quotidiano_27022017
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11111 Lunedì, 27 febbraio 2017 IL CASO DEL GIORNO FISCO Detrazione IRES del 65% anche per gli immobili locati delle imprese Opzione per la contabilità ordinaria con vincolo triennale / Arianna ZENI / Paola RIVETTI Tra i soggetti titolari di reddito d’impresa che possono beneficiare della detrazione IRPEF/IRES per gli interventi volti alla riqualificazione energetica degli edifici, di cui ai commi 344-347 dell’art. 1 della L. n. 296/2006, rientrano: - gli imprenditori individuali; - le società di persone (snc, sas); - le società di capitali (srl, spa, sapa, società cooperative e società di mutua assicurazione); - gli enti commerciali. Secondo l’Agenzia delle Entrate, i titolari di reddito d’impresa possono fruire della detrazione solo con riferimento ai fabbricati strumentali da essi utilizzati nell’esercizio della loro attività imprenditoriale (in tal senso la ris. Agenzia delle Entrate 1 agosto 2008 n. 340 e la guida Agenzia delle Entrate aggiornata a marzo 2016). Di conseguenza, la posizione dell’Amministrazione finanziaria è quella di negare la detrazione: - se gli interventi di [...] Il nuovo art. 18 comma 8 del DPR 600/73 (come sostituito dalla L. 232/2016) dispone che, per i soggetti che potrebbero applicare naturalmente il regime di contabilità semplificata, è possibile esercitare l’opzione per la contabilità ordinaria. L’adesione al regime ordinario, esercitata da inizio anno, si desume dalle modalità di tenuta delle scritture contabili (art. 1 comma 1 del DPR 442/97). Pertanto, i soggetti che hanno effettuato tale scelta hanno dovuto adottare le scritture contabili previste dagli artt. 14 e ss. del DPR 600/73, predisponendo l’inventario di apertura delle attività e delle passività ai sensi dell’art. 1 del DPR 16 aprile 2003 n. 126. Quanto alla durata, “l’opzione ha effetto dall’inizio del periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata fino a quando non è revocata e, in ogni caso, per il periodo stesso e per i due successivi”. Tale disposizione è identica a quella previgente, contenuta nel comma 6 dell’art. 18 del La riproposizione nel testo normativo di tale durata potrebbe essere correlata alle modifiche dei criteri di determinazione del reddito DPR 600/73. In merito all’applicazione della disposizione sono emersi dubbi interpretativi. Va, infatti, considerato che, fino al 31 dicembre 2016, contrariamente al dato letterale, l’opzione per il regime ordinario per le imprese minori aveva efficacia annuale. Tale indicazione era stata resa dalla C.M. 27 agosto 98 n. 209 (§ 6) in considerazione dell’introduzione allora del DPR 442/97, il quale all’art. 3 stabilisce che, fatti salvi termini più ampi previsti da altre disposizioni normative, le opzioni vincolano il contribuente alla sua concreta applicazione: - almeno per un triennio, nel caso di adozione di diverse modalità di determinazione dell’imposta; - per un anno, nel caso di regimi contabili. In forza del DPR 442/97, dunque, doveva ritenersi implicitamente superato il previgente comma 6 dell’art. 18 del DPR 600/73 che fissava, invece, la durata in un [...] PAGINA 2 PAGINA 3 IN EVIDENZA FISCO Perdite di fusione senza test di vitalità “esteso” Lo statuto della società può “decidere” la valenza della denuntiatio / Massimo FAVUZZA Regola del prezzo valore anche per le donazioni Dati attendibili per la valutazione delle aziende in crisi ALTRE NOTIZIE Splafonamento non sanzionabile prima del 31 dicembre 2015 / DA PAGINA 10 Gli splafonamenti rispetto al limite di cui all’art. 34 della legge 388/2000 non sono sanzionabili in quanto, sino al 31 dicembre 2015, non esisteva una specifica norma [...] PAGINA 4 ancora IL CASO DEL GIORNO STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Detrazione IRES del 65% anche per gli immobili locati delle imprese Le Commissioni tributarie non condividono la posizione dell’Amministrazione finanziaria / Arianna ZENI Tra i soggetti titolari di reddito d’impresa che possono beneficiare della detrazione IRPEF/IRES per gli interventi volti alla riqualificazione energetica degli edifici, di cui ai commi 344-347 dell’art. 1 della L. n. 296/2006, rientrano: - gli imprenditori individuali; - le società di persone (snc, sas); - le società di capitali (srl, spa, sapa, società cooperative e società di mutua assicurazione); - gli enti commerciali. Secondo l’Agenzia delle Entrate, i titolari di reddito d’impresa possono fruire della detrazione solo con riferimento ai fabbricati strumentali da essi utilizzati nell’esercizio della loro attività imprenditoriale (in tal senso la ris. Agenzia delle Entrate 1 agosto 2008 n. 340 e la guida Agenzia delle Entrate aggiornata a marzo 2016). Di conseguenza, la posizione dell’Amministrazione finanziaria è quella di negare la detrazione: - se gli interventi di riqualificazione energetica sono effettuati su immobili “merce”, ossia quelli alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa (ris. Agenzia delle Entrate 15 luglio 2008 n. 303). Ad esempio, non beneficerebbero – l’uso del condizionale è d’obbligo per le ragioni di cui si dirà – dell’agevolazione le imprese di costruzione, le imprese di ristrutturazione e vendita per gli interventi sui loro immobili “merce”; - se gli interventi di riqualificazione sono realizzati su beni oggetto dell’attività esercitata, quali risultano essere gli immobili locati da una società