Di cosa stiamo parlando

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Di cosa stiamo parlando
Management in transizione.
Ricerca e azione in un mondo in movimento
ENZO RULLANI*
1. Il nuovo management: un cantiere aperto
“Grande è la confusione sotto il cielo: quindi la situazione è eccellente”.
È una frase che, nata per definire la Cina al tempo della rivoluzione culturale,
oggi potrebbe essere applicata alla situazione del capitalismo post-2000, nato dalla
globalizzazione dei mercati e dalla smaterializzazione del valore. Il capitalismo
globale della conoscenza che ne risulta è oggi, in effetti, un cantiere aperto. Un
cantiere disordinato in cui campeggiano smisurate promesse ma anche una grande
confusione di idee e di comportamenti (Rullani, 2010a).
Mao Tse Tung poteva fare a ragione questa affermazione perchè percepiva il suo
mondo come un universo in forte e accelerata transizione, in movimento accelerato
verso un paradigma diverso. È una transizione che poi effettivamente c’è stata,
anche se in direzione opposta a quella da lui immaginata.
Un universo in transizione non va avanti ordinatamente, secondo programma.
Avanza, invece, in modo improvviso e imprevedibile, si scontra con ostacoli e
nemici lungo molte linee di confronto e (talvolta) di combattimento. Ripiega quando
necessario e avanza quando possibile. Confusione e transizione si tengono l’una con
l’altra, perché la Babele dei linguaggi e l’accavallarsi dei punti di vista creano lo
spazio per sperimentare il nuovo e il possibile. È la confusione del disordine
creativo, cui tocca, alla fine, far nascere il nuovo, contenuto in potenza nella
transizione.
Anche nel campo del management, teorico e pratico, viviamo da qualche tempo
in una condizione di grande e tempestosa transizione. Tutto sta cambiando in poco
tempo. E, come al tempo del Grande Timoniere, la transizione in corso si traduce in
una grande confusione dei punti di riferimento e dei metri di misura, tale da mettere
in difficoltà soprattutto la “generazione di mezzo”: quella di coloro che hanno
formato la loro mente e il loro modo di lavorare nella cornice di un paradigma in
declino e che oggi sono chiamati a passare ad altro, accettando una svalutazione
secca della loro precedente esperienza e competenza (Brunetti, 2011, par. 1).
È difficile da accettare, ma si tratta di una svalutazione difficilmente evitabile.
Un effetto che sta nelle cose, perché nel cantiere della transizione non si può
*
Professore di Economia della Conoscenza presso il TeDIS Center - Venice International
University
e-mail: [email protected]
sinergie n. 87/12
ISNN 0393-5108
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costruire il nuovo edificio senza avere, prima, de-costruito il precedente. La crisi ha
riempito il cantiere di materiali, spingendo forze sempre più consistenti a reclamare
un diverso modo di lavorare e di vivere. Non tutto quello che viene alla luce, in
questo processo, è buono o migliorativo, rispetto al passato: ma è in questo modo accidentato - che nascono nuovi paradigmi. Ritardare non paga, serve solo a
rimanere soli, arrivando per ultimi sul terreno del nuovo.
Dunque, anche nella ricerca di management, sarebbero inutili tattiche dilatorie o
strategie di arroccamento difensivo. Al contrario, accettando senza riserve mentali il
sacrificio necessario di una parte del proprio passato, ciascuno ricercatore che opera
nel campo degli studi manageriali dovrebbe porsi alcune domande che in precedenza
sembravano non necessarie. E che probabilmente pochi si sono posti.
Che cos’è e che cosa sta per diventare il management nella nuova condizione che
ha preso forma nel nuovo secolo e che è molto diversa da quella del secolo
precedente? Che tipo di ruolo sta acquisendo la funzione imprenditoriale e di guida
delle imprese in un contesto in cui l’organismo produttivo non è più - ormai - la
singola impresa ma sta diventando la filiera delle tante aziende complementari? Per
non dire dei tanti casi in cui l’organismo produttivo diventa territorio, oppure la rete,
o anche il sistema complesso delle intelligenze collettive al lavoro sul terreno della
ideazione, della ricerca, della comunicazione identitaria.
Sono domande che non ci stiamo ponendo soltanto in Italia, alla periferia del
mondo globale; ma che ormai emergono al centro, nel pensiero manageriale dei
Paesi guida e della comunità scientifica internazionale. Ha fatto bene Gaetano
Golinelli ad aprire il dibattito di questo numero di Sinergie riprendendo una
riflessione critica emersa nel Convegno del 2004 dell’Academy of Management. Una
riflessione che possiamo esprimere in questi termini: la conoscenza sul management
non può essere auto-referente, fissata in base a regole che rimandano ad una
scientificità astratta, indifferente alla pratica. Ma deve invece risultare “actionable,
ossia azionabile, applicabile e trascendere quindi i puri obiettivi scientifici per
consentire l’attivazione di consapevoli azioni di governo e gestione delle
organizzazioni” (Golinelli, 2011, par. 2).
Può sembrare ovvio, ma non lo è se si pensa che, come si dice al Convegno
dell’Academy, la tendenza evolutiva degli ultimi decenni ha portato la ricerca
lontano dalle organizzazioni reali, con l’impiego di linguaggi per addetti ai lavori, e
di difficile comprensione per i potenziali users pratici. I problemi che emergono
nella vita organizzativa dovrebbero dunque segnare l’agenda della ricerca,
modificando le sue domande e le sue priorità.
Cattive teorie manageriali, ci ricordano Baccarani e Calza - sulla scorta di quanto
scritto da Ghoshal - (Baccarani e Calza, 2011 par. 2) possono distruggere pratiche
manageriali che sono invece buone, ossia efficaci. Anche se non sono state
codificate in modo teorico generale.
Il legame con i soggetti che progettano, organizzano, costruiscono il futuro
economico sociale - e il management è sicuramente uno di questi - è fondativo per la
ricerca manageriale: ma soggetti del genere non sono facilmente riducibili ad una
serie di agenti astratti, impegnati a calcolare le convenienze; e, d’altra parte, non
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possono nemmeno delegare le scelte a meccanismi anonimi e impersonali, che
vorrebbero sostituire, con le loro procedure algoritmiche, l’intelligenza fluida degli
uomini.
Proprio i soggetti, con la loro storia e la loro unicità, sono determinanti per
guidare il cambiamento delle imprese e delle pratiche sociali, perché, dopo la crisi
2007-12, ormai sappiamo che il futuro non si prevede ma si fa. Lo fanno, appunto, i
soggetti che usano l’intelligenza delle persone per immaginare il nuovo e realizzarlo
sperimentalmente, navigando nel mare della complessità (Rullani 2010b).
I manager e gli imprenditori - con la loro cultura e con la loro visione delle cose sono il motore di questa esplorazione del nuovo e del possibile. E lo sono soprattutto
in una condizione di transizione. Se devono emergere nuovi modi di produrre e di
vivere, la funzione manageriale è chiamata ad un compito realizzativo ambizioso e
coinvolgente, ma assolutamente impegnativo, difficile. E questo cambia
drasticamente la funzione del manager e dell’imprenditore, perché non si tratta più
di gestire al meglio un assetto esistente, ma di re-inventarlo sperimentalmente. E a
rischio.
Il management classico invecchia, e si vede. Soprattutto nella sua concezione
della soggettività: la produzione di valore deriva oggi dall’interazione tra molte
imprese e di molte persone diverse. Una interazione in cui vengono “messe al
lavoro” intelligenze individuali diverse e complementari, che - grazie alla
mediazione manageriale o imprenditoriale - sono coordinate e finalizzate ad uno
scopo produttivo.
Anche ai piani alti del pensiero manageriale, in America, la mappa del possibile
e del desiderato sta cambiando colore e forma. Si sta, infatti, affermando l’idea che
il valore è frutto di uno sforzo e di un impegno condiviso. È insomma, in essenza,
uno shared value. Questo concetto, affermano Michael Porter e Mark Kramer, deve
essere interiorizzato senza riserve nelle logiche manageriali delle imprese, costruite
in passato per funzionare come microcosmi autoreferenti (se grandi) o individualisti
(se piccole) (Porter e Kramer, 2011, pp. 62-77).
