Non per galateo ma per obbedienza all`unico Signore Il catechismo

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Non per galateo ma per obbedienza all`unico Signore Il catechismo
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
giovedì 19 gennaio 2012
Il tema del primato al centro del dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa
Tre volumi per le famiglie in Terra Santa
Non per galateo
ma per obbedienza all’unico Signore
Il catechismo
in ebraico
Il dialogo teologico tra la Chiesa
cattolica e la Chiesa ortodossa prosegue il suo cammino nel contesto
di una fitta trama di rapporti personali e istituzionali, che, nell’anno da
poco trascorso, hanno conosciuto un
ulteriore sviluppo e una nuova profondità. Si tratta del dialogo della
vita che comprende visite fraterne,
come, a esempio, quella dell’arcivescovo di Nea Giustiniana e tutta Cipro Chrysostomos II a Papa Benedetto XVI che ha avuto luogo lo
scorso marzo, ma anche scambi di
delegazioni, collaborazioni in diversi
campi, contatti epistolari. Tutto ciò,
lungi dall’essere espressione di un
semplice “galateo” ecumenico, contribuisce in maniera efficace alla formazione di una più matura interiorità dei singoli, ma anche delle stesse
Chiese, in quanto si superano le antiche barriere e i vecchi pregiudizi.
Un momento di particolare visibilità del progresso di queste relazioni
fraterne è stato la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, celebrata ad Assisi il 27 ottobre scorso. La
presenza di numerosi rappresentanti
provenienti da altre Chiese e comunità ecclesiali — tra i quali, per
quanto riguarda le Chiese ortodosse,
In quella sede, la Commissione aveva approvato e pubblicato un documento dal titolo Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione
ecclesiale, conciliarità e autorità, nel
quale cattolici e ortodossi affermavano insieme, per la prima volta, la
necessità di un primato al livello di
Chiesa universale e concordavano
sul fatto che questo primato spettava alla sede di Roma e al suo vescovo, mentre riconoscevano ancora
aperta la questione relativa al modo
di comprendere e all’esercizio di
questo primato, nonché ai fondamenti scritturistici e teologici.
Sulla base di quanto affermato
nel documento di Ravenna, la Commissione aveva elaborato un progetto di lavoro, secondo il quale l’attenzione si sarebbe concentrata innanzitutto sul primo millennio
quando i cristiani di Oriente e Occidente erano uniti. Il Comitato misto
di coordinamento aveva quindi redatto una bozza di documento, che,
seguendo una metodologia prevalentemente storica, prendeva in considerazione una serie d’eventi e di
fonti patristiche e canoniche che
mostravano che, nel periodo in oggetto, la Chiesa di Roma aveva un
posto distinto tra le Chiese e aveva
esercitato una particolare influenza
Facendo seguito a queste decisioni, una sottocommissione mista si è
riunita dal 13 al 17 giugno 2011 a Rethymno (Creta, Grecia) su invito del
metropolita ortodosso del luogo,
Eugenios. Alla riunione, presieduta
dal cardinale Kurt Koch, presidente
del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e
dal metropolita di Pergamo Ioannis
(Zizioulas), del Patriarcato ecumenico, erano presenti sei rappresentanti
cattolici e quattro ortodossi provenienti da diverse Chiese autocefale
(Patriarcato ecumenico, Patriarcato
di Mosca, Patriarcato di Serbia,
Chiesa di Cipro). All’inizio dell’incontro, un cattolico e un ortodosso
hanno presentato testi che esprimevano il loro rispettivo punto di vista
sul tema del rapporto teologico ed
ecclesiologico tra primato e sinodalità. Di fatto, però, i due testi seguivano una differente metodologia:
quello cattolico, facendo ampio riferimento alla storia della teologia,
presentava la dottrina cattolica del
primato nel quadro dell’ecclesiologia
eucaristica; quello ortodosso, partendo da un approccio sistematico-speculativo del mistero trinitario, cristologico ed eucaristico, si proponeva
di spiegare la necessità di un primato a livello universale da esercitare
nel contesto della sinodalità. Si rive-
vi erano il Patriarca ecumenico Bartolomeo, l’arcivescovo di Tirana e
tutta l’Albania, e delegati dei patriarcati di Alessandria, Antiochia,
Mosca, Serbia, Romania e delle
Chiese ortodosse di Cipro e Polonia
— ha manifestato in maniera visibile
la comune preoccupazione per le
sorti dell’umanità. Il potere testimoniare insieme il proprio anelito per
la pace e la giustizia nel mondo, in
questi tempi difficili nei quali per
molti aspetti regnano la frammentazione e l’individualismo, rappresenta
una conquista del movimento ecumenico, che nella sua espressione
più profonda è obbedienza all’unico
Signore.
