immaginale, significa impedire a qualsiasi scorciatoia categorizzante o pragmatica di rinchiudere e ridurre il tessuto fittissimo
delle possibili vie interpretative che tali oggetti sensibili e ipercomplessi generano, essendo costitutivamente aperti e privi di centro (cfr. Mottana, 2002,
2005).
Così ad esempio considerare il tema del deficit, della mancanza o della
mutilazione attraverso la meditazione di opere che esprimono figuralmente il
volto dello straniamento e del portare la ferita su di sé, come i clown tragici
di Rouault o certi lavori di Kokocinski, significa penetrare, o meglio, rendersi
ricettivi ad una dimensione invisibile e persistente dell’essere al mondo, che
riguarda tutti in quanto mancanti e tutti, anche se in alcuni casi in maniera più
evidente, portatori di una frantumazione passibile di rinascita, di una passione
che mira al contempo la morte e la trasformazione, in cui gli archetipi di Dioniso, di Iside e di Cristo affiorano nella loro potenza di simboli aperti e ogni
volta riattivati in una singolare e dialettica composizione con le forme dell’ora
e del qui. Oppure meditare l’infanzia, l’infanzia non solo come fatto anagrafico e psicologico ma soprattutto come simbolo di inizio e fine, di totalità e
di intreccio di un approccio erotico e immaginativo al mondo, intrattenendosi
lentamente e ripetutamente con l’intensità aurorale eppure quintessenziata di
una raccolta di haiku giapponesi, o ancora attraverso la difficile equilibrazione
di colore, materia e figura che impariamo immergendoci negli ultimi, incandescenti dipinti di Nicolas De Staël, è cosa ben diversa dal condizionamento
che interiorizziamo dal discorso presuntuosamente scientifico ma prescrittivo,
troppo spesso pregiudiziale e farcito di imputazioni valoriali delle psicologie
e spesso anche dei modelli filosofici loro sottesi.
È un modo di riportare gli oggetti selezionati a ritrovare il loro volto, la
loro personalità particolare, la loro presenza vivente, essi stessi soggetti dotati
di senso più che materie di studio e di analisi. L’approccio di ricerca immaginale (Mottana, 2004, 2010a) conduce queste grandi aree dell’esperienza educativa, tessendole nella densità dei molteplici motivi raffigurativi che le hanno
espresse simbolicamente, a manifestare lo spessore, lo spettro delle loro molteplici interpretazioni, in un reticolo di corrispondenze e di analogie che le
radica nel tessuto profondo dell’esperienza. Non più i bambini come oggetto
separato di cura e di considerazione teorica ma i bambini come stagione permanente dell’essere, che si riverbera ad ogni livello dell’esperienza del mondo
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e che di questo mondo, nella sua dimensione d’infanzia, infanzia “vegetale” e
“perenne”, diceva Bachelard (1972), si fanno testimoni e mediatori.
O, per fare un altro esempio, la simbolica della morte e del morire rivissuta
e lavorata attraverso un’opera di videoarte come The Passing di Bill Viola o
le incisioni di Käthe Kollwitz o ancora i dipinti di Zoran Music. Ma ancora
con le opere musicali di Krzystof Penderecki, di Sofia Gubaidulina o di Fausto Romitelli. Avendo a disposizione un giacimento sterminato di “presenze
viventi”, come le chiama George Steiner (1999) (sciami d’immagini simboliche che costellano, secondo una riconoscibile “risonanza semantica”, il focus
immaginale, il nucleo archetipico) capaci di trasmutare, riorientare ed emancipare la nostra sensibilità, ai fini di una vera e propria gnosi (da intendersi come
conoscenza integra, non separata e non separatrice, che fa convivere pensiero,
emozione e immaginazione e oggetto di conoscenza) del mondo e della sua
fisionomia viva e dotata di interiorità (il Weltinneraum di Rilke, 1994-1995).