Nel melting pot dei nuovi capitalismi che si confrontano (si pensi alla distanza
che esiste tra il capitalismo comunista, in Cina, e il capitalismo distrettuale
dell’impresa diffusa, in Italia) la nozione “classica” di management, che ha preso
forma un secolo fa, nel pieno del fordismo americano, ha acquistato - col passare del
tempo - dintorni confusi e problematici.
Il management delle origini era il metodo - impersonale, razionale, oggettivo che avrebbe realizzato il destino implicito nella modernità. Rendere calcolabile il
mondo, ottimizzandolo in termini di efficienza. Ma proprio perché questa soluzione
non ha funzionato, la situazione, oggi, è aperta: bisogna prendersi la responsabilità e
il rischio di immaginare un’altra modernità, in cui l’impresa impari a produrre
valore in modo diverso dal passato.
Una volta la produzione era affidata a grandi piramidi organizzative, che
concentravano nel loro vertice potere, rischio e intelligenza. Oggi la pratica
quotidiana, impegnata, sempre più spesso, ad inseguire gli eventi, preferisce dare
spazio e autonomia a chi si trova a diretto contatto con i problemi, lasciando ad una
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valutazione ex post del risultato il compito di stabilire se - chi si trova in linea - ha
fatto bene o male a prendersi l’onore e l’onere dell’azione.
È un altro management. In un contesto di post-burocrazia, come lo chiama
Gaetano Golinelli (2011, par. 4) (riprendendo un tema proposto da John Hendry)
diventano rilevanti gli uomini e la loro intelligenza fluida. Soprattutto diventa
necessaria una capacità di leadership diffusa, non solo collocata al vertice, e una
cultura umanistica che permetta di impiegarla in modo efficace nei confronti di
persone e situazioni fuori della norma.
2. E la ricerca? Tre fronti di discussione
Nella discussione sul valore della ricerca in campo manageriale, che Sinergie ha
promosso con particolare riferimento al contesto italiano, il confronto delle diverse
opinioni viene fatto intorno a tre problemi diversi:
1) la discontinuità da stabilire, nei contenuti, tra il vecchio e il nuovo management;
2) la validità scientifica degli enunciati che distingue, sul terreno del metodo, le
teorie di carattere generale dalle osservazioni empirico-pratiche, relative a casi e
contesti differenziati, tendenzialmente unici;
3) la valutazione delle prestazioni dei ricercatori, che oppone un rating quantitativo
e impersonale dei lavori, misurato in qualche modo, ad un giudizio, che, invece,
altri sostengono dovrebbe essere qualitativo, sulle capacità e i meriti del
ricercatore in quanto persona.
Ciascuno di questi temi va affrontato in modo distinto perché identifica uno
specifico oggetto del contendere, anche se nella discussione spesso viene
sovrapposto agli altri, quasi che i tre fronti di dibattito fossero facce diverse dello
stesso problema.
3. Il segno dei tempi: continuità o discontinuità?
Chi difende il valore del modello di studi manageriali ereditato dalla storia, non
si oppone all’innovazione, purchè avvenga salvando la continuità col passato. Ossia
partendo dalla premessa che il patrimonio di sapere accumulato nel tempo dagli
studi manageriali precedenti possa ancora avere una centralità nella comprensione
del mondo di oggi e dell’immediato futuro. Con gli opportuni aggiornamenti, si
intende.
Molti ricercatori di oggi si sentono in effetti legati a Maestri e Scuole consolidate
che li hanno formati e cooptati nella logica della cumulazione e trasmissione delle
esperienze fatte dalle diverse generazioni. Ad esempio, Arnaldo Canziani (2011)
spezza una lancia a favore di questa continuità, che è connaturata alla cultura
europea e messa invece in discussione dalla concorrente culturale del “relativismo
anglosassone”.
Difendendo l’accumulazione pratica e teorica già realizzata, diventa quasi ovvio
pensare che i ricercatori (divenuti, col tempo, Maestri) e le Scuole che essi hanno
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fondato siano portatori di un sapere manageriale connaturato alla loro esperienza e
alla loro evoluzione personale. E ne deducono che le discipline manageriali debbano
avere un’anima fondante di tipo empirico-pratico, che cumula l’esperienza e, se ci
riesce, la traduce in “arte”.
Maestri e Scuole già assestate sono propensi a sostenere che la validità di un
enunciato, negli studi manageriali, non dipende dalla sua conformità a leggi e norme
di carattere generale, ma deve essere giudicata caso per caso, dando rilievo alla
particolare situazione in cui si muovono storie e percorsi, a loro volta singolari. E
pour cause: un universo di sapere differenziato e multiforme, sedimentato in più
strati sul reale, si conserva meglio di un mondo in bianco e nero, reso instabile dal
fatto che il nuovo, ogni volta che emerge, è condannato - se vuole sopravvivere - a
eliminare il vecchio.
In modo diverso, e in un certo senso opposto, ragionano tutti coloro che stanno
dalla parte della discontinuità. Dal loro punto di vista, gli studi di management
dovrebbero usare metodologie codificate (al limite matematico-statistiche) ed
impiegate misure “oggettive” nella valutazione, il più possibile separate da giudizi e
preferenze personali.
Si tratta come, nota Francesco Izzo, di pionieri che - non volendo portare avanti
l’eredità dei padri - tentano di diventare “padri di sé stessi”, prendendo una distanza
sia dalle forme di sapere pre-esistenti, sia da quei ricercatori che, sotto questo
profilo, preferiscono rimanere “figli” di qualcuno o si sentono semplicemente
“orfani”1.
È una contrapposizione di punti di vista che non deve meravigliare: chi abita
l’edificio del sapere costruito in anni di lenta accumulazione pensa che tutto quello
che trova nelle sue stanze abbia valore e che, dunque, quasi niente debba essere
buttato via. Per chi, invece, vorrebbe decostruire il vecchio edificio e costruirne uno
nuovo, vale il contrario: fare tabula rasa del sapere ereditato è la premessa per
potere ripartire, col minimo di vincoli possibile, costruendo il nuovo edificio sul
green field di una scienza che impiega un metodo radicalmente diverso.
L’oggettività scientifica (impersonale) viene, in questo caso, usata per recidere il
cordone ombelicale che lega il lavoro di ricerca alla storia e ai condizionamenti
degli inquilini precedenti.
Insomma, il discorso, per questa via, si avvia pericolosamente verso una
demarcazione netta, in cui la contrapposizione diventa lotta di potere, tra il vecchio,
che resiste, e il nuovo, che avanza. Nessuno dei saggi presenti nei due numeri di
Sinergie dedicati alla ricerca in campo manageriale (86/2011 e 87/2012) sceglie di
schierarsi tout court dall’una o dall’altra parte di questa contesa, tutto sommato
ideologica, tra gli opposti interessi in gioco. Ma, qua e là, gli aspetti di potere si
mescolano alle altre argomentazioni2.
1
2
“Giovani promesse, venerati maestri. Per un dialogo tra saperi nelle scienze aziendali”, in
questo numero di Sinergie, par. 7.
La cosa singolare dei riferimenti al potere fatti nei diversi commenti è che una logica di
potere viene attribuita, en passant, non solo ai suoi detentori, che cercano di conservarlo,
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È abbastanza naturale che ciò avvenga. In realtà, in tutti i processi di
cambiamento, il confronto tra vecchio e nuovo avviene, da sempre, anche in termini
di potere: la letteratura manageriale insegna che il comando è una delle risorse
chiave del management classico.
Ma, nel nostro caso, una rappresentazione che focalizzi prima di tutto la lotta di
potere appare fortemente riduttiva: nella transizione manageriale è in gioco molto di
più dei destini individuali di alcune persone. Infatti, quando si tratta di avviare
cambiamenti importanti, destinati a durare decenni, il potere assume sempre un
significato funzionale. Si acquista o si perde potere di influenza sugli altri a seconda
della funzione che si sceglie di esercitare: chi asseconda il cambiamento assorbe
l’energia che lo ha promosso; chi resiste, e si difende da esso, può invece contare
sulle riserve di energia accumulate in precedenza e sulle ansie e paure che ogni
trasformazione importante comporta. Ma le riserve provenienti dal passato sono
finite, e si consumano con l’uso. In partenza, l’energia messa al servizio della
conservazione può essere grande, ma col passare del tempo la sua capacità di
resistenza al cambiamento diminuisce.
