leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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http://www.10righedailibri.it
Grace and Mojo Pin written by Jeff Buckley and Gary Lucas,
published by El Viejito Music/Sony Music Publishing and Gary Lucas Music/Songs of Universal
Bluebird Blues, No One Must Find You Here, Cruel, Song To No One, She Is Free, Distortion
written by Jeff Buckley and Gary Lucas,
published by El Viejito Music/Sony Music Publishing and Gary Lucas Music/ Music Sales Group
Hymne a L’Amour written by Edith Gassion and Marguerite Monot,
published by France Music Corp.
Sefronia The King’s Chain written by Tim Buckley and Larry Beckett,
published by Third Story/Fifth Floor
I Never Asked To Be Your Mountain and Once I Was written by Tim Buckley,
published by Third Story Music
Titolo originale: Touched by Grace. My Life with Jeff Buckley
© 2012, Gary Lucas
I edizione: settembre 2012
© 2012 Lit Edizioni Srl
Arcana è un marchio di Lit Edizioni
Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma
Tutti i diritti riservati
Traduzione dall’inglese di Luca Fusari
Cover: Laura Oliva
www.arcanaedizioni.com
GARY LUCAS
TOUCHED
BYGRACE
L A M I A M U S I CA C O N
J E F F B U C K LEY
Traduzione di Luca Fusari
INDICE
Prologo
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
9
13
67
107
147
189
Ringraziamenti
237
PROLOGO
Il pomeriggio di venerdì 30 maggio 1997 il telefono di casa mia squillò. Era il
mio amico Michael Shore, un giornalista che all’epoca lavorava per Mtv News.
«Gary, hai saputo? Non trovano più Jeff Buckley, era a Memphis e risulta
scomparso da ieri».
Cosa? Jeff scomparso… avevo capito bene?
«A quanto pare si è tuffato vestito nel Mississippi, poco prima di andare a
prendere il suo gruppo che veniva da New York per cominciare l’album nuovo… ed è sparito. Dicono che potrebbe essere annegato. Ma non hanno ancora
trovato il corpo».
Ascoltai attentamente, feci qualche domanda e qualche minuto dopo riattaccai sotto choc. Scoppiai a piangere, esplosi in un violento e disperato
«Nooo…».
Che cosa irreale… irreale ma non così incredibile, tutto sommato.
Io e Jeff ci eravamo visti giusto un paio di mesi prima, suonava alla festa
per il decimo compleanno della celebre Knitting Factory di New York e mi aveva invitato sul palco a suonare con lui Grace, la canzone che dava il titolo al
suo primo e unico album. La musica di quel brano l’avevo scritta io e gliel’avevo data nell’ormai lontano 1991, quando Jeff collaborava con me e il mio
gruppo, i Gods and Monsters, di cui sarebbe dovuto diventare il cantante.
Alla Knit non mi era sembrato in gran forma.
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Spiritato, gonfio, il suo corpo energico e snello ormai infiacchito, fece due
chiacchiere con me prima del concerto. Con un tono pacato, logorato dalla
tristezza e dallo sconforto, accennò ai problemi che lo stavano consumando:
era profondamente insoddisfatto del suo gruppo, del suo management e della
sua etichetta. «Non hai idea di quanto sia nella merda ultimamente», disse, elencando le disgrazie che costellavano la sua vita e la sua carriera.
Andò a prepararsi al concerto, e mentre saliva la scala che portava alla balconata della Knitting Factory e ai camerini si voltò e mi rivolse uno sguardo
pieno di dolore, puro e inerme: uno sguardo che chiedeva pietà, che implorava aiuto…
E il mio cuore fu tutto per lui,
per il mio ex compagno,
il mio più grande collaboratore…
per l’amico che avevo perduto.
Ma rinsavii subito: quello sguardo l’avevo già visto.
Sapeva essere sincero e ingannatore, a volte entrambe le cose insieme. Non
potevo abbassare la guardia, mi ci ero già scottato.
E adesso riecco lo sguardo implorante, più infossato tra le rughe di terrore
del viso, più serio e allarmante del solito. Uno sguardo che urlava: «Sono nei
guai! Per l’amor di Dio, vi prego, aiutatemi!».
Ma cosa potevo fare a quel punto?
Jeff non era più un ragazzino.
Era una popstar trentunenne, famosa e adorata in tutto il mondo, che faceva svenire le ragazzine e innamorare di sé uomini e donne.
Era il giovane talento che aveva registrato l’epocale GRACE, un album che
sin dal giorno della sua pubblicazione, nel 1994, aveva raccolto ovunque elogi strepitosi.
Era il cocco dei critici e di musicisti come Bono e Jimmy Page, era persino
entrato nella classifica dei «50 più belli del mondo» della rivista «People».
Ma adesso si trovava di fronte a uno spartiacque della sua carriera e non
poteva più permettersi di fare cazzate giustificandole con la gioventù o l’inesperienza.
Aveva goduto di vantaggi e appoggi inimmaginabili, l’etichetta discografica
più grande del mondo aveva esaudito tutti i suoi capricci, dal primo all’ultimo;
gli avevano concesso un budget gigantesco e tutte le risorse disponibili, pur di
fare di GRACE un successo mondiale, ma questa situazione aveva finito per travolgerlo. Con le vendite del disco, la Sony non si era rifatta neanche lontanamente dei soldi investiti nel talento di Jeff.
