quotidiano_27022017

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Lunedì, 27 febbraio 2017
IL CASO DEL GIORNO
FISCO
Detrazione IRES del
65% anche per gli
immobili locati delle
imprese
Opzione per la contabilità ordinaria con vincolo
triennale
/ Arianna ZENI
/ Paola RIVETTI
Tra i soggetti titolari di reddito d’impresa che possono beneficiare della
detrazione IRPEF/IRES per gli interventi volti alla riqualificazione energetica degli edifici, di cui ai commi
344-347 dell’art. 1 della L. n. 296/2006,
rientrano:
- gli imprenditori individuali;
- le società di persone (snc, sas);
- le società di capitali (srl, spa, sapa,
società cooperative e società di mutua assicurazione);
- gli enti commerciali.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, i titolari di reddito d’impresa possono
fruire della detrazione solo con riferimento ai fabbricati strumentali da
essi utilizzati nell’esercizio della loro attività imprenditoriale (in tal senso la ris. Agenzia delle Entrate 1 agosto 2008 n. 340 e la guida Agenzia
delle Entrate aggiornata a marzo
2016).
Di conseguenza, la posizione
dell’Amministrazione finanziaria è
quella di negare la detrazione:
- se gli interventi di [...]
Il nuovo art. 18 comma 8 del DPR
600/73 (come sostituito dalla L.
232/2016) dispone che, per i soggetti
che potrebbero applicare naturalmente il regime di contabilità semplificata, è possibile esercitare l’opzione per la contabilità ordinaria.
L’adesione al regime ordinario, esercitata da inizio anno, si desume dalle modalità di tenuta delle scritture
contabili (art. 1 comma 1 del DPR
442/97). Pertanto, i soggetti che hanno effettuato tale scelta hanno dovuto adottare le scritture contabili
previste dagli artt. 14 e ss. del DPR
600/73, predisponendo l’inventario
di apertura delle attività e delle passività ai sensi dell’art. 1 del DPR 16
aprile 2003 n. 126.
Quanto alla durata, “l’opzione ha effetto dall’inizio del periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata
fino a quando non è revocata e, in
ogni caso, per il periodo stesso e per
i due successivi”. Tale disposizione
è identica a quella previgente, contenuta nel comma 6 dell’art. 18 del
La riproposizione nel testo normativo di tale durata potrebbe essere correlata alle
modifiche dei criteri di determinazione del reddito
DPR 600/73.
In merito all’applicazione della disposizione sono emersi dubbi interpretativi.
Va, infatti, considerato che, fino al 31
dicembre 2016, contrariamente al dato letterale, l’opzione per il regime ordinario per le imprese minori aveva
efficacia annuale.
Tale indicazione era stata resa dalla
C.M. 27 agosto 98 n. 209 (§ 6) in considerazione dell’introduzione allora del
DPR 442/97, il quale all’art. 3 stabilisce che, fatti salvi termini più ampi
previsti da altre disposizioni normative, le opzioni vincolano il contribuente alla sua concreta applicazione:
- almeno per un triennio, nel caso di
adozione di diverse modalità di determinazione dell’imposta;
- per un anno, nel caso di regimi contabili.
In forza del DPR 442/97, dunque, doveva ritenersi implicitamente superato il previgente comma 6 dell’art. 18
del DPR 600/73 che fissava, invece, la
durata in un [...]
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IN EVIDENZA
FISCO
Perdite di fusione senza test di vitalità “esteso”
Lo statuto della società può “decidere” la valenza della denuntiatio
/ Massimo FAVUZZA
Regola del prezzo valore anche per le donazioni
Dati attendibili per la valutazione delle aziende in crisi
ALTRE NOTIZIE
Splafonamento non
sanzionabile prima del 31
dicembre 2015
/ DA PAGINA 10
Gli splafonamenti rispetto al limite di
cui all’art. 34 della legge 388/2000 non
sono sanzionabili in quanto, sino al 31
dicembre 2015, non esisteva una specifica norma [...]
PAGINA 4
ancora
IL CASO DEL GIORNO
STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI
Detrazione IRES del 65% anche per gli immobili locati
delle imprese
Le Commissioni tributarie non condividono la posizione dell’Amministrazione finanziaria
/ Arianna ZENI
Tra i soggetti titolari di reddito d’impresa che possono
beneficiare della detrazione IRPEF/IRES per gli interventi volti alla riqualificazione energetica degli edifici,
di cui ai commi 344-347 dell’art. 1 della L. n. 296/2006,
rientrano:
- gli imprenditori individuali;
- le società di persone (snc, sas);
- le società di capitali (srl, spa, sapa, società cooperative e società di mutua assicurazione);
- gli enti commerciali.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, i titolari di reddito
d’impresa possono fruire della detrazione solo con riferimento ai fabbricati strumentali da essi utilizzati
nell’esercizio della loro attività imprenditoriale (in tal
senso la ris. Agenzia delle Entrate 1 agosto 2008 n. 340
e la guida Agenzia delle Entrate aggiornata a marzo
2016).
Di conseguenza, la posizione dell’Amministrazione finanziaria è quella di negare la detrazione:
- se gli interventi di riqualificazione energetica sono
effettuati su immobili “merce”, ossia quelli alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa (ris. Agenzia delle Entrate 15 luglio 2008 n. 303). Ad
esempio, non beneficerebbero – l’uso del condizionale
è d’obbligo per le ragioni di cui si dirà – dell’agevolazione le imprese di costruzione, le imprese di ristrutturazione e vendita per gli interventi sui loro immobili
“merce”;
- se gli interventi di riqualificazione sono realizzati su
beni oggetto dell’attività esercitata, quali risultano essere gli immobili locati da una società esercente l’attività di pura locazione, in quanto questi ultimi “rappresentano l’oggetto dell’attività esercitata e non cespiti
strumentali”.
Le precisazioni dell’Agenzia delle Entrate, tuttavia, non
sono state condivise dall’Associazione italiana dei dottori commercialisti che, nella norma di comportamento AIDC n. 184/2012, ha precisato che la detrazione IRPEF/IRES di cui all’art. 1 commi 344 ss. della L. n.