Dunque, il conservatorismo non sempre paga, in termini di potere: spesso
soccombe perché cerca di fare diga rispetto ad una marea montante. D’altra parte,
anche il “nuovismo”, fine a sé stesso, non fornisce ai suoi portatori una fonte
durevole di potere. Non basta innovare, infatti, ma per contare qualcosa bisogna
farlo seguendo il percorso giusto, che genera valore nel corso del tempo e che riesce
a mobilitare, verso la meta, altri interessi e altri punti di vista.
Insomma, in una transizione, ogni azione - difensiva o offensiva che sia - va
valutata per la generazione di valore che da essa promana, prima che gli effetti che
avrà sulla detenzione di potere. La discontinuità annunciata deve dunque essere vista
sotto il profilo non di una diversa distribuzione del potere (che pure ci sarà) ma
soprattutto del potenziale di valore che da essa potrà discendere, una volta arrivati ad
di là del guado. Da questo punto di vista, per la maggior parte dei contributi presenti
in questo numero, la discontinuità chiave intorno a cui organizzare il massimo
sforzo di cambiamento è la costruzione di un sistematico contatto/confronto delle
discipline manageriali italiane con il sapere che, in questo campo, prende forma a
scala internazionale (Busacca, in questo numero di Sinergie).
L’isolamento italiano - dovuto a ragioni linguistiche, ma anche metodologicodisciplinari - comincia, insomma, a pesare, in termini di reputazione teorica e anche
di contenuti, visto che esso rende difficile integrare nel nostro corpo disciplinare le
acquisizioni teoriche e le esperienze pratiche provenienti da altri Paesi (Maranesi, in
questo numero di Sinergie, par. 2).
ma anche ai nuovi pretendenti, le new entries che si accingono a scalare la montagna,
riuscendovi qualche volta. Dice, ad esempio, Canziani: “giovinotti rampanti ansiosi di
successo … sono ansiosi di centrifugare tutti i propri predecessori, in quanto privi di
‘pubblicazioni straniere’ …. (per) cancellare dal sistema tutti i loro contemporanei anche
più giovani, ove essi non accettino di piegarsi a voler divenire gli ultimi dei presunti
primi”.
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Dunque, un allineamento che renda più fluido il trasferimento di sapere tra
l’Italia e gli altri Paesi non è più un’opzione: è diventato una necessità. Un processo
“inarrestabile come una marea” che - alla pari delle esondazioni dei fiumi sacri
dell’antichità - porta con sè rinnovata fertilità (Izzo, in questo numero di Sinergie,
par. 2).
Questo riallineamento tuttavia, come richiamano molti dei saggi di questo
numero, deve essere fatto senza farsi colonizzare dall’esterno. L’integrazione con gli
studi internazionali richiede, infatti, che in Italia si assegni maggior valore a
metodologie e pratiche di ricerca che da noi hanno avuto, sin qui, un peso minore;
dall’altra parte, questa integrazione non deve mettere da parte tutto il resto, perchè
occorre recuperare e salvaguardare gli elementi di specificità che riguardano la realtà
italiana, facendo valere anche all’estero alcune qualità originali che provengono
dalla nostra tradizione.
D’altra parte, se il management è in transizione, l’Italia non è il solo Paese a
doversi confrontare con nuove esigenze e nuovi problemi. La discontinuità rispetto
al passato vale per noi come per tutti gli altri. Dunque, in un sistema che è
complessivamente in movimento, la convergenza non deve realizzarsi attraverso
importazione di quanto già esiste altrove, ma deve essere invece allineamento di tutti
- della ricerca in Italia e di quella in altri Paesi - ai trend globali che spingono avanti
la transizione verso un nuovo paradigma produttivo.
In questo senso, è giusto mantenere un atteggiamento attivamente critico sulle
innovazioni da introdurre, per evitare che l’adeguamento passivo a pratiche
internazionali di ricerca e di valutazione ci faccia importare anche alcuni errori e
limiti che stanno diventando evidenti anche negli altri Paesi. Come ultimi arrivati,
almeno questi potremmo evitarli.
Sul terreno del metodo, per cominciare.
4. Il metodo: scienza o esperienza?
Il fordismo credeva nelle management sciences e nell’uso del metodo scientifico
per governare le organizzazioni. Ma, come abbiamo detto, questa preferenza per
l’oggettività delle “leggi” di comportamento, per le procedure impersonali e per le
rappresentazioni astratte era tutt’uno con la centralità del comando dall’alto che, nel
suo funzionamento, ha bisogno di standardizzare e calcolare i comportamenti altrui.
L’ingegneria applicata alle macchine, che vengono “gestite” e ottimizzate da una
mente esterna, a cui obbediscono, era in questo modo estesa al funzionamento dei
sistemi organizzativi, pensati in termini impersonali e oggettivi. Di qui un
riduzionismo (allo standard astratto) che, come sottolinea Daniela Baglieri (in
questo numero di Sinergie, par. 3), non è un errore metodologico, ma una scelta
consapevole, per arrivare a definire leggi causali che non siano soltanto locali e
contingenti.
Il determinismo delle managerial sciences è rimasto tuttavia una promessa
mancata, e una illusione pericolosa. Non ha mai funzionato bene del tutto (se non
per le mansioni esecutive, alla base della piramide). Ed è facile capire perché.
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Artificializzare il mondo in cui le imprese vivono per poter utilizzare standard e
calcoli “universali” proposti dalle scienze manageriali può essere facile se i vertici
delle imprese hanno il pieno controllo sui propri dipendenti e sull’ambiente esterno.
Ma se questo controllo si indebolisce, la governance di impresa si trova sempre più
spesso ad affrontare situazioni fuori standard e non calcolabili. E, “quando si tratta
del comportamento umano, la verità è un oceano”3. Deviando dalle “leggi”
codificate dalle managerial sciences, si procede allora ricercando soluzioni ad hoc
che valorizzano le capacità singolari delle persone e le unicità del contesto in cui le
decisioni devono essere prese.
In un mondo del genere l’apprendimento evolutivo (produzione di varianti
possibili e selezione ex post, alla prova dei fatti) diventa importante quanto e forse
più dell’apprendimento logico-razionale (verifica di ipotesi). E non è una cosa da
poco, perchè l’apprendimento evolutivo richiede che:
a) in ciascuna situazione si possa accedere a riserva di varietà, che comprende
molte varianti, anche quelle che, nella logica, fordista sarebbero state sacrificate
all’one best way;
b) le nuove idee, anche minoritarie e prive di solide prove di validità, devono essere
aiutate a sopravvivere e crescere, in nicchie ecologiche proprie, in attesa di
essere messe alla prova da qualche soggetto che le faccia proprie. In questo
modo, esse alimentano la riserva delle varianti disponibili per esplorare il nuovo;
c) la selezione delle varianti che non funzionano non deve essere fatta con il filtro
della dimostrazione preventiva (ossia col criterio della validità scientificamente
dimostrata ex ante) ma con quello dell’esperienza, che ex post fornisce risultati
di cui occorre tenere conto nelle prove successive.
Insomma, il determinismo aveva handicap molto seri, già nella golden age del
fordismo. Ora, in tempi di post-fordismo, l’impianto deterministico ha sempre meno
spazio, insidiato com’è dalla complessità crescente che le organizzazioni devono
fronteggiare a tutti i livelli.
Progressivamente, il management che era scienza della decisione razionale definita in base a canoni universali - ha cominciato a pensarsi come arte: un atto di
immaginazione e di scelta unico, creativo, che valorizza la differenza tra i contesti e
tra le persone, adattandosi alle situazioni concrete da gestire.
Man mano che il management recupera la consapevolezza di essere immerso
nell’unicità della sua esperienza pratica, cambia il suo rapporto con la “scienza
manageriale”. Non che la scienza del management, con le sue leggi, i suoi modelli e
i suoi calcoli, non serva, ma il suo ruolo non è più quello di prima: la teoria
enunciata non rappresenta più la “verità” di un fenomeno, ma diventa semmai una
tecnica, utile per standardizzare le esperienze, in modo da renderle trasferibili,
trasformandole in procedure e soluzioni replicabili. Cosicchè ogni organizzazione si
trova di fatto ad utilizzare un mix di conoscenza generativa (intelligenza creativa che
progetta e decide) e di conoscenza replicabile, a basso costo, per accedere a quanto
già noto e collaudato.