In questo contesto, il dialogo teologico, condotto dalla Commissione
mista internazionale, ha ripreso il
suo lavoro attraverso le strutture di
cui tradizionalmente si avvale, quali
le sottocommissioni e il comitato di
coordinamento, con l’intento di superare gli ostacoli emersi nel corso
della sessione plenaria di Vienna.
La sessione plenaria di Vienna
(2010) era stata dedicata allo studio,
già avviato nel precedente incontro
di Cipro (2009), della questione del
ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo
millennio, sulla base di un testo elaborato dal Comitato misto di coordinamento nel 2008. Con questo testo si intendeva proseguire la riflessione sul tema del primato nella
Chiesa universale, inaugurata con la
sessione plenaria di Ravenna (2007).
in materia dottrinale, disciplinare e
liturgica.
Tuttavia, al termine della sessione
plenaria di Vienna, malgrado l’impegno profuso, non era stato possibile
trovare un accordo per la pubblicazione di un documento comune. Alcuni membri ortodossi consideravano il testo in esame sbilanciato verso
la posizione cattolica in quanto privo di riferimenti alle altri grandi sedi ecclesiastiche della Chiesa antica
e al loro ruolo nei Concili ecumenici. Altri esprimevano la loro perplessità di fronte alla possibilità di approvare un testo di carattere essenzialmente storico da parte di una
commissione teologica. Dopo una
lunga discussione, la delegazione
cattolica accettò la proposta di considerare il testo come uno strumento
di lavoro da utilizzare per le successive tappe del dialogo. Animati dalla ferma volontà di continuare il
dialogo sulla strada aperta dal documento di Ravenna, i membri della
Commissione decidevano di affidare
a una sottocommissione il compito
di preparare la bozza di un nuovo
documento da sottoporre in seguito
allo studio del Comitato di coordinamento, in vista di una futura sessione plenaria da convocare appena
possibile. In particolare, si stabiliva
che il nuovo testo dovesse prendere
in considerazione il tema del primato nel contesto della sinodalità da
una prospettiva più marcatamente
teologica.
lava, pertanto, particolarmente ardua l’impresa di preparare un testo
comune condiviso. Per evitare che la
riunione si concludesse senza portare a termine il compito affidato, la
sottocommissione decideva di utilizzare come base della discussione il
testo proposto dagli ortodossi, proponendo degli emendamenti per
ampliarne la prospettiva. Si riusciva
in tal modo a produrre un testo da
sottoporre allo studio del Comitato
misto di coordinamento.
La riunione del Comitato misto di
coordinamento ha avuto luogo a
Roma dal 21 al 26 novembre 2011.
Tale organismo era composto da nove membri cattolici e da nove ortodossi (Patriarcato ecumenico, Patriarcato di Alessandria, Patriarcato
di Mosca, Patriarcato di Serbia, Patriarcato di Romania, Chiesa di Cipro, Chiesa di Grecia) sotto la presidenza del cardinale Koch e del metropolita Ioannis. Nel corso della
riunione i lavori sono proceduti
molto lentamente. L’impostazione
sistematico-speculativa della bozza
del documento, ereditata dal testo
preparatorio proposto dalla parte ortodossa, suscitava non poche riserve
in alcuni membri cattolici. A questo
si aggiungeva il fatto che non tutti i
membri ortodossi si riconoscevano
in ciò che nel documento in esame
veniva presentato come la posizione
ortodossa sul primato al livello della
Chiesa universale, rendendo complicato per i cattolici comprendere il
punto di vista ortodosso. A motivo
di ANDREA PALMIERI*
di queste difficoltà, il Comitato di
coordinamento non ha potuto completare lo studio della bozza di documento, ma ha fissato un nuovo
incontro per il prossimo anno al fine
di proseguire la revisione del documento, chiedendo nel frattempo a
un piccolo gruppo di redazione di
riscrivere alcuni paragrafi problematici.
Un caloroso invito a proseguire
sulla strada del dialogo con fiduciosa speranza, malgrado la consapevolezza delle difficoltà del momento, è
stato espresso da Papa Benedetto
XVI, nel discorso pronunciato davanti ai membri della delegazione del
Patriarcato ecumenico in visita a Roma per la festa dei santi Pietro e
Paolo, lo scorso giugno: «Seguiamo
con grande attenzione il lavoro della
Commissione mista per il dialogo
teologico tra la Chiesa cattolica e la
Chiesa ortodossa nel suo insieme. A
uno sguardo puramente umano, si
potrebbe essere presi dall’impressione che il dialogo teologico fatichi a
procedere. In realtà, il ritmo del dialogo è legato alla complessità dei temi in discussione, che esigono uno
straordinario impegno di studio, di
riflessione e di apertura reciproca.
