numero 11 - Finzioni Magazine
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n.11 2 The Godfathers Il concetto di scarto in Brizzi, Sarasso e Wu Ming. Dell’abbassamento progressivo del sospiro di sollievo. di JACOPO CIRILLO C i stiamo avvicinando al numero 12 di Finzioni che, simbolicamente, (di) mostra un anno in cui ci siamo fatti un mazzo così ma ci siamo voluti tanto bene. Per questo i Godfather sono tre (otto se contate i Wu Ming come singoli e non come collettivo) e l’articolo è mooolto più lungo del solito. Questi tre padrini sono accomunati da un concetto che, legandoli, ne articola le differenze, soprattutto nei confronti di quel lettore medio che, sì, ha fatto il liceo ma si ricorda poco o nulla della storia. Questo concetto è lo scarto, inteso non in quanto rifiuto o spazzatura ma come scostamento. Tutti e tre (o otto) gli autori raccontano una possibile deviazione dalla Storia, tutti e tre (o otto) lo fanno in modo diverso e complementare e alcune delle loro opere, spesso le più significative, messe insieme diventano quasi un compendio del concetto di scarto storico, in tutte le sue possibili (yaaawn) occorrenze. I Wu Ming con Q (Luther Blissett), Altai e Manituana, raccontano una particolare deviazione della storia: un personaggio vive un determinato periodo e ne diventa protagonista, o comunque attore importante. Nella percezione del lettore, la verità e la dimostrabilità storiografica di queste narrazioni è irrilevante, sia per l’abilita con cui viene costruita la trama, sia per la distanza temporale e culturale da quegli avvenimenti. La Istanbul del 1550 e quella di 15 anni dopo, o i nativi americani del 1775 sono storie e ambientazioni che il lettore medio non conosce e, soprattutto, non è tenuto a conoscere, dunque senza problemi si abbandona alla narrazione, problematizzando poco o nulla la verità dei fatti, l’effettivo scarto dalla realtà e, di converso, la sua ignoranza in materia. Sarasso e Brizzi, invece, raccontano periodi che noi lettori italiani sappiamo o siamo tenuti a sapere: la seconda guerra mondiale, gli anni ’60, gli anni ’70 e così via. Conoscere la propria storia recente è un requisito fondamentale e richiesto dalla società (e dai programmi ministeriali), dunque chi non sa problematizza la sua ignoranza vergognandosene o, più semplicemente, snobbando colpevolmente l’imbarazzo. Simone Sarasso, nei primi due libri della sua "Trilogia sporca d’Italia", Confine di Stato e Settanta, parte dalle conoscenze (che dovrebbero essere) condivise riguardo ai periodi più bui del dopoguerra italiano che sviluppa ipotizzando snodi 3 4 narrativi in realtà sconosciuti. Prosaicamente, tappa i buchi della storia con il romanzo, scrivendo quello che plausibilmente potrebbe essere successo nei grandi misteri d’Italia. Qui lo scarto è possibile ma non univoco: le cose potrebbero essere andate così oppure no, lo scollamento storico è indeterminato e indeterminabile. Allora il nostro lettore poco informato può comunque tirare un sospiro di sollievo: non è a conoscenza della recente storia d’Italia a un livello socialmente accettabile ma, comunque, il libro lo dispensa da questa colpa ammettendo, tramite appunto lo scarto, un livello di ignoranza costitutiva. Nessuno (o quasi) sa come sia andata davvero; perché dovrei saperlo io? Enrico Brizzi, invece, lo frega. Nei suoi L’inattesa piega degli eventi e La nostra guerra usa il concetto di scarto attraverso l’ucronia: come sarebbe andata se. Come sarebbe andata se Mussolini non si fosse alleato con la Germania bensì con l’Inghilterra e l’America? Se l’Italia avesse vinto la guerra, se le colonie africane fossero ancora nostre? Qui, il sospiro di sollievo del lettore si tramuta in fiato corto: per capire appieno lo scarto bisogna sapere com’è andata veramente, altrimenti non si coglie lo spirito del libro. Brizzi usa uno stile quasi verista nella descrizione dei fatti e degli ambienti, usando un rigore storiografico su ciò che non è mai successo. Il lettore è con le spalle al muro: i neo laureati che non si ricordano le ore di storia liceali non possono non sentirsi a disagio nel leggere i libri in questione che, per dire il falso, assumono la consapevolezza diffusa del vero. Due linee parallele: Wu Ming-Sarasso-Brizzi da una parte e il progressivo abbassamento del sospiro di sollievo del lettore scarso in storia dall’altra. Prima viene giustificato, poi dispensato, infine condannato. E come tutte le linee parallele non si incontrano mai e, se si incontrano, non si salutano (cit.). Enrico Brizzi - L'inattesa piega degli eventi, Baldini Castoldi Dalai 2008, 20 euro Enrico Brizzi - La nostra guerra, Baldini Castoldi Dalai 2009, 20 euro Simone Sarasso - Confine di stato, Marsilio 2007, 18 euro Simone Sarasso - Settanta, Marsilio 2009, 21 euro Luther Blissett - Q, Einaudi 1998, 16 euro Wu Ming - Altai, Einaudi 2009, 20 euro 5 Sommario La citazione del mese Le vite ortogonali Libri (quasi) mai letti Mitomania Corrispondenze notevoli Letterature Involontarie Me lo copre il prezzo? Punizioni Oh, Scena! Donne & Compressori Megaviaggi! 7 8 9 10 11 12 14 15 16 17 18 La lettera che muore Mattoni Biografie edulcorate I ferri del mestiere Metaletterari di carta/1 La posta dei lettori Pillole di Scienza Metaletterari di carta/2 Ghost World Iperboloser Contributi da 19 20 21 22 23 24 26 27 28 29 30 Editoriale Benvenuti a Finzioni numero undici. Numero ricco di pagine e di Godfather, addirittura tre, ma soprattutto ricco di aspettative. una loro interpretazione personale dell'idea di "lettura creativa", faro e guida della nostra linea editoriale. Fumetti, racconti, riflessioni, poesie, recensioni e pensieri sparsi di chi si fa il mazzo da mesi o anni per promuovere un po' di cultura in rete. Sì perché come potete notare dal numerino in copertina, la prossima uscita sarà la numero 12, dunque il vero compleanno di Finzioni che non sembra ma è già un ometto. Lo sappiamo, non vedete l'ora. Nel frattempo leggetevi però questo numero che è un coacervo di sospiri di sollievo, gatti di simonerossi, Lady Gaga, sbottonamenti di Céline, Megaviaggi e strane omonimie con pacchetti di sigarette. Essendo un ometto, dicevamo, invece di chiedere regali a parenti e vecchie nonnine prepara una sorpresa per tutti voi, cioè un numero da collezione: al posto delle solite firme che ormai, diciamolo, hanno un po' stufato, Finzioni numero dodici sarà scritto e arricchito dagli amici che, come noi, hanno una rivista letteraria giovane e indipendente in giro per il web. Tutti i progetti letterari più belli della rete si sono uniti per i festeggiamenti e scriveranno La redazione 6 P arlare in modo complicato, utilizzare parole difficili sta a segnalare che si fa parte dei privilegiati, si viene invitati ai convegni, coperti di onori. Ma bisogna chiedersi se tutti quei discorsi hanno un contenuto, se non si riesce a dire la stessa cosa con parole semplici. È quasi sempre possibile. Noam Chomsky (non il gatto di simonerossi) La citazione del mese Nicola Lagioia - Riportando tutto a casa di JACOPO CIRILLO E h no, caro Noam. Tu così la fai troppo facile. Certo, usare paroloni, complicate metafore o allegorie, costruzioni inedite e significati nascosti di solito danneggia la comprensione del testo e dunque il testo stesso. Pone un filtro opaco tra il lettore e il libro (vero Gesualdo Bufalino?). Altre volte indulgere in parole difficili aiuta a diluire: ho poche cose da dire e inizio a condirle con “ebdomadario” o “proclività”, sfruttando quel sapere comune per cui una parola difficile è anche lunga.Ma, al contrario di quello che state pensando, questo non è il caso. Questo, invece, è il caso di quel geniaccio di Nicola Lagioia che invece di bullarsi o di sbrodolare fa una cosa molto più fine (e si noti il sublime paradosso): ispessisce[1]. Ma cominciamo dall’inizio. A mio parere si arriva a padroneggiare davvero qualcosa quando si riesce a cambiarne (o sovvertirne) l’uso mantenendone lo statuto, un po’ come spiegare il porno attraverso la semiotica. Per uno scrittore, padroneggiare davvero il linguaggio che, come qualcuno sostiene, è un sistema modellizzante primario, dunque che “forma” il mondo, è probabilmente il modo per avvicinarsi il più possibile all’onnipotenza senza incappare in questioni teistiche. La prima critica che viene in mente leggendo Riportando tutto a casa è simile a quelle rivolte a qualsiasi film diretto o prodotto da Judd Apatow: ci sono scritte/ dette solo delle figate. Ma andando avanti nella lettura è tutta un’altra cosa. Non ci sono giochi di parole alla Pinketts o divertissement dal sapore bufalino. O i nemici di Chomsky che fanno i belli. Nicola Lagioia prende frasi e fa iniezioni di senso, ispessimenti di significato. Ne cambia (o sovverte) l’uso mantenendone lo statuto e le rende più grosse, più piene. Più spesse, come se dicesse più volte la stessa cosa in modi diversi, come “la simultaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente[2]”. La frase “ci muovevamo in un clima di chiassosa impunità, salutati benevolmente da muratori e cuoche ed elettricisti che avrebbero corretto quell’ esuberanza a suon di schiaffi se fosse appartenuta ai loro figli”, ma quante cose dice?! Quanto 7 è piena?! Oppure “la forza di un’innocenza ritrovata scavando sul lato sbagliato del tunnel”, o la meravigliosa descrizione della quattordicenne sega in compagnia: “Mimmo dava l’impressione che per lui la copertina di Skorpio fosse davvero quello che era, una miscela di fibre vegetali uniformate in uno stabilimento tipografico che il suo sguardo associava più al cameratismo d’occasione che a un’astratta voluttà, e quindi uno strabiliante caso di corpi cavernosi gonfiati dal semplice bisogno d’amicizia”. Queste non sono “semplici” figate, questa è roba pesante. Ma poi, ‘sto libro, di che parlava? (cit.) [1] O inspessisce; si dice in entrambi i modi, checché ne dica il correttore di Word. [2] Uno dei momenti su tutto il nulla di Carmelo Bene. Non ringrazierò mai abbastanza Edoardo Lucatti per avermelo fatto conoscere. Le vite ortogonali Tyler Durden vs Piggy di JACOPO DONATI P lutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze. realizza ciò che l’innominato protagonista segretamente desidera e gli apre gli occhi. A differenza di quello in cui viveva precedentemente, quello che Tyler gli svela è il mondo in cui può dire la sua, dare alla storia la piega che vuole. Cosa sarebbe stato il protagonista di Fight club senza Tyler? Uno qualunque, un annoiato, una persona che come tante altre campa in attesa di tirare le cuoia. La storia non è tutta rose e fiori, intendiamoci, fin dal primo capitolo si sa che alla fine Tyler Durden terrà la canna di una pistola nella bocca del protagonista, ma senza di lui