L’immagine simbolica è infinitamente aperta e sufficientemente umbratile
e interrogante da non consentire di accumulare alcuna certezza. Al contrario,
essa decostruisce e contemporaneamente arricchisce il nostro immaginario di
figure attraverso le quali imparare a ri-vedere l’esperienza del reale nella sua
costitutiva e inestirpabile contraddittorialità, nella sua irriducibile e però anche coinvolgente materialità significante che non si lascia inchiodare ad alcuna definizione. Lavorare attraverso le immagini ad una conoscenza complessa, significa mettere in campo uno sguardo partecipativo e non distanziatore,
una postura non giudicante, richiamare ad una responsabilità nei confronti
del volto inesauribile del reale in cui convivono necessariamente le ombre e
le luci, il male e il bene, la mancanza ad essere e l’impulso a non cedere sul
proprio desiderio (come dice Lacan, 2008 il quale, per altri versi, ha importato nel mondo del sapere e non solo, un’idea dell’immagine patologizzata e
alienante che conferma uno stereotipo iconoclasta fin troppo presente nella
cultura filosofico-scientifica).
Conoscenza umbratile e contraddittoriale
Questo filone di ricerca, certamente anomalo, inattuale e difficilmente componibile con i canoni di una razionalità illuministica allergica all’ambiguità
delle rivelazioni propiziate dalla collisione vorticosa della “lontananza” dei
simboli con il manifestarsi anacronistico delle forme (per dirla attraverso Benjamin rivisitato da Didi-Huberman), ha la pretesa di far interagire il sedimento
tellurico della cultura (il suo patrimonio di forme originarie e il suo archivio
mitico-archetipico, che è fondamentalmente transculturale), con l’espressività
sempre rinascente del gesto simbolico. Pretende altresì di restituire a questa
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materia composita una potenzialità conoscitiva, di una conoscenza radicalmente alternativa a quella misurabile e confrontabile o anche solo concettuale
e razionalizzata che ancora sembra dominare, nonostante i molti richiami alla
divergenza epistemologica, anche in ambito scientifico. Per un’apertura alla
complessità che includa fonti siffatte, se non altro con un ruolo equilibratore e
compensatorio, (e si pensi a Feyerabend o Cazenave), nell’ambito di un ricercare che non può più dimostrare l’infallibilità di alcuna procedura. Confidare
nelle immagini, nelle immagini simboliche, a me pare una buona strada per
decantare quel fondo di ingenuo attaccamento a paradigmi che hanno dimostrato la propria inabilità a comprendere l’inesauribile molteplicità dell’esistere in tutte le sue forme e soprattutto la sua solidarietà o continuità invisibile
che invece lo sguardo tenace, appassionato e sofferto dell’artista ci restituisce
e ci consente di sperimentare anche emotivamente.
Ma un tale profilo di ricerca interroga, oltre che le fonti e i modelli di interpretazione, anche la “postura” del ricercatore, non più soggetto dominatore
e distanziatore del suo oggetto, ma complice di esso, coinvolto nella sua materia in forma partecipativa. Non è solo il soggetto a scegliere il suo oggetto
e a intenzionarlo, è anche l’oggetto che incontra e sceglie il suo soggetto,
che lo interroga e che lo chiama ad accorgersi della sua presenza. Si tratta di
praticare una ricerca in cui il ruolo dell’emozione genera una spoliazione e un
affidamento, l’accettazione dello smarrirsi e anche il necessario arrendersi alla
misteriosità delle stratificazioni di senso dell’oggetto esplorato. Senza accanimento, semmai con dedizione e attenzione.