esercente l’attività di pura locazione, in quanto questi ultimi “rappresentano l’oggetto dell’attività esercitata e non cespiti strumentali”. Le precisazioni dell’Agenzia delle Entrate, tuttavia, non sono state condivise dall’Associazione italiana dei dottori commercialisti che, nella norma di comportamento AIDC n. 184/2012, ha precisato che la detrazione IRPEF/IRES di cui all’art. 1 commi 344 ss. della L. n. 296/2006 e al DM 19 febbraio 2007, spetta al soggetto Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 che esegue e sostiene la spesa dell’opera, qualunque sia la categoria catastale dell’unità immobiliare interessata e la tipologia di contribuente (persona fisica o società), indipendentemente dal tipo di attività svolta e, quindi, anche qualora lo stesso sia titolare di reddito d’impresa e le unità siano destinate alla locazione. Secondo l’AIDC, infatti, regole speciali sono previste dal summenzionato decreto soltanto per le società di locazione finanziaria, ove il beneficio fiscale è riservato soltanto al soggetto utilizzatore. In linea con la posizione dell’AIDC si sono espresse diverse Commissioni tributarie. Immobili di società di locazione da considerarsi beni strumentali Recentemente la C.T. Reg. Bologna 19 dicembre 2016 n. 3697/3/16 ha affermato che gli immobili di una società che ha come attività principale quella della locazione immobiliare, devono essere considerati beni strumentali e, in quanto tali, beneficiano della detrazione fiscale. Contro la posizione dell’Agenzia delle Entrate si segnalano, inoltre: - la sentenza della C.T. Prov. Varese 21 giugno 2013 n. 94/1/13 e la sentenza della C.T. Prov. Milano 11 gennaio 2016 n. 111/46/2016 che hanno affermato che l’agevolazione riguarda le unità immobiliari di qualsiasi categoria catastale (cioè abitazioni, uffici, negozi ecc.) e che la norma non la limita ai soli immobili strumentali delle imprese; - la sentenza 27 maggio 2013 n. 45/01/13 della C.T. Prov. Treviso che ha deciso che l’agevolazione spetta al titolare del fabbricato a prescindere dalla sua destinazione commerciale; - la C.T. Prov. Pavia, sentenza 3 febbraio 2014 n. 68/2/2014, e la C.T. Reg. Milano, sentenza 10 giugno 2015 n. 2549/12/15, secondo cui l’agevolazione spetta anche per gli immobili delle società affittati a terzi. / 02 ancora FISCO STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Opzione per la contabilità ordinaria con vincolo triennale La riproposizione nel testo normativo di tale durata potrebbe essere correlata alle modifiche dei criteri di determinazione del reddito / Paola RIVETTI Il nuovo art. 18 comma 8 del DPR 600/73 (come sostituito dalla L. 232/2016) dispone che, per i soggetti che potrebbero applicare naturalmente il regime di contabilità semplificata, è possibile esercitare l’opzione per la contabilità ordinaria. L’adesione al regime ordinario, esercitata da inizio anno, si desume dalle modalità di tenuta delle scritture contabili (art. 1 comma 1 del DPR 442/97). Pertanto, i soggetti che hanno effettuato tale scelta hanno dovuto adottare le scritture contabili previste dagli artt. 14 e ss. del DPR 600/73, predisponendo l’inventario di apertura delle attività e delle passività ai sensi dell’art. 1 del DPR 16 aprile 2003 n. 126. Quanto alla durata, “l’opzione ha effetto dall’inizio del periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata fino a quando non è revocata e, in ogni caso, per il periodo stesso e per i due successivi”. Tale disposizione è identica a quella previgente, contenuta nel comma 6 dell’art. 18 del DPR 600/73. In merito all’applicazione della disposizione sono emersi dubbi interpretativi. Va, infatti, considerato che, fino al 31 dicembre 2016, contrariamente al dato letterale, l’opzione per il regime ordinario per le imprese minori aveva efficacia annuale. Tale indicazione era stata resa dalla C.M. 27 agosto 98 n. 209 (§ 6) in considerazione dell’introduzione allora del DPR 442/97, il quale all’art. 3 stabilisce che, fatti salvi termini più ampi previsti da altre disposizioni normative, le opzioni vincolano il contribuente alla sua concreta applicazione: - almeno per un triennio, nel caso di adozione di diver- Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 se modalità di determinazione dell’imposta; - per un anno, nel caso di regimi contabili. In forza del DPR 442/97, dunque, doveva ritenersi implicitamente superato il previgente comma 6 dell’art. 18 del DPR 600/73 che fissava, invece, la durata in un triennio minimo. Tale chiarimento sulla durata annuale è stato esteso al nuovo articolo 18 in sede di primo esame del regime di cassa per le imprese minori, stante l’identità tra il nuovo comma 8 e il previgente comma 6. D’altra parte, la riproposizione da parte del legislatore del vincolo triennale potrebbe non essere casuale, bensì un effetto conseguente alla modifica, decorrente dal 2017, dei criteri di determinazione del reddito delle imprese minori. Sulla questione sarebbe necessaria un’indicazione ufficiale In sostanza, se fino al 2016 l’esercizio dell’opzione per la contabilità ordinaria aveva perlopiù implicazioni contabili, dal 2017 la scelta di transitare dalla contabilità semplificata a quella ordinaria incide significativamente anche ai fini reddituali, comportando il passaggio da un regime di cassa a uno di competenza. Le regole per il transito tra tali regimi sono specificamente dettate dall’art. 1 comma 19 della L. 232/2016. Adottando