Siamo chiamati a continuare insieme
nella carità questo cammino, invocando dallo Spirito Santo luce e
ispirazione, nella certezza che egli
vuole condurci al pieno compimento
della volontà di Cristo: che tutti siano uno (Giovanni, 17, 21)». A sua
volta, il Patriarca ecumenico Bartolomeo, rivolgendosi alla delegazione
della Santa Sede in visita a Costantinopoli in occasione della festa di
sant’Andrea, il 30 novembre scorso,
tra le altre cose affermava: «Il lavoro
di questa Commissione è lungi
dall’essere semplice, poiché i problemi che si sono accumulati nel corso
di molti secoli, in seguito al reciproco estraniamento e talvolta alla disputa tra le due Chiese, esigono uno
studio e una riflessione attenti. Tuttavia, con la guida del Consolatore,
con buona volontà da entrambe le
parti e il riconoscimento del nostro
dovere dinanzi al Signore e agli uomini, si arriverà agli esiti auspicati,
quando il Padrone della vigna lo riterrà opportuno».
Nel corso del 2011, dunque, il superamento degli ostacoli incontrati
nella plenaria di Vienna è riuscito
solo in parte. Il raggiungimento di
un consenso condiviso tra cattolici e
ortodossi sulla cruciale questione del
primato al livello della Chiesa universale richiede ancora molto impegno da parte della Commissione mista. Alla complessità del tema che è
stato per secoli al centro del contenzioso tra la Chiese di Oriente e di
Occidente, si aggiunge la necessità
di una laboriosa riflessione sulla metodologia con cui si tratta l’argomento. La consapevolezza delle differenze che si sono sviluppate nel
corso dei secoli, che sembrano riguardare il modo stesso di fare teologia, non deve tuttavia far dimenticare che cattolici e ortodossi condividono la preziosa eredità del patrimonio di fede e delle discipline ecclesiastiche della Chiesa del primo
millennio. In maniera significativa,
il Santo Padre, incontrando i rappresentanti delle Chiese ortodosse e
orientali ortodosse presenti in Germania, durante il viaggio apostolico
in quella nazione il 24 settembre
2011, affermava: «Senza dubbio, fra
le Chiese e le comunità cristiane,
l’Ortodossia, teologicamente, è la
più vicina a noi; cattolici ed ortodossi hanno conservato la medesima
struttura della Chiesa delle origini;
in questo senso tutti noi siamo
“Chiesa delle origini”, che tuttavia è
sempre presente e nuova. E così
osiamo sperare, anche se da un punto di vista umano emergono ripetutamente difficoltà, che non sia troppo lontano il giorno in cui potremo
di nuovo celebrare insieme l’Eucaristia». È con questa convinzione che
cattolici e ortodossi devono continuare il dialogo teologico per chiarire le differenze teologiche il cui superamento è indispensabile per il ristabilimento della piena unità, che è
la meta per la quale si sta lavorando. Si tratta, come si è visto, di un
impegno che in questo momento
non sembra facile, ma che è irrinunciabile perché corrisponde alla volontà di Dio, nella fondata speranza
che lo Spirito Santo, secondo i suoi
imperscrutabili disegni, porterà a
compimento.
*Pontificio Consiglio per la Promozione
dell’Unità dei Cristiani
di MARCO BONATTI
Come si scrive «Trinità» in ebraico?
E «Immacolata Concezione»? E
«incarnazione»? Il problema non è,
naturalmente, la semplice traduzione delle parole ma il contesto in cui
le verità cristiane vanno presentate.
La cultura e la teologia ebraica non
conoscono questi concetti, e dunque il linguaggio non permette di
accedervi. Anche per questo sono
stati pubblicati, nei giorni di Natale, i primi tre volumi del catechismo in lingua ebraica, destinati ai
bambini e alle famiglie che, in terra
di Israele, vogliono cominciare o
continuare il proprio percorso nella
fede cristiana. Un impegno rivolto
non tanto agli ebrei (sono poche le
conversioni) quanto ai cristiani che
lavorano in Israele. Si tratta di lavoratori che provengono dalle Filippine, dall’Africa, dall’America
Latina che, con le loro famiglie, vivono nello Stato di Israele per
qualche mese o per parecchi anni.
Si calcola che siano ormai 230.000.