Non una ricerca freddamente programmata e che miri a lavorare il proprio
oggetto distanziandosene e anestetizzandolo. Una ricerca che restituisca invece valore al ruolo dell’intuizione e dell’immaginazione. Una ricerca animata
dal motto alchemico ignotum per ignotius, capace cioè di accondiscendere
all’oscurità dei recessi delle materie esplorate non con l’impeto prometeico
di chi vuole tutto rischiarare e dominare ma di chi sa accogliere le dimensioni
d’ombra e di sottrazione dei propri oggetti-soggetti. Una ricerca animata da
una visione sotterranea che sappia leggere anche sé stessa, il proprio profilo
epistemologico, la propria postura, attraverso una continua vigilanza critica e
una decostruzione dei miti che la abitano e che la promuovono. Una ricerca la
cui processualità sia più assimilabile al moto della spirale che a quello di una
dialettica progressiva, capace di sopportare il rallentamento e la stasi, animata
da un politeismo metodologico e da una apertura a forme di verità contraddittoriale, riconducibili allo schema dell’arco e della lira, alla tensionalità di
un terzo che si muove dinamicamente tra opposti in reciproca e continua relazione di manifestazione-nascondimento. Insomma una ricerca ben diversa da
quella orientata da modelli di razionalità rischiaratori e bonificatori, o peggio
tecnocratici e efficientisti, semmai disponibile a contaminarsi, complicarsi,
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persino perdersi (una ricerca che sappia quindi accogliere anche il necessario
fallimento nei confronti di un reale mobile, stratificato e spesso legittimamente riottoso ad arrendersi alla volontà di sapere), nella sua fedeltà alle forme di
manifestazione dei propri soggetti di esplorazione.
Valutazione come restituzione e cultura come dono
Mi si perdoni infine una provocazione, su uno dei temi che mi è caro e
che certo, ancora una volta non mi vede in una compagnia particolarmente
numerosa, quello della valutazione didattica ancor prima e più di quella della
ricerca, in particolare della valutazione scolastica e accademica, sotto forma
di esame e prova, tema che purtroppo va conoscendo nel nostro tempo una
inesorabile quanto scandalosa deriva restaurativa.
La prova scolastica, istituzionale, è figlia, non credo di dire una cosa particolarmente bizzarra e inattesa, di una cultura della misura e del controllo, la
stessa che perlatro domina in tutti i nostri apparati disciplinari e nella maggior
parte delle culture della valutazione. Una cultura dell’educazione che ritiene
che la procedura dell’insegnamento sia realizzata quando il sapere, considerato come qualcosa che preesiste al momento dell’istruzione stessa, possa essere
poi in qualche modo verificato dopo che è stato veicolato. Operazione meccanica, anche se espressa in innumeri maniere, che vede l’insegnamento come
un travaso, come una trasmissione, informaticamente, come un transito da a,
e non, certo, nel senso intrigante che ha dato a questa nozione Mario Perniola
(1998), quando parla di transito dallo stesso allo stesso, cogliendo le implicazioni della differenza nel medesimo e proponendoci un presente dell’esserci
solcato da infiniti micro rilievi, un’immanenza fatta più di densità e intensità, come diceva anche Deleuze, piuttosto che di successioni e di macchinosi
adattamenti.
Anche laddove vi è consapevolezza della processualità dell’opera educativa, laddove se ne predica la metaforica platonica della maieutica o dello
svelamento, della generazione o dello scatenamento, l’esame resta confinato
nella sua struttura di procedura di controllo, a volte rivestito dell’abito della
ricerca o dell’ascolto, ma pur sempre finalizzato a vedere ciò che è stato prodotto, a misurare e a sondare l’effetto. Questo sistema a me pare legato ad una
logica produttivistica, efficientistica e fisicalista della cultura pedagogica, che
nell’epoca contemporanea poi si tecnicalizza in procedure sempre più sofisticate e modulate variamente, sul piano strumentale, ma non meno univoche su
quello strutturale. Animate, per usare il linguaggio che mi è proprio, dal mito
della luce e dallo spirito eroico di Prometeo, da una ratio calcolatrice il cui
primato non può sfuggire a nessuno.