tutto sarebbe stato piatto. Nessuna emozione, nient’altro che una lunghissima attesa. Tyler Durden è in fin dei conti un Socrate più in forma: ciò che mostra è che chiunque può essere chi vuole dimenticandosi chi è in questo istante; che chiunque può raggiungere lo scopo che vuole prefiggersi. Tyler Durden A differenza di altri personaggi che nei film diventano la brutta copia della versione cartacea, Tyler Durden esce tanto dalla pellicola quanto dalla pagina. Palahniuk, in Fight club, crea il vero superuomo. Forte, audace, sordo a ciò che la gente dice di lui, Tyler Durden è per certi versi ciò che sai dovresti essere ma non ne hai mai avuto la forza. Piggy Piggy è la spalla di Ralph, il protagonista del capolavoro di William Golding intitolato Il Signore delle Mosche. È un bambino grassottello e asmatico, da qui il nome, sul naso un paio di occhiali da cui dipenderà come dall’aria per tutta la storia. Fin dalle prime pagine del romanzo Piggy desidera comandare, ma un po’ per timidezza, un po’ per il suo aspetto goffo, i suoi compagni preferiscono Ralph. Sull’isola in cui si ritrovano, Piggy è il più intelligente e il più razionale, quello che ha subito chiaro quali sono le priorità per sopravvivere. È grazie a lui e ai suoi occhiali che riescono ad accendere il fuoco di segnalazione, e pur avendo i suoi difetti, senza di lui i bambini dell’isola sarebbero stati spacciati in più di un’occasione. Se solo Piggy avesse voluto, se solo si fosse fatto coraggio e avesse affrontato le sue paure, sarebbe stato la voce principale del libro di Golding, avrebbe ritrovato la zia e non sarebbe morto spiaccicato da un enorme masso. La storia dei due personaggi si spiega da sé: se non avrai la forza per farti valere, finirai schiacciato come una mosca, nessuno saprà mai il tuo vero nome e, se non bastasse, verrai ricordato con un soprannome ridicolo. Tyler prende in mano tutta la storia, 8 Libri (quasi) mai letti "Una donna spezzata" di Simone de Beauvoir di Maria Giovanna Ziccardi V erso Simone de Beauvoir ho preso un impegno. Leggerò tutto quello che ha scritto. Sono a metà strada, e di averne fatta già metà un po’ mi dispiace. Prima, in macchina, contemplando il grandioso tramonto in scena sulla catena del Brenta, pensavo con tristezza all’ultima pagina della sua prima autobiografia, che incontrerò stasera per la seconda volta. Pensavo anche che mentre tutto va e veramente nulla può dare certezza di sé, i libri, non c’è niente da fare, restano. Insomma, se anche finisco di leggere Memorie di una ragazza per bene potrò sempre ricominciarlo. Potrò ricominciarlo ogni volta. Sembra stupido ma, a pensarci bene, nella vita non sono tanti i piaceri che puoi ricominciare, rivisitare in modo così gratuito. Del Secondo sesso ho già parlato e il problema è risolto; ma con Simone de Beauvoir ho un altro conto in sospeso. Un libro a cui giro intorno da tre anni. Lo guardo da lontano, lo guardo con diffidenza, lo rinvio, penso che avrò tempo. E poi il tempo lo uso per leggere quello che ho già letto. E allora no, qualcosa non va. Una donna spezzata mette in scena tre storie, tre donne, tre solitudini in un universo di solitudine. È questo quello che non va. So come Simone ascolti, ed è questo che mi spaventa. So che ascolterebbe anche me. So che le sue donne spierebbero e tradirebbero me. E non perché, come loro, ho 50 anni e mi ha tradita perfino mio figlio. Una donna spezzata respira un’aria universale, che è più o meno, prima o poi, l’aria che respiriamo tutti, tutte. E se si legge anche per riconoscersi, in certi casi allora è logico esitare. Non è mai il momento giusto per guardarsi allo specchio. Conosco abbastanza bene cosa passa per la testa a Simone: la vita a due paga il prezzo di un’alienazione. Così andava tra i salotti di Parigi negli anni ’30. Essere donne è diventare mogli. Il resto del mondo si cancella, il bagliore dell’inatteso, del diverso, della possibilità, della vita autentica, si spegne per sempre. Allora, quando quell’universo, che non è il mondo, si strappa e crolla, è il deserto che resta. Resta una donna che si guarda allo specchio senza riconoscersi, sola e persa davanti al suo involucro: “Io non sono giovane, io sono ben conservata”. Il peggiore, eppure il più facile, dei destini. Molto banalmente, io ho paura di annusare questo tanfo. Ho paura che sia vero. Ho paura che niente, assolutamente niente, possa interporsi tra me e il destino della donna spezzata. Tra me e tutte le donne spezzate, quell’universale che Simone ha sempre presente perché non può evitare di fare filosofia quando scrive un romanzo. Non può, perché il suo pensiero si è 9 costruito con la filosofia, si muove in quegli spazi, parla per quelle ragioni. E allora le sue non sono storie d’amore finite male, o banali invettive contro il matrimonio borghese: sono invece la storia della libertà e della necessità, del destino e della scelta, del tutto e del nulla, della vita e della morte, dell’ignoto che ci sta in mezzo. È la tragedia nel senso in cui l’avevano intesa i greci, ma riscritta con nomi nostri, categorie nostre. Da un po’ di tempo non sopporto più film come Million dollar baby. Ma io non c’entro: la colpa, cioè la grandezza, è tutta di Simone. Mitomania Ermafrodito, Lady Gaga & C. di VIVIANA LISANTI M olti miti greci iniziano con un dio, incapace di trattenere la propria esuberanza sessuale, che scende in terra per possedere la vergine di turno. La ragazza, normalmente sorpresa mentre impiega il suo tempo in maniera proficua cogliendo violette o specchiandosi nei ruscelli, può sentirsi lusingata, specialmente se lo spasimante è Zeus, ma nella maggior parte dei casi si da alla fuga. Poco importa comunque quale sia la volontà della prescelta, il dio, dopo innumerevoli imboscate, l’avrà. Il mito di cui parleremo in questa puntata è atipico perché nasce dai pruriti sessuali di una donna, la ninfa Salmacis. L’oggetto del suo desiderio è Ermafrodito, figlio di Hermes e Afrodite, un ragazzo tanto stupendo quanto indaffarato: passa le giornate sulle rive di un lago a contemplare la bellezza del paesaggio. Salmacis, che in quelle acque abita, si innamora a prima vista del giovane, lo avvicina, lo corteggia (e parlando dei miti greci dobbiamo pensare a degli approcci ai limiti dello stalking) purtroppo senza successo. Un giorno l’ingenuo Ermafrodito, notando l’insolita calma piatta delle acque, crede di aver scampato il pericolo, si denuda e si tuffa per un bagno rilassante: un invito per la scaltrissima ninfa che gli salta addosso stringendolo in un abbraccio eterno. Gli dei infatti esaudiscono il suo desiderio di unirsi per sempre all’amato fondendo i due in un nuovo essere, maschio e femmina al contempo. Potrebbe sembrare un happy en- ding un pò forzato o uno stupro, dipende dai punti di vista, sicuramente si tratta della nascita di un mostro, perché tale era considerato un ermafrodito dagli antichi Greci. In pratica se ne nasceva uno gli uomini erano certi di aver commesso una delle loro cazzate, una grossa, passibile di punizione divina. (Qui arriva la parte in cui dovrei parlarvi di Lady Gaga e dei recenti gossip circa alcuni scatti che testimonierebbero la sua natura di ermafrodito. Ma è stata solo una bieca trovata per farvi leggere il mio articolo.) Cal Stepahanides, voce narrante in Middlesex, secondo romanzo di Jeffrey Eugenides (Mondadori, 602 p., 9.80 euro), è un ermafrodito di quarant’anni che decide di parlarci di sé, scavando a ritroso nella storia della sua famiglia, proprio alla ricerca di quella presunta colpa che lo ha condannato a nascere due volte: come Calliope nel 1960, come Cal nel 1974. La sua odissea, o meglio quella di “un gene solitario sulle montagne russe del tempo”, inizia nel 1922 sul monte Olimpo di Misia, in Asia Minore, con due fratelli, Desdemona e Eleutherios, che fuggono da una Smirne in fiamme, diretti negli Stati Uniti. O forse sarebbe meglio farla iniziare durante il viaggio verso l’America, su una nave, in mezzo all’oceano, un territorio neutro in un tempo sospeso tra passato e futuro, dove tutto è possibile, anche che due fratelli che si sono sempre 10 desiderati trovino il coraggio di ammetterlo e sposarsi. Un’odissea tragicomica che finisce 600 pagine dopo, negli anni ’70 a Detroit con una nonna in preda ai sensi di colpa che, tra le lacrime, rivela il suo segreto a chi ne ha dovuto subire le conseguenze: il nipote “sfortunato”, Cal, scelto dal fato per esibire sul proprio corpo gli esiti di un incesto che sembrava ormai del tutto innocuo. In mezzo c’è un’adolescenza, particolare sì, date le circostanze, ma gioiosa e dolorosa come tutte le adolescenze sanno essere. Si può scegliere di raccontarla da diverse angolazioni ma i nodi restano sempre gli stessi: i cambiamenti del corpo e della mente, le trasformazioni dei rapporti con i coetanei, con il sesso opposto (quale nel caso di Cal?), con la famiglia, con se stessi. Eugenides in Middlesex affronta tutto questo con un’arma in più, cioè quella del mito antico, mutuato e rivestito di nuovi significati per l’occasione. Per parlare di transizione crea il personaggio di Calliope: per metà greca e per metà americana, per metà donna e per metà uomo, o meglio cresciuta come una ragazza fino ai 14 anni, età in cui, mentre le sue amiche iniziano a comprare reggiseni e assorbenti, scopre di avere degli organi sessuali maschili. Esiste metafora più geniale, se non quella dell’ermafrodito, per ritrarre con efficacia una fase della nostra vita in cui tutti noi siamo stati degli ibridi, a metà strada tra l’infanzia e l’età adulta? “I vecchi hanno le loro manie, lo sapete. La mia é di venir pubblicato dalla Pléiade.” Un anno dopo la sua morte, Gallimard onorerà il suo desiderio, e nel 2009 l'opera si compie con la pubblicazione di Lettres, (Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, 2009, 2080 pagine, 56 euro) la raccolta di 50 anni di corrispondenza. Da Céline é lecito aspettarsi delle belle, figuriamoci nelle lettere. E infatti rifila un po' a tutti quelle “pic- re. E' tuttavia nel “massacro ignobile della guerra” o nei viaggi in mare che preannunciano la traversata epocale di Morte a credito, che inizia il suo delirio. Dopo Bagatelle per un massacro, si dichiara, fiero, il nemico numero uno degli ebrei. E riempie le sue corrispondenze di odio anti intellettuale e decadentista. I cliché della scrittura romantica gli danno ai nervi: “Questa sorta di gioia creatrice, che merda!” Scrivere serve taria Marie Canavaggia, che aveva avuto il torto d'inoltrarsi sul territorio sentimentale. “Il sesso dura tre secondi e se ne scrive per dei secoli. Che storia!” Ai sentimenti accessori e mielosi espressi dalla sventurata oppone la sua visione vigorosa: “La vita é troppo corta per