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La pressione era al massimo: tormentato dai dubbi, dalle insicurezze, dal
blocco dello scrittore, dalla droga e da chissà quali altri demoni interiori, la
sera dello spettacolo alla Knitting Factory, l’ultima volta che lo vidi, Jeff era il
fantasma di se stesso.
Era sotto torchio, stressato dall’obbligo di dover creare lo strepitoso secondo album, il mega-successo che lo avrebbe riabilitato una volta per tutte agli occhi della grande multinazionale… l’album che cercava invano di scrivere da
tre anni, da quando era uscito GRACE.
Quella sera lo vidi travolto da lampi di rabbia, confusione e tormento…
ma anche di estasi assoluta, quando a metà concerto mi invitò sul palco a suonare l’inno che avevamo scritto a quattro mani, e prese letteralmente il volo
cantando con tutto il cuore.
Ma intorno a lui tutto si stava disintegrando. Questo mi era chiaro. L’esibizione alla Knitting Factory fu una piccola tregua, non certo la redenzione.
Quella notte, parlando con mia moglie dell’incontro con quel mio vecchio
amico e delle sensazioni che mi aveva dato, concordammo che la cosa migliore per me era stare sereno e aspettare che fosse Jeff a cercarmi, se davvero aveva bisogno di aiuto, musicale o di altro genere.
In quel caso, sì, l’avrei aiutato: in passato aveva sempre funzionato così.
Cinque mesi dopo, squillò il telefono.
Ma non era Jeff.
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CAPITOLO PRIMO
Ovviamente gli antefatti che portano a questa triste e allarmante telefonata
sono molti.
Immagino che tanti di voi, cari lettori, abbiano una conoscenza tutt’altro che
superficiale della musica e della vita tragicamente breve di Jeff Buckley. E che
pochi tra voi conoscano altrettanto bene me e la mia musica.
Probabilmente devo molta della fama di cui godo alla mia collaborazione
con Captain Beefheart (Don Van Vliet) e, in seguito, con Jeff, quando in realtà
ho pubblicato più di venti album solistici di vari generi, lavorato con i nomi
più grossi del panorama musicale mondiale, scritto colonne sonore per una
miriade di film e documentari, e suonato dal vivo in più di quaranta nazioni.
«Rolling Stone» mi ha definito “uno dei migliori e più originali chitarristi
americani”, per il «Guardian» sono “un chitarrista leggendario e anticonvenzionale”, il quotidiano olandese «De Volkskrant» ha parlato di me come di un
“Potente mago della chitarra” e «Classic Rock Magazine» mi ha inserito tra i
“Cento migliori chitarristi viventi”.
Ma nonostante gli album e i concerti fatti a mio nome, ho davvero paura che
sulla mia lapide finiranno per scrivere: QUI GIACE GARY LUCAS – EX CHITARRISTA DI CAPTAIN BEEFHEART E JEFF BUCKLEY.
Attenzione, però, questa non è né una biografia di Jeff né un libro che parla di me. Quella che voglio raccontare è la storia – vera e vista dall’interno –
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di come io, collaboratore storico di Jeff e coautore di due dei suoi clamorosi
capolavori, l’ho conosciuto, e di come ho lavorato con lui.
Negli anni sono usciti tanti documentari e biografie di Jeff, tutti zeppi di
errori riguardo alla mia relazione con lui: il mio intento è quello di mettere
una volta per tutte i puntini sulle i e di fare un resoconto affettuoso ma senza
censure né ricami di come ci siamo prima alleati, poi separati con dolore, e
infine ritrovati in un ultimo dolceamaro incontro.
Sarà anche l’occasione per dare uno sguardo approfondito al processo creativo che ha dato vita alle nostre immortali Grace e Mojo Pin: vedremo da una
prospettiva inedita che cosa c’è davvero dentro quelle canzoni, che cosa le
rende speciali. Nessuno conosce questa storia meglio di me.
E sarà una buona occasione per aggiungere alle cronache qualche dettaglio, per
correggere qualche fraintendimento legato alla nostra collaborazione, e rendere
omaggio a un ex compagno e collaboratore straordinario, che non faccio fatica
ad annoverare tra i musicisti più bravi e talentuosi con cui abbia mai suonato.
Come tanti racconti delle origini, questa storia inizia in primavera…
In uno splendente giorno di fine marzo del 1991 ricevetti da Hal Willner –
produttore discografico, impresario e hipster a tutto campo – la telefonata che
mi avrebbe cambiato la vita. Hal abitava a Manhattan, dove anch’io da tredici anni mi ero stabilito anch’io, ed era un vecchio amico: un tipo intraprendente
e creativo, la tipica sensibilità ebrea per lo show business aggiornata e tirata a
lucido per l’era postmoderna. Uno che, nel mondo della musica pop d’avanguardia che bazzicavo, conosceva tutti.
Lavorando per Saturday Night Live come responsabile dei sottofondi musicali degli sketch aveva stretto legami molto forti con i musicisti che partecipavano al programma. Inoltre era stato il pioniere dei concerti e degli album-tributo collettivi, la mente dietro una serie di progetti applauditissimi che rendevano omaggio agli artisti più disparati, da Nino Rota a Thelonious Monk.