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A questa logica voglio, consapevolmente iconoclasta e secondo una linea
di pensiero che rivendico nella cultura moderna e contemporanea (da Fourier, 1999) a Bataille, 1972), da Deleuze, 2006) a Vaneigem, 2006) a Naranjo,
2006), contrapporre l’idea di formazione come dono, di apertura del sapere e
di condivisione della conoscenza. Un’idea partecipativa che mira all’attrazione appassionata e alla coltivazione di una ricettività diffusa e fluida, curiosa
e non giudicante. L’azione dell’insegnamento come potlacht o come dissipazione, come debordamento e come dispersione, come deriva e come prassi
simbolica, fa cadere ogni esigenza di controllo. Anche perché non c’è più
nulla da controllare. Il campo del sapere, non più presupposto come dominabile e segmentabile, è sempre aperto e fluido. Il contributo che offre chi
insegna, presenta implicitamente falle e punti di pescaggio da dove chiunque
vi partecipi può derivare imprevedibili direzioni di sviluppo, trasformando
continuamente, non tanto il modo in cui l’insegnante propone la sua forma,
quanto la configurazione in fieri che ne trae come discente. Da questo punto di
vista nessuna esigenza di controllo e di misura e neppure l’esigenza del tutto
autoriferita di verificare se qualcosa è successo. Il gesto compensatore di una
pratica di formazione come dono e condivisione è invece quella della restituzione, come ritorno di qualcosa di non predefinito (al dono si corrisponde con
il dono) e della riconoscenza/riconoscimento, nella forma del ringraziamento
e dell’accoglimento. Per chi insegna è il fatto stesso dell’ascolto, della partecipazione e della ri-conoscenza che si fa atto di conferma, e che costituisce
di per sé indizio di un’auspicabile moltiplicazione esperienziale. In tal senso
restituzione e riconoscimento possono essere espressi in modi diversi e imprevedibili che possono non avere affatto a che vedere con il sapere trasmesso,
ma semmai con la configurazione che l’esperienza ha assunto. La restituzione
può essere un oggetto fisico o un gesto, una danza o un canto, uno scritto o
un’immagine. L’esperienza formativa non ha nessuna intrinseca necessità di
essere misurata, essa si dà quando si dà, come perfettamente compiuta all’atto
della sua effettuazione. L’atto del controllo e della misurazione è solo un gesto
disciplinare che la inscrive in una finalizzazione estrinseca di tipo ideologico o istituzionale. Intrinsecamente ogni esperienza di insegnamento è invece
semmai tramata da gesti di interrogazione e di intesa, di confronto e, laddove
ve ne sia necessità, di esercizio, di gioco e di simulazione. Ma questo modo
di cercare non è mai ordinato nella forma del controllo esterno, semmai della
conferma interna, del bisogno di percepire la reciprocità della comprensione.
Si conclude all’interno dell’esperienza di insegnamento e non chiede supplementi, a meno che questi non siano indotti dal desiderio di ripetere e andare
più a fondo.
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Conclusioni
Una tale “cerca”, che produce una conoscenza di ordine simbolico, aperta
e policentrica, costituisce a mio giudizio un buon antidoto all’impeto strumentale che purtroppo anima troppi modelli del ricercare, di nuovo troppo sussiegosamente proni alle ragioni ben remunerate di modelli ad alta verificabilità
e ad alta misurabilità. La ricerca sta regredendo troppo spesso a strumento
per addomesticare e incarcerare il reale, per sottometterlo agli obiettivi di una
razionalità sfruttatrice e dominatrice. Ad essa occorre una compensazione di
natura simbolica, disseminativa e partecipativa di cui l’approccio immaginale
può essere una delle voci controcorrente.
Chissà che un giorno un mondo migliore, che riconosca i suoi maestri in
figure altre ma non lontane come quelle citate sopra, non ci riservi la possibilità di sacrificare il volto grigio e saturnino dell’istruzione per un paesaggio di
questo tipo, fitto di striature e di divergenze, multiverso e imprevedibile, dove
al gesto dell’insegnare si sposi una restituzione affettiva o espressiva, e dove
forse anche le necessità del tempo e dello spazio educativo assumano nuove,
mobili e multiformi possibilità.
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