questa impostazione, l’art. 18 comma 8 del DPR 600/73 risulterebbe conforme alla disciplina generale delle opzioni e delle revoche che fissa in un triennio la durata minima per l’adesione a diverse modalità di determinazione del reddito da quelle proprie. / 03 ancora FISCO STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Splafonamento non sanzionabile prima del 31 dicembre 2015 Per la C.T. Reg. di Trieste è errato l’orientamento della Cassazione sull’applicazione della sanzione allo splafonamento / Massimo FAVUZZA Gli splafonamenti rispetto al limite di cui all’art. 34 della legge 388/2000 non sono sanzionabili in quanto, sino al 31 dicembre 2015, non esisteva una specifica norma sanzionatoria. Nella sentenza della C.T. Reg. di Trieste 11 aprile 2016 n. 125/2016, i giudici hanno per la prima volta analizzato il consolidato orientamento della Cassazione secondo il quale sarebbe legittima l’applicazione della sanzione del 30% alla fattispecie dello splafonamento in F24. Solo a partire dal 1° gennaio 2016 il legislatore, tramite la riscrittura dell’art. 13 del DLgs. 471/1997 (ad opera del DLgs. 158/2015), ha espressamente previsto la specifica sanzione del 30% ai casi di utilizzo di un credito di imposta in “violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti”. Per i periodi di imposta precedenti, pur non esistendo alcuna norma espressa, gli uffici sono però soliti sanzionare gli splafonamenti utilizzando in forma analogica il previgente art. 13 del d.lgs. 471/1997 che, però, era riferito ai soli casi di “ritardati o omessi versamenti diretti”. La Cassazione, che ha avuto modo di esprimersi sulla questione numerose volte (ad es. con le sentenze nn. 23755/2015 e 6504/2016), si è espressa a favore dell’applicazione della sanzione. I supremi giudici, tuttavia, non si sono mai pronunciati sul rispetto, o meno, dei principi di legalità e di divieto di analogia, né sul sopravvenuto DLgs. 158/2015. In particolare, andando a ritroso, si potrà scoprire che la sentenza originaria – da cui è scaturito l’equivoco in cui è incorsa la Suprema Corte – è la n. 8681/2011 che, però, aveva analizzato una fattispecie del tutto diversa. Come si evince da quest’ultima sentenza, l’oggetto di causa era afferente le “agevolazioni tributarie” ed era in particolare riferito ai benefici, concessi dall’art. 7 della legge 388/2000, rappresentati dai crediti di imposta per gli incrementi occupazionali. L’art. 7 della legge 388/2000 prevede requisiti che il datore di lavoro deve avere, e prevede che, ove venga disposta la revoca delle agevolazioni, ha luogo anche l’applicazione delle relative sanzioni. Quindi, in quel caso, a differenza di tutti quelli relativi al tema dello splafonamento, la Cassazione n. 8681/2011 si era pronunciata a favore delle sanzioni perché appunto previste dal citato art. 7. La Suprema Corte, dunque, non aveva utilizzato l’analogia e neppure aveva violato il principio di legalità: aveva semplicemente applicato la legge. Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 Tuttavia, le successive decisioni della Cassazione – che si fondano tutte sulla sentenza 8681/2011 – non possono ritenersi condivisibili in quanto si riferiscono appunto al tema dello splafonamento che, ovviamente, è una fattispecie diversa da quella esaminata nella sentenza primigenia. Nella citata decisione n. 125/2016, i giudici hanno condiviso il ragionamento, osservando che “le sentenze della Corte di Cassazione richiamate dall’Ufficio a sostegno della propria tesi (la n. 8681/2011 e la n. 25525/2014) risultano per nulla attinenti al caso in esame, poiché riguardano una fattispecie diversa da quella in esame”. Necessario un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione In particolare, essi hanno evidenziato che “la Corte di Cassazione non ha sentenziato in senso favorevole all’interpretazione analogica dell’applicazione delle sanzioni, ma ha solamente confermato l’applicazione delle sanzioni in quanto esplicitamente e chiaramente previste dalla legge”. Inoltre, è interessante richiamare un’ulteriore recente sentenza della C.T. Reg. di Trieste (in diverso Collegio), che con la decisione n. 37/2017 del 3 febbraio 2017 ha affrontato il nuovo art. 13 del DLgs. 471/1997. In particolare, i giudici hanno osservato che “l’introduzione di una nuova e specifica disciplina per la fattispecie in esame è la prova che la riconducibilità della stessa a quella di omesso versamento, operata in via analogica dall’Agenzia delle Entrate in assenza di una espressa previsione in tal senso, è illegittima”. Più nel dettaglio, essi hanno valorizzato il principio di legalità e ritenuto impossibile l’analogia evidenziando che “deve ritenersi illegittima l’applicazione di una qualsivoglia sanzione amministrativa per le compensazioni oltre la soglia operate e contestate prima dell’entrata in vigore del decreto Sanzioni (DLgs. 158/2015, ndr), con l’applicazione del favor rei al regime sanzionatorio, come nell’odierna controversia radicata in periodi di imposta antecedenti l’entrata in vigore del decreto 158/2015”. Tenuto quindi conto della precisa analisi del pensiero della Cassazione svolta dai giudici regionali, oltre che degli effetti recati dal nuovo art. 13 del DLgs. 471/1997, si rende auspicabile un cambio di orientamento ad opera delle Sezioni Unite. / 04 ancora FISCO STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Perdite di fusione senza test di