296/2006 e al DM 19 febbraio 2007, spetta al soggetto
Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017
che esegue e sostiene la spesa dell’opera, qualunque
sia la categoria catastale dell’unità immobiliare interessata e la tipologia di contribuente (persona fisica o
società), indipendentemente dal tipo di attività svolta
e, quindi, anche qualora lo stesso sia titolare di reddito
d’impresa e le unità siano destinate alla locazione. Secondo l’AIDC, infatti, regole speciali sono previste dal
summenzionato decreto soltanto per le società di locazione finanziaria, ove il beneficio fiscale è riservato
soltanto al soggetto utilizzatore.
In linea con la posizione dell’AIDC si sono espresse diverse Commissioni tributarie.
Immobili di società di locazione da considerarsi beni
strumentali
Recentemente la C.T. Reg. Bologna 19 dicembre 2016 n.
3697/3/16 ha affermato che gli immobili di una società
che ha come attività principale quella della locazione
immobiliare, devono essere considerati beni strumentali e, in quanto tali, beneficiano della detrazione fiscale.
Contro la posizione dell’Agenzia delle Entrate si segnalano, inoltre:
- la sentenza della C.T. Prov. Varese 21 giugno 2013 n.
94/1/13 e la sentenza della C.T. Prov. Milano 11 gennaio
2016 n. 111/46/2016 che hanno affermato che l’agevolazione riguarda le unità immobiliari di qualsiasi categoria catastale (cioè abitazioni, uffici, negozi ecc.) e che
la norma non la limita ai soli immobili strumentali delle imprese;
- la sentenza 27 maggio 2013 n. 45/01/13 della C.T. Prov.
Treviso che ha deciso che l’agevolazione spetta al titolare del fabbricato a prescindere dalla sua destinazione commerciale;
- la C.T. Prov. Pavia, sentenza 3 febbraio 2014 n.
68/2/2014, e la C.T. Reg. Milano, sentenza 10 giugno
2015 n. 2549/12/15, secondo cui l’agevolazione spetta
anche per gli immobili delle società affittati a terzi.
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FISCO
STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI
Opzione per la contabilità ordinaria con vincolo
triennale
La riproposizione nel testo normativo di tale durata potrebbe essere correlata alle modifiche dei
criteri di determinazione del reddito
/ Paola RIVETTI
Il nuovo art. 18 comma 8 del DPR 600/73 (come sostituito dalla L. 232/2016) dispone che, per i soggetti che
potrebbero applicare naturalmente il regime di contabilità semplificata, è possibile esercitare l’opzione per
la contabilità ordinaria.
L’adesione al regime ordinario, esercitata da inizio anno, si desume dalle modalità di tenuta delle scritture
contabili (art. 1 comma 1 del DPR 442/97). Pertanto, i
soggetti che hanno effettuato tale scelta hanno dovuto
adottare le scritture contabili previste dagli artt. 14 e
ss. del DPR 600/73, predisponendo l’inventario di apertura delle attività e delle passività ai sensi dell’art. 1 del
DPR 16 aprile 2003 n. 126.
Quanto alla durata, “l’opzione ha effetto dall’inizio del
periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata fino
a quando non è revocata e, in ogni caso, per il periodo
stesso e per i due successivi”. Tale disposizione è identica a quella previgente, contenuta nel comma 6
dell’art. 18 del DPR 600/73.
In merito all’applicazione della disposizione sono
emersi dubbi interpretativi.
Va, infatti, considerato che, fino al 31 dicembre 2016,
contrariamente al dato letterale, l’opzione per il regime ordinario per le imprese minori aveva efficacia annuale.
Tale indicazione era stata resa dalla C.M. 27 agosto 98
n. 209 (§ 6) in considerazione dell’introduzione allora
del DPR 442/97, il quale all’art. 3 stabilisce che, fatti salvi termini più ampi previsti da altre disposizioni normative, le opzioni vincolano il contribuente alla sua
concreta applicazione:
- almeno per un triennio, nel caso di adozione di diver-
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se modalità di determinazione dell’imposta;
- per un anno, nel caso di regimi contabili.
In forza del DPR 442/97, dunque, doveva ritenersi implicitamente superato il previgente comma 6 dell’art.
18 del DPR 600/73 che fissava, invece, la durata in un
triennio minimo.
Tale chiarimento sulla durata annuale è stato esteso al
nuovo articolo 18 in sede di primo esame del regime di
cassa per le imprese minori, stante l’identità tra il nuovo comma 8 e il previgente comma 6.
D’altra parte, la riproposizione da parte del legislatore
del vincolo triennale potrebbe non essere casuale,
bensì un effetto conseguente alla modifica, decorrente
dal 2017, dei criteri di determinazione del reddito delle
imprese minori.
Sulla questione sarebbe necessaria un’indicazione
ufficiale
In sostanza, se fino al 2016 l’esercizio dell’opzione per
la contabilità ordinaria aveva perlopiù implicazioni
contabili, dal 2017 la scelta di transitare dalla contabilità semplificata a quella ordinaria incide significativamente anche ai fini reddituali, comportando il passaggio da un regime di cassa a uno di competenza. Le regole per il transito tra tali regimi sono specificamente
dettate dall’art. 1 comma 19 della L. 232/2016.
Adottando questa impostazione, l’art. 18 comma 8 del
DPR 600/73 risulterebbe conforme alla disciplina generale delle opzioni e delle revoche che fissa in un triennio la durata minima per l’adesione a diverse modalità
di determinazione del reddito da quelle proprie.
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ancora
FISCO
STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI
Splafonamento non sanzionabile prima del 31
dicembre 2015
Per la C.T. Reg. di Trieste è errato l’orientamento della Cassazione sull’applicazione della sanzione allo
splafonamento
/ Massimo FAVUZZA
Gli splafonamenti rispetto al limite di cui all’art. 34 della legge 388/2000 non sono sanzionabili in quanto, sino al 31 dicembre 2015, non esisteva una specifica norma sanzionatoria.
Nella sentenza della C.T. Reg. di Trieste 11 aprile 2016 n.
