La paura del vuoto di Nicola, Giovanni, ma - "Ferraris"

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La paura del vuoto di Nicola, Giovanni, ma - "Ferraris"
Antonio Pizzolante1
La paura del vuoto di Nicola, Giovanni,
ma … anche di Jackson
È una paura antica quella dell’artista di fronte al vuoto della superficie su cui
intervenire, sia essa stesa a intonaco dai frescanti medievali o preparata a guache sui
testi antichi dai monaci benedettini, o stemperata da imprimitura di colla e gesso nei
grandi teleri di lino cinquecenteschi o anche sbozzata sulle lastre di marmo statuario,
da abili scalpellini. Certo è che, nonostante miriade di riflessioni e ripensamenti su
carta e cartoni preparatori, il dubbio, l’incertezza, l’ansia e l’angoscia del vuoto, si
manifestano come un fulmine in un cielo terso, come un incubo in una felice notte di
mezz’estate. E’ questo horror vacui, questo terrore di fronte al nulla, che attanagliava
i capimastri delle grandi cattedrali gotiche pervasi dall’idea che la narrazione doveva
essere istituita a dispetto del vuoto. Questa concezione animò gran parte dell’arte
della seconda metà del XIII secolo e soprattutto due protagonisti della scultura di
questo periodo: Nicola e Giovanni Pisano, padre il primo, figlio il secondo. Pugliesi
d’origine forgiati dall’illuminante cultura federiciana, si stabilirono verso gli anni
trenta del duecento in terra toscana, dove ebbero incarichi e prestigiose committenze,
lavorando spesse volte insieme a “collaboratori” importanti per la cultura visiva
trecentesca, tra questi Donato e Lapo di Ricevuto ma soprattutto Arnolfo di Cambio.
Esempio di questa generosa creatività il Pulpito della Cattedrale di Siena eseguito tra
il 1265 e il 1268.
1 Docente di Disegno e Storia dell’Arte al Ferraris.
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Nicola Pisano e aiuti, Pulpito. Lastra con la Crocifissione - Cattedrale di Siena, 1265/1268
In quest’opera i Pisano manifestano tutta l’ansia per la marmorea superficie,
operano senza lasciare un minimo spazio che non sia cesellato, scalpellato, rifinito,
perfezionato nei minimi dettagli. Le soluzioni compositive che offrono, per essere
considerati dalla storia gli antesignani della grande stagione rinascimentale, si
possono ravvisare certamente nella forza dinamica che ogni personaggio ha in sé,
quella forza che levita attraverso la mimica dei volti, che diventa pura forza
espressiva e come dice il Vasari “migliore invenzione e migliore attitudine”, una
forza capace di attingere alla scultura romana, ma che ha voglia di discostarsene
attraverso i sentimenti più profondi. È una forza interiore che motiva tutti i sette
rilievi con modulazioni diverse: dalla pacata sensibilità dei Magi in Adorazione, alla
congestione drammatica della Crocifissione con le figure di San Giovanni mosso da
un pianto dirotto e la commovente figura della Vergine spossata dal dolore e sorretta
dalle Pie Donne.
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Nicola Pisano e aiuti, Pulpito. Particolare della lastra con
Crocefissione - Cattedrale di Siena 1265 / 1268
L’opera senese nella sua ottagonale struttura in osmosi tra architettura e scultura,
da questo punto di vista sa colmare quel terrore del vuoto così tanto temuto, ma poi
abbondantemente superato dal guizzo creativo che l’artista è capace di concretizzare
nei confronti della storia.
J. Pollock al lavoro nel suo studio a Long Island
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Sullo stesso fil rouge seconda scena ma non seconda storia: New York 1929, anno
della “grande depressione”. Jackson Pollock (1912-1956) giovane comunista di Cody
nel Wyoming figlio di un agricoltore del nord – ovest degli Stati Uniti, si catapulta
nella grande metropoli, convinto che nella vita l’arte poteva essere l’unica strada da
percorrere. Una convinzione che lo condurrà a rifondare le espressioni visive del
nuovo continente, ma soprattutto a essere il maggior rappresentante
dell’espressionismo astratto americano. Action Painting verrà chiamata la sua pittura,
vitale e ritmata come le sonorità inconfondibili di Miles Davis, ribelle e
anticonvenzionale come la “Gioventù bruciata” di James Dean, sfacciatamente
antiaccademica, capace di ripudiare persino gli strumenti della tradizione. Perché
Jackson, “dipingeva” attraverso l’azione del suo corpo in un dripping continuo e
incessante, sgocciolando vernice sintetica sulla candida tela e pervenendo a una
pittura all over in cui non si conosce ne l’inizio ne la fine in un rigenerante intrigo
segnico e cromatico.
Scontroso, burbero, irrequieto, dedito all’alcool, offuscato dal demone della
depressione, Pollock cercava attraverso l’arte di dribblare il suo mal di vivere, il suo
personale Horror vacui saturo di ansie, paure, distorsioni psichiche che solo
attraverso il rito della creazione tentava di metabolizzare. La sua vita sregolata finisce
prematuramente a quarantotto anni una calda sera d’agosto del 1956, schiantandosi in
automobile contro un albero di ritorno nella sua casa a Long Island. Il “cowboy
esistenzialista” proveniente dal cuore del selvaggio west americano aveva vinto il
vuoto “entrando letteralmente dentro il quadro” camminandoci intorno istituendo
quella trama cromatica impareggiabilmente vivifica, che lo consegnerà alla storia dei
miti.
Jackson Pollock, Numero 8 - 1949
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