vitalità “esteso” Secondo la C.T. Reg. di Milano, congruità dei ricavi e del costo del lavoro da verificare per il solo esercizio anteriore a quello dell’operazione / Gianluca ODETTO Con la sentenza n. 6353/36/16 del 1° dicembre 2016, la Commissione tributaria regionale di Milano ha stabilito che il riporto delle perdite in sede di fusione è condizionato al rispetto del “test di vitalità” per l’esercizio precedente a quello in cui la fusione stessa viene deliberata; non occorre, quindi, superare lo stesso test per la frazione di esercizio che si conclude alla data di efficacia giuridica della fusione, come invece affermato dall’Agenzia delle Entrate nelle risoluzioni n. 115 del 20 ottobre 2006 e n. 143 del 10 aprile 2008. Si tratta, con tutta evidenza, di una decisione che, se confermata in un eventuale giudizio di legittimità, pone le basi per un definitivo abbandono della linea interpretativa dell’Amministrazione finanziaria, già a suo tempo oggetto di critiche da parte della circolare Assonime 31/2007 e della Norma di comportamento AIDC n. 176/2009. Essa nasceva dalla considerazione per cui la norma contenuta nell’art. 172 comma 7 del TUIR non sarebbe idonea a contrastare con efficacia il trasferimento all’incorporante delle perdite delle c.d. “bare fiscali”. Essa condiziona, infatti, il riporto delle perdite al fatto che i ricavi e le spese per lavoro dipendente rilevati nel bilancio dell’esercizio precedente a quello in cui la fusione viene deliberata siano superiori al 40% della media dei rispettivi importi così come risultanti dai bilanci dei due esercizi precedenti; essa lascia, quindi, spazio ad un depotenziamento dell’attività sociale, preoccupandosi però di stabilire alcune soglie minime di operatività al di sotto delle quali sussiste una presunzione di comportamenti elusivi. In sostanza, per le fusioni che sono state deliberate nel 2016 il test di vitalità prende a riferimento i dati del 2015, confrontandoli con quelli del biennio 2013-2014. In questo contesto, le risoluzioni nn. 115/2006 e 143/2008 hanno però ritenuto che la società debba risultare “vitale”, sempre secondo i parametri dei ricavi e delle spese per lavoro dipendente, anche per la frazione di esercizio che termina alla data in cui la fusione viene deliberata (in realtà la risoluzione n. 143/2008 menziona la data in cui la fusione ha efficacia giuridica, coincidente con l’iscrizione dell’atto, mediamente posteriore di 3-4 mesi rispetto a quella della delibera). Supponendo che la data di iscrizione dell’atto sia rappresentata dal 15 novembre 2016, occorrerebbe quindi fare due test ulteriori: uno sui ricavi, confrontando le risultanze del periodo 1° gennaio 2016-15 novembre Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 2016 (opportunamente ragguagliate ad anno) con la media del biennio 2014-2015, e uno sulle spese per lavoro subordinato, riferito al medesimo arco temporale. Solo se tutti questi test vengono superati, la società che ha in dote le perdite può trasferirle alla società incorporante o risultante dalla fusione. La sentenza n. 6353/36/16 della C.T. Reg. Milano ha, come detto, censurato questa linea interpretativa, stabilendo che il test di vitalità debba essere effettuato – come stabilisce, in modo testuale, la norma – con esclusivo riferimento all’esercizio anteriore a quello in cui la fusione viene deliberata. Verrebbero, quindi, scongiurati i rischi insiti nella linea interpretativa dell’Agenzia delle Entrate, che, per le società che registrano un depotenziamento significativo nell’esercizio in cui la fusione viene deliberata (e che, quindi, non superano il test di vitalità “esteso”, comprendente anche il periodo interinale di fusione), potrebbe travolgere tutte le perdite fiscali pregresse, comprese quelle in cui la società non era in stato di crisi. Censure solo con la norma anti abuso Resta comunque fermo il potere dell’Amministrazione, come evidenzia del resto la stessa sentenza, di ricorrere alla norma antielusiva generale nel momento in cui la partecipazione della società in stato di crisi risulti preordinata al trasferimento delle perdite al soggetto avente causa. Questa conclusione deve, quindi, correttamente essere intesa nel senso per cui è l’Amministrazione a dover contestare la natura abusiva dei vantaggi fiscali nel momento in cui il test di vitalità “esteso” non viene superato, e non la società a dovere avanzare interpello ai sensi dell’art. 172 comma 7 del TUIR. Diversamente, fino a quando la norma non prenderà atto di diversi indirizzi che stanno emergendo a livello comunitario, se il test di vitalità “ordinario” (riferito, cioè, al periodo precedente a quello in cui la fusione viene deliberata) non viene superato, il riporto delle perdite passa attraverso la strada dell’interpello; questo è, evidentemente, finalizzato alla dimostrazione che, pur se i parametri (specie quello relativo al costo del lavoro) non sono rispettati, la partecipazione della società alla fusione non ha quale finalità esclusiva o principale il trasferimento delle proprie posizioni fiscali alla società incorporante o risultante dalla fusione. / 05 ancora IMPRESA STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Lo statuto della società può “decidere” la valenza della denuntiatio Con la regolamentazione del procedimento di conclusione del contratto, la comunicazione potrebbe identificarsi come proposta contrattuale / Luciano DE ANGELIS La