125/2016, i giudici hanno per la prima volta analizzato
il consolidato orientamento della Cassazione secondo
il quale sarebbe legittima l’applicazione della sanzione
del 30% alla fattispecie dello splafonamento in F24.
Solo a partire dal 1° gennaio 2016 il legislatore, tramite
la riscrittura dell’art. 13 del DLgs. 471/1997 (ad opera del
DLgs. 158/2015), ha espressamente previsto la specifica sanzione del 30% ai casi di utilizzo di un credito di
imposta in “violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti”.
Per i periodi di imposta precedenti, pur non esistendo
alcuna norma espressa, gli uffici sono però soliti sanzionare gli splafonamenti utilizzando in forma analogica il previgente art. 13 del d.lgs. 471/1997 che, però,
era riferito ai soli casi di “ritardati o omessi versamenti diretti”.
La Cassazione, che ha avuto modo di esprimersi sulla
questione numerose volte (ad es. con le sentenze nn.
23755/2015 e 6504/2016), si è espressa a favore dell’applicazione della sanzione.
I supremi giudici, tuttavia, non si sono mai pronunciati sul rispetto, o meno, dei principi di legalità e di divieto di analogia, né sul sopravvenuto DLgs. 158/2015.
In particolare, andando a ritroso, si potrà scoprire che
la sentenza originaria – da cui è scaturito l’equivoco in
cui è incorsa la Suprema Corte – è la n. 8681/2011 che,
però, aveva analizzato una fattispecie del tutto diversa.
Come si evince da quest’ultima sentenza, l’oggetto di
causa era afferente le “agevolazioni tributarie” ed era
in particolare riferito ai benefici, concessi dall’art. 7
della legge 388/2000, rappresentati dai crediti di imposta per gli incrementi occupazionali.
L’art. 7 della legge 388/2000 prevede requisiti che il datore di lavoro deve avere, e prevede che, ove venga disposta la revoca delle agevolazioni, ha luogo anche
l’applicazione delle relative sanzioni.
Quindi, in quel caso, a differenza di tutti quelli relativi
al tema dello splafonamento, la Cassazione n.
8681/2011 si era pronunciata a favore delle sanzioni
perché appunto previste dal citato art. 7.
La Suprema Corte, dunque, non aveva utilizzato l’analogia e neppure aveva violato il principio di legalità:
aveva semplicemente applicato la legge.
Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017
Tuttavia, le successive decisioni della Cassazione –
che si fondano tutte sulla sentenza 8681/2011 – non
possono ritenersi condivisibili in quanto si riferiscono
appunto al tema dello splafonamento che, ovviamente,
è una fattispecie diversa da quella esaminata nella
sentenza primigenia.
Nella citata decisione n. 125/2016, i giudici hanno condiviso il ragionamento, osservando che “le sentenze
della Corte di Cassazione richiamate dall’Ufficio a sostegno della propria tesi (la n. 8681/2011 e la n.
25525/2014) risultano per nulla attinenti al caso in esame, poiché riguardano una fattispecie diversa da quella in esame”.
Necessario un intervento delle Sezioni Unite della
Cassazione
In particolare, essi hanno evidenziato che “la Corte di
Cassazione non ha sentenziato in senso favorevole
all’interpretazione analogica dell’applicazione delle
sanzioni, ma ha solamente confermato l’applicazione
delle sanzioni in quanto esplicitamente e chiaramente previste dalla legge”.
Inoltre, è interessante richiamare un’ulteriore recente
sentenza della C.T. Reg. di Trieste (in diverso Collegio),
che con la decisione n. 37/2017 del 3 febbraio 2017 ha
affrontato il nuovo art. 13 del DLgs. 471/1997.
In particolare, i giudici hanno osservato che “l’introduzione di una nuova e specifica disciplina per la fattispecie in esame è la prova che la riconducibilità della
stessa a quella di omesso versamento, operata in via
analogica dall’Agenzia delle Entrate in assenza di una
espressa previsione in tal senso, è illegittima”.
Più nel dettaglio, essi hanno valorizzato il principio di
legalità e ritenuto impossibile l’analogia evidenziando
che “deve ritenersi illegittima l’applicazione di una
qualsivoglia sanzione amministrativa per le compensazioni oltre la soglia operate e contestate prima
dell’entrata in vigore del decreto Sanzioni (DLgs.
158/2015, ndr), con l’applicazione del favor rei al regime sanzionatorio, come nell’odierna controversia radicata in periodi di imposta antecedenti l’entrata in vigore del decreto 158/2015”.
Tenuto quindi conto della precisa analisi del pensiero
della Cassazione svolta dai giudici regionali, oltre che
degli effetti recati dal nuovo art. 13 del DLgs. 471/1997,
si rende auspicabile un cambio di orientamento ad
opera delle Sezioni Unite.
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ancora
FISCO
STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI
Perdite di fusione senza test di vitalità “esteso”
Secondo la C.T. Reg. di Milano, congruità dei ricavi e del costo del lavoro da verificare per il solo
esercizio anteriore a quello dell’operazione
/ Gianluca ODETTO
Con la sentenza n. 6353/36/16 del 1° dicembre 2016, la
Commissione tributaria regionale di Milano ha stabilito che il riporto delle perdite in sede di fusione è condizionato al rispetto del “test di vitalità” per l’esercizio
precedente a quello in cui la fusione stessa viene deliberata; non occorre, quindi, superare lo stesso test per
la frazione di esercizio che si conclude alla data di efficacia giuridica della fusione, come invece affermato
dall’Agenzia delle Entrate nelle risoluzioni n. 115 del 20
ottobre 2006 e n. 143 del 10 aprile 2008.
Si tratta, con tutta evidenza, di una decisione che, se
confermata in un eventuale giudizio di legittimità, pone le basi per un definitivo abbandono della linea interpretativa dell’Amministrazione finanziaria, già a
suo tempo oggetto di critiche da parte della circolare
Assonime 31/2007 e della Norma di comportamento
AIDC n. 176/2009.