Hal mi chiamava per invitarmi a un concerto-tributo dedicato alla musica
del compianto Tim Buckley. Voleva intitolarlo Greetings from Tim Buckley,
‘Saluti da Tim Buckley’. Come dire: un messaggio dall’aldilà…
«Se accetti, Gary, farai compagnia alla crema del giro downtown… farete
cover pescate dal repertorio di Tim Buckley, ognuno nel suo stile… a te Tim
Buckley piace, vero? Davo per scontato che conoscessi la sua musica».
Tim Buckley, l’adone riccioluto dalla voce sublime, era sempre stato una passione particolare per me, un cantautore dal talento poetico e musicale immenso
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che purtroppo, nella sua breve vita, non aveva mai ottenuto i riconoscimenti
che meritava. Probabilmente il grande pubblico sentì parlare di lui soltanto grazie alla cover della sua Morning Glory incisa dai Blood Sweat & Tears nel loro
primo album; soltanto dopo la sua morte il culto di Buckley si andò rafforzando sempre di più, soprattutto nel Regno Unito.
Ma le scoperte non finivano qui. Amavo la musica di Tim sin dai tempi
delle superiori, quando GOODBYE AND HELLO, il suo secondo album su Elektra, una suite inebriante di canzoni jazz/rock/folk con arrangiamenti così raffinati da rivaleggiare con il SGT. PEPPER’S dei Beatles, mi toccava nel profondo,
specialmente quando lo ascoltavo in camera mia a notte fonda, nel sobborgo
newyorkese di Syracuse, e sognavo il mondo sconfinato fuori dalla finestra…
All’università di Yale, nei primi anni Settanta, infrangevo spesso le regole della mia trasmissione radiofonica The Sounds from England e proponevo pezzi
di Tim Buckley e Captain Beefheart, due titani della musica americana la cui
influenza epocale ha finito per marchiare in maniera indelebile la mia carriera
nel mondo della musica.
La delirante Gipsy Woman di Tim, un chant d’amour estatico, frenetico, era
tra le mie preferite in assoluto, non soltanto per la sua bellezza infiammata,
ma anche perché occupava un lato intero del disco: Buckley sapeva osare e
non aveva paura degli esperimenti.
E oltre a canzoni splendide, Tim aveva dalla sua anche una voce acuta, urlante, incredibile nella potenza come nella fragilità, capace di mettere i brividi
compiendo evoluzioni da equilibrista sopra le onde agitate di una musica fluente e misteriosa.
Prese le mosse dalla tradizione folk-rock losangelina, ma di album in album sfoderò opere sempre più complesse, elaborate, semplicemente “fuori”.
Gli splendidi affreschi sonori sperimentali di dischi come LORCA e STARSAILOR
aprirono nuove strade, ma lasciarono perplessa buona parte del suo pubblico,
prima che Buckley tornasse alle radici rhythm and blues e incidesse altri tre
album, a tratti ancora notevoli ma lontanissimi dalle vette di genialità degli
anni precedenti.
Nel 1975, a Los Angeles, dopo un lungo periodo di vendite sempre più
misere e di scarsa popolarità, con la prospettiva di una lunga e lenta discesa
nell’anonimato, Tim Buckley morì per overdose.
La mia risposta a Willner fu entusiasta, gli dissi che sì, ero un grande fan di
Tim Buckley, anzi, ricordavo esattamente dove fossi quando ebbi la notizia
che uno dei miei eroi musicali era morto.
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Era la primavera del 1974, ero appena arrivato a Taipei a leccarmi le ferite
dopo la laurea e la conclusione di una storia d’amore con una donna di
Manhattan molto più grande di me (ma questa è un’altra vicenda).
Ero laggiù a cominciare una vita nuova, lavoravo per la ditta di import/export di mio padre e mi ero appena trasferito in un appartamento nel centro di
Taipei. Non era ancora granché arredato, ma una radio c’era già, quasi sempre
sintonizzata sull’AFNT, la stazione della forze armate che intratteneva i soldati
della vicina base militare americana. Il primissimo mattino dopo il mio arrivo
mi alzai svegliato dal canto dei galletti nel cortile sotto casa, accesi la radio e sentii il notiziario: «Il cantautore Tim Buckley, figura di culto degli anni Sessanta, è
stato trovato morto oggi a Los Angeles, ucciso, pare, da un’overdose…».
Che fitta di dolore: cavolo, Tim Buckley no! Non dimenticherò mai quel
momento, perché la sua musica mi aveva davvero influenzato. Fu davvero un
passaggio importante, per me: un artista e musicista che tanto avevo amato e
rispettato, morto per overdose a Los Angeles! Tutto quel talento, che cosa triste, e che spreco.
Presi la chitarra e suonai un blues malinconico per Tim. Qualche minuto dopo, la musica fu interrotta da qualcuno che bussava alla porta.
Si chiamava Hank Frisch, veniva da Shaker Heights, Cleveland. Abitava
nel mio stesso palazzo e si era incuriosito sentendo la chitarra dal suo appartamento. Come me, era venuto in estremo oriente per lavorare con la ditta di
import/export di suo padre. Gli piaceva come suonavo, e lui suonava l’armonica… mi andava di improvvisare qualcosa con lui?
Dalle ceneri della morte di Tim Buckley era nata una nuova amicizia musicale.