torturarsi d'astinenze idiote e gli uomini organizzano le privazioni e le torture con troppo zelo perché vi aggiunga dei rosari! Le donne hanno delle riserve sensuali “tropicali” non dimenticatelo! I più riservati o i più scalpitanti e cinici seduttori, non sono al loro fianco che miseri velleitari” Corrispondenze notevoli Céline si sbottona di MATTEO TRELEANI cole perle acidule” di cui, secondo il suo editore a Gallimard, detiene il segreto (le traduzioni sono divertitamente mie, la versione italiana a venire: noi di Finzioni ci bulliamo di leggere Céline in francese senza dizionario, e di capire metà di quello che scrive). E si dimostra un oratore furbo, che cambia toni a seconda dell'interlocutore, calibrando antisemitismo e meschineria. Dal 1907, quando viaggia in Germania per studio e scrive ai genitori con affetto “Il vostro adorato figlio” agli anni della Grande Guerra, fino agli anni '30 dove vira al delirio escatologico, diventando una sorta d'”oracolo vendicatore” e vagheggiando una folgorazione nichilista. In guerra troviamo un Céline ben diverso dal Bardamu di Viaggio al termine della notte. Soldato patriota ed eroico, decorato al valor milita- innanzitutto a guadagnare quattro soldi per “tirarsi fuori dagli imbarazzi materiali”. “Se vuoi vedere i peggiori ebeti di un paese, chiedi degli scrittori” Céline rigetta la cultura classica, e difende la scrittura viscerale “Proust scrive arzigogolato perché ebreo e farcito d'inutili mediazioni culturali” Dalla sua detenzione in Danimarca derivano invece alcune perle, se Karen Jansen che l'ha ospitato é “una strega di Macbeth, in più canaglia e taccagna” (ma, quando si rivolge a lei nelle lettere, il tono é tutt'altro che acido), il villaggio di Staegersalle “un covo di befane malefiche”. D'altra parte “il Baltico é inguardabile: i battelli sembrano bare e le vele crêpes”. E l'amore, emerge spesso nella sua corrispondenza con la segre- 11 Ma é al suo stesso capolavoro che riserva un tono di lirismo, in una lettera alle Editions de la NRF, nel 1932, con cui accompagna il manoscritto: “Monsieur, vi invio il mio Viaggio al termine della notte (5 anni di lavoro). Vi sarei particolarmente grato di farmi sapere il prima possibile se desiderate pubblicarlo. Si tratta, di una sorta di sinfonia letteraria, emotiva, più che di un vero romanzo. Il genere é la noia. Non credo che il mio viaggio sia noioso. Dal punto di vista emotivo il testo é vicino a cio' che si ottiene con la musica... 700 pagine di viaggi attraverso il mondo, gli uomini, la notte e l'amore, l'amore soprattutto che qui bracco, sciupo, e che ne esce miserabile, sgonfiato, vinto... Del crimine, del delirio, del dostoievskismo, c'é tutto in questo coso, per istruirsi o divertirsi.” E conclude: “E' del pane per un intero secolo di letteratura. E' il prix Goncourt 1932 su un piatto d'argento per il fortunato editore che saprà apprezzare quest'opera senza eguali, questo momento capitale della natura umana...”. Immodesto e autoironico certo, ma non che avesse torto. Letterature involontarie I tempi giusti. O di come si disimpari a guardare un film. (in memoria di Andrew Koenig) di EDOARDO LUCATTI U n essere umano che scarichi dalla rete materiali audiovideo per fruirne al riparo delle mura domestiche, presto o tardi, disimparerà a guardare un film. Buon senso vorrebbe che nulla occorra sapere su come-si-guardiun-film. Insomma: lo-si-guardae-basta. Ma per impenetrabile che appaia quest’oppiacea autoevidenza, c’è sempre una serie-tv pronta a svergognarci. Sempre, per altro, seguendo lo stesso copione: selezioniamo l’ultimo film dei Cohen, ci apprestiamo al doppio click e un attimo prima – quasi distratto dall’aria - il nostro dito tentenna, s’arresta e prende a rimbalzare nervosamente sul guscio rigido del mouse. A quel punto abbiamo già cambiato cartella: recuperiamo “Lost 4x07” o “Heroes 3x13” o “Dexter 1x09” e senza indugio affidiamo a una serie tv i nostri successivi 40 minuti. Perché? Questione di tempo? Forse. La serie tv è certamente più interstiziale, in alcuni casi non supera i 20 minuti a episodio e spesso è possibile infilarla persino in pausa pranzo. È però più frequente il caso di chi si divori un’intera stagione, ad esempio di Boris o di Californication, in due soli giorni, trascorrendo davanti al monitor dalle 5 alle 7 ore consecutive. La cronometria, quindi, non spiega molto. Esiste un altro tempo, più qualitativo, sul quale invece vale la pena di riflettere. È il tempo della scoperta, il tempo in cui ciò-chesi-da-a-guardare acquista forma, nome, ruolo, ragione, scopo, carattere, storia. In un film, per l’appunto, serve un tempo tutto nostro per mettere a fuoco queste cose. Possiamo, certo, cavarcela con poco: di un film, spesso, ci è infatti noto in anticipo il genere; se il film ne rispetta gli standard molte di quelle messe a fuoco saranno immediate. Se però il film, in violazione più o meno sensata di tali standard, galleggia tra due o più canovacci, ecco aprirsi un tempo della scoperta che pone al nostro guardare una serie di domande primordiali, quasi ontologiche: Cosa stiamo guardando? Chi sono quelli? Dove si trovano? Fra la puntata 13 e la puntata 14 12 di una serie tv, invece, sorgono altre questioni, che presuppongono un tempo della scoperta vicino allo zero e introducono invece il tempo del controllo: “Vediamo cosa combina oggi Dexter”, oppure “Non è che Sawyer (da qualche puntata a questa parte) sta facendo troppo lo stronzo?”, o ancora “Vediamo se Tony Soprano ha davvero il coraggio di eliminare suo zio”. In linea di massima, si guarda un film così come si sostiene un colloquio di lavoro, in cui ci tocca scoprire tutto (e il più in fretta possibile) di chi abbiamo davanti (tempo della scoperta), mentre si guarda una serie tv come si presiede uno staff meeting, in cui dobbiamo tirare le fila di quello che stanno combinando i nostri dipendenti (tempo del controllo). Chi s’abitui a presiedere staff meeting, non sarà mai parti- colarmente entusiasta di tornare a sostenere un colloquio di lavoro e, nel medio-lungo periodo, è addirittura probabile che dimentichi come si faccia. L’attitudine della scoperta è molto diversa dall’attitudine del controllo. Grazie, direte voi. E l’Arte? Non dovremmo forse privilegiare i luoghi in cui l’opera si mantiene nell’epifanico, suggendo l’estetico dalla pura scoperta di sé? Non dovremmo cioè tornare all’epica del colloquio di lavoro, al film, alla scoperta? Che razza di estetica potrà mai esserci nella routine di un controllo, nel tedio di uno sguardo preinformato che tiene d’occhio personaggi di cui già, per lo più, conosce il pedigree? L’arte è balzo e soprassalto, giammai cheta abitudine! Ora, queste sono tutte stronzate, reiterate da una vulganza greve e romanticante, incapace di pensarsi viva al di fuori di continue sovrastimolazioni. Un qualunque film di Muccino - uno a caso - vi sia d’esempio. L’abitudine, al contrario, è non soltanto passibile di accidentale estetizzazione ma rappresenta, in se stessa, la grana del tempo con la quale all’estetico ci si può persino educare, affinando le proprie prassi quotidiane sino a farne perfetti exempla. Il semiologo francese Eric Landowski avanza considerazioni analoghe, descrivendo l’abitudine come un reciproco accordarsi di soggetto e oggetto, un paziente lavorìo non soltanto compatibile ma addirittura consustanziale all’apertura dell’estetico. Si può così perfezionare, come di fatto accade, il modo di guardare una serie-tv, giungendo ad assegnarle uno spazio orario via via più preciso, adatto, calzato, studiando la propria postura sul divano o sul letto fino a renderla ergonomica rispetto alle tensioni che la serie stessa sviluppa e trovando la cibaglieria che meglio s’abbini a quella visione da pantofole e pile. Sinceratevi però, in ogni momento, d’avere un amico lesto a ricordarvi come si guardi un film. Verboso metro 20 15 10 5 0 Ritaglia il verbosometro e attaccalo sulla schiena del tuo amico verboso 13 Verboso metro L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e l’avvolvere. Da 0 a 5 espressioni verbose. Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire. Da 5 a 10 espressioni verbose. Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana. Da 10 a 15 espressioni verbose. Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa. Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa. Più di 20 espressioni verbose. Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo. Me lo copre il prezzo? Poi ti dico di LICIA AMBU A lice cominciava a sentirsi assai stanca di sedere sul poggetto accanto a sua sorella, senza far niente: aveva una o due volte data un'occhiata al libro che la sorella stava leggendo, ma non v'erano né dialoghi né figure, – e a che serve un libro, pensò Alice, – senza dialoghi né figure? Una cosa che mi fa impazzire del lavoro in una libreria è che niente è mai uguale. Voglio dire, nessun giorno è mai ripetitivo o uguale all’altro. Sì, certo si fanno ogni giorno alcune cose indispensabili e meravigliose come ordini, riordini e pulizie. Ma più del mocio ad aprirti la mente c’è quel che non sai. Ogni persona che entra, ogni lettore forte o potenziale porta tutta una storia che a volte ci basta proprio un libro anche il più banale per imparare qualcosa che davvero non avevi inquadrato. Per dire ieri, parlando di libri sui cani, ho incontrato una pittrice svedese, poi ho ricevuto in prestito un libro dopo averlo venduto (e così colmerò le mie lacune sul lotto 49), ho idealmente impegnato un Benni in cambio di un Cacciari, passando attraverso lezioni di attualità e commi da matrimonio come si deve. Che è una sensazione che non te la scolli più. E poi c’è il seguito, indicativamente per una buona percentuale anche… A volte ritornano, per dire. In crisi da astinenza dopo aver finito un libro proprio bello, o quelli che non trovano 14 un libro bello dall’ultimo di Balzac, quelli che non leggono… però così tanto per capire chi era sto Salinger che tutti ne parlano, quelli che l’ultimo dato non gli è piaciuto, gli sperimentatori che si buttano sull’autore dall’esistenza ignorata, le bimbe stregate da Dahl e Pippi e poi il resto. Tutto ciò che si può assorbire da questo, tanto per dire io ho un sacco di compiti da fare… libri da leggere, consigli da seguire, recensioni da ricevere e storie da incontrare. E poi non è vero che in Italia non legge nessuno, è vero che si leggono un sacco di gialli, non è vero che i ragazzi schifano i libri (forse quelli noiosi scelti da maestre tradizionaliste all’eccesso), è vero che scrivono in troppi. - Cosa c’è di ultimissimo? - Allora… - No però non quelle storie di vampiri o d’amore e nemmeno troppo tristi come quella degli aquiloni che non è periodo - D’accordo, in