3
Il paragone è di Moon, e viene richiamato da Federico Brunetti, 2011, par. 3
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Con la crescita della complessità da gestire, la conoscenza replicativa viene
sempre di più affidata alle macchine e al software, o ad altri automatismi che
forniscono soluzioni a basso costo e disponibile in tempi rapidi: funziona, come si
sa, fino a che i problemi trattati sono standard. Ma, col procedere della
meccanizzazione delle conoscenze replicabili, il compito degli uomini si lega
sempre di più all’impiego di conoscenza generativa, non organizzata in modo
deterministico, ma legata all’esperienza e all’intuizione creativa dei soggetti
coinvolti. Con tutte le conseguenze del caso.
Esplorare, comprendere, immaginare è non solo difficile, ma anche coinvolgente,
perché implica una assunzione di responsabilità (Baccarani e Calza, 2011, par. 4).
Al centro della scena torna così l’intelligenza fluida dei soggetti e delle loro
capacità di ideazione, relazione e convinzione, dal basso. Vengono utilizzati sempre
più spesso mezzi di coordinamento di tipo nuovo e assai poco deterministici, come
la swarm economy (l’economia dello stormo), l’interazione collaborativa,
l’“amicizia” (o il “mi piace”) dei social networks, la propagazione virale delle
conoscenze, la forza dei “legami deboli”, la creazione di significati condivisi e di
identità collettive.
È molto impegnativo, in un contesto del genere, immaginare una transizione che
consenta di passare dall’empirismo della tradizione manageriale alla scientificità
delle teorie e delle pratiche relative al governo delle imprese.
C’è chi pensa che tale passaggio si possa fare allargando, per così dire, la
concezione di scienza da adottare (Maranesi, in questo numero di Sinergie, par. 3):
se il mondo è imprevedibile, e dunque anche le teorie scientifiche non possono
fornire previsioni sulle relazioni causa-effetto (come accade nella fisica classica),
non per questo - sostiene Maranesi - viene meno il metodo scientifico, e la sua
differenza rispetto ad altri metodi, empirici o pratici, rispondendo ai canoni
popperiani di falsificabilità e verifica empirica.
Ma in che misura le teorie enunciate dalle discipline manageriali sono
generalizzabili?
Se le esperienze di management sono immerse nel vissuto delle persone e nel
concreto delle situazioni, restando così impregnate di unicità, in che modo le
affermazioni che le riguardano possono essere falsificate, ricorrendo al metodo di
Popper? È infatti sin troppo facile constatare che, di regola, quanto è successo in un
caso non succede - nella stessa forma - in un altro, se le condizioni di contorno o le
persone implicate sono diverse.
Dunque si deve ricorrere ad altri metodi, come le meta-analisi (Maranesi) che
mettono a confronto una serie di casi, ricavandone - se il metodo funziona omogeneità e differenze sistematiche. Anch’esse non generalizzabili, però. Per
questo, un po’ salomonicamente, si arriva alla conclusione che occorre cercare nella
realtà delle quasi-leggi (law-like regularities), ossia dei comportamenti ricorrenti a
certe condizioni di contesto.
Ma è questa la risposta alla domanda da cui siamo partiti? C’è da dubitarne.
Se lo studio del management consiste - come affermano Claudio Baccarani e
Francesco Calza (2011, par. 5) - nella ricerca di “occasioni per capire” che
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forniscono alcune “verità relative”, ciò di cui abbiamo bisogno non è andare in cerca
di impossibili punti fermi, ma tenere in movimento un circuito che, ad ogni giro,
contamina la ricerca col management pratico e questo con l’insegnamento e la
consulenza, riconoscendo la reciproca autonomia e fertilizzazione tra i diversi saperi
coinvolti.
La pratica, che è sempre situata - a meno che non riesca ad artificializzare il
mondo su cui agisce, trasformandolo in una sorta di laboratorio definito da codici
astratti - non può e non vuole inseguire generalizzazioni che sa impossibili e
pericolose. Ha tuttavia bisogno della teoria per avere accesso alle conoscenze ed
esperienze altrui, a basso costo e con la garanzia di una certa affidabilità (mai con la
garanzia che siano “vere”).
La generalizzazione, in altre parole, è una tecnica che migliora la propagazione
del sapere ricavato dalle esperienze: l’esperienza viene “normalizzata” secondo una
certa codificazione (convenzionale) e il giudizio sulla sua validità viene
“meccanizzato” usando un algoritmo dimostrativo (di solito matematico-statistico).
In questo modo, non solo si va oltre i personalismi indesiderati, ma la
conoscenza codificata e “verificata” viene resa disponibile a basso costo e con
grande rapidità per tutti coloro che stanno progettando altre esperienze, a condizione
che siano in grado di padroneggiare il codice di accesso richiesto.
È un processo che ha poco a che vedere con l’oggettività scientifica e molto con
l’utilità pratica. Ma significa anche che generalizzare è utile perché fornisce un
canale di accesso universale e a basso costo in una situazione in cui il sistema
cognitivo, divenuto mondiale, somma miliardi di intelligenze e di esperienze. Senza
codificazione del linguaggio e senza meccanizzazione del giudizio diventa difficile
accedere al sapere disponibile che emerge, giorno per giorno, nel mondo. D’altra
parte, lo stesso metodo consente di allargare il bacino di ri-uso delle proprie
conoscenze moltiplicando il loro valore grazie ai potenziali users anonimi che
accedono ai contenuti, attraverso la padronanza del codice e grazie al “bollino”
dimostrativo apposto sul sapere dall’algoritmo matematico-statistico.
Nel circuito globale delle conoscenze, codificazione dei linguaggi e
meccanizzazione del giudizio di validità sono due condizioni per muoversi senza
impacci nella nuova cittadella del sapere mondiale. Bisognerà abituarsi alla loro
esistenza, un po’ come nel viaggiare ci si abitua all’uso degli orari ferroviari e alla
conoscenza delle istruzioni per l’uso. La codificazione è dunque coerente con la
logica moltiplicativa, implicita dell’economia globale. Una logica che non mortifica
il ruolo della conoscenza, ma lo riorganizza e ne allarga l’uso, aumentando alla fine i
suoi rendimenti. Ad una condizione, però: bisogna che il ricorso allo standard e al
calcolo non venga fatto in nome di una supposta scientificità, che - avendo pretese
di universalità - può negare o sacrificare, come abbiamo detto, le altre forme di
conoscenza, togliendo spazio alla conoscenza generativa, scaturita dall’unicità delle
situazioni, delle persone e delle idee.
Mantenere un equilibrio ragionevole tra sapere codificato (propagabile) e sapere
generativo (unico) è quasi sempre necessario, nelle scienze sociali. Nel caso del
management in transizione, poi, l’unicità che caratterizza i singoli casi ha una
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ragione in più. La pratica manageriale consiste, infatti, in decisioni che, impegnando
il futuro, richiedono che un particolare soggetto creda in una certa possibilità,
assumendone i costi, i rischi e le responsabilità relative.
In questo senso, lo spazio teorico del management, come disciplina, non può
escludere in nessun modo i soggetti e il loro punto di vista, complesso, sulle scelte
da fare. Che possono avere implicazioni etiche o sociali, muovere paure o speranze,
suscitare immaginazione creativa o riluttanza inerziale. È questo punto di vista
soggettivo che, nella nuova modernità postfordista, deve integrare il criterio
oggettivo del calcolo deterministico e delle tecniche di normalizzazione (Brunetti,
2011, par. 5).
Tocca dunque ai protagonisti (le persone, le imprese e i territori) stabilire il
grado di verità, o meglio di attendibilità (soggettiva), delle teorie enunciate dai
ricercatori. E questo rende impossibile stabilire una gerarchia tra concetti universali
(che siano ritenuti “veri” nel campo scientifico astratto) e applicazioni concrete differenziate, contingenti - degli stessi.