denuntiatio è la comunicazione dell’intenzione di volere concludere il contratto e deve contenere i precisi termini dell’accordo che si intende stipulare. Nel mondo del diritto societario essa si rende necessaria quando, in presenza di clausole di prelazione previste nello statuto, un socio intenda vendere proprie quote o azioni a soggetti estranei alla compagine societaria. Da tempo è oggetto di dibattito dottrinale e di controverse pronunce giurisprudenziali se tale comunicazione, una volta inoltrata ai soci che vantano il diritto di prelazione, assuma il valore di una “proposta contrattuale” o di un “invito a proporre”. La differenza risulta assolutamente rilevante. Qualora la denuntiatio assumesse la valenza di una “proposta contrattuale”, la comunicazione di esercizio della prelazione, da parte del destinatario della stessa, varrebbe a concludere il contratto. In questo caso la prelazione statutaria viene letta soprattutto nell’interesse dei soci ad accrescere la propria partecipazione sociale, ritenendo l’esclusione del terzo dalla compagine societaria una sorta di semplice mezzo finalizzato all’obiettivo principale (Trib. Avellino 13 ottobre 2005). Nel caso di identificazione della denuntiatio quale “invito a proporre”, viceversa, il contratto potrebbe concludersi solo per effetto della formulazione di una proposta da parte del prelazionario, a cui faccia seguito una conforme accettazione del socio che intende vendere la quota. In questo caso, l’interesse prevalente della clausola di prelazione sarebbe identificato in quello di evitare nella compagine societaria l’ingresso di soggetti sgraditi ai soci (in tal senso Trib. Milano 24 aprile 2013). A riguardo, la questione parrebbe definibile attraverso lo statuto della società, che potrebbe regolamentare il procedimento di conclusione del contratto, nel qual caso potrebbe darsi alla denuntiatio il valore di proposta contrattuale. Di contro, qualora lo statuto si limiti a dettare disposizioni generiche sul punto, sarà determinante il contenuto della denuntiatio. Sarà in tal caso l’impostazione della stessa a determinare se il soggetto tenuto alla comunicazione di voler concludere il contratto voleva far sì che la stessa assumesse il valore di “proposta contrattuale” oppure di “invito a proporre”. Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 Un ulteriore tema oggetto di dibattito è se, nella prelazione societaria, sia necessario che il prelazionario, per l’esercizio del proprio diritto, debba conoscere la precisa identità del terzo, che abbia proposto un’offerta a favore del concedente. Anche su questo aspetto sussistono due correnti di pensiero. La prima ritiene che nella prelazione societaria l’evento condizionante non sia costituito dall’indicazione nominativa del terzo, ma dal mero accertamento del disinteresse ad acquistare da parte del/dei soggetto/i prelazionario/i (Trib. Milano 24 marzo 2003). La seconda posizione ritiene, invece, che la denuntiatio debba obbligatoriamente contenere anche l’indicazione del nome del terzo offerente (Cass. 23 luglio 2012 n. 12797). Sempre necessaria l’indicazione del nome del terzo ipotetico acquirente Tale ultima posizione appare quella da preferire. L’opportunità o meno di esercitare la prelazione, non può, infatti (ad avviso di chi scrive), prescindere dalla persona dell’offerente che andrebbe a costituire un nuovo socio per la società. Ciò anche in virtù della circostanza che la personalità del potenziale nuovo socio, comportando una situazione destinata a protrarsi nel tempo, non potrà non condizionare, anche incisivamente, la scelta se esercitare o meno il diritto di prelazione. In definitiva, nell’ambito della prelazione societaria, l’indicazione del nome del terzo ipotetico acquirente risulta sempre necessaria, poiché, a differenza che in altre situazioni, le conseguenze dell’ingresso del terzo (eventualmente non gradito) non si esauriscono istantaneamente, ma rilevano e incidono su un contratto di società che esplica effetti di lungo periodo e che si basa pur sempre (seppur nelle società di capitali in maniera meno incisiva che nelle società di persone) sull’intuitus personae. Per un approfondimento sul tema della prelazione e della denuntiatio, con esemplificazione di clausole statutarie, si rimanda a “Clausola di prelazione propria e denuntatio: fra teoria e pratica operativa” nella rivista “Società e contratti, Bilancio e Revisione” n. 1/2017. / 06 ancora FISCO STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Regola del prezzo valore anche per le donazioni Secondo la C.T. Prov. Milano, il prezzo valore potrebbe applicarsi anche in assenza di “corrispettivo” / Alessandro BORGOGLIO La cosiddetta regola del “prezzo valore” per la tassazione delle cessioni di immobili tra persone fisiche, ai fini dell’imposta di registro e delle ipocatastali, si applica anche nel caso di donazioni, non avendo il legislatore specificato una limitazione a favore delle cessioni a titolo oneroso. Lo ha stabilito la C.T. Prov. di Milano, con la sentenza n. 9617/3/16. Ai sensi dell’art. 1, comma 497 della L. 266/2005, in deroga agli ordinari criteri di cui all’art. 43 del DPR 131/1986 per determinare la base imponibile dell’imposta di registro, per le sole cessioni fra persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, aventi a oggetto immobili a uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio, la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali è costituita dal valore dell’immobile determinato con i moltiplicatori delle rendite catastali di cui all’art. 52, commi 4 e 5 del DPR 131/1986, indipendentemente dal corrispettivo pattuito indicato nell’atto. Il Notariato, con lo studio n. 116-2005/T, ha osservato che la norma non fornisce il termine “cessioni” dell’aggettivo “onerose”, come il legislatore avrebbe dovuto fare se la sua volontà fosse stata interdittiva all’accesso a tale regime degli atti a titolo gratuito. Lo stesso Notariato, però, ha aggiunto che tale interpretazione collima, oltre che con riferimento all’analoga terminologia usata in materia di IVA, anche con la ratio della norma, che sembra essere quella di predisporre le condizioni per una determinazione dei valori degli immobili più corrispondente alla realtà economica e pervenire a una più congrua attribuzione di rendita catastale. Per l’“emersione” di tali valori, “appare evidente la rilevanza della occultazione del valore del bene immobile anche nelle cessioni a titolo gratuito che non sostanzino donazione”, nei contratti quali la permuta e la transazione, in negozi tributariamente assimilabili alle “cessioni”, quali le divisioni con conguaglio e il mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo di rendiconto. Dalla parte motiva della sentenza in commento – sul caso di un contribuente che aveva donato un immobile alla figlia – si desume che, secondo il Fisco, il riportato assunto del Notariato depone a favore della sua tesi per cui le donazioni non possono usufruire della regola del prezzo valore, appunto perché non vi è alcun corrispettivo potenzialmente occultabile (fine che la regola stessa tende a contrastare), cosicché legittimamente l’Ufficio ha richiesto con l’avviso di liquidazione impugnato le maggiori imposte ipocatastali dovute sul valore dichiarato dell’immobile di circa un milione Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 e mezzo, a fronte di quelle determinate sulla base del prezzo valore di circa mezzo milione di euro. Per i giudici di merito, invece, sia la formulazione testuale della norma in oggetto che l’interpretazione che fornita dal Notariato confermano proprio che la regola del prezzo valore è applicabile anche alle donazioni, poiché se il legislatore avesse voluto escluderle, avrebbe esplicitamente inserito nella norma “cessioni a titolo oneroso”. Essendo l’atto di donazione un atto di estrema liberalità, non ha importanza il valore venale del cespite, che è invece un elemento essenziale nell’atto di compravendita, in quanto il fine della norma, negli atti a titolo oneroso, è quello di non occultare il corrispettivo pattuito fra le parti stesse. Nel caso in oggetto, secondo il collegio giudicante, non vi è un corrispettivo pattuito perché la donazione dell’immobile ha come sfondo lo spirito di generosità del padre nei confronti della figlia: liberalità, quindi, che nulla ha a che vedere con l’indicazione del valore di circa un milione e mezzo di euro che l’Ufficio pretende di sottoporre a tassazione percentuale. L’anno scorso, invece, la C.T. Prov. di Firenze aveva stabilito che la norma sul prezzo valore non è applicabile nel caso di contratti di mantenimento con cui i genitori trasferiscono ai figli unità immobiliari, gravate da diritto di abitazione, a fronte dell’impegno di questi ultimi a fornire loro assistenza materiale e psicologica: ciò in quanto la locuzione “corrispettivo pattuito” usata dal legislatore nella predetta norma sul prezzo valore lascia intendere che il corrispettivo medesimo debba avere natura pecuniaria, a differenza di quanto previsto nel contratto di mantenimento, dove la controprestazione si qualifica in un facere consistente nell’obbligo di assistenza, da parte dei figli, a favore dei propri genitori (C.T. Prov. Firenze n. 698/3/16). Opera il meccanismo della valutazione automatica Tornando alla sentenza in commento, sulla liquidazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, della maggiore imposta sulle donazioni, calcolata dall’Ufficio sul valore dichiarato in atto, piuttosto che sul prezzo valore considerato dal contribuente, i giudici hanno stabilito che anche tale pretesa era illegittima, in quanto, ai sensi dell’art. 34, comma 5 del DLgs. 346/1990, opera il meccanismo della valutazione automatica, in virtù del quale l’Amministrazione finanziaria non può effettuare controlli sul valore dichiarato, nel caso in cui esso sia ottenuto moltiplicando il valore catastale dell’immobile con i moltiplicatori indicati dalla legge (in tal senso anche circ. nn. 6/2007 e 3/2008 § 7.3.2). L’Ufficio, invece, aveva sostenuto – invano – che nel / 07 ancora STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI caso di specie non si trattava di rettifica del valore dichiarato, ma di semplice liquidazione dell’imposta di successione sul valore dichiarato in atto dalle parti. Per i giudici lombardi, però, una simile dichiarazione di valore dell’immobile riportata nell’atto non può far venir meno l’applicazione della definizione tabellare di Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 cui all’art. 34, comma 5 citato, poiché ciò che conta è che il contribuente abbia inserito nell’atto notarile la richiesta di avvalersi, ai fini tributari, della valutazione automatica di cui all’art. 34, dovendosi così calcolare la base imponibile per le ipocatastali sull’importo di circa mezzo milione di euro. / 