verità non è uscito molto Scambi, insomma. Conversazioni, opinioni costruttive e confronti. Non è sempre così, ma adesso, qui, in questo articolo, non ci stiamo concentrando sui momenti bui di un mestiere, ma sul suo motore. - Che ne dici di questo? - Ok, mi fido. Poi ti dico. Punizioni Lara Cardella - Volevo i pantaloni di VIVIANA LISANTI O ggi a Punizioni parliamo della zia di Melissa P.: Lara Cardella. Le due hanno molto in comune: sono entrambe siciliane, hanno esordito giovanissime vendendo milioni di copie, sono state entrambe ospiti al Maurizio Costanzo Show. La Cardella con il suo primo romanzo Volevo i pantaloni (Mondadori, 121 p., lire 12.000) vinse nel 1989 il concorso Cercasi scrittore indetto dalla Mondatori e fu pubblicata di diritto nella prestigiosa collana Oscar Originals, marchio che, citando la terza di copertina “ne garantisce di volta in volta la freschezza della scoperta per l’attualità del tema, per il nome dell’autore, per la qualità della scrittura.” La vicenda narrata dalla Cardella si svolge in un paesino siciliano e ha come protagonista una ragazzina, Annetta, forse un pò ingenuotta ma che ha ben chiaro cosa vuol fare da grande: vuole indossare i pantaloni. Disposta a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo, ne architetta di ogni: per prima cosa decide di farsi monaca, pensando che sotto quella lunga tunica in realtà le suore nascondino un bel paio di blue jeans. Il dialogo con una suora illuminata però, se è vero che la disillude, le schiude al contempo una nuova via: Lara: Ma allora una si deve far prete per portarli? Suora: Non è necessario essere un prete…basta essere un uomo.. Niente di più facile per Annetta che iniziare a sputare, fare la pipì in piedi e farsi la barba, sana abitudine questa per una femmina mediterranea, che fortunatamente non andrà persa neanche una volta arresasi all’idea di essere donna. A questo punto la nostra eroina è passata attraverso la fase monacale e quella virile fallendo miseramente. Resta l’ultima possibilità: in paese le uniche donne a indossare i pantaloni sono le puttane e buttana sia! Aiutata da un ottimo esemplare, Angelina la figlia dell’ingegnere, Annetta viene iniziata a questo mondo: trucco e parrucco, lezioni di ammiccamento, noiose sessioni di studio de L’arte di farsi rispettare di Schopenauer etc.. Ed eccoci al giorno che cambierà per sempre il corso della vita di Annetta: il rito di transizione da monachella a puttanella sta per compiersi: è su una panchina a limonare duro da ben 3 minuti con un volontario trovatogli da Angelina, tutto sembra procedere per il meglio, Anetta non riesce a staccare gli occhi dai jeans del suo partner, (sono Levi’s, ottima qualità)…ma c’è una falla nell’ingegnosissimo piano: lo zio perdigiorno e pettegolo che passa di li e con un bagascia! sancisce la fine di un sogno. Da questo punto in poi il romanzo perde la sua verve e si abbandona alla narrazione di eventi al limite del tragico, cedendo un pò troppo il passo ad un registro patetico- lirico. La Cardella ci strug- 15 ge con brani di rara profondità, ad esempio la preghiera alla nonna morta “ Nonnina mi devi scusare se è da tanto che non ti parlo…tu sai perché non l ho fatto..(…)” o ancora gli stralci dal diario segreto della zia di Annina, autrice di versi indimenticabili “ Vorrei essere piccola e farmi allattare/ vorrei essere grande e allattare.” Tacendo dell’interesse meramente letterario che questa prima prova della Cardella, con il suo stile sperimentale e ricercato, ha suscitato e susciterà in ogni attento critico, torniamo per un attimo a Melissa P., perché il parallelo tra i due best-seller ci fornisce materia di riflessione sul versante sociologico- antropologico - storico: cos’è cambiato nel comportamento delle adolescenti siciliane nel corso di vent’anni? Che un tempo volevano i pantaloni e oggi non vedono l’ora di calarseli. Oh, Scena! Oh, bacimbocca! di SIMONE ROSSI Comico o tragico, il nostro sarà uno di quei giochi in cui a un certo momento si ride verde. M a che oggetto avranno insomma questi spettacoli? Nessuno. Piantate in mezzo a una piazza un lampione e metteteci intorno dei fiori, chiamate a raccolta il popolo e avrete una festa. Facile. Poi chiamiamo una liceale con i fianchi larghi e le facciamo leggere le note di regia di Rimbaud: Ho steso ghirlande da campanile a campanile. Ghirlande da finestra a finestra. Catene d'oro da stella a stella. E ballo. Poi la liceale con i fianchi larghi se la porta via la sua amica timida tirando forte con la mano, vieni via, Margherita. L'impatto visivo è fondamentale: io tirerei dei fili da una finestra all'altra, sospesi a diverse altezze lungo tutta la strada. Possiamo appenderci panni bagnati e panni bagnati di verde, e campanelli, strisce di stoffa con sopra scritto BENPARTITA, in stampatello. Buona partenza, Marta: il tuo funerale sarà una roba grande (faremo scorrere lune di carta e diavolerie da film muto sopra il suo corpo portato in trionfo da quattro maggiordomi sui trampoli. La vestiremo normale, la lasceremo scalza e le infileremo una gerbera rossa tra i capelli). La gerbera è come una margherita, ma troppo grande. Il nome Gerbera è quello del naturalista tedesco Traugott Gerber, naturalista tedesco che vede le margherite giganti di Santiago del Cile e le chiama come il suo cognome: Traugott Margheritoni. Oltre che come graziose piante ornamentali dalla facile coltura, le specie del genere Gerbera vengono coltivate industrialmente per la produzione del fiore reciso. Marta. La produzione del fiore reciso. Poi c'è funerale, e alla fine del funerale c'è il sermone dello sciamano scemo. Amici. Amiche, devo dirvi una cosa. Aspettate, stanno suonando le campane e non si sente niente. Ecco. Eccoci. Amici: guardiamoci. Contiamoci. Non parlo con tutti: siamo in pochi e sappiamo riconoscerci. Volevo dirvi: baciamoci in bocca. Come in Russia. Come allo zoo di Berlino. Da oggi in poi: bacimbocca. A ogni buongiorno e a ogni buonanotte e a ogni arrivederci, rapido come un timbro. Senza lingua. Siamo in pochi e ci facciamo riconoscere. Diventeremo quelli dei saluti più intensi. Niente benefici. Solo baci. Ci riconosceranno. Vigorosi cenni di assenso. Diciamoci qui la regola: tutti sanno che tutti baciano tutti, ma i bacimbocca si danno di nascosto. Furtivo. Il primo aggettivo che mi viene in mente se penso allo spettacolo del bacimbocca è furtivo. Eh, ma siamo timidi. / Eh, ma sei paraculo. / Ma anche no, i bacimbocca. 16 Concesso: un bacimbocca può essere sostituito da un abbraccio lungo almeno quattro secondi. In generale, un abbraccio lungo almeno quattro secondi è un buon indicatore di maturazione: se di solito ve lo date, siete pronti per il bacimbocca. Eravate già pronti per il bacimbocca e non ve lo siete ancora dato, ci voleva uno che ve lo dicesse: ve lo sto dicendo: potete baciare la Signora. Se indovini da quale testo teatrale è partito questo pezzo vinci un frigo a pedali. Puoi chiedere due indizi a [email protected]. Il terzo indizio è “la Signora”. Donne & Compressori Sottopagare il commesso sbagliato di ALEX GROTTO L a superficialità di questa rubrica arriva addirittura alla sua seconda puntata, che a dir la verità conta come se fosse la prima perchè quella sul numero scorso era solo un'introduzione mossa da confusione, entusiasmo e invidia del pene culturale. Questo mese il libro utile alla mia redenzione di lettore fallito me l'ha suggerito Shlomo Roma di professione edicolante all'angolo, nato e cresciuto nella provincia che parla solo il dialetto, critico d'arte fallito, dice lui per un dissidio con il racket dei colori ad olio, ebreo non praticante, non guadagnante, orgoglioso della propria cultura d'origine, ma soprattutto di averla preservata nella culla della blasfemia che è il Veneto; per questo motivo, mentre gli passavo i due euro e dieci del Trovalavoro, mi ha guardato negli occhi dicendomi -Non aprire mai un negozio tuo, ragazzo, specie di alimentari. E se ti stai chiedendo il perchè, leggiti Il Commesso di Bernard Malamud (Einaudi, 262pp. Dieci euro e rotti con lo sconto)Preso dallo sconforto, perchè in realtà aprire una gelateria era il mio Piano B per sfuggire all'ufficio di collocamento, sono finito il libreria per seguire la traccia che il circonciso delle riviste mi aveva lasciato e dato che quando ero piccolo mi teneva sempre da parte il Topolino del Mercoledì coi gadget da costruire, merita il mio rispetto e l'ospitata qui su Donne&Compressori. Ad ogni pagina tira un vento di sfiga a tutto tondo mista a povertà da soffiarsi il naso sulle maniche, inettitudine generale e salute precaria che farebbe sentire migliore e più fortunato persino un ergastolano. Morris Bober, commerciante ebreo proprietario di un negozio di alimentari sulla strada del fallimento praticamente dalla sua apertura, è uno sconfitto perenne, un vinto dalle circostanze che lo vogliono povero, con un lavoro ed una bottega orrenda, circondato da gente che detesta: quella che nel libro era la situazione comune degli immigrati ebrei nella New York del dopoguerra è facilmente confondibile con quella di un neolaureato in Scienze Della Comunicazione con gli Arab On Radar nell'iPod. Quando la noia di una vita di ordinaria mestizia sta per inghiottirsi tutto il libro arriva lui, la scintilla che mi permette di assegnare a Malamud cento punti stima da spendere nell'oltretomba per bullarsi con i suoi colleghi, il vero protagonista e tizio immagine di Donne&Compressori: Frank Alpine, farabutto ovviamente italo-americano, vagabondo con le pezze al culo ma col mito di San Francesco e il culto del blues, è paradossalmente il personaggio più credibile di tutta la vicenda. Si fa assumere come commesso nel negozio dell'ebreo dove i prodotti più gettonati sono gli scarafaggi e l'autocommiserazione, lavora in cambio di un tetto e un pasto, frega i soldi dalla cassa, si tromba la figlia altezzosa dell'ebreo dopo averla convinta di essere un uomo con ambizioni ed essersi letto mattoni sovietici che a lei piacevano di brutto. Al funerale del vecchio Bober (morto di polmonite per aver festeggiato 17 sotto la neve il fatto di essere quasi riuscito a vendere quella prigione di grettitudine chiamata negozio, non ci si crede) arriva persino a ballargli sulla tomba. E' il trionfo dell'italinità vincente, quella che ci rende temuti in tutto il mondo: nel nostro tempo dove il luogo comune è il collante dei popoli e lo dicono i sondaggi di Cronaca Vera e le interviste sulla spiaggia fatte da Studio Aperto, l'italiano in trasferta all'estero risulta essere un ineguagliabile maneggione superstizioso persino nei libri scritti da gente che pesta un bicchiere quando si sposa. Frank Alpine aggiunge miseria alla miseria, batte tutti