In questo senso, non esiste un “pensiero manageriale” che possa proporsi e
affermarsi a prescindere dal rischio assunto dai soggetti che attraverso la
formulazione di idee vogliono progettare e cogliere il proprio futuro. Tali soggetti persone, imprese, territori - sono sempre irriducibilmente unici quando assumono
rischi non universali, ma particolari, che gravano sulle loro spalle, non su quelle di
altri.
Il management è una “scienza sui generis”, in cui molte varietà (sperimentali),
molte nicchie (differenziate), molte idee in attesa di verifica devono coesistere e
rispettarsi a vicenda. Purchè abbiamo chi, nella pratica, assuma il rischio di mettere
alla prova la loro promessa.
La teoria è essenziale, certo, ma più per la propagazione evolutiva delle idee
risultate “forti” o resilienti, che per l’eliminazione degli errori. Infatti anche le
varianti “deboli”, che sopravvivono in un angolo assomigliando inizialmente ad
“errori”, possono in certi casi essere scoperte e utilizzate da altri soggetti o diventare
preziose in contesti particolari (nicchie, condizioni specifiche di partenza, progetti
audaci o poco fondati in cui qualcuno dichiara di credere).
Anche gli errori possono essere utili al management esplorativo, in certe
condizioni. Fu per un errore - di calcolo e di prospettiva - che Cristoforo Colombo
partì per cercare di raggiungere le Indie navigando verso occidente. Ma l’errore
cessò di essere tale - una non-verità priva di rilievo - nel momento in cui qualcuno si
prese il rischio di verificare le ipotesi (sbagliate) in cui credeva, riuscì a convincere
altri ad unirsi alla sperimentazione delle sue ipotesi e … scoprì alla fine che non
aveva raggiunto la meta, ma altro. Dell’altro, che - come accade spesso in forza
della serendipity - aveva cento volte il valore dell’ipotesi di partenza. Certo, la storia
non finisce con questo terno al lotto: dopo che l’America è stata scoperta per errore,
c’è voluto qualcuno (i ricercatori) che ridisegnasse le mappe della navigazione
transoceanica, in modo da poter ri-usare quanto imparato nelle successive
esplorazioni. E ci sono voluti molti altri viaggi per trasformare il nuovo in un
continente abitabile e prezioso.
84
MANAGEMENT IN TRANSIZIONE
Dunque, nel management la teoria è importante, per consentire il ri-uso e la
propagazione di quanto imparato, ma non può mai diventare auto-referente. La
generazione di valore è infatti condizionata dall’assunzione di rischi che viene fatta
da soggetti che autonomamente scelgono, in questo modo, di credere in questa o
quella possibilità. Assumendo la responsabilità - se le cose vanno bene - di arrivare a
quanto ci si è proposti; o, al contrario, di pagare il prezzo di aver sbagliato
valutazioni, metodi, scelte operative.
Negli studi manageriali, conoscenza generativa e replicativa sembrano
antagoniste, ma non lo sono se non sul piano ideologico: nel lavoro pratico servono,
in realtà, tutte e due. Come accade nel modellismo della Lego, alcune conoscenze
(replicabili) - i mattoncini - hanno bisogno di essere riprodotte e diffuse su grande
scala, in modo da generare un grande valore per costare poco per i singoli users. Di
converso, altre conoscenze (generative) servono per assemblare tanti e diversi
mattoncini, adottando combinazioni e soluzioni sempre differenti, scelte sul
momento tra le tante possibili, per rispondere a problemi anch’essi differenti.
5. La valutazione: rating oggettivo sulle opere o giudizio soggettivo
sulle capacità?
Il cambiamento in corso dei sistemi di valutazione nella ricerca universitaria
italiana (concorsi, progetti, ecc.) ha gradualmente allontanato i meccanismi utilizzati
dalla prassi consolidata - almeno nelle discipline manageriali - fino a pochi anni fa. I
giudizi si fanno più impersonali e “oggettivi”, le graduatorie più stringenti e meno
derogabili. E così via.
La cause sono tante.
In primis, conta l’internazionalizzazione che attiva una dialettica più intensa tra
ricerche italiane e ricerche compiute nel circuito mondiale (di lingua inglese), che
induce un cambiamento nelle metodologie di valutazione. Le due cose si sostengono
a vicenda, investendo sia la nomina dei commissari dei concorsi che la scelta dei
candidati.
Daniele Dalli (2011, par. 3 e 4) descrive bene, in modo dettagliato, quello che sta
succedendo: dalle “Scuole” (con la loro relazione chiave maestro-allievo) si sta
passando alla peer review; e da questa ad una valutazione “oggettiva” effettuata in
base a parametri bibliometrici (numero delle citazioni, impact factors di vario
genere ecc.). Alla fine, si assegna un valore quantitativo standard (un rating,
potremmo dire) ad ogni ricerca, ad ogni pubblicazione, ad ogni persona e gruppo, ad
ogni istituzione che accoglie queste persone e queste ricerche).
Se ragionassimo in termini puramente valutativi potremmo chiederci, con
qualche diffidenza, a cosa possa servire la creazione di un rating che riassume in un
unico metro di misura il valore di studi e esperienze che, in origine, hanno natura
qualitativa e differenziata e che, dunque, non possono venire “pesate” in base a
criteri standard, senza perdere di vista una parte rilevante delle cose da considerare
nella valutazione stessa.
ENZO RULLANI
85
Ma non è questa la domanda giusta da farsi. Il passaggio alle misure standard
non serve per valutare meglio, ma per arrivare ad altro. Su due terreni molto
importanti:
- la “riforma” dei meccanismi di selezione concorsuale, specialmente
all’Università (ma un po’ in tutti i concorsi pubblici);
- la ricerca di nuove fonti di finanziamento della formazione e della ricerca,
fornendo ai potenziali finanziatori (le famiglie, le imprese, i progetti europei
ecc.) una scala affidabile di valori, che li aiuti a decidere le istituzioni su cui
investire somme rilevanti per la formazione, per la ricerca o per altri servizi.
Insomma, per questi due scopi - molto pratici - la qualità va bene, ma purchè sia
misurabile senza tanti distinguo.
Nelle visione “concorsuale” del problema, cui si fa quasi sempre riferimento, ai
rating quantitativi - comunque calcolati - si attribuisce in genere una funzione
“moralizzatrice”. In un sistema di selezione che si pensa sia troppo personalizzato e
conservatore, essi introducono infatti un meccanismo di valutazione asettico e
impersonale: i concorsi pubblici dovrebbero essere vinti da chi ha il rating più alto;
e, nel caso di selezioni effettuate dai privati, i reclutatori dovrebbero comunque
avere la convenienza ad affidarsi a graduatorie standard, ricavate da un confronto il
più possibile impersonale e “oggettivo”.
E siccome il rating sul candidato a sua volta dipende da un insieme di
valutazioni peer to peer che hanno consentito di pubblicare su questa o quella rivista
(a sua volta soggetta a rating) e/o da “oggettivi” indici bibliometrici (ad esempio
sulle citazioni ricevute) è come se - indirettamente - la scelta fosse affidata ad una
rosa anonima di valutazioni esterne, date prima e a prescindere dalla funzione che
un candidato è eventualmente chiamato a ricoprire tramite il concorso.
In effetti, il rating può essere un modo sintetico di affidare ad un algoritmo
impersonale la misura della reputazione scientifica di una persona. O almeno di
quella apparente, visto che la misura quantitativa ottenuta si basa sull’ipotesi di
poter ridurre un giudizio qualitativo, ricco di sfumature e di condizioni sospensive
(se, purchè, ammesso che ecc.) alla somma di tante micro-valutazioni editoriali,
finalizzate alla pubblicazione dei testi che sono il risultato dell’attività di ricerca, o
alla rilevazione numerica delle citazioni ricevute, a prescindere dal loro contenuto.
Ma, come nota Dalli (par. 4), sebbene imperfetta, questa è una metodologia
ormai diffusa a livello internazionale. Pur non essendo scevra da difetti (che occorre
conoscere e limitare) essa traccia un percorso allineato ai trend e linguaggi
prevalenti nel circuito della ricerca manageriale, nel mondo. Dello stesso parere è
Bruno Busacca (in questo numero di Sinergie), e anche la maggioranza dei
contributi sul tema, in questo numero di Sinergie.
