Egitto cristiano ed arte copta
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Egitto cristiano ed arte copta
! ! ! Egitto cristiano ed arte copta “E il Verbo si fece carne/e venne ad abitare in mezzo a noi;/e noi abbiamo contemplato la sua gloria...”(Giov.1,14). L’incarnazione del Verbo, il Cristo-Sole, Figlio di Dio, che discende nell’Umanità affinché l’Umanità stessa possa aderire a Lui e compiere, seguendo il suo esempio, il cammino di ascesa verso il Padre, porterà una nuova rivelazione ed un cambiamento totale sia nelle coscienze di ognuno che nel mondo religioso, artistico e culturale di quel periodo storico e dei secoli a venire. Nel 20 d.C. fu San Marco a cominciare l’evangelizzazione dell’Egitto ed a rendere Alessandria un centro dottrinale di primaria importanza facendo i suoi primi seguaci tra gli ebrei ed i greci che vi vivevano ed in seguito anche fra gli egiziani. Alessandria fu fondata da Alessandro Magno intorno al 332 a.C. adottando un antico rito che prevedeva l’utilizzazione del grano, antico simbolo di ricchezza e fertilità, per tracciare per terra la pianta della città; poi fu la dinastia greco-egiziana dei Tolomei, nel 290 a.C. ad arricchire culturalmente quella città facendovi costruire la Biblioteca reale di Alessandria, nella quale si conservarono un numero straordinario di testi contenenti il sapere di intere civiltà. Sembra che all’inizio i rotoli conservati fossero circa 490.000 e quando non bastò più lo spazio per contenerli, venne costruita una seconda bibliotecamuseo, chiamata il Serapeo. Lo storico Ammiano Marcellino descrive il Serapeo come un luogo il cui splendore non aveva uguali, talmente ornato di statue e di opere d’arte d’ogni genere che perfino la bellezza del Campidoglio a Roma ne veniva offuscata. Proprio in un edificio pubblico accanto al Serapeo si sviluppò tra il secondo e terzo secolo dopo Cristo, la più famosa scuola di catechesi cristiana, fondata da San Marco Evangelista, vero centro di spiritualità di alto valore teologico, medico e scientifico: il Didaskaleion. La Scuola ebbe Maestri d’eccezione quali Panteno, Clemente Alessandrino ed 1 Origene. Il loro insegnamento si fondava sulla necessità di oltrepassare l’istruzione acquisita da prima del Battesimo e di realizzare, attraverso lo studio e la pratica di numerose ascesi, una conoscenza più profonda della Dottrina Cristiana. Il Didaskaleion era aperto a tutti, ma vi si accedeva attraverso un’attenta selezione. Anche le donne vi erano ammesse ed alcune di queste furono considerate idonee alla vita iniziatica e alla celebrazione dei Misteri. Gli allievi venivano istruiti nelle sette Arti Liberali -Trivio e Quadrivio- chiamate così perché a chi le perseguiva conferivano la dignità dell’Uomo Libero. Gli studi vertevano sulla grammatica, retorica, logica, musica, astronomia, aritmetica e fisica, ma i Maestri addestravano nello studio sull’origine dell’uomo, sulla sua fisiologia e metafisiologica, affrontando anche il problema dell’anima, dello stato di vita dopo la morte e della sua reincarnazione. Origene fu uno dei maggiori Iniziati ed Istruttori. Egli nacque nel 185 ad Alessandria d’Egitto e dedicò tutta la sua vita all’opera di cristianizzazione, incurante delle persecuzioni indette dall’imperatore Settimio Severo. Pochi anni prima del suo martirio, avvenuto a Tiro nel 253, lasciò al discepolo Eracla le direttive per organizzare un nuovo Didaskaleion che contemplasse le stesse identiche Arti, ma questa volta in forma più privata. L’Egitto quindi in quei secoli divenne la culla del vero Cristianesimo inteso nei suoi due aspetti: aspetto “essoterico” per la massa, e quello “esoterico” più intimo, segreto, lo stesso che Gesù Cristo aveva riservato ai suoi Apostoli. Con la diffusione della Dottrina Cristiana alcuni riferimenti mitologici antichi furono scambiati per “paganesimo” invece era in essi che il Cristianesimo affondava le sue radici. La tradizione teologica dell’Antico Egitto, che già si era fusa con quella greca ed ebraica, cominciò a trovare degli stretti contatti con questa nuova visione cristiana. L’antica cultura egiziana fu lentamente abbandonata, molti templi vennero convertiti in chiese ed anche l’antica lingua poco a poco si trasformò in lingua copta, che venne adottata anche