Essa nasceva dalla considerazione per cui la norma
contenuta nell’art. 172 comma 7 del TUIR non sarebbe
idonea a contrastare con efficacia il trasferimento
all’incorporante delle perdite delle c.d. “bare fiscali”. Essa condiziona, infatti, il riporto delle perdite al fatto
che i ricavi e le spese per lavoro dipendente rilevati nel
bilancio dell’esercizio precedente a quello in cui la fusione viene deliberata siano superiori al 40% della media dei rispettivi importi così come risultanti dai bilanci dei due esercizi precedenti; essa lascia, quindi, spazio ad un depotenziamento dell’attività sociale, preoccupandosi però di stabilire alcune soglie minime di
operatività al di sotto delle quali sussiste una presunzione di comportamenti elusivi. In sostanza, per le fusioni che sono state deliberate nel 2016 il test di vitalità prende a riferimento i dati del 2015, confrontandoli
con quelli del biennio 2013-2014.
In questo contesto, le risoluzioni nn. 115/2006 e
143/2008 hanno però ritenuto che la società debba risultare “vitale”, sempre secondo i parametri dei ricavi e
delle spese per lavoro dipendente, anche per la frazione di esercizio che termina alla data in cui la fusione
viene deliberata (in realtà la risoluzione n. 143/2008
menziona la data in cui la fusione ha efficacia giuridica, coincidente con l’iscrizione dell’atto, mediamente
posteriore di 3-4 mesi rispetto a quella della delibera).
Supponendo che la data di iscrizione dell’atto sia rappresentata dal 15 novembre 2016, occorrerebbe quindi
fare due test ulteriori: uno sui ricavi, confrontando le
risultanze del periodo 1° gennaio 2016-15 novembre
Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017
2016 (opportunamente ragguagliate ad anno) con la
media del biennio 2014-2015, e uno sulle spese per lavoro subordinato, riferito al medesimo arco temporale.
Solo se tutti questi test vengono superati, la società
che ha in dote le perdite può trasferirle alla società incorporante o risultante dalla fusione.
La sentenza n. 6353/36/16 della C.T. Reg. Milano ha, come detto, censurato questa linea interpretativa, stabilendo che il test di vitalità debba essere effettuato –
come stabilisce, in modo testuale, la norma – con
esclusivo riferimento all’esercizio anteriore a quello in
cui la fusione viene deliberata. Verrebbero, quindi,
scongiurati i rischi insiti nella linea interpretativa
dell’Agenzia delle Entrate, che, per le società che registrano un depotenziamento significativo nell’esercizio
in cui la fusione viene deliberata (e che, quindi, non superano il test di vitalità “esteso”, comprendente anche
il periodo interinale di fusione), potrebbe travolgere
tutte le perdite fiscali pregresse, comprese quelle in cui
la società non era in stato di crisi.
Censure solo con la norma anti abuso
Resta comunque fermo il potere dell’Amministrazione,
come evidenzia del resto la stessa sentenza, di ricorrere alla norma antielusiva generale nel momento in cui
la partecipazione della società in stato di crisi risulti
preordinata al trasferimento delle perdite al soggetto
avente causa.
Questa conclusione deve, quindi, correttamente essere intesa nel senso per cui è l’Amministrazione a dover contestare la natura abusiva dei vantaggi fiscali
nel momento in cui il test di vitalità “esteso” non viene
superato, e non la società a dovere avanzare interpello
ai sensi dell’art. 172 comma 7 del TUIR. Diversamente,
fino a quando la norma non prenderà atto di diversi indirizzi che stanno emergendo a livello comunitario, se
il test di vitalità “ordinario” (riferito, cioè, al periodo
precedente a quello in cui la fusione viene deliberata)
non viene superato, il riporto delle perdite passa attraverso la strada dell’interpello; questo è, evidentemente,
finalizzato alla dimostrazione che, pur se i parametri
(specie quello relativo al costo del lavoro) non sono rispettati, la partecipazione della società alla fusione
non ha quale finalità esclusiva o principale il trasferimento delle proprie posizioni fiscali alla società incorporante o risultante dalla fusione.
/ 05
ancora
IMPRESA
STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI
Lo statuto della società può “decidere” la valenza
della denuntiatio
Con la regolamentazione del procedimento di conclusione del contratto, la comunicazione potrebbe
identificarsi come proposta contrattuale
/ Luciano DE ANGELIS
La denuntiatio è la comunicazione dell’intenzione di
volere concludere il contratto e deve contenere i precisi termini dell’accordo che si intende stipulare. Nel
mondo del diritto societario essa si rende necessaria
quando, in presenza di clausole di prelazione previste
nello statuto, un socio intenda vendere proprie quote o
azioni a soggetti estranei alla compagine societaria.
Da tempo è oggetto di dibattito dottrinale e di controverse pronunce giurisprudenziali se tale comunicazione, una volta inoltrata ai soci che vantano il diritto di
prelazione, assuma il valore di una “proposta contrattuale” o di un “invito a proporre”.
La differenza risulta assolutamente rilevante. Qualora
la denuntiatio assumesse la valenza di una “proposta
contrattuale”, la comunicazione di esercizio della prelazione, da parte del destinatario della stessa, varrebbe
a concludere il contratto. In questo caso la prelazione
statutaria viene letta soprattutto nell’interesse dei soci
ad accrescere la propria partecipazione sociale, ritenendo l’esclusione del terzo dalla compagine societaria una sorta di semplice mezzo finalizzato all’obiettivo principale (Trib. Avellino 13 ottobre 2005).
Nel caso di identificazione della denuntiatio quale “invito a proporre”, viceversa, il contratto potrebbe concludersi solo per effetto della formulazione di una proposta da parte del prelazionario, a cui faccia seguito
una conforme accettazione del socio che intende vendere la quota. In questo caso, l’interesse prevalente della clausola di prelazione sarebbe identificato in quello
di evitare nella compagine societaria l’ingresso di soggetti sgraditi ai soci (in tal senso Trib. Milano 24 aprile
2013).
A riguardo, la questione parrebbe definibile attraverso
lo statuto della società, che potrebbe regolamentare il
procedimento di conclusione del contratto, nel qual
caso potrebbe darsi alla denuntiatio il valore di proposta contrattuale.