E vorrebbero non sciogliere i legami con la propria fede, per sé e per
i propri figli. Poi ci sono i cittadini
israeliani di etnia araba e religione
cristiana. E anche alcune comunità
di «giudeo-cristiani»: persone di fede ebraica che intendono continuare il cammino dell’«ebreo» Gesù di
Nazareth credendo nella sua rivelazione.
Padre David Neuhaus, gesuita, è
vicario patriarcale di Gerusalemme
dei Latini con l’incarico di seguire
la pastorale di tutti questi «israeliani speciali». Prima di lui il compito
era toccato a padre Pierbattista Pizzaballa, il francescano custode di
Terra Santa. Assieme al custode di
Terra Santa, padre Neuhaus aveva
iniziato questo lavoro particolare e
straordinario di traduzione, silenzioso e discreto. Nel cuore della
Gerusalemme nuova — e dunque
nel pieno della «civiltà» ebraica —
c’è la piccola chiesa dove il Patriarcato accoglie le attività della pastorale di lingua ebraica. Con padre
Neuhaus lavorano stabilmente trentacinque famiglie, che si sono prese
l’incarico di animare la catechesi e
di gestire i servizi rivolti a migliaia
di bambini e alle loro famiglie. Circa cinquecento persone partecipano
stabilmente alle liturgie e alle attività pastorali del vicariato ebreofono.
«Sono principalmente israeliani di
provenienza mista — spiega padre
Neuhaus — parenti di ebrei, bambini di ebrei, alcuni ebrei convertiti e
altre persone che non sono ebree
ma sono integrate nella società
ebraica». Questo, specifica, «è il
primo gruppo molto ristretto, ma
poi ci sono gruppi più vasti: gli
operai stranieri che parlano ebraico
ma non frequentano le nostre liturgie in ebraico. Il problema con loro
è quando hanno bambini che frequentano le scuole ebraiche. Noi
entriamo per cominciare un’attività
per bambini che sono totalmente
formati nelle scuole ebraiche laiche».
L’impegno è rivolto anche agli
arabi cittadini israeliani, discendenti
di quei palestinesi che non fuggirono nel 1948. Alcune famiglie hanno
lasciato la Galilea per trasferirsi al
sud, soprattutto a Beer Sheva, e lavorano con i beduini come professori o medici ma non mandano i
loro bambini alle scuole di lingua
araba a causa del livello basso delle
scuole. «Quindi, i nostri libri di catechesi, la nostra rivista, il nostro sito internet (www.catholic.co.il), la
nostra liturgia — osserva il gesuita
— servono a questa popolazione.
Anche quando il rito non è il loro,
perché molti per esempio sono di
rito bizantino o maronita». E evidenzia: «Noi non proviamo ad attirare questi bambini a venire nella
Chiesa di rito latino. Insistiamo invece sulla formazione cristiana. Cristiana in ambiente ebraico e laico.
Queste persone non si integrano
dal punto di vista religioso, ma dal
punto di vista culturale, linguistico».
Il vicario descrive una realtà che
appare complessa. I lavoratori stranieri che arrivano in Israele devono
mandare i propri figli alla scuola
pubblica, dove si insegna e si parla
l’ebraico, in quanto le scuole private sono inaccessibili, per via dei costi. Così ci sono bambini arabi, cittadini israeliani e figli di cittadini
israeliani, che crescono imparando
l’ebraico senza parlare la propria
lingua “nativa”. «Ci sono anche
africani — aggiunge — che vengono
qui chiedendo asilo politico, tuttavia quello che a noi interessa sono i
bambini che sono integrati nella
scuola e dopo alcuni anni parlano
essenzialmente l’ebraico, ma possono scrivere e leggere anche altre lingue. Abbiamo una grande quantità
di bambini libanesi, palestinesi, arabi che vivono nelle città ebraiche. I
nostri libri di catechismo — puntualizza — non servono solo per i “nostri” bambini, ma sono per tutti i
bambini che frequentano la scuola
ebraica». In questa realtà ci sono
infine anche cittadini israeliani che
si dichiarano atei, non professano
nessun culto ma sono ebrei per cultura, storia e anche nazionalità. Il
lavoro di formazione (e in questo i
catechismi sono fondamentali) riguarda non soltanto i percorsi di
iniziazione cristiana dei bambini ma
anche quelli rivolti alle persone
adulte. «La nostra sfida — conclude
il vicario — non è solo dare la formazione ai bambini più piccoli ma
di lavorare anche con quelli di età
dai quindici ai venticinque anni,
per dare un senso di Chiesa e di essere cristiano, un senso di gioia».