come 2 linguaggio liturgico. Quando Costantino nel 324 proclamò il Cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero ponendo fine a l l e p e r s e c u z i o n i c o n t ro i Cristiani, in Egitto prese vita il Cristianesimo egiziano. Alessandria d’Egitto in quegli anni divenne uno dei centri più importanti della cristianità, ma le controversie teologiche non mancarono: la diffusione della dottrina contemplata dai seguaci del sacerdote alessandrino Ario causarono il primo grande scisma cristiano tra questa corrente e l’ortodossia rappresentata da Atanasio d’Alessandria, papa della chiesa copta. Alessandria si trovò, quindi, ad essere un centro di violente lotte teologiche che sfociarono poi anche in una contesa politica che non giovò alle precarie condizioni economiche in cui l’Egitto si stava trovando. Fu Giustiniano I, imperatore bizantino, a salvare il paese dall’anarchia. Il suo governo coincise con un periodo d’oro per l’Impero romano d’Oriente, ma quando nel 616 i Persiani invasero l’Egitto ed occuparono Alessandria, la frattura religiosa tra il paese e l’Impero rimase quasi incolmabile. La situazione divenne ancora più precaria quando gli Arabi, nel 639 conquistarono l’Egitto. Si dice che il generale Amribn-al-As, comandante della truppe islamiche, dietro pressione del califfo Omar distruggesse tutti i testi della Biblioteca di Alessandria e c o n e s s i l a B i bl i o t e c a s t e s s a . Quell’immenso patrimonio di testi in lingua originale fu perduto: più di 700.000 rotoli di papiro provenienti dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, furono bruciati,usati come combustibile per i bagni termali di Alessandria. Con la distruzione della Biblioteca di Alessandria, venne distrutto non solo un patrimonio culturale di un valore inestimabile, ma anche ciò che restava del Didaskaleion. 3 Le persecuzioni indette da Diocleziano e Settimio Severo e l’invasione musulmana portarono a fuggire dalla città per dar vita alle prime comunità cristiane intorno al delta del Nilo e poi in luoghi sempre più impervi del deserto. L’idea era di rifuggire da quel mondo materiale così ostile ad un profondo sentimento religioso, per ritirarsi in eremitaggi posti in luoghi difficilmente raggiungibili. Sant’Antonio l’Eremita fu tra i primi che alla fine del III secolo lasciò la sua casa nella valle del Nilo per ritirarsi nel deserto orientale e vivervi come eremita. Il suo gesto fu seguito anche da San Pacomio che fondò un primo monastero a Nord di Esna ed altri furono fondati da San Macario. Le comunità vivevano all’interno di una cinta muraria che comprendeva una chiesa, una biblioteca, un refettorio, un orto ed anche botteghe artigiane e piccole abitazioni che accoglievano dai 20 ai 40 monaci ciascuna. Il loro abbigliamento consisteva in una tunica di lino, una pelle di capra, un cappuccio e un paio di sandali. La preghiera era intesa come un “parlare d’amore” vocale o silenzioso che scandiva le ore della giornata. Pregare tre volte al giorno e tre volte nella notte voleva dire esercitarsi nella preghiera continua che doveva accompagnare anche il lavoro svolto all’interno del monastero: coloro che si dedicavano a quella disciplina ne potevano trarre degli immensi benefici da un punto di vista di trasmutazione interiore. All’eremitaggio dei primi tempi si affiancò così il Monachesimo, un movimento religioso-culturale che trovò la sua massima espressione nell’arte iconografica copta, così ricca di elementi attinti dall’antica tradizione egizia. La parola “copto” deriva dalla parola g reca “aiguptios”, che vuol dire “egiziano”; quando i musulmani invasero l’Egitto tutta la popolazione professava già il Cristianesimo e così gli arabi adottarono il termine “qubt” per indicare tutti gli egiziani cristiani. Altre comunità monastiche sorsero nella p a r t e n o rd - o r i e n t a l e d e l l ’ E g i t t o, precisamente nella penisola del Sinai, zona di collegamento fra il continente africano e quello asiatico. 