superando sulla sinistra il senso di pudore e facendo mangiare la polvere alla riconoscenza e per mettersi la coscienza a posto finisce col diventare ebreo e circoncidersi: il colpo di grazia a tutta la baracca di preconcetti e clichè messa in piedi da Malamud. Dov'è il vostro Dio, ora? Megaviaggi! Analisi Finzioni del testo di ALESSANDRO POLLINI O ggi fingiamo di essere a scuola, parliamo da giovani e giochiamo all’analisi Finzioni del testo. La frase da analizzare è «in un paese di cannibali c'è rimasto solo uno grassissimo» (Leo Ortolani, Il Rat-Man enigmistico, Panini Comics 2,30 euro). In un paese: Complemento di dove si incontra l’amore, ne parla Luis Sepulveda in Incontro d’amore in un paese di guerra (Ed. Tea, 200 pp. 8 euro). «Ero contento, quella sera avevo un appuntamento. Qualcuno da toccare, da guardare, con cui parlare. Con cui dimenticare la morte, pane quotidiano». Uno dal titolo pensa ad asfaltare ed invece si parla della morte, tema che introduce il complemento successivo. Economici Newton, 100 pp. fuori catalogo) dove altri superstiti su di una zattera decidono di non aspettare le morte dei compagni ma, sfruttando la presenza di un chirurgo a bordo, di amputare singoli arti per cibarsene. È tremendo ma fatto da Peter Griffin nei confronti del compagno Joe in Naufragio Perfetto (Family Guy, 1999, quarta stagione, puntata n°15) fa più ridere. C’è rimasto: Predicato di sfattanza. In John Barleycorn. Ricordi alcolici di Jack London (UTET, 289 pp. 14 euro) tutti i marinai bevono come pazzi e compiono azioni tremende. Ci sono rimasti di brutto. Di cannibali: Complemento di cosa si mangia per cena? Quello che preferisci: una salma o un moncherino. Nel primo caso prima ci cibiamo di un morto, ma non ditelo ai vegani che poi diventano tristi, poi andiamo a Parigi e contempliamo la Zattera della Medusa di Théodore Géricault, grande quasi quanto il mio monolocale, ripensando ai sopravvissuti del naufragio della fregata Meduse che per sopravvivere furono costretti a cibarsi della carne dei compagni deceduti. Nel secondo caso prima mangiamo parte di un corpo mantenendolo in vita, poi leggiamo le Storie Macabre di Gaston Leroux (Tascabili 18 In Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (BUR, 345 pp. 12 euro) tutti gli amici, o i conoscenti a voler dare al termine amico un valore più profondo, di Christiane F. entrano nel mondo della tossicodipendenza e muoiono giovanissimi credendo di essere fighi ma senza esserlo pari. Loro ci rimangono e basta. Solo uno grassissimo: Forse soggetto della vignetta di Davide la Rosa. vignetta: DAVIDE LA ROSA La lettera che muore Una topografia impossibile: la Terra di Mezzo di MICHELE MARCON C ammissione, quel Mondo Secondario che ci accompagna ormai da più di mezzo secolo è nato per il bisogno di dare un retroterra concreto ai nuovi idiomi; insomma, chi parlava questi linguaggi? E costoro dove vivevano? all’interno essi potranno trovare di tutto: dalla cartografia dettagliata di ogni angolo della Terra di Mezzo, fino a una serie di carte tematiche sulla morfologia del terreno, il clima e perfino la vegetazione che ricopre questo Mondo Secondario. Una roba da pazzi o da maniaci, lo so, ma per quanto il lavoro dell’autrice americana sia destinato solo a quei folgorati dei fan più sfegatati di Tolkien (confesso, ma forse l’avrete già capito, anche io ero un fan sfegatato), ci può aiutare a capire quanto sia unica, fantastica e allo stesso tempo complessa la buona letteratura. Ma non di una topografia qualsiasi, bensì di una topografia impossibile, perché tenta di rappresentare graficamente un mondo che non esiste se non nella nostra immaginazione: la Terra di Mezzo. Tolkien costruisce prima una lingua quindi, e poi, per giustificarne l’uso, scrive Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, dando vita a un mondo altro che prende corpo anche attraverso l’accurata ricostruzione di cartine geografiche dei luoghi descritti. La definitiva reificazione di questi prodotti dell’immaginazione avviene ne Il Silmarillion, dove sono riportati gli alberi genealogici dei personaggi principali, la narrazione storica di avvenimenti passati relativi alle Ere precedenti ai romanzi più famosi, e addirittura la cosmogonia di quell’universo fantastico. L’universo tolkeniano ha così acquisito una solidità tale nell’immaginario collettivo che ogni lettore si sarà sentito, in un modo o nell’altro, quasi proiettato fisicamente nei boschi del Doriath, nel bel mezzo delle paludi di Mordor, o sulle vette degli Ered Wethrin, anche – e a maggior ragione – ben prima dell’uscita della famosissima versione cinematografica di Peter Jackson. Tolkien è stato il primo scrittore ad aver ricreato totalmente e fedelmente un mondo alternativo, ma questa creazione ex novo non è che l’apice di un vizio segreto che egli coltivava fin dall’infanzia e cioè, inventare linguaggi. Per sua stessa Proprio per questo motivo non sarà sembrato strano a Karen Wynn Fonstad il fatto di compilare L’Atlante della Terra di Mezzo di Tolkien (ed. Bompiani). Si tratta di una risorsa inimmaginabile per gli appassionati del professore di Oxford; ari lettori fidati e non, come vi avevo promesso sono tornato. Ho consegnato la tesi e ora sono (stra)felice di poter nuovamente scrivere di quello che mi piace su Finzioni. In questo periodo ho avuto modo di fermarmi a pensare, e mi sono accorto che negli ultimi mesi non ho fatto altro che girare sempre attorno alla stessa immagine: vi ho parlato di topi di biblioteca, di quella topona della Ventura e anche di strani topolini che vanno in crisi quando viene spostato il “loro” formaggio. A quanto pare il topo non me lo levo dalla testa. Ma oggi voglio concludere quello che ho iniziato tempo fa; voglio chiudere il cerchio per poter guardare avanti e lasciarmi il topo alle spalle (nel pieno della mia depressione topesca ho perfino dato un’occhiata all’interpretazione dei sogni: vedere tanti topi significa che si sta attraversando un brutto periodo…). Perciò vi parlerò di topografia! 19 Essa ci permette di entrare in mondi altri, ci permette di aprire una finestra su un universo parallelo, un po’ come quel ragazzino che ne La lama sottile (il secondo romanzo della trilogia Queste oscure materie di Philip Pullman) apre finestre tra mondi con un coltello magico. Allo stesso modo la letteratura può portarci altrove e permettere a ognuno di noi «enfant, amoureux de cartes et d’estampes» di tracciare la nostra personalissima topografia impossibile, solo per il gusto di rimanere incollati a quelle terre che nutrono la nostra immaginazione. Mattoni James Joyce, Finnegans Wake, peso: 3,51 kg di FILIPPO PENNACCHIO I eri sera Zola Jesus ha suonato al Plastic – per chi non lo conoscesse, è un storico locale di Milano frequentato da gay e indie (che poi ultimamente quasi sempre sono la stessa cosa, si sa) – nell’ambito della settimana della moda. Io che non avevo l’invito – sic: bisognava essere invitati per assistere alla performance di una marcissima goth girl che appena un anno fa ascoltavamo in tre – e che comunque non sarei entrato – il dress code richiesto agli iniziati sarà stato qualcosa di tremendo, immagino – sono rimasto tranquillamente (si fa per dire) sdraiato sul divano. Non ricordo esattamente come, ma cazzeggiando su Internet mi sono imbattuto in un saggio dal titolo particolarmente spiacevole, Ulysses, Jim e un po’ di coprofilia, in cui si parlava delle malsane tendenze di uno tra i più grandi scrittori di sempre. Che Joyce fosse morbosamente attratto dalla merda potevo tranquillamente immaginarlo, intendiamoci: d’altra parte una delle sequenze più deliziose dell’Ulisse descrive con estrema dovizia di particolari la seduta defecatoria del suo protagonista Leopold Bloom. Avete presente? «Accosciato sulla seggetta spiegò il giornale voltando le pagine una dopo l'altra sulle ginocchia denudate. Qualcosa di nuovo e agevole. Non c'è nessuna fretta. Tratteniamola un po'» eccetera eccetera. E poi certo, non ci vuole un genio per cogliere il lega- me inestricabile tra sesso e latrina nella mente di Bloom e più in generale nel romanzo di Joyce. Ignoravo invece quanto il buon Jim, shitgazer ante litteram, scrisse all’amata Nora in una serie di lettere crude e scabrose, lettere in cui, per dirla con l’autore del saggetto sull’analità di cui sopra, «Joyce si produce in un saggio di psicopatologia dell’erotismo anale, con regressioni a comportamenti di tipo infantile, sovrapposizione tra sessualità e forme escrementizie, coprofilia, sodomia, feticismo». E in effetti nel corso della piccante corrispondenza epistolare poco o nulla è lasciato all’immaginazione, vista e considerata l’accuratezza con cui Joyce descrive alla compagna gli scenari cloacali e immondi nei quali fantastica di possederla e il corollario di odori fetidi e suoni di emissioni corporali legati all’atto sessuale stesso. Non che la cosa debba per forza destare sconcerto, per altro. D’altronde la storia letteraria segnala piuttosto evidentemente il frequentissimo scollamento tra l’immagine antologica dello scrittore e la sua figura in carne e ossa. Di più, ci indica chiaramente che tanto più tale scissione è profonda, tanto più alta è la probabilità di imbattersi in grandi scrittori. In questo senso il prototipo dell’artista autenticamente rivoluzionario non è certo rappresentato da Hemingway o 20 da Burroughs, quanto piuttosto da Hawthorne, che condanna all’inferno le sue corrotte eroine mentre passa le sue giornate morbosamente coccolato da madre e sorelle in quel di Salem, o da Faulkner, le cui pagine trasudanti virilità e misoginia celano la tragedia di un uomo sessualmente impotente. Indi per cui non possiamo far altro che lodare e inginocchiarci di fronte a un autore che se in pubblico amava definire la donna come «quell’animale che urina una volta al giorno, defeca una volta alla settimana, mestrua una volta al mese, partorisce una volta all’anno», nel privato, lungi dal dare esito concreto alle proprie fantasie escrementizie – a proposito, per chi fosse interessato esiste un altro saggio dal bel titolo Amor y coprofilia en Trieste – le affidava alla pagina scritta pregando Nora di «dimenticare completamente» tutto quanto letto. Tutto questo per dire, più o meno, di come la biografia di un autore ipercanonizzato – e però, ammettiamolo, quasi mai letto – sia spesso molto più interessante delle pagine della sua opera (se vi avessi parlato del Finnegans Wake avreste già smesso di leggere, no? La merda invece tira sempre). Anche se in fondo la lettura di un testo come il Finnegans Wake è, al pari delle fantasie del suo autore, un’esperienza estrema e vagamente repellente. Apriamo casualmente il mattone in questione. Pagina 355, terzo paragrafo: «Vociferagitant. Viceversounding. Namely, Abdul Abulbul Amir or Ivan Slavansky Slavar. In alldconfusalem». Modernismo? Figuriamoci. Avanguardia? Per carità. Letteratura sperimentale? Sì, ma grazie al cazzo. «Apoteosi della parola» (Beckett)? Macché. Basterebbe dire le cose come stanno: tutto Joyce, pubblico e privato, merda e romanzi, è faccenda per stomaci forti, roba che scotta, ovvero, in una parola, puro hardcore. Biografie Edulcorate love & desire, Dog: e solo per citarne alcune, eh. Lawrence Ferlinghetti di ANDREA MEREGALLI E cco: io, nella vita, volevo fare il lavoro di Lawrence Ferlinghetti. E invece no. E invece no. E invece no. Tu pensa: svegliarti la mattina e chiamarti Lawrence Ferlinghetti: bacon e uova, una cartolina da Big Sur, non trovo più le chiavi, ah, sono sotto questo panetto di fumo, macchina, saracinesca della libreria, poesie da leggere, poesie da scrivere, gente con cui parlare, inviti a reading da gestire, serate da organizzare, eterosessualità da ostentare: sì, donne, loro sono tutti gay: i miei soci tifano per l'altra squadra: venite pure, fanciulle. Certo, adesso che Lawrence ha, tipo, un centinaio di anni credo che la situazione sia un tantino meno epica. E, come no, c'è da specificare che la sua dosa di merda il Lawrence se l'è mangiata eccome. Se l'è mangiata assai. Lawrence Ferlinghetti lo conosciamo tutti per una cosa e una cosa soltanto: ha pubblicato Howl di Ginsberg: sì, lui è quello che è finito al gabbio. Questo è quanto. Poi, uno dice, uno pensa, vediamo se questo tizio che pubblica una roba così, una roba così controcor- rente, una roba così underground, uno dice, uno pensa: avrà scritto qualcosa, perdiana. E, certo, basta andare in biblioteca: ha scritto parecchissimo. Io, in verità, posseggo solo un libro di Ferlinghetti: Poesie (Guanda): una sorta di “The best of”, di “Greatest Hits”, di “Bla bla bla”. A Coney Island of the Mind, invece, è l'opera più famosa del nostro beat: Wikipedia sostiene che è stata tradotta in nove lingue: e io non me la sento di dare torto a Wikipedia quando non c'è nemmeno la scritta rossa “senza fonte” a spalleggiarmi. Ah, sì, poi c'è il glorioso manifesto ai poeti [Manifesto populista, per i poeti, con amore] ma, posso dirlo?, non mi sollazza un granché, tranne quando dice: all you cunnilingual poets, ecco, lì, solo lì, mi diverto diverto diverto. Ma, facciamo una pseudo disamina tecnica, ok?: la particolarità più evidente della quasi totalità delle poesie di Ferlinghetti è che manca il titolo: io, i primi tempi, mi incazzavo: echecazzo, neanche il titolo. Poi, con il tempo, ho imparato a non dare peso a questo genere di cose e, soprattutto, andando avanti con il libro ho scoperto che alcune poesie, ebbene sì, il titolo ce l'hanno: The third world, Song of 21 Ma, ora, bando alle ciance: è il momento più atteso da tutti voi cinque che leggerete questa roba: il momento citazione: rullo di tamburi, bandiere, nani di corte, grattatina al pacco. The world is a beautiful place/ to be born into/ if you don't mind happiness/ not always being/ so very much fun... Questa poesia si intitola... ah, no: è senza titolo. Che nervi. I ferri del mestiere Solo lo stile ci potrà salvare? (Ragionamenti a voce alta…) di AGNESE GUALDRINI “S ottopongo alla vostra attenzione questi scritti che ho trovato tra le carte di mio padre” La domanda che sorge spontanea è: ma perché? Non che voglia nuovamente tediarvi con la trafila di proposte assurde che arrivano ogni giorno... ma dopo un paio di anni che sto qui posso dire che esistono, ebbene sì, dei tratti salienti che le accomunano. La prima, innegabile, implacabile, a tratti divertente ma il più delle volte fastidiosa è L’AUTOBIOGRAFISMO. Tutti amano parlare di sé (soprattutto perché tutti abbiamo delle vite straordinarie). Un esempio - ho giusto sottomano un manoscritto con allegata una presentazione breve del testo - “Mi chiamo Piero e sono un medico quarantenne. La storia parla di un medico quarantenne…”. Qualche giorno fa è arrivata una telefonata di un tizio che mi chiedeva se potevamo essere interessati a un libro che aveva in mente: “Storia del grasso. Dal medioevo a oggi”. Io rispondo che in linea teorica avremmo anche potuto prenderlo in considerazione. “Ma lei è uno storico?” “No.” “ Ah, perché sa, il taglio delle nostre collane è abbastanza accademico…è un medico?” “No. Sono solo un tipo molto grasso”. La seconda sono gli ERRORI di ORTOGRAFIA. “Un’altro giorno insieme”, “Senza tè” (che nel caso specifico, ho verificato, non indicava la piacevole e gustosa bevanda ma una tale Iole fuggita con il badante dell’anziano suocero – emblema della contemporaneità, questa fuga d’amore, in effetti), periodi sospesi, consecutio temporum nonsonemmenocosasia (“ma ribadisco che il mio sogno, quello che mi hanno impedito di fare perché alla fine mi hanno costretto a diventare avvocato come papà, era fare lo scrittore”). La terza è la SOFFERENZA. Tutti soffrono. Tutti sono oggetto di immeritate tragedie esistenziali. La maggior parte dei romanzi che arrivano (nonostante, sempre, noi non pubblichiamo propriamente romanzi) iniziano raccontando un funerale. Insomma, in generale, buona parte della letteratura fatta da esordienti è una sorta di “sfogatoio” (termine inesistente ma che rende bene l’idea): scrivo perché ne ho urgenza. Perché ne ho bisogno. Scrivere è qualcosa che mi serve. Per esempio a liberarmi da qualcosa che mi assilla. A chiudere un capitolo della mia vita, a oggettivare la mia ansia (difficilmente, quasi mai, a comunicare la mia serenità e tranquillità). Del resto si tratta di un dilemma antico quanto la storia del pensiero e della letteratura: c’è chi vede la verità solo attraverso gli 22 occhi dell’inquietudine. Chi nella lucidità dell’esperienza libera da assilli. Entrambi i casi generano letteratura? Secondo me sì. Non credo di essere d’accordo con chi afferma (es. Sandro Veronesi) che ciò che distingue il dilettante dallo scrittore professionista sta nella capacità che il secondo ha di scrivere libero da ingombri (ansie dettate dal fatto che la fidanzata mi ha lasciato, il mio cane è morto, ho perso dei soldi al gioco). Tutti siamo più o meno ingombranti. E una scrittura neutra, tranne forse quella dell’elenco telefonico e di un manuale sul funzionamento del frigorifero, grazie a Dio non esiste: chiunque, inevitabilmente, finisce per parlare di sé. Dunque, è una questione di modi. Di come si è autoreferenziali. O di quanto si è banali nell’esserlo. Insomma, questioni di stile. Metaletterari di carta/1 Saggia, paziente e sempre gravida di JACOPO CIRILLO N on si può avere un libro preferito. Il mio è Finzioni, di Jorge Luis Borges. E’ un libro che parla proprio di quello che evoca il titolo: libri inesistenti, personaggi straordinari, biblioteche impossibili. Scrive di finzioni facendo finta che siano vere. Amplifica e ribatte quello che il poeta romantico Samuel Taylor Coleridge chiamava sospensione dell’incredulità, quello che i recenti studiosi di narratività chiamano patto finzionale: la storia è invenzione, io faccio finta che sia vera e la storia deve rispettare questa “credulità” con una propria coerenza interna. Deve creare un mondo possibile dove, al suo interno, le cose succedono secondo una logica. Se il protagonista di un libro, un mago, può volare, allora per tutto il libro questo potere dovrà essere mantenuto, salvo un eventuale anatema nemico o qualsiasi altra cosa coerente però con il mondo possibile creato. La letteratura è per la maggior parte finzionale per un semplice motivo, illustrato bene da questa illuminante storiella. Un pensatore, talmente assiduo da riuscire a pensare anche nel sonno, entrò in un’osteria e mangiò così bene da sentirsi in dovere di fare i complimenti all’oste, un bell’omone allegro. Dopo un breve colloquio, ammirato e meditabondo, il pensatore cominciò a rimuginare sulla possibilità di cambiare occupazione e diventare anch’egli oste. Il giorno dopo, tornato all’osteria, propose al proprietario uno scambio di ruoli. Lo scambio si fece e da quel momento l’oste diventò pensatore e viceversa. Logicamente le cose non funzionarono più, né per il pensatore, né per l’oste. Cosa c’è di strano in questa storia? Che non finisce come dovrebbe finire. Algirdas Greimas, grande semiologo e studioso di narratività, diceva che, per esserci narrazione, ci deve essere trasformazione. Cioè deve cambiare qualcosa, succedere qualcosa di rilevante. Dunque il pensatore potrebbe rivelarsi un grande oste e allietare i commensali con i suoi ragionamenti, oppure dimostrarsi un fiasco, arrendendosi alla supremazia della pratica sul puro ragionamento. Di converso l’oste potrebbe scrivere un libro rivoluzionario o finire sotto qualche ponte. O entrambi potrebbero avere qualche tipo di avventura che li porti a ricambiarsi i ruoli. Invece qui succede l’opposto. La finzione sterza sulla banalità, succede quello che succederebbe nella realtà, cioè che, semplicemente, l’oste non ha le capacità di fare il filosofo e il pensatore non sa cucinare. E va male ad entrambi. Il patto finzionale si è rotto. Thomas Bernhard ha scritto un libriccino pieno di storie di questo tipo (L’imitatore di voci, Adelphi 1987, 165 pagine, 9 euro) in cui sceglie di raccontare con una tecnica giornalistica, più che letteraria, tante piccole notizie di giornale, neutre, reali. Ovvie. Facendolo, ci spiega il motivo per cui si scrivono romanzi, e non cronache. Perché la realtà è noiosa e, come nel rasoio di Occam, succede sempre la cosa che ti aspetti. Cioè che un oste non sia 23 un pensatore e viceversa. Però, però… Truman Capote mostrava, qualche anno prima, che il romanzo perfetto non è letterario ma giornalistico. Non è invenzione, ma realtà. A sangue freddo (Garzanti 2005, 391 pagine, 16 euro) racconta di un terribile eccidio, realmente accaduto, di una famiglia da parte di due balordi ed è il primo esempio, in letteratura, di romanzo giornalistico. Capote si reca sul luogo del delitto, intervista vittime e colpevoli e ci scrive sopra 400 pagine terribili. Il suo è un libro perfetto perché, oltre ad essere scritto divinamente, non è un romanzo ma una cronaca giornalistica. Un fatto accaduto. Reale. Solo la realtà può essere così spietata, così insensibile. Così prevedibile. E morbosamente interessante. Truman Capote l’aveva capito: il romanzo – costitutivamente – non può essere perfetto, poiché è la sua imperfezione che gli conferisce lo statuto. La realtà invece ha due interpretazioni: l’ovvietà della cronaca e la banalità del male. Bernhard o Capote? La letteratura, madre saggia, paziente e sempre gravida, mi ha insegnato che hanno ragione tutti e due. La Posta dei Lettori di Matteo Bettoli di MATTEO BETTOLI C arissimo, Questo mare acquitrino