Di contro, qualora lo statuto si limiti a dettare disposizioni generiche sul punto, sarà determinante il contenuto della denuntiatio. Sarà in tal caso l’impostazione
della stessa a determinare se il soggetto tenuto alla comunicazione di voler concludere il contratto voleva far
sì che la stessa assumesse il valore di “proposta contrattuale” oppure di “invito a proporre”.
Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017
Un ulteriore tema oggetto di dibattito è se, nella prelazione societaria, sia necessario che il prelazionario,
per l’esercizio del proprio diritto, debba conoscere la
precisa identità del terzo, che abbia proposto un’offerta a favore del concedente.
Anche su questo aspetto sussistono due correnti di
pensiero. La prima ritiene che nella prelazione societaria l’evento condizionante non sia costituito dall’indicazione nominativa del terzo, ma dal mero accertamento del disinteresse ad acquistare da parte del/dei
soggetto/i prelazionario/i (Trib. Milano 24 marzo 2003).
La seconda posizione ritiene, invece, che la denuntiatio debba obbligatoriamente contenere anche l’indicazione del nome del terzo offerente (Cass. 23 luglio 2012
n. 12797).
Sempre necessaria l’indicazione del nome del terzo
ipotetico acquirente
Tale ultima posizione appare quella da preferire. L’opportunità o meno di esercitare la prelazione, non può,
infatti (ad avviso di chi scrive), prescindere dalla persona dell’offerente che andrebbe a costituire un nuovo
socio per la società.
Ciò anche in virtù della circostanza che la personalità
del potenziale nuovo socio, comportando una situazione destinata a protrarsi nel tempo, non potrà non condizionare, anche incisivamente, la scelta se esercitare
o meno il diritto di prelazione.
In definitiva, nell’ambito della prelazione societaria,
l’indicazione del nome del terzo ipotetico acquirente
risulta sempre necessaria, poiché, a differenza che in
altre situazioni, le conseguenze dell’ingresso del terzo
(eventualmente non gradito) non si esauriscono istantaneamente, ma rilevano e incidono su un contratto di
società che esplica effetti di lungo periodo e che si basa pur sempre (seppur nelle società di capitali in maniera meno incisiva che nelle società di persone)
sull’intuitus personae.
Per un approfondimento sul tema della prelazione e
della denuntiatio, con esemplificazione di clausole statutarie, si rimanda a “Clausola di prelazione propria e
denuntatio: fra teoria e pratica operativa” nella rivista
“Società e contratti, Bilancio e Revisione” n. 1/2017.
/ 06
ancora
FISCO
STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI
Regola del prezzo valore anche per le donazioni
Secondo la C.T. Prov. Milano, il prezzo valore potrebbe applicarsi anche in assenza di “corrispettivo”
/ Alessandro BORGOGLIO
La cosiddetta regola del “prezzo valore” per la tassazione delle cessioni di immobili tra persone fisiche, ai fini dell’imposta di registro e delle ipocatastali, si applica anche nel caso di donazioni, non avendo il legislatore specificato una limitazione a favore delle cessioni
a titolo oneroso. Lo ha stabilito la C.T. Prov. di Milano,
con la sentenza n. 9617/3/16.
Ai sensi dell’art. 1, comma 497 della L. 266/2005, in deroga agli ordinari criteri di cui all’art. 43 del DPR
131/1986 per determinare la base imponibile dell’imposta di registro, per le sole cessioni fra persone fisiche
che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, aventi a oggetto immobili
a uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio, la base imponibile ai fini delle imposte di registro,
ipotecarie e catastali è costituita dal valore dell’immobile determinato con i moltiplicatori delle rendite catastali di cui all’art. 52, commi 4 e 5 del DPR 131/1986,
indipendentemente dal corrispettivo pattuito indicato
nell’atto.
Il Notariato, con lo studio n. 116-2005/T, ha osservato
che la norma non fornisce il termine “cessioni” dell’aggettivo “onerose”, come il legislatore avrebbe dovuto
fare se la sua volontà fosse stata interdittiva all’accesso a tale regime degli atti a titolo gratuito.
Lo stesso Notariato, però, ha aggiunto che tale interpretazione collima, oltre che con riferimento all’analoga terminologia usata in materia di IVA, anche con la
ratio della norma, che sembra essere quella di predisporre le condizioni per una determinazione dei valori
degli immobili più corrispondente alla realtà economica e pervenire a una più congrua attribuzione di rendita catastale. Per l’“emersione” di tali valori, “appare evidente la rilevanza della occultazione del valore del bene immobile anche nelle cessioni a titolo gratuito che
non sostanzino donazione”, nei contratti quali la permuta e la transazione, in negozi tributariamente assimilabili alle “cessioni”, quali le divisioni con conguaglio e il mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo di rendiconto.
Dalla parte motiva della sentenza in commento – sul
caso di un contribuente che aveva donato un immobile alla figlia – si desume che, secondo il Fisco, il riportato assunto del Notariato depone a favore della sua tesi per cui le donazioni non possono usufruire della regola del prezzo valore, appunto perché non vi è alcun
corrispettivo potenzialmente occultabile (fine che la
regola stessa tende a contrastare), cosicché legittimamente l’Ufficio ha richiesto con l’avviso di liquidazione impugnato le maggiori imposte ipocatastali dovute
sul valore dichiarato dell’immobile di circa un milione
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e mezzo, a fronte di quelle determinate sulla base del
prezzo valore di circa mezzo milione di euro.
Per i giudici di merito, invece, sia la formulazione testuale della norma in oggetto che l’interpretazione che
fornita dal Notariato confermano proprio che la regola
del prezzo valore è applicabile anche alle donazioni,
poiché se il legislatore avesse voluto escluderle, avrebbe esplicitamente inserito nella norma “cessioni a titolo oneroso”. Essendo l’atto di donazione un atto di
estrema liberalità, non ha importanza il valore venale
del cespite, che è invece un elemento essenziale
nell’atto di compravendita, in quanto il fine della norma, negli atti a titolo oneroso, è quello di non occultare
il corrispettivo pattuito fra le parti stesse.