4 Il Monte Sinai chiamato anche Monte Horeb o Jabal Musa o Montagna di Mosè, è la seconda montagna più alta d’Egitto, considerata da ebrei, cristiani e musulmani il luogo santo dove Mosè ricevette le Tavole dei Dieci Comandamenti. I n t o r n o a l 3 3 0 d . C . S a n t ’ E l e n a , m a d re dell’imperatore Costantino, ordinò la costruzione di una piccola chiesa dedicata alla Vergine Maria, nei pressi del Roveto Ardente; nella seconda metà del VI secolo l’imperatore bizantino Giustiniano dette il via alla costruzione di un monastero-fortezza con una grande chiesa ed un alto muro che inglobò gli edifici precedenti. Tra l’VIII ed il IX secolo il Monastero prese il nome di Santa Caterina del Sinai grazie al ritrovamento da parte dei monaci delle spoglie della santa martirizzata al tempo delle persecuzioni. La storia racconta che furono gli Angeli a condurre sul picco più alto del Massiccio del Sinai il corpo della giovane martire e che i monaci, guidati da un sogno profetico, lo recuperarono e lo portarono all’interno del Monastero, conservandolo come bene prezioso. Santa Caterina del Sinai è quindi il più antico Monastero cristianoortodosso esistente al mondo, passato indenne nei secoli nonostante la conquista del Sinai da parte degli arabi musulmani. Nei pressi dell’entrata del Monastero si conserva ancor oggi una copia del documento in cui Maometto stabilisce la protezione da parte dell’Islam di quel luogo sacro ed i monaci hanno continuato per secoli ad abitare nel convento salvaguardati da quell’editto. Oggi vi vive una comunità di monaci, per la maggioranza greci, che originariamente apparteneva ad un ordine monastico della chiesa di Roma, ma che nel 1439, all’epoca del Concilio di Firenze, se ne staccò per seguire la liturgia della Chiesa Ortodossa d’Oriente. 5 In questo luogo dove il silenzio e la preghiera regnavano sovrani, si conserva tutt’oggi la più vasta collezione di manoscritti e codici più antichi del mondo, oltre alla più grande collezione di icone bizantine e copte. L’arte iconografica copta nacque in Egitto e raggiunse il suo apice tra il IV ed il VII secolo d.C. Alcuni degli esempi più raffinati di quel tipo di pittura vennero scoperti nei monasteri dei deserti del Mar Rosso, nell’Alto Egitto e nelle regioni di Bawit e Saqqara. Le tecniche utilizzate erano ad encausto ed a tempera. La tecnica ad encausto si avvaleva di cera d’api fusa, mescolata con pigmenti per mezzo del calore, e macinata per renderla adatta alla pittura con pennello su tavola di legno. I ritratti funerari rinvenuti nell’Oasi del Fayoum, immediati precursori delle icone cristiane, vennero realizzati con questo metodo e nel museo di Kiev vi è una piccola raccolta di icone datate al VI secolo d.C. dipinte allo stesso modo. La tecnica a tempera invece si avvaleva dell’uovo come legante ed è tutt’oggi in uso per la realizzazione delle icone. Anche allora il legno utilizzato per la preparazione di un’icona doveva essere ben stagionato e non troppo duro e la tavola veniva spalmata con colla di caseina diluita, sulla quale si stendeva una pezza di tela di puro lino intrisa della stessa colla. Poi si passava all’“ingessatura” della tavola che consisteva nella ripetuta stesura di strati sottili ed uniformi di un impasto di colla di caseina ed alabastro gessoso polverizzato. Una volta preparato il fondo si passava all’utilizzo dei colori a tempera. Le tecniche iconografiche anche allora utilizzate si avvalevano di immagini di personaggi divini, di santi o di avvenimenti sacri. Secondo antiche norme iconografiche rimaste nei secoli immutate, il monaco-pittore doveva avvicinarsi alla pittura della tavola dopo digiuni e preghiere e seguendo una particolare liturgia che conferiva maggiore sacralità all’icona che si apprestava a dipingere. Così riporta il giornalista Antonio Romano in un suo articolo: “Molto spesso per stemperare l’impasto del fondo e i colori veniva usata dell’acqua benedetta in una miscela di sale - come scrive Tommaso Palamidessi simbolo di incorruttibilità, sapienza e fratellanza, di vino, simbolo di vita 6 eterna e conoscenza, e di cenere, simbolo di penitenza e mortificazione purificante. In alcuni casi dei frammenti di reliquie di santi venivano mescolate all’impasto di alabastro e colla necessario alla preparazione dell’icona”. Dopo queste preliminari ritualità si passava all’utilizzo del pigmento colorato sciolto con il tuorlo d’uovo, seguendo un procedimento di “illuminazione” che passava dal colore nella sua tonalità più scura a quello della tonalità più chiara con l’intento di