Io e Hank formammo un duo blues, e poi una band, e quello fu solo l’inizio di una serie di avventure e di concerti a Hong Kong, alla televisione di
Taiwan, nei locali e negli studi di registrazione di Taipei, e alle feste di laurea
dell’Università Statale di Taiwan.
«Al tributo ho invitato Richard Hell, G.E. Smith, Syd Straw, Barry Reynolds… vediamo, chi altro? Shelley Hirsch, Greg Cohen, Yuval Gabay, Robert
Quine, Elliot Sharp e Anthony Coleman…».
La voce di Willner mi risvegliò prontamente dal sogno a occhi aperti taiwanese.
«Il concerto si terrà nella chiesa di St. Ann, a Brooklyn, è uno spazio meraviglioso… ci ho appena allestito uno spettacolo con Marianne Faithfull… ah,
a proposito, ci ha contattati Jeff, il figlio di Tim Buckley».
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«Tim Buckley aveva un figlio?». Che novità. «Non lo sapevo…».
«Neanche noi. Ce ne ha parlato Herbie Cohen, il vecchio manager di Tim,
l’abbiamo dovuto contattare per i diritti delle canzoni… pare che il ragazzo
voglia venire a New York per partecipare al concerto e rendere omaggio al padre. E sono convinto che sarebbe ottimo se con lui ci suonassi tu».
Avevo già una collaboratrice ufficiale, una cantante a cui ero legato forzatamente da un paio d’anni per via di un contratto firmato con la Columbia Records. Non facevamo che bisticciare per decidere da chi farci produrre, che
nome dare al gruppo, e così via. E non avevamo ancora registrato neanche
una nota. Tra noi le cose non andavano esattamente a gonfie vele.
«Certo», dissi come se niente fosse, «vedrò cosa posso fare, con piacere».
È da momenti come questo che nascono le grandi svolte della vita.
Nell’istante in cui Hal Willner mi proponeva la sua idea avevo già 38 anni:
non certo un ragazzino, nel mare di squali del music business. Eppure, negli
ultimi tempi ero riuscito a fare quello che, per un musicista della mia età, possiamo definire un miracolo. Da umile redattore di testi pubblicitari per il reparto marketing della Cbs ero riuscito a strappare un contratto da musicista
alla Columbia Records.
Ero uscito dalle ombre del cosiddetto “Dipartimento Servizi Creativi” della Cbs, dove per tredici lunghi anni avevo sfornato slogan e campagne per
chiunque, da Barbra Streisand a Bruce Springsteen ai Clash, e avevo conquistato un posto alla Columbia grazie a una manciata di demo molto apprezzati e a una serie di concerti con il mio gruppo, i Gods and Monsters.
Nei tanti anni di lavoro alla Cbs, nonostante, o forse alla faccia del mio impiego a tempo pieno, mi ero fatto una strepitosa reputazione da musicista, da
“chitarrista preferito dai chitarristi”, dopo aver suonato e registrato, ogni volta
che potevo, con il genio visionario avant-rock Captain Beefheart.
Suonavo la chitarra da quando avevo nove anni, dal giorno in cui mio padre, di punto in bianco, mi consigliò di dedicarmi a uno strumento: «Che ne
dici della chitarra?». Buona idea, per le mie inconsapevoli orecchie di adolescente! Cominciai a prendere lezioni su un’acustica da quattro soldi presa a
noleggio, con le corde così alte sul manico che per esercitarmi mi facevo sanguinare le dita. Andai avanti per un mese, dopodiché fui felice di mollare le
lezioni e la chitarra, finché i miei non tornarono da un viaggio in Messico con
una chitarra classica con le corde in nylon, molto più facile da suonare. E la musica diventò presto il mio passatempo preferito.
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Diventai un chitarrista competente piuttosto in fretta, all’inizio mi dedicai
alla musica cosiddetta “folk” di quegli anni, ma ben presto le mie orecchie furono travolte dal rock and roll.
Già da prima di andare a scuola ero abituato ad ascoltare la radio per cinque o
sei ore al giorno, dondolavo senza sosta al ritmo dei successi del momento su una
sedia nel seminterrato di casa, telefonavo alla stazione locale per fare una richiesta, e imparavo a memoria tutti i pezzi in classifica. Il mio sogno era di imparare
l’assolo scandito e metallico di Dance With The Guitar Man di Duane Eddy, la canzone che dava il titolo al primo disco che io abbia mai comprato. Dopo aver sentito quel pezzo, capii cosa volevo fare nella vita: essere un guitar man!
Formai il mio primo “complesso” (all’epoca li chiamavamo così) alle elementari, alla festa delle scuole medie suonai con una chitarra elettrica presa
in prestito e collegata alla grossa radio Fm di mio padre, il mio primo amplificatore. Mi piacevano i Beach Boys, i Ventures, e ovviamente i Beatles, dall’istante in cui misero piede sul suolo americano, pochi mesi prima dell’attentato a JFK.