che dopo 100 metri c'hai ancora l'acqua allo stinco ma non ti vedi i piedi (ed. Yanni Padre, 45 euro) è l'ultimo recentissimo memoir di Jacomo Yanni, figlio di Yanni il musicista greco di indubbia fama e indubbio baffo. Jacomo si proclama memoirist di professione, cioè scrittore che riformula ogni pochi anni la storia della sua vita in un nuovo memoir, mantenendo alcuni punti fermi (la figlianza di Yanni, i baffi di Yanni, il lieve mal di testa della moglie, la suocera disperata) ma rielaborandola sotto luce rivoluzionata, spesso contaminato dalle suggestioni e dalle passioni del figlio di papà (baffuto) che può permettersi di avere svariati hobbies ma non un lavoro salariato. Jacomo dopo aver scritto un memoir filtrato da luce indù (Come sono arrivato ad Ahmadabad con la gentile collaborazione di un seguace di Tirthankara) e uno influenzato dalla passione per il cricket pakistano (La palla c'ha il legno dentro e hindi dopo quel colpo in faccia ho smesso) si dedica qui al bagninismo adriatico e ci ripropone la sua vita con un corollario di piadine, giri di liscio, bazze e slappe. lettore di memoir, Prato Fiorito E ffettivamente singolare che un personaggio dalla vita sostanzialmente inutile sfrutti il munifico padre tastierista e compositore senza ritegno, facendosi pubblicare un memoir dietro l'altro con la pretesa che questa rappresenti "la deriva del memoir nel XXI secolo". "C'ho soldi" dice Jacomo Yanni in una recente intervista sul settimanale καλὸς καὶ ἀγαθός "e mi piace viaggiare, viaggio molto perchè posso fare a meno di lavorare. Ma il viaggio mi cambia, mi affatica, mi ridisegna, e su questo ridisegno segno i punti fermi sconfondendo (sic) il resto". Jacomo è bulletto e guida spirituale di chi si sente cambiato dopo 8 giorni di campeggio in Guatemala, 7 giorni di pastorizia sostenibile nel Caucaso o 13 giorni di "lavatrice culturale" in Giappone. Il problema è che, pur immerso in situazioni borderline (in ultimo il bagninaggio esistenziale su una spiaggia dei lidi ferraresi), dalla testa di Jacomo non esce nulla di significativo, solo riflessioni sulle alghe, il mare acquitrino e le zanzare tigre ("degne di vivere, ma magari lontano lontano"). Tornano alla mente le parole di Gualtiero Cannini, indomito critico letterario che a proposito di certi scrittori figli di Yanni e situazionisti nell'accezione più bieca del termine disse qualche anno fa "se una testa è vuota, serve a poco farla viaggiare su e giù per aerei con un brogliaccio e una penna, continuerà a scrivere solo pagliacciate senza senso". • G entile posta, da sempre ricerco ciò che è stiloso, cittadino globale in un mondo in cui la stilosità per una ristretta cerchia snobbish è inversamente proporzionale alla percezione della 24 stilosità nel sentire comune (es. le espadrillas sono tornate ad essere da sfigati quando ce le hanno avute tutti, così da rendere tutti una massa informe di sfigati. per di più con le espadrillas. butta male per il vinile e per i libri usati, butta meglio per la musicassetta e la lettura di libri fotocopiati. bene il portamine, superata la matita ed il temperamatite, che oltretutto non passa i controlli all'aeroporto. male il caffè espresso, leggermente meglio il frappuccino. male l'alta definizione, meglio il super 8. va di moda essere miope. bene le diapositive. malissimo la cultura in generale.) Ora salta fuori che il retro, cool per regio decreto, non esiste più ed esiste solo il più o meno retro. Tutto è retro, se si attinge a 60 anni di cultura pop, in varie configurazioni e arlecchinate. Come distinguo ciò che è retro cool da ciò che magari è retro ma non cool? Gavagnoli ci ha scritto un libro, Vade retro, e lo vende ad un prezzo non retro, 25 begli euroni. Evaristide, Ventimiglia È retro ciò che torna indietro, ma l'aggettivo è vettoriale (e indica il passato) e non dà giudizi di valore. Retro è tutto ciò che è stato prodotto diciamo dal 1950 in poi, prendiamo lo scoppio della guerra di Korea come anno zero del retro, tanto che nel 1968 i racconti dei veterani di guerra erano già considerati mooolto retro. C'è chi si è arricchito confidando nella nostalgia e smemoratezza del genere umano: gente che ha conservato quaderni, sveglie ed orologi, appendiabiti e lampadari, carta da parati e gingilli decorati, camicie, magliette e memorabilia, per poi deviare su apparecchi elettronici e di modernariato tecnologico, torce alogene e led tintillanti, calcolatori e proiettori, ed ha infine venduto il tutto a ditte fameliche di idee "originali" o a retro-fans dimentichi di quanto, in prima battuta, facesse schifo tutta sta roba e fosse scomoda e/o inutilizzabile. Gavagnoli prova a salvaguardare i retro-fans dal rovinarsi, dilapidando conti in banca e mettendo in discussione unioni a volte deprimenti (ma meglio di niente oh), riempiendo casa con retro-puttanate che al limite faranno abbozzare un sorriso all'amico che compatisce, qui più che mai nell'accezione originaria di "partecipazione all'altrui patimento". Gavagnoli salva solo gli orologi Casio dal suo iconoclastismo partecipato: "quelli" ci dice "c'hanno la batteria che dura un sacco e sono fichi". • C aro Bettoli, i primi libri che ho ricevuto in regalo erano libri game. Erano strani libri pagati caro che presupponevano una matita ed una gomma, molta pazienza, un cuore puro e aperto all'infinito e una bella spremuta con lo zucchero come quella che fa mamma. Ormai caduti nel dimenticatoio (e sembrava non bastare il lancio di due dadi per tirarli fuori), rappresentano un serbatoio indimenticato ed indimenticabile di suggestioni e avventure in boschi magici, dove la civetta dialoga con la scopa, il guerriero spezza una lancia in faccia al buffo goblin e tutti insieme, tenendo bene a mente i punti esperienza, si può fare passi avanti nel cammino che porta ad un livello superiore di consapevolezza fantasy. Ora tornano, rivisti e corretti per un pubblico adulto, ché i bambini le case editrici li danno decisamente per persi. Il nuovo target sono i giovani adulti o i vecchi tardo adolescenti sugli -enta, quelli che c'hanno qualche soldo derivante dal lavoro o un bel vitalizio strappato a genitori ormai esausti, quelli che possono sputtanarsi cifre un tempo impensabili in cose inutili che -per necessità o per pudore- tenevano ben lontane fino a poco fa. In questo contesto la casa editrice Lupo Sfigato ha dato alle stampe tanti nuovi libri game che ci fanno godere come pazzi, impegnati con la nostra matitina e la gomma Staedtler sulla metro o a letto, impegnati a non considerare il/la partner. Ascia stupida, contea di Ganderorn 25 C ara Ascia stupida, ricordo bene i libri game perché me ne comprarono vagonate da bambino e quelli della biblioteca erano sempre fuori o irrimediabilmente inzaccherati. Mia madre, illusa, pensava che leggerli avrebbe sviluppato in me un'intelligenza vispa e profonda. Penso oggi che leggere Harmony sarebbe stato uguale, e forse mi avrebbe insegnato più cose del mondo dei grandi. Niente da fare: pure le figurine dell'inglese dovevo fare, raccolte noiosissime che non faceva nessun altro e così rimanevo con un sacco di doppioni del present perfect. I libri game non hanno reso nessuno più intelligente rispetto all'ipotetico lettore pre-adolescenziale di Harmony, e a pensarci ancora mi viene il nervoso per non essere riuscito a sconfiggere l'infido agnello vegetale a difesa della porta numero 2: sono sicuro che lì dietro ci fosse la chiave del tempio di Marigorn. Lupo Sfigato è una casa editrice che punta sul revisionismo di quanti avevano bollato i libri game come minchiate, e propone titoli come Ti ho scaricato perché sei misero, guadagna soldi sfruttando sacche speculative e riconquistami, oppure Gioca nel campionato brasiliano ed entra nella favela di Adriano. Titoli giovani ma anche maturi. Già si vedono i primi che hanno annusato il fenomeno e stanno in tram con gli occhiali da sole, le cuffiette, un libro, una matita in mano, un temperamatite e un paio di dadi, sembrando coglioni. Avanti così. T ixiotropica è una sostanza che cambia la sua viscosità se sollecitata. Ovvero quando la lasciate ferma è dura ma se la scossate si squaglia. Una cosa davvero noiosa, eppure è in questo genere di cose che si cela uno degli altri aspetti più belli della scienza: l’onnipresenza della natura e la sua genialità. Il perché sostanze siano tixiotropiche è davvero complicato e lo lasciamo felicemente perdere. Tutti noi abbiamo avuto a che fare con sostanze tixiotropiche. La più comune è la sabbia bagnata. È dura, ci camminiamo sopra sulla battigia e si deforma poco con tut- rie hanno questo comportamento. Anche i muscoli lo sono. Infatti i tessuti connettivi se freddi sono rigidi, se sollecitati si sciolgono, letteralmente: diventano più fliudi. Ecco perché bisogna fare sempre un riscaldamento prima di un esercizio sportivo impegnativo e faticoso. In questo modo possiamo far sì che i muscoli si rilassino e siano più elastici, migliorando le nostre prestazioni e diminuendo la possibilità di infortuni. Carino, no? Ma perché poi dovrebbero essere tixiotopici? A che giova? La rigidità che vengono ad assumere in seguito al poco utilizzo o ad un lungo riposo ha un grandissimo vantaggio: per- mette di consumare poche o nulle energie per mantenere una corretta postura durante il riposo (non ci muoviamo, i muscoli si irrigiscono e stanno bloccati senza dover essere tirati) così da impedire al corpo di assumere posizioni sbagliate. E ancora, i dorsali che non vengono praticamente mai sollecitati sono molto rigidi, così possiamo tenere una postura corretta senza sforzo e senza consumare energie. Ecco l’altra grande bellezza della scienza: offre una chiave di lettura profonda della realtà delle cose e ne rivela i perfetti equilibri. Pillole di scienza Tixitropici di San Gennaro di FABIO PARIS to il nostro peso, ma se la prendiamo in mano e la muoviamo un po’ cola e ci inzacchera tutti. Oppure il ketchup. Sta tutto fermo sul fondo del vasetto e non scorre. Allora per muoverlo gli diamo una botta e lui, perfido, diventa improvvisamente fluido e ancora ci inzaccheriamo. Un motivo in più per boicottare i fast food. Poi c’è un famoso fluido tixiotropico (o supposto tale): il sangue di San Gennaro che quando viene scossato da quell’uomo vestito di rosso diventa fluido. Ah... no no... questo è un miracolo. Beh, se volete impressionare gli amici riempite un’ampolla con del ketchup, vestitevi di rosso (magari serve...) e provate a fare il miracolo a casa. Riuscirà. Ma non solo sabbia e salse va- 26 Metaletterari di carta/2 Abbasso i paroloni di JACOPO CIRILLO I l miglior modo per valutare la bontà di un cameriere è notare se il suo atto di aprire una bottiglia di vino e di versarla influenza, o