Nel caso in oggetto, secondo il collegio giudicante, non
vi è un corrispettivo pattuito perché la donazione
dell’immobile ha come sfondo lo spirito di generosità
del padre nei confronti della figlia: liberalità, quindi,
che nulla ha a che vedere con l’indicazione del valore
di circa un milione e mezzo di euro che l’Ufficio pretende di sottoporre a tassazione percentuale.
L’anno scorso, invece, la C.T. Prov. di Firenze aveva
stabilito che la norma sul prezzo valore non è applicabile nel caso di contratti di mantenimento con cui i genitori trasferiscono ai figli unità immobiliari, gravate
da diritto di abitazione, a fronte dell’impegno di questi
ultimi a fornire loro assistenza materiale e psicologica:
ciò in quanto la locuzione “corrispettivo pattuito” usata dal legislatore nella predetta norma sul prezzo valore lascia intendere che il corrispettivo medesimo debba avere natura pecuniaria, a differenza di quanto previsto nel contratto di mantenimento, dove la controprestazione si qualifica in un facere consistente
nell’obbligo di assistenza, da parte dei figli, a favore dei
propri genitori (C.T. Prov. Firenze n. 698/3/16).
Opera il meccanismo della valutazione automatica
Tornando alla sentenza in commento, sulla liquidazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, della maggiore
imposta sulle donazioni, calcolata dall’Ufficio sul valore dichiarato in atto, piuttosto che sul prezzo valore
considerato dal contribuente, i giudici hanno stabilito
che anche tale pretesa era illegittima, in quanto, ai
sensi dell’art. 34, comma 5 del DLgs. 346/1990, opera il
meccanismo della valutazione automatica, in virtù del
quale l’Amministrazione finanziaria non può effettuare controlli sul valore dichiarato, nel caso in cui esso
sia ottenuto moltiplicando il valore catastale dell’immobile con i moltiplicatori indicati dalla legge (in tal
senso anche circ. nn. 6/2007 e 3/2008 § 7.3.2).
L’Ufficio, invece, aveva sostenuto – invano – che nel
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caso di specie non si trattava di rettifica del valore dichiarato, ma di semplice liquidazione dell’imposta di
successione sul valore dichiarato in atto dalle parti.
Per i giudici lombardi, però, una simile dichiarazione
di valore dell’immobile riportata nell’atto non può far
venir meno l’applicazione della definizione tabellare di
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cui all’art. 34, comma 5 citato, poiché ciò che conta è
che il contribuente abbia inserito nell’atto notarile la
richiesta di avvalersi, ai fini tributari, della valutazione
automatica di cui all’art. 34, dovendosi così calcolare la
base imponibile per le ipocatastali sull’importo di circa mezzo milione di euro.
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IMPRESA
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Dati attendibili per la valutazione delle aziende in
crisi
È opportuno verificare l’adeguatezza della base documentale e la ragionevolezza dei dati previsionali
/ Michele BANA
Le informazioni di cui necessita il professionista incaricato di stimare un complesso aziendale, costituenti
la c.d. base documentale, devono formare oggetto di
una prima verifica, da parte del valutatore, funzionale
all’esecuzione dell’incarico, mirata a evitare che l’utilizzo di dati rilevanti che presentino evidenti sintomi
d’inattendibilità possano distorcere la stima, conducendo il professionista a una valutazione non corretta.
A questo proposito, le “Linee guida per la valutazione di
aziende in crisi”, pubblicate dal Consiglio nazionale dei
dottori commercialisti e degli esperti contabili e la Società italiana dei docenti di ragioneria e di economia
aziendale (si veda “Linee guida specifiche per la valutazione delle PMI in crisi” del 28 dicembre 2016), ritengono che un dato o un’informazione inattendibile siano rilevanti quando il loro effetto sulla valutazione è
idoneo ad alterare, anche solo potenzialmente, le decisioni degli utilizzatori della stima.
Tale verifica non costituisce un’attestazione sulla veridicità della base informativa, né comprende un’attività di revisione sulle informazioni contabili dell’azienda, non essendo parte dell’incarico di valutazione, salvo che sia espressamente previsto.
Il professionista si limita al generale e complessivo apprezzamento dell’attendibilità della base informativa.
Utili informazioni possono essere tratte dall’analisi dei
bilanci e delle situazioni contabili di dettaglio. In particolare, possono costituire segnali d’inattendibilità:
- i valori delle capitalizzazioni di immobilizzazioni immateriali che crescono considerevolmente negli anni
in cui si acuisce la crisi finanziaria;
- i tempi di rotazione dei crediti e delle rimanenze che
aumentano costantemente e raggiungono livelli di
gran lunga superiori a quelli medi del settore;
- i valori negativi o sproporzionati della cassa contanti,
valori contemporaneamente molto elevati della liquidità e dei debiti finanziari;
- la produzione di documentazione parziale o artefatta,
ovvero rielaborata manualmente, anche laddove riguardi dati direttamente disponibili dai sistemi informativi.
In presenza di evidenti sintomi d’inattendibilità, il professionista deve adottare un livello di diligenza e di
scetticismo professionale rafforzato, pianificando le
verifiche aggiuntive che ritiene opportune, anche con
tecniche di campionamento, al fine di pervenire al proprio convincimento in ordine all’inesistenza o all’irrilevanza di situazioni di inattendibilità di dati e informazioni tali da precludere l’esecuzione dell’incarico.
Il documento CNDCEC-SIDREA ha, inoltre, precisato
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che, prima di applicare i possibili metodi di stima, è
necessario che il professionista prenda consapevolezza delle assunzioni poste a fondamento del piano.
Può basarsi sulle attività effettuate dall’attestatore, ove
nominato, ai fini dell’espressione del giudizio di fattibilità del piano, ovvero eseguire verifiche autonome, anche se più sintetiche e meno approfondite di quelle
compiute dai soggetti che devono esprimere un giudizio professionale sul contenuto del piano e sulla sua
fattibilità. Nel caso di ricorso alle verifiche poste in essere dall’attestatore, il professionista dovrebbe poter
disporre di un piano e di una relazione di attestazione
che descrivano adeguatamente le ipotesi utilizzate dal
management per la predisposizione del piano e i controlli posti in essere dall’attestatore ai fini della verifica di fattibilità.