Quando la British Invasion conquistò le radio mi presi una fissa per i suoni
di chitarra grezzi dei Rolling Stones e, più tardi, degli Yardbirds. Ricordo di
esserci rimasto secco, la prima volta che sentii il suono di sirena della Vox Phantom di Brian Jones scandire il riff ipnotico di The Last Time degli Stones. Poi
il mio eroe divenne Jeff Beck. E dopo di lui Peter Green, Syd Barret e tra gli
americani Danny Kalb, Lou Reed, Elliot Ingber e Mike Bloomfield. Quanti
musicisti strepitosi sulla scena, che ogni giorno riscrivevano le regole… e io
sognavo di diventare come loro. Di entrare tra i giusti, gli eletti del rock. Dettare legge con il mio stile spietato, e comporre inni capaci di scuotere il mondo intero, come Statisfaction, oppure Revolution dei Beatles: ecco a cosa aspiravo, nei miei sogni di adolescente.
Così misi in piedi parecchi gruppi per suonare ai party e ai rinfreschi scolastici, e finii per esibirmi alle feste universitarie di Syracuse nei tardi e psichedelici anni Sessanta: la richiesta immancabile, all’epoca, erano i venti minuti
di In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly. Ricordo ancora quella volta in cui
dovetti attraversare le pozzanghere di vomito che coprivano il pavimento, nella sede di una confraternita, per andare a riscuotere il cachet.
Mi tenni allenato anche negli anni dell’università, studiavo letteratura inglese a Yale e suonavo con qualche band scolastica, persino con la famigerata
Yale Marching Band: mi piazzavano a bordocampo con la chitarra, il wah
wah e un amplificatore Marshall da 200 watt, io ululavo la colonna sonora
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di Shaft mentre la banda gozzovigliava insolente sul campo e scandalizzava i
laureati.
La mia prima esperienza professionale seria, però, fu da solista di chitarra con
la Yale Symphony Orchestra in occasione della prima europea di Mass di Leonard Bernstein, una composizione musicale e teatrale per orchestra, cantanti,
ballerini, letteralmente un centinaio di elementi, diretta da John Mauceri.
L’opera era stata commissionata per l’inaugurazione del Kennedy Center di
Washington DC, e Bernstein in persona – lo stesso Bernstein che era il mio eroe
musicale assoluto, avevo imparato tantissimo da lui, ero cresciuto con i suoi
Young People’s Concerts televisivi trasmessi dalla Cbs negli anni Sessanta – venne a fare da supervisore alla prima, alla Konzerthaus di Vienna. Il brano cominciava con la mia chitarra che, in totale solitudine, intonava un accordo
squillante e celestiale, prima che cominciassero i cantanti, e durante lo spettacolo avevo altri momenti tutti per me, in particolare una lunga improvvisazione
rock-blues psichedelica su un tappeto orchestrale decadente, spigoloso, da fine del mondo. Dopo il concerto, quando mi presentarono Lenny alla festa
presso l’ambasciata americana, ricevetti da lui i primi grandi complimenti entusiasti per come suonavo quando mi disse: «Caspita se ululavi!».
In quel momento la mia più grande ambizione era quella di entrare a far parte di quello che consideravo il miglior gruppo di avant-rock al mondo: la Magic Band di Captain Beefheart,
La vidi debuttare a New York all’inizio del 1971, in un piccolo locale uptown,
e fu il concerto che mi cambiò la vita. Quella sera giurai a me stesso che se
mai fossi riuscito a fare qualcosa con la musica, avrei suonato con quel gruppo. Vedere Don Van Vliet (alias Captain Beefheart) in azione insieme al suo
complesso di musicisti mutanti alieni dai nomi esotici – come Winged Eel Fingerling e Zoot Horn Rollo – mi spronò ad andare dritto verso il centro dell’uragano. Divenne la mia ossessione, il desiderio che riuscii a esaudire quando,
un anno dopo, conobbi Don a Yale e diventammo molto amici.
Alla fine realizzai la mia più grande ambizione, e fui invitato a partecipare
come ospite a DOC AT THE RADAR STATION, il disco che Beefheart incise nel 1980
per la Virgin. Con la mia performance nell’infido e complicato strumentale
per chitarra Flavor Bud Living mi guadagnai un posto al sole nel mondo della
musica, e le parole d’elogio di parecchie riviste americane e inglesi. Ingannai persino il grande critico Lester Bangs, che dopo aver sentito il disco mi chiese:
«Quale parte suoni in questo pezzo, Gary, quella bassa o quella alta?». «Lester»,
risposi, «le suono tutte io, dal vivo, in diretta e senza sovraincisioni».
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Cominciai ad assentarmi dal lavoro per dedicarmi ai dischi di Beefheart e diventai un vero e proprio drogato di concerti, viaggiando in Europa e negli
Stati Uniti; seguivo la Magic Band e uscivo a suonare alcuni pezzi con loro.
Furono gli ultimi concerti di Beefheart, in Gran Bretagna, in Europa e negli
Stati Uniti, tra la fine del 1980 e l’inizio dell’81.
Fui abbastanza saggio da non licenziarmi, dal momento che le prospettive
finanziarie del gruppo erano sempre pericolanti; suonavamo solo ed esclusivamente blues dada e Don, lo sapevano tutti, odiava andare in tournée. Un anno dopo, però, entrai nella Magic Band in pianta stabile quando Beefheart registrò ICE CREAM FOR CROW, che fu il suo ultimo album.
Ancora una volta, la critica si accorse di come suonavo, e il mio assolo-tour
de force Evening Bell – mi ci vollero dei mesi per impararlo e padroneggiarlo,
prima di entrare in studio di registrazione – ricevette grandi elogi da «Rolling
Stone», «Musician Magazine» ed «Esquire», che nella recensione scriveva: «A
quanto sembra, Gary Lucas della Magic Band si è fatto crescere qualche dito
in più per arrivare in fondo a un pezzo del genere».