addirittura inibisce, la conversazione a tavola. Di solito è così: mentre lui fa tutte queste cose, si sta zitti e ci si guarda negli occhi finché non se ne va. E invece i camerieri migliori sono quelli che passano, ti servono, non te ne accorgi ma ne noti lo stile. Così, spesso, deve essere la scrittura. Ha ancora senso, allora, parlare di libri scritti bene, scritti male o scritti difficili? Spesso accade che ci si rallegri per cose perfettamente normali e dovute. Ad esempio quando il parlamento approva una legge giusta o ne respinge una sbagliata. Non è stato bravo, o particolarmente onesto. Ha fatto solo il suo dovere. Per i libri deve essere lo stesso. “E’ scritto bene” non è un complimento, perché ci si deve aspettare che un libro almeno sia scritto bene – a meno che la cattiva scrittura non sia la cifra stilistica dell’autore, ma questo è un altro discorso. Questa dinamica si ripete stesso per i nuovi scrittori. Ecco, per esempio, Carlo Mazzoni (I postromantici, Salani 2007, 269 pp., 14 euro), giovane esordiente, scrive abbastanza bene. E basta. Non è sempre detto, però, che un libro scritto male sia brutto (a par- te La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano, Mondadori 2008, 304 pp., 18 euro, s’intende). Spesso il cattivo stile o la farraginosità del discorso non sporcano le belle idee: talvolta malcelano uno straripante talento in un’altra arte. Per esempio Peggio di un bastardo di Charles Mingus (Baldini Castoldi Dalai 2005, 373 pp., 18 euro) è scritto proprio male. E’ confuso. E’ inconcludente. Però, nel degrado di questa scrittura si vede chiaramente che quelle mani non sono state fatte per tenere una penna ma per pizzicare delle corde. E che vale la pena raccontarne la storia. Ricordate la metafora del cameriere? Quando il poverino in livrea inciampa e vi sporca la camicia con una bella chiazza color vinaccia, ecco quella è la scrittura opaca. Nella Diceria dell’untore (Bompiani 2001, 190 pp., 9 euro), Gesualdo Bufalino usa una scrittura ingombrante, invadente, che ti (dis) toglie il fiato e ti distoglie dalla storia. Formule come: “una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili”, “le metafore dell’emottisi”, “i quagli petrosi del suo difficoltoso emuntorio” sono tutte nella stessa pagina. La scrittura è troppo opaca e pone un filtro tra il lettore e la storia. Non seguo la trama perché sono troppo impegnato a decifrare il significato delle parole. Questa è finta cultura. E poi, che cosa sono le emottisi? E un quaglio? 27 Certe volte, allora, i paroloni sono irritanti. Fanno il lavoro contrario di quello che ci si aspetterebbe: invece di svelare il mondo, lo nascondono. Altre volte però, certe parole, seppur altisonanti, sono il modo migliore – o unico – per centrare il concetto. In semiotica ci sarebbero mille esempi, tuttavia mi sembra più divertente riferirsi al “Manuale delle Giovani Marmotte” (Walt Disney Company Italia, 9 volumi, 8 euro l’uno). Come descriverlo? Un libro in cui c’è scritto tutto? Il libro di quei ragazzi che sono più o meno scout? No. Il Manuale è un libro interattivo che risponde alla domanda che gli si pone nella contingenza del pericolo o della necessità. Trascende lo scoutismo mantenendone solo alcune attestate gerarchie e non è altro che una borgesiana biblioteca di Babele, condensata in un tomo con un rombo in copertina, a disposizione di tre ragazzini più svegli della media, di un pusillanime in blusa da marinaio e di un vecchio angarione. Graphic Novel “Summer Blonde” di Adrian Tomine di MARINA PIERRI U na volta, qualcuno mi ha raccontato una storia che mi ha condizionato parecchio: “ragazzina”, mi hanno detto, “nella vita siamo tutti in fila uno dietro l’altro. Ognuno guarda quello avanti che è meglio di lui e così via, all’infinito. E per quello avanti a te, tu sei solo un’ombra”. Non ho bisogno di dirvi quanto trovi deprimente questa storia, che però non tiene. Come avrete intuito, infatti, la parabola ha un inconveniente fondamentale: se tutti siamo solo un rumore di fondo per l’altro, com’è possibile che poi, invece, ci si innamori, si facciano figli, si stringano amicizie a volte eccezionali e lunghissime? Insomma, la metafora mi ha colpito, ma non funziona davvero. È solo pessimismo gratuito. Troppo spesso succede che qualcuno dia un colpetto sulla spalla al suo predecessore e che quello si giri e si renda conto che sei fatto di carne ed ossa. Talmente spesso da inficiare la considerazione tutta. Mi sono presa la briga di raccontarvi questa storia perché sulla copertina dell’edizione inglese di Summer Blonde di Tomine (Drawn & Quarterly, ma è anche disponibile nella versione italiana da Coconino Press) c’è un’ombra proiettata sui sandali portati da due bei polpacci di ragazza. La cosa è piuttosto importante perché l’immagine riassume tutto questo splendido volume, che si compone di quattro storie diverse e pure molto simili, il cui tema generale, a grandi linee, assomiglia molto alla faccenda della gente in fila di cui sopra. Il mondo grafico dell’autore - che è un amero-giapponese di quarta generazione (così dice la sua pagina di Wikipedia) e ricorda molto quello del buon Daniel Clowes – si compone più o meno interamente di persone fisiche e ombre. Ogni racconto ruota attorno a un inseguimento: qualcuno fa di tutto per essere “visto” da qualcun altro e di solito finisce per riuscirci, in una maniera o nell’altra. Ognuna delle quattro figure centrali di Alter Ego, Summer Blonde, Hawaiian Retreat e Bomb Scare lotta per cambiare statuto: da insieme di linee e colori a personaggio, da personaggio a persona, da persona a protagonista in un movimento triplice, armonioso, dentro e fuori dalla pagina. Questo fa di Summer Blonde un libro sulla trasformazione, o, più correttamente sul tentativo di trasformarsi; dunque sull’evoluzione, sulla rivoluzione. Non aspettatevi che si tratti di pagine dense di azioni e colpi di scena: tutt’altro. Non succede nulla di straordinario nelle poche pagine concesse a ogni personaggio, ma l’uso che fa Tomine del mezzo graphic novel è molto “filmico”; così, almeno nella misura in cui le parole e le immagini funzionano da oggetti per un lettore che deve essere messo nelle condizioni di esperire il mondo dei personaggi, alla fine una sciocchezza diventa un evento straordinariamente sa- 28 liente. In più, non abbiamo nessuna finestra sui pensieri e le intuizioni di Martin, Hillary o Alex: tutto quello che abbiamo a disposizione per farci un’idea di loro e, nella migliore delle ipotesi, nutrire dei sentimento positivi o negativi nei loro confronti, sono le loro scelte. Che di solito sono buone. E prevedono un colpetto sulla spalla alle persone che li precedono in quella famosa storia della fila che, indovinate un po’, mi sono inventata per scrivere quest’articolo. C i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si al- ternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Iperboloser Évariste Galois di JACOPO CIRILLO I l piccolo Évariste, nel 1820, era un bambino solitario e problematico. Tutti lo prendevano in giro perché il suo cognome si pronunciava come la marca di sigarette. Hei Évariste, ce l’hai una paglia? Ahahahahahaa! - lo schernivano. Hei Évariste, fabbricami una sigaretta, ahhahaha! – lo irridevano, basandosi sul fatto che al tempo si prendeva il tabacco e le cartine e si fabbricavano le sigarette da soli. Allora i giovani dicevano “fabbricare” invece di “fare su”. Per questo il piccolo Évariste diventò un genio della matematica e un abile intagliatore di legno. Portava sempre il suo coltellino svizzero con sé. Al compimento dei quin- dici anni fu convocato dal re che voleva fargli i complimenti per aver risolto un problema che assillava la matematica da millenni, cioè determinare un metodo generale per scoprire se una equazione è risolvibile o meno con operazioni quali somma, sottrazione, moltiplicazione, divisione, elevazione di potenza ed estrazione di radice, ma le guardie notarono l’oggetto contundente e lo misero in galera. Quivi il piccolo genio, irriso dai secondini con frasi tipo Évariste, fatti una paglia prima dell’impiccagione ahahahah!, scrisse la sua grande opera sulla teoria delle equazioni che propose prima a Cauchy, che gli disse di no, poi a 29 Fourier, che gli disse di sì poi però morì e si portò nella tomba tutto il megaprogetto del tabagist.. ehm di Évariste. Uscito dal carcere, a vent’anni, si innamorò di una tabaccaia e morì in duello per difendere il suo onore e una partita di toscanelli. Si racconta che l’ultimo desiderio di Évariste sul letto di morte fu la prima sigaretta della sua vita. Tossì, prima di spegnersi. Contributi da: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissimo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può permettersi. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata. Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù. Sono Davide La Rosa e faccio i fumetti anche se non so disegnare (so che questa cosa potrebbe far strabuzzare lo strabuzzabile ma avrei potuto fare il chirurgo senza saper nulla di medicina). Sono nato il 23 giugno del 1980 e un giorno morirò ma non so darvi una data precisa. Una volta morto, comunque, voglio essere caramellato. Vabbè non c'è molto altro da dire su di me. Chi volesse leggere i miei fumetti può trovarli qui: http://www. lario3.splinder.com/ Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre paesi è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto. Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”. Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. n. 11 / Marzo 2010 [email protected] www.finzionimagazine.it 30 Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico. Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la figlia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto saltellando allegramente tra le piramidi. Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Simone Rossi vive e scrive e suona alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Una volta è stato in Etiopia, poi è tornato e ha scritto La luna è girata strana (Zandegù). Un'altra volta si è messo davanti a internet e ha detto: Ciao internet, ho scritto un (altro) libro. Se me lo finanzi in anticipo me lo pubblico da solo. Ha funzionato: è nato sbriciolu(na)glio. A questo punto dovresti andare su simonerossi.tumblr.com per vedere come continua. Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali. Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie. Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera. Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo. Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto. Finzioni è disponibile solo su abbonamento. 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