Con riguardo alle assunzioni basate sulle migliori stime dell’impresa, il professionista deve considerare la
fonte e la sua attendibilità e valutare se le assunzioni
sono ragionevoli ovvero basate su piani coerenti con le
capacità dell’impresa. Relativamente alle assunzioni
ipotetiche, il professionista deve verificare se si è tenuto conto di tutte le implicazioni significative di tali
assunzioni: non è previsto che il professionista acquisisca prove a supporto delle assunzioni ipotetiche,
quando assume convincimento della coerenza di tali
assunzioni con la finalità dell’informativa economicofinanziaria prospettica e ritiene che non vi siano ragioni che rendono le ipotesi chiaramente irrealizzabili.
Giudizio del professionista funzionale al corretto uso
dei dati previsionali
L’espressione del giudizio del professionista rispetto
alla ragionevolezza dei dati previsionali non può assumere una valenza assoluta, ma risulta funzionale a individuare le più corrette modalità di utilizzo degli stessi dati previsionali ai fini del complesso processo che
porta alla determinazione del valore dell’azienda in
crisi. Questo rappresenta l’unico elemento in relazione
al quale il professionista può essere ritenuto responsabile.
Ad esempio, nel caso di flussi ritenuti di dubbio realizzo, il professionista potrà, ai soli fini della determinazione dei dati di input da utilizzare nel modello di stima del valore della azienda, operare rettifiche sul valore dei flussi (riferite anche solo al loro momento di realizzazione) o tenere conto di tale elemento in fase di
determinazione del valore del tasso adottato per la loro attualizzazione.
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FISCO
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La cancellazione volontaria dall’albo forense rende
nulla la notifica
Non regge, per le Sezioni Unite, la tesi dell’inesistenza
/ Antonino RUSSO
Le Sezioni Unite, componendo un contrasto giurisprudenziale formatosi da molti anni, hanno indicato –
con la sentenza n. 3702 del 13 febbraio 2017 – quali siano gli effetti della notificazione dell’appello presso lo
studio all’avvocato che, dopo il deposito della sentenza di primo grado, si sia cancellato volontariamente
dall’albo professionale.
Il contrasto era rappresentato da tre difformi orientamenti e, tra questi, due concludevano statuendo vizi,
tra loro differenti, quali l’inesistenza e la nullità dell’atto di gravame, mentre il terzo indirizzo statuiva invece la validità di quest’ultimo.
Per l’arresto in rassegna la notifica dell’atto d’appello –
eseguita al difensore dell’appellato che, nelle more del
decorso del termine di impugnazione, si sia volontariamente cancellato dall’albo professionale – non è
inesistente, ove il procedimento notificatorio, avviato
ad istanza di soggetto qualificato e dotato della possibilità giuridica di compiere detta attività, si sia comunque concluso con la consegna dell’atto; la notifica deve considerarsi invece nulla per violazione dell’art. 330
c.p.c., comma 1, in quanto indirizzata ad un soggetto
non più abilitato a riceverla, atteso che la volontaria
cancellazione dall’albo degli avvocati importa per il
professionista la simultanea perdita dello ius postulandi tanto nel lato attivo quanto in quello passivo.
Sempre ad avviso del supremo organo di nomofilachia,
tale nullità della notifica – ove non sia stata sanata,
con efficacia retroattiva, mediante sua rinnovazione
dando tempestivamente seguito all’ordine ex art. 291
c.p.c., comma 1, o grazie alla volontaria costituzione
dell’appellato – importa nullità del procedimento e della sentenza d’appello, ma non anche il passaggio in
giudicato della sentenza di primo grado, giacché la
norma che statuisce l’interruzione del processo per
morte o impedimento del procuratore, cioè l’art. 301
c.p.c., comma 1, prevede che deve ricomprendersi tra le
cause di interruzione del processo, “secondo interpretazione costituzionalmente conforme in funzione di
garanzia del diritto di difesa, anche l’ipotesi dell’avvocato che si sia volontariamente cancellato dall’albo,
con l’ulteriore conseguenza che il termine di impugnazione non riprende a decorrere fino al venir meno della causa di interruzione o fino alla sostituzione del difensore volontariamente cancellatosi”.
In pratica il Collegio ha adottato l’opzione ermeneutica della nullità della notifica, ancorché sanabile, e l’applicabilità (in specie) dell’art. 301, comma 1, c.p.c., nonostante tale disposizione – nell’elencare le cause di
interruzione – non contempli la fattispecie della can-
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cellazione dall’albo professionale. Il verdetto è, tra l’altro, coerente con quanto affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 19325/2011, nell’ambito di una lite
tributaria; con tale arresto si osservava, infatti, che la
notificazione dell’atto di appello tributario presso lo
studio dell’avvocato, domiciliatario del contribuente,
cancellato dall’albo professionale, non è inesistente
ma deve considerarsi piuttosto affetta da nullità, sanabile anche mediante la costituzione in giudizio della
parte intimata, in quanto eseguita in un luogo avente
un riferimento con il destinatario dell’atto.
Principio operante anche nel contenzioso tributario
L’attribuzione di effetti interruttivi alla cancellazione
discende, infine, secondo la Corte, dall’esigenza, costituzionalmente rilevante, di tutelare il diritto di difesa
ex art. 24 Cost.; la soluzione appare ampiamente condivisibile poiché così si evita che la parte possa subire
preclusioni o decadenze a causa di un evento, quale
appunto la cancellazione del proprio difensore dall’albo professionale, che deve presumersi ignorato, stante
l’inesistenza di un onere della parte di acquisirne conoscenza.
I giudici di legittimità sanciscono, nel caso descritto,
l’operatività della interruzione del processo che mira,
infatti, ad assicurare la “permanente operatività” del
principio del contraddittorio, oggi anche formalmente
sancito, quale massima espressione del diritto di difesa, dal nuovo testo dell’art. 111 Cost.
Da notare che sulla materia era stata chiamata ad effettuare un vaglio anche la Consulta; precisamente era
stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 301, comma 1, c.p.c., censurato, in riferimento all’art. 24, comma 2, Cost., nella parte in cui non include la cancellazione volontaria dall’albo di procuratore tra le ipotesi di interruzione del processo; ma,
nell’occasione, il giudice delle leggi (ordinanza n.