I miei capi alla Cbs tolleravano benevoli la mia carriera parallela con Captain Beefheart, e mi lasciavano prendere tutti i periodi di aspettativa che volevo, per registrare o andare in tournée, senza dover rinunciare al mio posto da
pubblicitario. Anzi, il mio reparto era fiero di avere tra i suoi membri qualcuno di tanto motivato e creativo. In più, la musica di Beefheart era artistica,
non certo il tipo di prodotto che toglieva quote di mercato ai campioni di
vendite della Cbs. Agli occhi dei miei superiori la band era più che altro un passatempo, e tutto sommato avevano ragione: suonando con Don non ho mai
fatto i soldi veri, e d’altro canto non l’ho mai fatto per il vile denaro. L’ho fatto perché ci credevo ciecamente e perché sapevo quanto fosse importante per
il mondo e per la storia. E anche perché suonare con un tipo come Don era
una dimostrazione di talento e bravura eccezionale: la sua musica era difficile
e impegnativa quanto la classica contemporanea, alla quale a volte somigliava.
E siccome il mio lavoro per la Cbs era impeccabile – ci ho vinto anche dei
premi, e non ho mai consegnato niente in ritardo – chiudevano un occhio.
In poche parole, fintanto che bazzicavo il rock d’avanguardia “privo di potenziale commerciale” (come diceva Frank Zappa, l’amichetto di Beefheart), e
questo non mi impediva di sfornare slogan a presa immediata per loro, avevo
il permesso non soltanto di suonare con Beefheart, ma persino di registrare
per altre etichette (il primo disco di Beefheart su cui suonai uscì per la Virgin/Atlantic, concorrente diretta della Cbs).
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In questo modo sopravvissi per tredici anni alla Cbs, e continuai a lavorare
in una specie di paradiso per tonti, senza sbocchi professionali di sorta. Qualcuno l’ha chiamato “una bara di velluto”.
Lavorare in un ambiente stressante come quello del Black Rock (il famoso
palazzo di granito sulla West 52th Street, disegnato da Eero Saarinen, che avevo
soprannominato “La morte nera”) non era un problema, grazie alle mie auto-medicazioni quotidiane a base di erba fumata nell’androne delle scale o in strada
davanti al palazzo, che mi consentivano di schivare i colpi di fionda e le frecce della politica aziendale che affrontavo, comunque, con distacco e disinteresse. Non
ho mai desiderato una carriera da manager del settore marketing.
Inventare e scrivere pubblicità per gruppi rock commerciali che consideravo perlopiù inutili mi veniva facile, era un gioco da ragazzi. Ero una talpa ribelle nell’azienda, un aggiornamento di quello che negli anni Sessanta era definito “l’hippie della casa”. Visto che ormai erano i tardi Settanta e i primi Ottanta, ero più che altro il “punk hipster” della casa, e riuscivo a far passare sotto il naso dei miei capi vere e proprie baggianate come «Ti ci stanno trenta
centimetri di Judas Priest?» per il loro album BRITISH STEEL.
E dietro la porta chiusa del mio cubicolo, quando non scrivevo pubblicità –
facevo il lavoro di un giorno in meno di un’ora – mi dedicavo anima e corpo
alla micro-gestione della carriera di Captain Beefheart. Certo, poter usufruire
di chiamate intercontinentali illimitate grazie alla linea aziendale facilitava le
cose. Passavo almeno un’ora al giorno, tutti i giorni, al telefono con Beefheart a
parlare di quel che capitava. Era un conversatore affascinante ma esigente, e
una volta ottenuta la tua attenzione ti tratteneva al telefono per secoli.
Nel mio ufficio avevo uno stereo e un pianoforte scordato, un pezzo d’arredo ereditato dal mio predecessore, nonché una vista sulla 6th Avenue e sulla
52nd Street e una carta di credito aziendale per i “pranzi di lavoro” e per comprare dischi, e in seguito Cd; cioè “i prodotti della concorrenza” da studiare
per fare ricerca!
Ma quando nel 1984, dopo una dozzina di dischi acclamati dalla critica
ma quasi ignorati dal pubblico, Captain Beefheart chiuse bottega, convinto che
il music business fosse un vicolo cieco, e impaziente di realizzare il sogno di diventare pittore (tra l’altro, all’inizio degli anni Ottanta fui io a presentarlo a
Julian Schnabel e Mary Boone, e quello fu il suo trampolino di lancio nel mondo delle arti figurative), persi il mio principale puntello creativo e compagno
di telefonate, le cui quotidiane conversazioni rococò rendevano un po’ meno
noioso e faticoso sgobbare per il reparto marketing della Cbs.
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La mia relazione con Don si sfasciò pochi anni dopo la fine del mio matrimonio con Ling Ling, una grintosa ed energica cantonese di Singapore che avevo conosciuto e corteggiato a Taipei. Un ufficiale dell’American Foreign Service ci aveva consigliato di andarcene dall’isola, per il nostro bene, dopo che
in un locale chiamato The Scarecrow, dove mi ero appena esibito con il mio
gruppo neo-punk The O-Bay-Gone Bad era scoppiata una rissa violenta. Sposai Ling a San Francisco e in seguito ci trasferimmo a Est.