Il fatto che gli indici in questione scaturiscano da valutazioni tra “pari” (peer to
peer) non è una gran novità: la valutazione dei “pari” è, in effetti, la base di quasi
tutti i giudizi che hanno a che fare con la competenza invece che col comando. Sono
i tuoi “pari” che possono giudicare meglio di altri le competenze messe in luce nelle
pubblicazioni. E sono coloro che ti citano (ancora una volta i tuoi “pari”) che
86
MANAGEMENT IN TRANSIZIONE
esprimono un “voto” ogni volta che si ricordano del tuo nome e del tuo lavoro,
purchè la citazione avvenga in certe sedi editoriali.
Ma non è di questo che si tratta. Una cosa, infatti, sono i giudizi peer to peer, che
hanno alle spalle una lunga storia, come ci ricorda Daniele Dalli 4, e un’altra - molto
più condizionante - sono gli indicatori che servono ad assegnare ad ogni candidato
un certo rank in una graduatoria. Mettendo da parte tutti gli altri elementi di
valutazione che l’algoritmo valutativo non ha preso in considerazione.
Le differenze tra le due procedure sono soprattutto due.
In primo luogo, i giudizi tra i pari possono essere - e di regola dovrebbero essere
- di natura qualitativa (anche se talvolta sono integrati da una batteria di indicatori
standard).
In secondo luogo, i giudizi che portano al rating non sono forniti in assoluto, ma
hanno a che fare con un problema specifico e dunque con la simulazione di quello
che la persona X (o il testo, o il progetto X) avrebbe la capacità di fare in
determinate circostanze.
Dunque, per arrivare ad un rating quantitativo, occorre andare molto al di là di
un classico giudizio peer to peer. Bisogna, infatti, ridurre la qualità in quantità,
adottando un unico metro di misura; e bisogna astrarre dalla simulazione di un
futuro specifico, dando una valutazione su capacità astratte, multi-task.
Abbiamo ormai fatto abbastanza esperienza di rating costruiti in campi diversi
da quello della ricerca per sapere quanto questa standardizzazione del giudizio non
sia affatto neutrale. Basterà pensare a tre casi esemplari:
a) l’Auditel televisivo,
b) il rating finanziario applicato ai titoli di credito e ai soggetti debitori/creditori,
c) il ranking ottenuto sui motori di ricerca in Internet (ad esempio su Google).
Auditel, rating finanziario e indicatori di visibilità su Google o altri motori di
ricerca hanno preso origine da una necessità di mercato. Sono stati inventati per
rendere possibile agli investitori una “valutazione a distanza” del rendimento atteso
della pubblicità televisiva (Auditel), dei rischi di un portafoglio titoli variamente
composto o del valore da assegnare ad un investimento comunicativo che il motore
di ricerca scelto può valorizzare più o meno bene. L’indice quantitativo
standardizzato punta sull’obiettivo per cui è stato costruito (nei tre casi un obiettivo
di tipo finanziario) ed è indifferente alle altre qualità che caratterizzano il processo
valutato. Ovviamente, perché il gioco valga la candela bisogna che l’user che
impiega questi rating deve essere consapevole delle finalità implicite perseguite
dall’automatismo usato e deve essere d’accordo con esse.
Vediamo come:
- nel caso della pubblicità televisiva si tratta di quantificare l’audience, ossia il
numero di potenziali acquirenti di biscotti, acqua minerale, automobili ecc. che
possono essere “colpiti” da uno spot in una certa rete ad una certa ora;
4
Professioni mediche e scienze fisiche hanno fa tempo consolidato questa prassi, che di
recente si è estesa anche alle scienze sociali e alle discipline manageriali (Daniele Dalli,
2011, par. 3).
ENZO RULLANI
87
-
nel caso del rating finanziario si tratta di gestire la diversificazione del
portafoglio mettendo a confronto un set di rischi e di rendimenti, misurati in una
scala standard, in modo da ricavarne una graduatoria di preferenza;
- nel caso del ranking su Google si tratta di riuscire ad apparire ai primi posti della
lista ogni volta che l’user utilizza certe parole di input nel motore di ricerca.
È evidente che in queste valutazioni, interessa poco o nulla la qualità dei
contenuti del programma televisivo mandato in onda, o le capacità imprenditoriali
delle aziende a cui arrivano i fondi trattati dal rating finanziario. Si tratta infatti di
avere una valutazione non su singole imprese o situazioni ma su una massa
standardizzata di spettatori televisivi, di titoli o di risultati scovati dal motore di
ricerca. Una massa che è tale proprio perché privata di elementi di differenziazione,
in modo da poterla ridurre ad una unica misura standard.
Può sembrare ragionevole, ed è ragionevole, se si pensa allo scopo per cui questi
indicatori sono stati elaborati e messi in funzione. Ma ci sono, come sempre accade
nei processi riduzionistici, degli effetti indesiderati.
Alcuni, nel campo della ricerca, possono essere corretti con misure ad hoc (e
Daniele Dalli ricorda tutta una serie di correzioni possibili)5. Ma altri sono ben
radicati entro il meccanismo. È su alcuni di questi effetti indesiderati che ci
soffermeremo. Per due ragioni: non sono molto visibili agli osservatori esterni e
hanno effetti distorcenti di grande portata sui risultati ottenuti.
Partiamo dagli effetti indesiderati prodotti dall’Auditel sui programmi tv. Se ciò
che produce i ricavi dei programmi televisivi è l’audience (misurata da Auditel) i
programmi che saranno alla fine premiati e incentivati non saranno quelli di
maggiore qualità artistica, comunicativa, culturale ecc.; ma quelli che, facendo a
meno di tutte queste ricadute (che non pagano), massimizzano l’audience
quantitativa. Anche a scapito della qualità dei contenuti trasmessi. Il risultato, un
po’ paradossale, è che chi guarda un programma tv finanziato dalla pubblicità sta
fornendo il proprio tempo e la propria attenzione ad un processo finalizzato, in
realtà, alla vendita dei biscotti, dell’acqua minerale, delle auto ecc… Forse non se ne
rende conto, ma gli effetti di questa distorsione, alla fine, si vedono. Eccome.
Lo stesso accade al rating finanziario, diventato strumento chiave non
dell’investimento “reale” ma della speculazione finanziaria. Se la qualità personale,
settoriale, relazionale e di senso dei progetti finanziati non ha un peso nell’indicatore
usato, il processo a cui ciascuno degli operatori coinvolti partecipa è quello che mira
a distribuire in modo ottimale gli investimenti speculando sulla differenza tra il
prezzo di mercato e il rischio quantificato dal rating. Tutte le altre considerazioni di
5
I “difetti” della peer review sintetizzata nel rating accademico applicato al ricercatore (e
poi, sopra questo, al Dipartimento o all’Università a cui appartiene) sono molti: la
lentezza con cui le peer review maturano nel tempo; il filtro personale (qualche volta
distorcente) delle valutazioni effettuato dall’editor, che organizza i referaggi per conto
della rivista ricevente; la sottovalutazione dei lavori in lingua diversa dall’inglese e delle
monografie, classico prodotto di ricerca della tradizione italiana; arbitrarietà del peso
comparativo attribuito alle diverse riviste, e così via (Dalli, 2011, par. 3 e 4)
88
MANAGEMENT IN TRANSIZIONE
“economia reale” sono superflue e anzi verranno spazzate via proprio dall’uso
sistematico del rating da parte delle banche e delle società finanziarie.
Nel caso del ranking su Google, poi, lo scopo indotto negli users più
intraprendenti non è di stabilire una interazione più efficace tra chi detiene
informazioni utili e che ne ha bisogno, ma di ottenere un vantaggio comparativo - in
termini di notorietà o di vendite - dal ranking assegnato. E per avere questo
vantaggio, c’è chi cerca, con sofisticati sistemi, di “ingannare” l’algoritmo di
ricerca, disseminando segni e significati che - per quanto se ne sa - fanno salire il
proprio posizionamento nel ranking delle risposte.
6. Nuova finanza in arrivo: la faccia nascosta del rating
In tutti e tre i casi il rating che era strumento finisce per diventare fine, anzi il
fine: l’unico fine realmente presidiato del processo di investimento.