147/2008) dichiarava inammissibile la questione rilevando come l’ordinanza di remissione si fosse tradotta in una irrituale richiesta di avallo di un indirizzo ermeneutico effettuata, oltretutto, in base ad una incompleta ricostruzione del quadro giurisprudenziale di riferimento.
Nel contempo, la Consulta rammentava come invece
la dichiarazione di illegittimità di una disposizione è
giustificata dalla constatazione che non ne è possibile
una interpretazione conforme alla Costituzione e non
dalla mera possibilità di attribuire ad essa un significato che contrasti con parametri costituzionali.
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ECONOMIA & SOCIETÀ
STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI
Rete di sicurezza informatica CSIRT a tutela di PMI e
studi professionali
Prevista dalla direttiva Ue, dovrà essere designata da ogni Stato membro per essere il punto di
appoggio per chi subisce un cyber attack
/ Maria Chiara VIETTI e Giovanni OSSOLA
Il 6 luglio 2016 il Parlamento europeo ha adottato la direttiva 2016/1148/UE recante misure per un livello comune di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi
dell’Ue (direttiva Network and Information Security NIS). L’obiettivo della direttiva è quello di stabilire delle misure volte al conseguimento di un livello comune
elevato di sicurezza della rete e dei sistemi informativi nell’Unione così da migliorare il funzionamento del
mercato interno. In tal senso la direttiva obbliga tutti
gli Stati membri ad adottare una strategia nazionale in
materia di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi.
La direttiva crea una rete di gruppi di intervento per la
sicurezza informatica in caso di incidente chiamata
rete CSIRT ( Computer Security Incident Response
Team). Ogni Stato membro dovrà designare uno o più
CSIRT che siano conformi a determinati requisiti quali,
ad esempio, un alto livello di disponibilità dei servizi di
comunicazione, personale sufficiente a garantire l’operatività 24 ore su 24, ubicazione in siti sicuri, disponibilità di spazi di lavoro e di backup. I CSIRT dovranno
trattare gli incidenti e i rischi secondo una procedura
ben definita.
Effettivamente, la rete CSIRT potrebbe essere il punto
di riferimento in caso di incidenti di cyber. I CSIRT sono la prima risposta alle richieste di un team nazionale per una protezione, punto di appoggio per le PMI e
gli studi professionali che si trovano coinvolti in cyber attack.
In Italia il DLgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni
elettroniche), modificato dal DLgs. 70/2012, all’art. 16bis comma 4 ha istituito il CERT (Computer Emergency Response Team) nazionale presso il Ministero dello
Sviluppo economico. Si può dire, però, che il CERT non
sia mai stato considerato effettivamente un punto
d’appoggio per le società colpite da cyber attack. Pertanto, si auspica che i CSIRT, con la nuova direttiva,
vengano formati in modo idoneo, garantendo le giuste
risorse. Il CERT in Italia, seppur esistendo sulla carta,
non ha a disposizione adeguate risorse e personale per
poter svolgere la propria attività ed essere quindi un
punto di riferimento. I CSIRT previsti dalla direttiva
dovranno essere dei team a cui le PMI e gli studi professionali potranno rivolgersi in caso di attacchi e incidenti. La rete dovrà adoperarsi per prevenire gli attacchi informatici.
La direttiva introduce, inoltre, all’allegato II gli operatori di servizi essenziali che sono coloro che operano nei
settori come energia, trasporti, settore bancario, infra-
strutture e mercati finanziari, settore sanitario, fornitura e distribuzione di acqua potabile, infrastrutture digitali. Gli operatori di servizi essenziali sono quelle società pubbliche o private che svolgono un’attività che
fornisce un servizio essenziale a livello economico-sociale. Se società grandi e strutturate come Sony, Anthem e Benetton hanno subito degli attacchi che hanno portato a ingenti perdite economiche, si può capire
come un attacco a operatori essenziali come un gestore dell’acqua, dell’energia o di servizi di trasporto potrebbe avere un impatto devastante a livello sia economico, sia sociale, mettendo in crisi l’intero sistema.
Tali operatori dovranno adottare misure tecniche ed
organizzative adeguate e proporzionate alla gestione
dei rischi. Le PMI/SME (small and medium enterprises) che operano in tali settori in Italia dovranno adottare le misure di sicurezza previste al fine di prevenire
e minimizzare l’impatto di incidenti a carico della sicurezza della rete e dei sistemi informativi utilizzati
per la fornitura di servizi essenziali.
Se il cyber viene considerato un rischio per le società e
le PMI italiane, non bisogna sottovalutare la possibilità
che i cyber attack colpiscano anche i professionisti o
ancor più gli studi professionali. Uno studio professionale, infatti, viene continuamente a contatto con informazioni riservate delle società clienti e un hacker potrebbe facilmente ottenere più obiettivi con un solo attacco.
La maggior parte degli studi professionali e delle PMI
ritiene che i cyber attack non siano un pericolo poiché
si concentrano nei confronti di grandi imprese. Non è
così, in quanto più volte uno studio professionale è stato colpito da attacchi di cyber. Ciò che è importante
considerare è “not if but when”. Gli attacchi non seguono una logica ma vanno a colpire in modo “randomico”
qualsiasi posto in cui si possa ravvisare del danaro. A
livello interno gli studi professionali e le PMI devono
correre immediatamente ai ripari per creare una barriera adeguata a prevenire tali rischi.
A livello Paese, invece, ci si interroga su quale sarà la
strategia che verrà adottata dall’Italia e se effettivamente verranno fornite risorse economiche sufficienti e personale tecnico competente al fine di salvaguardare un pericolo che è ormai imminente. Si dice che la
guerra del futuro sarà quella informatica. Riuscirà l’Italia a prepararsi adeguatamente per il recepimento della direttiva nel 2018? Sarà ancora garantita l’affidabilità dei servizi forniti dalle PMI operatori di servizi essenziali in Italia e degli studi professionali?
Direttore Editoriale: Michela DAMASCO
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