In cinque lunghi anni di convivenza a New York, però, finimmo per allontanarci l’uno dall’altra. Nel 1980 Ling collaborò con me alla gestione di
Beefheart, ma nel giro di un anno eravamo già in piena rissa, tanto che a metà
del 1981 ci lasciammo definitivamente.
Così, eccomi abbandonato alla Cbs, solo e privo dei due grandi amori della mia vita, Don e Ling, costretto a decidere cosa volessi davvero, a quel punto, dalla vita. La scelta, inevitabilmente, cadde sulla musica che desideravo registrare e suonare.
La febbre da concerto mi era venuta nel 1980, dopo che andammo in Europa con la band. Nel 1981 Don decise di farla finita con le tournée, e questa
per me fu davvero una rottura di scatole. A quel punto, Don e la promozione
di tutto quello che riguardava Beefheart erano diventati il centro intorno a
cui girava tutta la mia vita, sul serio; il lavoro alla Cbs mi serviva giusto per
pagarmi l’affitto, era facile ma tutt’altro che gratificante. Per cinque anni, lavorando con Don, mi ero immolato alla missione di promuovere il suo lavoro, mosso dal rammarico di non vederlo al posto d’onore che la storia gli doveva, mentre i punk e i giovani leoni della new wave che si erano abbeverati
alla sua fonte lo stavano letteralmente derubando, strappando un po’ di fama
con versioni commerciali della sua musica geniale.
Sì, ero stato io l’autore del famoso slogan per i Clash, «L’unico gruppo che
conta», e nel 1978 ci credevo davvero. Ma nel 1980, quando entrai nella Magic Band, quello slogan mi metteva in imbarazzo: ehi, siamo NOI l’unico gruppo che conta. Il resto sono cazzate!
Adesso, però, per Don esisteva soltanto la pittura. E a me toccava trovare
un nuovo centro di gravità musicale, cosa non facile dopo aver suonato con
quello che consideravo il gruppo avant-rock numero uno di tutti i tempi.
Valutai le proposte di qualche band newyorkese, ma nessuna sembrava poter competere, quanto a prestigio ed esaltazione: passare dalla Magic Band a
gente come i cow-punk Ned Sublette mi sembrava una vera e propria retrocessione.
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Il reparto musicale della Cbs mi affidò qualche lavoro come produttore:
misi mano agli album dei sassofonisti Peter Gordon e Tim Berne, ma nessuno
dei due dischi, nonostante il successo di critica, vendette abbastanza da convincere l’etichetta a propormi nuove collaborazioni, specie dopo che FULTON
STREET MAU, l’album di Tim uscito per la Columbia, fece fiasco.
A metà degli anni Ottanta collaborai con il brillante produttore dub inglese
Adrian Sherwood, e poi con il cantautore americano Matthew Sweet e i Woodentops, cocchi dell’indie rock britannico. Collaborazioni che non fecero altro
che stimolare il mio desiderio di tornare sotto i riflettori come musicista.
Come freelance feci da talent scout per varie etichette indipendenti, come
la Rough Trade di Londra e la Upside di New York, trovai un contratto al cane sciolto/violoncellista/visionario Arthur Russell e portai negli Stati Uniti
Mark Stewart, l’ex futurista dei Pop Group, ma niente di tutto questo era gratificante come esibirmi dal vivo, nossignore.
Durante le sessioni di registrazione con i Woodentops, che mi concessero totale libertà creativa nel collaborare al loro album WOODENFOOT COPS ON THE
HIGHWAY, ricordo di aver pensato – mentre la musica che usciva dalle cuffie
mi avvolgeva e io ci danzavo con le mani sulla chitarra –: «Ecco, dovrebbe essere sempre così! Io sono nato per fare questo, è troppo divertente, è quello
che dovrei fare nella vita!».
A quel punto, il sogno d’infanzia di diventare un musicista a tempo pieno
aveva di nuovo preso possesso della mia mente. Non potevo più reprimerlo. Ma
qual era il modo migliore di realizzarlo?
Non avevo abbastanza fiducia in me stesso – e troppi pochi risparmi – per
mollare il lavoro fisso e lo stipendio regolare, l’assicurazione sanitaria e i privilegi
gentilmente concessi dall’azienda, per gettarmi nella mischia. Da anni mi trattenevo a bordo campo a forza di contorsioni psicologiche. Sono Gemelli ascendente Gemelli, ho sempre patito un’assurda alternanza tra fiducia assoluta, quasi
arrogante nel mio talento, e cali di autostima repentini e intermittenti. Davanti a
ogni scelta creativa azzardata finivo per torturarmi con i pensieri negativi: «Ma
cos’avrò mai da dire come autore, compositore o chitarrista, se in giro c’è già così
tanta gente che lo fa così bene?». Ma facciamoci un altro tiro dal bong!
Ad avere la meglio, in quegli anni, era il lato timidissimo della mia personalità – lato che ho sempre avuto – e perciò mi accontentavo di spendere le
credenziali sempre più esigue di grande ex-chitarrista di un gruppo leggendario. Ma non mi rendevo conto che in un ambiente e in un mondo così volu23
bili, dove la soglia d’attenzione media del pubblico equivale a quella di una mosca, non devi smettere mai, mai e poi mai di dimostrare quanto vali…
Avevo suonato con uno come Beefheart ed esaudito un sogno di gioventù:
in teoria c’era di che soddisfare il mio narcisismo per sempre. E invece no,
non nel mio caso. Capii che la reputazione da “Chitarrista di Beefheart” non
poteva durare, che da sola non poteva bastare a placare il bisogno di lasciare
un segno.