Da questo punto di vista, non meraviglia che questi indicatori abbiano avuto il
loro collaudo e la loro massima diffusione presso il sistema universitario americano.
Infatti, negli Stati Uniti, le università vivono degli investimenti che le famiglie fanno
in questa o quella sede, dove mandare a studiare i figli. Come fa una famiglia ad
investire 50.000 dollari per mandare il figlio a studiare nell’Università A invece di
limitarsi a spenderne 10.000 perché abbia accesso all’Università B?
La costruzione di un rating comparativo - semplice, inequivocabile, di validità
universale - è ciò che serve per consolidare e misurare un differenziale di qualità che
altrimenti sarebbe sfuggente (e non pagato). E che invece, attraverso le procedure di
ranking deve essere riconosciuto da tutti: dalle università stesse, naturalmente; ma
anche dagli utenti, dai professori, dai futuri datori di lavoro degli studenti, dai
sindaci che devono fornire loro le infrastrutture necessarie.
È questo che garantisce il ritorno dell’investimento fatto dai diversi soggetti nel
sistema formativo o di ricerca, dando una misura credibile alle grandi (e discutibili)
differenze di prezzo tra una Università e l’altra.
La conoscenza, si sa, non ha un prezzo normale sul mercato. E, di conseguenza,
non possono avere un prezzo stabile le competenze e gli altri assets immateriali in
cui si riversano ormai grandi investimenti.
Avere una misura semplice e sintetica che classifica le diverse Università (i
diversi professori, i diversi dipartimenti, le diverse riviste ecc.) attraverso un
punteggio che ne stabilisce il rango relativo è l’equivalente del rating finanziario che
- sulla carta - “garantisce” l’investitore sui rischi e rendimenti del proprio
investimento. Le entrate del sistema universitario americano sarebbero gravemente
danneggiate dall’assenza di rating o dalla sua perdita di credibilità. Naturalmente si
tratta di un circuito che si auto-alimenta, perché il voto guadagnato dalle singole
Università deve poi tradursi in migliori possibilità di carriera per gli ex studenti e in
migliori capacità di vincere progetti di ricerca sul mercato pubblico o privato.
Questo riferimento agli aspetti finanziari è essenziale per capire la ragione per
cui oggi anche le Università e i centri di ricerca italiani sentono la necessità e
ENZO RULLANI
89
l’urgenza di cambiare radicalmente i meccanismi valutativi. In prima istanza ciò
viene fatta per avere una valutazione “più corretta” o più impersonale, e giusta. Ma
in realtà, il riduzionismo qualitativo che il processo comporta non sarebbe
giustificato se restassimo fermi a questi primi obiettivi. C’è dell’altro e di più: il
progetto di rating di oggi, se portato a compimento, renderà possibile alle Università
più dinamiche di stabilire una gerarchia “reputazionale”, tale da determinare
maggiori capacità di fund rising6 e da giustificare l’ottenimento di un premium
price, sul mercato, per le attività (didattica, ricerca, servizi).
La “moralizzazione” delle procedure concorsuali, che sta in superficie, prepara
dunque una rivoluzione più profonda e durevole, costruendo le condizioni per cui le
università di maggiore reputazione potranno crearsi un mercato (della didattica,
della ricerca e dei servizi) appoggiato a differenziali di rating stabili e difendibili nel
lungo termine, rispetto ai concorrenti. Garanzia essenziale per ottenere investimenti
e prezzi differenziali da parte dei potenziali users.
È una trasformazione che intercetta la transizione del management, perché mette
in movimento il fronte degli investimenti in conoscenza e dei prezzi che gli
utilizzatori sono disposti a pagare per la conoscenza. Questo vale per le imprese, che
di conoscenze originali e di reti cognitive hanno sempre più bisogno, ma vale anche
per il nucleo portante dei servizi ad alta intensità di conoscenza, sia nella sfera
pubblica che in quella privata. In questo senso, le Università che si quotano alla
borsa degli indicatori di competenza, sono solo la punta dell’iceberg. Il resto
seguirà.
7. Il punto critico: comunità di senso cercasi, disperatamente
La quantificazione del merito nel mercato della conoscenza, per quanto
imperfetta e carica di potenziali equivoci, è un destino annunciato. Ha avviato oggi
un processo destinato a durare e che, se andrà avanti, cambierà la nostra nozione di
lavoro, di studio e di management, avviandole al circuito sopra richiamato
dell’investimento immateriale fatto da organizzazioni che lavorano sulla frontiera
della conoscenza: un investimento che, grazie al rating, diventa conoscenza
valutabile e genera un prezzo differenziato da parte dei potenziali users.
Semmai la contraddizione da sciogliere in questa tendenza è quella che oppone
le esigenze di codificazione/standardizzazione, necessarie per la misura della
reputazione cognitiva delle persone, delle imprese e delle Università, e le esigenze di
investimento in conoscenza generativa, basata su fattori di unicità e dunque sottratta
alla codificazione e standardizzazione che investe la conoscenza replicabile.
C’è un certo rischio che - nelle strette di un passaggio tra il vecchio e il nuovo
che resta difficile - i metodi di codificazione entrino in conflitto con la necessità di
6
Bruno Busacca mette in luce questa relazione stretta tra esigenza di fund rising da parte
delle Università e assunzione di ricercatori dotati delle qualità e dei coefficienti adatti a
favorire questa attività (in questo numero di Sinergie)
90
MANAGEMENT IN TRANSIZIONE
valorizzare la conoscenza generativa meno codificabile. Non si tratta di un esito
necessario, ma di un pericolo da evitare mantenendo un equilibrio tra gli opposti che
alimentano, ciascuno sul suo campo, il processo di transizione in corso.
Il punto essenziale di sutura tra queste due forze evolutive, che rimandano alla
conoscenza codificata e alla conoscenza generativa, è la comunità delle persone che
adottano una visione condivisa del futuro e che accettano i rischi di un viaggio
condiviso, dividendosi i costi e i benefici da esso scaturiti.
In primo luogo, tocca alle diverse comunità scientifiche e disciplinari, in ogni
settore della ricerca e in ogni sede operativa, tenere insieme le due polarità del
sapere che ci deve accompagnare nella gestione della transizione. È importante che
queste comunità possano organizzarsi come intelligenza collettiva e assumere
responsabilità comuni insieme ai nuovi membri che entrano a farne parte. E dai quali
ci si aspetta un apporto che non si limiti al rating accademico, ma coinvolga
impegno e responsabilità nel portare avanti i programmi di attività scientifica e
didattica proposti dall’istituzione.
Ma attenzione: non è detto che le tendenze attuali siano tali da favorire la
formazione di comunità scientifiche - nelle diverse sedi e nei settori disciplinari effettivamente capaci di presidiare la difficile intersezione tra conoscenze replicative
(da codificare) e conoscenze generative (da liberare).
In effetti, uno di rischi delle valutazioni basate sui rating quantitativi è il fatto di
riportare la valutazione al singolo individuo, che viene valutato da una massa
(indistinta) di “pari”, senza la mediazione di altri ricercatori e docenti, ma
esclusivamente in base a proprio merito personale. Che incentivi può avere un
ricercatore del genere a legarsi ai gruppi di lavoro, a idee ed emozioni collettive, a
progetti portati avanti dall’istituzione da cui viene (pro-tempore) pagato?
La presenza di un sistema “oggettivo” (impersonale, neutrale) di valutazione
consente al singolo ricercatore di auto-valutarsi, e - per così dire - di quotarsi sul
mercato, senza ricorrere alla mediazione di altri, con cui ha relazione. È una
osservazione di Daniele Dalli (par. 6) che mi sembra sia da condividere, perché
libera l’energia dei giovani, che salgono dal basso.
Tuttavia, l’auto-valutazione (da rating) è una condizione psicologica double
face: da una parte riduce la dipendenza di ciascun individuo dagli altri, e dunque
dall’obbedienza gerarchica; ma che, dall’altro, rischia di atomizzare la comunità
scientifica in tanti individui auto-sufficienti e auto-valutati, che puntano tutte le loro
carte sul “mercato” esterno della ricerca, invece che sul lavoro comune con i
colleghi con cui dovrebbero condividere corsi e progetti di ricerca. Finora erano i
colleghi che ti “chiamavano” per cooptazione a far parte di una comunità, più o
meno vitale, in base ad un impegno e una responsabilità reciproca. Ma se un
ricercatore vale e ottiene la chiamata per propri meriti, a prescindere da quello che
pensano o dicono tutti gli altri con cui va a lavorare, come sarà possibile costruire ex
post una comunità della pratica o anche solo di lavoro con premesse del genere?