ricordare il travaglio che l’anima deve compiere per passare dall’“oscurità” del mondo fisico, alla “luce” di Cristo. L’arte copta, quindi, quando appare in Egitto, si presenta abbastanza diversa dall’arte faraonica perché la Dottrina cristiana aveva portato un messaggio nuovo che parlava alle coscienze in una maniera più semplice e genuina. Il monaco che si ritirava nel deserto per dedicarsi completamente a Dio si sforzava di consacrare al Signore non solo i suoi atti esteriori, ma anche quelli più segreti ed intimi. Le icone copte diventarono così dei piccoli quadri di una pittura quasi “naïf”, sincera, spontanea che colpisce chi le guarda per la loro autenticità. Su quelle tavole si legge la bellezza di un mondo antico dove non era importante l’attitudine di chi le dipingeva, quanto quello che il suo cuore riusciva a esprimere. I volti sono tondi, gli occhi grandi e nerissimi che sembrano scrutare nell’interiorità di chi li guarda e le figure sono piccole, immobili ma che trasudano ieraticità. In quei dipinti si legge la presenza di un mondo misterioso, divino, che attraverso quei simbolici personaggi sembra richiamare alla purezza del cuore ed alla preghiera. Nel Museo Egizio di Firenze si conserva un’icona della fine del VI secolo che ben riassume queste caratteristiche. Le stesse qualità vengono ancor più evidenziate da una delle icone copte più famose, 7 “L’abate Mena protetto da Cristo”, risalente al VII secolo ed oggi conservata al Museo del Louvre a Parigi. Gli occhi di Gesù sono grandi, aperti, tali da esprimere la Sua presenza viva nel mondo. Anche gli occhi di Mena, il santo martire più venerato d’Egitto, sono grandi ma non come quelli di Cristo e presentano una particolarità: l’occhio destro guarda in avanti come se già vedesse il cammino che dovrà percorrere, mentre il sinistro guarda verso il Figlio di Dio affinché possa indicargli sempre la giusta via. Anche gli orecchi di Mena sono grandi, quasi a voler ricordare quant’è importante essere pronti ad ascoltare la Parola di Dio. Le bocche di entrambi invece sono piccole e riportano l’attenzione sull’importanza di saper mantenere il silenzio e la prudenza. Infine quel gesto amichevole di Cristo che poggia la sua mano sulla spalla destra del santo eremita, sembra conferire a Mena il vigore necessario per portare nel mondo la Parola divina e la Sua benedizione. Anche le due aureole sono quasi identiche e quella del santo sembra il riflesso di quella cristica, come a voler ricordare che ciascun uomo, prendendo come metro di misura Gesù Cristo, può diventarne la sua immagine. Oltre che nel Monastero di Santa Caterina del Sinai, la principale collezione mondiale copta iconografica è tutt’oggi conservata nel Museo Copto del Cairo, che raccoglie non solo le icone delle più vecchie chiese della città, ma anche una grande quantità di tessuti di quel periodo storico noti per la ricchezza dei motivi rappresentati: una raccolta di centinaia di opere d’arte e documenti che testimoniano l’importanza del Cristianesimo presso il popolo egiziano; probabilmente la Dottrina cristiana fu accettata con grande sollecitudine dagli egiziani perché vi si ritrovavano tutti i maggiori temi della loro antica civiltà rinnovati e reinterpretati alla luce della nuova fede. 8 Gli storici sono soliti suddividere l’evoluzione dell’arte copta in tre periodi distinti: proto-copta, arte copta e tardo-copta, mettendo in evidenza le influenze che le varie invasioni subite produssero su quelle opere. Le influenze ci furono e si possono cogliere in alcune icone che risentirono della cultura islamica e bizantina, ma l’arte copta, fino alla fine del XVIII secolo, seppe mantenere la sua caratteristica di arte pura, per niente sforzata o artificiosa: una ingenuità “naïf” nella quale ancor oggi si riesce a cogliere un mistico, intimo messaggio. San Basilio, Dottore della Chiesa (330-379 d.C.), affermava che per l’arte sacra non ha importanza la mano esperta, quanto invece la “fiamma interiore”che l’ha mossa. Se poi quelle mani apparentemente “non buone” sono appartenute ad uomini che per la fede in Cristo hanno affrontato persecuzione e martirio, colui che osserverà attentamente quei dipinti non potrà certo non rimanerne indifferente. !!! ! ! ! Sant’Antonio e San Paolo 1777 d.C. 9