La mia sorte cambiò radicalmente nel 1986, quando a New York aprì la
Knitting Factory.
Fondato da una coppia di hippie del Wisconsin, appassionati di musica e imprenditori capaci, in un paio d’anni il piccolo locale di Houston Street riuscì
– un po’ per caso, un po’ grazie alla pura e semplice testardaggine dei proprietari – a ritagliarsi un ruolo unico come crocevia e palcoscenico più fico di tutto l’universo conosciuto per il rock, il jazz e la musica sperimentali più innovativi e d’avanguardia.
Attorno alla Knitting Factory si concentrò in fretta un giro parecchio importante, alimentato da protagonisti come il sassofonista e compositore downtown John Zorn. In un batter d’occhio o poco più, quel piccolo loft soffocante divenne una mecca per gli amanti della musica avventurosa di tutto il mondo. Ci andai per la prima volta nel 1987 a sentire il mio protetto Tim Berne.
Come ho già detto, gli avevo prodotto un disco molto acclamato dalla critica,
ma finì per essere il mio ultimo incarico da produttore per conto della Columbia Records: non vendette granché, e in questo ebbe lo stesso destino del
precedente disco prodotto dal sottoscritto, l’album di Peter Gordon pubblicato dalla Fm, sottoetichetta della Masterworks, divisione di musica classica
della Cbs.
Dentro il locale stretto e lungo c’era un palchetto per i musicisti, dietro il
quale una finestra si affacciava su Houston Street. E all’improvviso, nella luce
pallida del crepuscolo, mentre guardavo Tim e i suoi ragazzi suonare musica incendiaria per una piccola folla di hipster e arbitri del gusto, mi immaginai lì,
su quello stesso palco a suonare… che cosa? E con chi?
Non avevo un gruppo, e neanche un vero e proprio repertorio. Soltanto
l’ambizione ardente di provarci… prima che fosse troppo tardi. Avevo già 35
anni, forse già un po’ troppi per pensare a mettere in piedi da zero una carriera da musicista. Ma ero deciso a farlo, e questo locale sembrava il trampolino
di lancio perfetto.
Nel 1988, tre episodi mi convinsero a provarci.
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Durante una session di registrazioni che avevo organizzato per Arthur
Russel, violoncellista e compositore brillante e fieramente anticonformista,
Arthur mi prese da parte – avevamo appena cominciato a lavorare, avevo a tracolla la mia vecchia Stratocaster nera del ’64, la stessa che suonavo con
Beefheart – e fece un’osservazione molto sagace con quella sua voce morbida, esile, ipnotica: «Gary, sai una cosa? Ti ho tenuto d’occhio. E tu sei felice,
felicissimo, soltanto quando hai la chitarra in mano. Secondo me dovresti
farlo a tempo pieno».
Con il senno di poi, ovviamente, credo che avesse ragione da vendere, ed è
per questo che il primo album dei miei Gods and Monsters è dedicato ad
Arthur.
A confermare la sua opinione giunse all’incirca nello stesso periodo il mio
amico Howard Thompson, un talent scout inglese che lavorava per la Columbia e, in seguito per la Elektra. Passavo spesso a trovare Howard nel suo
ufficio, gli portavo demo di artisti sconosciuti in cui credevo, musicisti geniali che ancora dovevano sbocciare e che reputavo degni del suo patrocinio.
Howard aveva gusti eccellenti, aveva messo sotto contratto i 10.000 Maniacs,
gli Psychedelic Furs e altri innovatori campioni di vendite. Da qualche tempo
gli facevo la corte, lo imploravo di assumermi come scout alle sue dipendenze, perché non sopportavo più il mio lavoro.
Dopo una delle nostre sessioni d’ascolto, Howard mi guardò, fece un sospiro e disse: «Gary, tu sei un grande musicista, non un pubblicitario! E non hai
neanche la stoffa dello scout. Dovresti stare sul palco. A suonare! Forza!».
Dulcis in fundo, al concerto di Tim Berne ero andato in compagnia di una
ragazza coreano-americana di cui ero diventato molto amico, una dipendente
della Cbs Masterworks parecchio scaltra, parecchio intelligente e parecchio
attraente. La ragazza si guardò un po’ in giro, osservò il locale, e in sincronia
totale con me trasformò i pensieri che ancora non avevo espresso in parole:
«Che fico questo posto! Dovresti organizzarci un TUO concerto!».
Si chiamava Grace…
Ormai erano nell’aria, la vibrazione e la sensazione che fosse venuto il momento di agire, di spillare l’energia folle del mio potenziale musicale inespresso, prima che la porta semiaperta si chiudesse definitivamente e mi ritrovassi
sepolto per sempre dentro il Black Rock. Arthur, Howard e Grace erano stati
abbastanza sensibili da accorgersene, e tutti e tre mi incoraggiavano a spiccare
il salto, Dio li benedica. Quella di Grace, soprattutto, fu l’ultima spinta che
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