Il rischio di sostituire le vecchie comunità chiuse, gerarchizzate dalla loro storia,
con una sorta di condomini accademici in cui le persone convivono senza assumere
visioni e rischi comuni c’è. Si può evitare, volendo. Ma bisogna saperlo e volerlo.
ENZO RULLANI
91
Dunque, il cambiamento dei sistemi di valutazione va portato avanti ma
presidiando un’esigenza di fondo: quella di non separare le persone dalla vita e dagli
impegni delle comunità accademiche in cui i ricercatori possono provare, insieme ad
altri, costruire il proprio futuro.
Nella transizione verso il nuovo paradigma del capitalismo globale della
conoscenza le comunità scientifiche e disciplinari, tuttavia, non bastano. Esse
devono intrecciare la loro attività con le idee e i movimenti che traducono in
applicazioni pratiche il sapere scientifico e disciplinare. In tempi di normalità,
forse, le specializzazioni degli ambiti possono separare i diversi compiti e campi di
azione senza troppo danno. Ma in tempi di transizione come questi non è possibile, e
non rende.
La costruzione del capitalismo globale della conoscenza, come paradigma
completo di tutte le sue parti e funzioni richiederà decenni. E richiederà nuove
sintesi, in cui ricerca e azione dovranno necessariamente fondersi e fidarsi, l’una
dell’altra. Non solo: per far fronte alla crisi degli automatismi a cui la modernità ha
finora affidato la nostra vita (tecnica, mercato, finanza, calcolo, procedure, norme
generali e astratte), bisognerà rigenerare legami sociali e ricostruire le ragioni che
danno senso al nostro lavorare, consumare, produrre e (forse) risparmiare nelle
nuove condizioni che ci attendono.
Nello sviluppo verso una forma riflessiva - non dissipativa - di modernità
(Rullani, 2010a), sempre di più il sapere scientifico e disciplinare dovrà essere
messo al servizio di significati etici e di responsabilità sociali. Le imprese che finora
hanno pensato al profitto individuale, e spesso di breve andare, si troveranno
impegnate a gestire le responsabilità dello shared value di filiera, di territorio e di
rete; e avranno a che fare con la difesa dei beni comuni, come l’ambiente o la
cultura, il presidio della qualità della vita, lo sviluppo di forme creative e umanizzate
di lavoro e di produzione. Questo rapporto con fini e interessi pratici non nega la
specificità del lavoro scientifico e della comunità disciplinare che lo organizza7: ma
stabilisce una dialettica di senso tra la ricerca, chiamata ad offrire una descrizione
asettica del mondo, puramente conoscitiva, e la descrizione dello stesso mondo visto
con gli occhi dei soggetti che da esso si attendono il proprio futuro.
Se la ricerca, andando oltre la frontiera della scientificità oggettiva, diventa
interpretazione degli ambigui significati dell’esperienza (Baccarani e Calza, 2011,
par. 7), è naturale che ad un certo punto incontri, sulla propria strada una domanda
di senso, che fornisce al lavoro del ricercatore la ragione profonda, non solo
“scientifica” e professionale, del lavorare su un tema e insieme ad altri.
È in questo modo che si formano comunità capaci di mettere in relazione studiosi
(ricercatori) e imprese (manager, imprenditori, professionisti) nella sperimentazione
di idee nuove che nascono dai processi di apprendimento generativo, presenti e attivi
nella comunità.
7
Riprendendo un’idea di Van de Ven e Johnson sulla engaged scholarship, Daniela
Baglieri propone il dialogo ricorsivo come relazione chiave tra conoscenza e pratica, due
polarità distinte ma necessariamente complementari (in questo numero di Sinergie, par. 4)
92
MANAGEMENT IN TRANSIZIONE
Intorno all’idea della sostenibilità dei processi di crescita economica, ad
esempio, si è ormai formata una comunità di senso, che attraversa il mondo della
ricerca teorica e della pratica applicativa, intorno ad un significato condiviso: la
sostenibilità. E intorno alla sostenibilità comincia ormai ad aversi una piattaforma di
applicazioni pratiche, verso cui manager e imprenditori guidano il business,
condividendo i valori di fondo di questa epistemologia (Rullani, 2010a).
Ma un processo simile comincia ad organizzarsi intorno ad un’altra
fondamentale idea motrice dei nostri tempi: la salute. Ormai è chiaro, in ambito
scientifico ma anche pratico, che la salute non può essere soltanto l’assenza della
malattia o la sua cura. Salute è invece la condizione che permette di stare bene con
sé stessi, tenendo in un equilibrio salutare sia la propria mente che il proprio corpo.
E anche in questo caso serve la convergenza di sapere scientifico-disciplinare e di
sapere pratico, imprenditoriale o manageriale, visto che ormai la salute è diventata
un terreno di crescita per aziende e investimenti a rischio, sul futuro.
L’agricoltura biologica è un altro campo in cui crescono insieme comunità di
senso e sistemi di business vocati alla generazione e “vendita” dei quel senso. Per
tenere insieme le filiere biologiche e convincere i consumatori finali a valorizzare il
loro prodotto occorre non solo un investimento in tecniche e metodi di coltivazione,
ma anche un sapere manageriale evoluto, capace di legare teoria e pratica,
organizzando un viaggio di transizione dal vecchio al nuovo.
Nei tanti social networks che stanno nascendo in questi anni ci sono i semi di una
interazione sociale più ricca e penetrante; e di una economia della conoscenza che,
grazie ai maggiori moltiplicatori, può rendere di più a costi e prezzi minori.
Queste reti e queste comunità si mettono oggi in viaggio per esplorare nuove
possibilità, usando gli strumenti dalla scienza codificata ma anche quelli
dell’intelligenza generativa di ciascuno. Lungo la strada devono dare senso al lavoro
scientifico e tecnologico in rapporto agli effetti sulla qualità del vivere e del
lavorare, legando tra loro ricercatori, manager e imprenditori, rappresentano i nuclei
portanti della transizione verso il nuovo. Esse possono aiutare a mettere a fuoco la
funzione del management della transizione, immerso nella complessità ma portatore
di progetto di futuro, che non riguarda il singolo individuo, ma il significato
condiviso del fare e del vivere coltivato in una comunità di senso, che si organizza
per mettere in comune i rischi e le risorse cognitive di cui dispone.
Pensiamo ad esempio alla storia di un movimento come Slow Food, che nasce
dalla condivisione non di un luogo o di un settore produttivo, ma di un’idea motrice
sul senso dell’alimentazione. Un’idea che, nel corso del tempo, è diventata una
promessa di futuro per migliaia di persone, coinvolgendo nella sperimentazione
pratica dell’idea ristoratori, produttori agricoli, consumatori, certificatori,
comunicatori e altre figure del business. In parallelo, ha mobilitato energie sul
campo della ricerca e della formazione, creando persino una propria Università a
tema.
Nella transizione in corso, si possono enucleare decine di possibili comunità di
senso organizzate intorno a diverse definizioni della qualità del vivere, dell’abitare,
del lavorare. La casa, la moda, il turismo, lo sport, il divertimento e tanti altri campi
ENZO RULLANI
93
possono essere terreni di sviluppo fertili per comunità di senso che facciano proprie
idee coinvolgenti di carattere generale, che richiedono da un lato la ricerca, e
dall’altra la sperimentazione pratica.
La comunità di senso - al pari di quanto fanno da secoli le comunità linguistiche
- è in grado di offrire la mediazione più efficace tra le istanze della codificazione
replicativa e della generazione del nuovo. Essa, infatti, può sviluppare forme “dolci”
di codificazione che non sopprimono le diversità in nome dello standard, ma
consentono la propagazione delle idee e la gestione delle ambiguità, grazie
all’intelligenza collettiva e alla fiducia delle relazioni tra persone.
Bisogna provarci, vincendo la vertigine del futuro.
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