08 ancora IMPRESA STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Dati attendibili per la valutazione delle aziende in crisi È opportuno verificare l’adeguatezza della base documentale e la ragionevolezza dei dati previsionali / Michele BANA Le informazioni di cui necessita il professionista incaricato di stimare un complesso aziendale, costituenti la c.d. base documentale, devono formare oggetto di una prima verifica, da parte del valutatore, funzionale all’esecuzione dell’incarico, mirata a evitare che l’utilizzo di dati rilevanti che presentino evidenti sintomi d’inattendibilità possano distorcere la stima, conducendo il professionista a una valutazione non corretta. A questo proposito, le “Linee guida per la valutazione di aziende in crisi”, pubblicate dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e la Società italiana dei docenti di ragioneria e di economia aziendale (si veda “Linee guida specifiche per la valutazione delle PMI in crisi” del 28 dicembre 2016), ritengono che un dato o un’informazione inattendibile siano rilevanti quando il loro effetto sulla valutazione è idoneo ad alterare, anche solo potenzialmente, le decisioni degli utilizzatori della stima. Tale verifica non costituisce un’attestazione sulla veridicità della base informativa, né comprende un’attività di revisione sulle informazioni contabili dell’azienda, non essendo parte dell’incarico di valutazione, salvo che sia espressamente previsto. Il professionista si limita al generale e complessivo apprezzamento dell’attendibilità della base informativa. Utili informazioni possono essere tratte dall’analisi dei bilanci e delle situazioni contabili di dettaglio. In particolare, possono costituire segnali d’inattendibilità: - i valori delle capitalizzazioni di immobilizzazioni immateriali che crescono considerevolmente negli anni in cui si acuisce la crisi finanziaria; - i tempi di rotazione dei crediti e delle rimanenze che aumentano costantemente e raggiungono livelli di gran lunga superiori a quelli medi del settore; - i valori negativi o sproporzionati della cassa contanti, valori contemporaneamente molto elevati della liquidità e dei debiti finanziari; - la produzione di documentazione parziale o artefatta, ovvero rielaborata manualmente, anche laddove riguardi dati direttamente disponibili dai sistemi informativi. In presenza di evidenti sintomi d’inattendibilità, il professionista deve adottare un livello di diligenza e di scetticismo professionale rafforzato, pianificando le verifiche aggiuntive che ritiene opportune, anche con tecniche di campionamento, al fine di pervenire al proprio convincimento in ordine all’inesistenza o all’irrilevanza di situazioni di inattendibilità di dati e informazioni tali da precludere l’esecuzione dell’incarico. Il documento CNDCEC-SIDREA ha, inoltre, precisato Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 che, prima di applicare i possibili metodi di stima, è necessario che il professionista prenda consapevolezza delle assunzioni poste a fondamento del piano. Può basarsi sulle attività effettuate dall’attestatore, ove nominato, ai fini dell’espressione del giudizio di fattibilità del piano, ovvero eseguire verifiche autonome, anche se più sintetiche e meno approfondite di quelle compiute dai soggetti che devono esprimere un giudizio professionale sul contenuto del piano e sulla sua fattibilità. Nel caso di ricorso alle verifiche poste in essere dall’attestatore, il professionista dovrebbe poter disporre di un piano e di una relazione di attestazione che descrivano adeguatamente le ipotesi utilizzate dal management per la predisposizione del piano e i controlli posti in essere dall’attestatore ai fini della verifica di fattibilità. Con riguardo alle assunzioni basate sulle migliori stime dell’impresa, il professionista deve considerare la fonte e la sua attendibilità e valutare se le assunzioni sono ragionevoli ovvero basate su piani coerenti con le capacità dell’impresa. Relativamente alle assunzioni ipotetiche, il professionista deve verificare se si è tenuto conto di tutte le implicazioni significative di tali assunzioni: non è previsto che il professionista acquisisca prove a supporto delle assunzioni ipotetiche, quando assume convincimento della coerenza di tali assunzioni con la finalità dell’informativa economicofinanziaria prospettica e ritiene che non vi siano ragioni che rendono le ipotesi chiaramente irrealizzabili. Giudizio del professionista funzionale al corretto uso dei dati previsionali L’espressione del giudizio del professionista rispetto alla ragionevolezza dei dati previsionali non può assumere una valenza assoluta, ma risulta funzionale a individuare le più corrette modalità di utilizzo degli stessi dati previsionali ai fini del complesso processo che porta alla determinazione del valore dell’azienda in crisi. Questo rappresenta l’unico elemento in relazione al quale il professionista può essere ritenuto responsabile. Ad esempio, nel caso di flussi ritenuti di dubbio realizzo, il professionista potrà, ai soli fini della determinazione dei dati di input da utilizzare nel modello di stima del valore della azienda, operare rettifiche sul valore dei flussi (riferite anche solo al loro momento di realizzazione) o tenere conto di tale elemento in fase di determinazione del valore del tasso adottato per la loro attualizzazione. / 09 ancora FISCO STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI La cancellazione volontaria dall’albo forense rende nulla la notifica Non regge, per le Sezioni Unite, la tesi dell’inesistenza / Antonino RUSSO Le Sezioni Unite, componendo un contrasto giurisprudenziale formatosi da molti anni, hanno indicato – con la sentenza n. 3702 del 13 febbraio 2017 – quali siano gli effetti della notificazione dell’appello presso lo studio all’avvocato che, dopo il deposito della sentenza di primo grado, si sia cancellato volontariamente dall’albo professionale. Il contrasto era rappresentato da tre difformi orientamenti e, tra questi, due concludevano statuendo vizi, tra loro differenti, quali l’inesistenza e la nullità dell’atto di gravame, mentre il terzo indirizzo statuiva invece la validità di quest’ultimo. Per l’arresto in rassegna la notifica dell’atto d’appello – eseguita al difensore dell’appellato che, nelle more del decorso del termine di impugnazione, si sia volontariamente cancellato dall’albo professionale – non è inesistente, ove il procedimento notificatorio, avviato ad istanza di soggetto qualificato e dotato della possibilità giuridica di compiere detta attività, si sia comunque concluso con la consegna dell’atto; la notifica deve considerarsi invece nulla per violazione dell’art. 330 c.p.c., comma 1, in quanto indirizzata ad un soggetto non più abilitato a riceverla, atteso che la volontaria cancellazione dall’albo degli avvocati importa per il professionista la simultanea perdita dello ius postulandi tanto nel lato attivo quanto in quello passivo. Sempre ad avviso del supremo organo di nomofilachia, tale nullità della notifica – ove non sia stata sanata, con efficacia retroattiva, mediante sua rinnovazione dando tempestivamente seguito all’ordine ex art. 291 c.p.c., comma 1, o grazie alla volontaria costituzione dell’appellato – importa nullità del procedimento e della sentenza d’appello, ma non anche il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, giacché la norma che statuisce l’interruzione del processo per morte o impedimento del procuratore, cioè l’art. 301 c.p.c., comma 1, prevede che deve ricomprendersi tra le cause di interruzione del processo, “secondo interpretazione costituzionalmente conforme in funzione di garanzia del diritto di difesa, anche l’ipotesi dell’avvocato che si sia volontariamente cancellato dall’albo, con l’ulteriore conseguenza che il termine di impugnazione non riprende a decorrere fino al venir meno della causa di interruzione o fino alla sostituzione del difensore volontariamente cancellatosi”. In pratica il Collegio ha adottato l’opzione ermeneutica della nullità della notifica, ancorché sanabile, e l’applicabilità (in specie) dell’art. 301, comma 1, c.p.c., nonostante tale disposizione – nell’elencare le cause di interruzione – non contempli la fattispecie della can- Eutekne.Info / Lunedì, 27 febbraio 2017 cellazione dall’albo professionale. Il verdetto è, tra l’altro, coerente con quanto affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 19325/2011, nell’ambito di una lite tributaria; con tale arresto si osservava, infatti, che la notificazione dell’atto di appello tributario presso lo studio dell’avvocato, domiciliatario del contribuente, cancellato dall’albo professionale, non è inesistente ma deve considerarsi piuttosto affetta da nullità, sanabile anche mediante la costituzione in giudizio della parte intimata, in quanto eseguita in un luogo avente un riferimento con il destinatario dell’atto. Principio operante anche nel contenzioso tributario L’attribuzione di effetti interruttivi alla cancellazione discende, infine, secondo la Corte, dall’esigenza, costituzionalmente rilevante, di tutelare il diritto di difesa ex art. 24 Cost.; la soluzione appare ampiamente condivisibile poiché così si evita che la parte possa subire preclusioni o decadenze a causa di un evento, quale appunto la cancellazione del proprio difensore dall’albo professionale, che deve presumersi ignorato, stante l’inesistenza di un onere della parte di acquisirne conoscenza. I giudici di legittimità sanciscono, nel caso descritto, l’operatività della interruzione del processo che mira, infatti, ad assicurare la “permanente operatività” del principio del contraddittorio, oggi anche formalmente sancito, quale massima espressione del diritto di difesa, dal nuovo testo dell’art. 111 Cost. Da notare che sulla materia era stata chiamata ad effettuare un vaglio anche la Consulta; precisamente era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 301, comma 1, c.p.c., censurato, in riferimento all’art. 24, comma 2, Cost., nella parte in cui non include la cancellazione volontaria dall’albo di procuratore tra le ipotesi di interruzione del processo; ma, nell’occasione, il giudice delle leggi (ordinanza n. 147/2008) dichiarava inammissibile la questione rilevando come l’ordinanza di remissione si fosse tradotta in una irrituale richiesta di avallo di un indirizzo ermeneutico effettuata, oltretutto, in base ad una incompleta ricostruzione del quadro giurisprudenziale di riferimento. Nel contempo, la Consulta rammentava come invece la dichiarazione di illegittimità di una disposizione è giustificata dalla constatazione che non ne è possibile una interpretazione conforme alla Costituzione e non dalla mera possibilità di attribuire ad essa un significato che contrasti con parametri costituzionali. / 10 ECONOMIA & SOCIETÀ STUDIO MENICHINI DOTTORI COMMERCIALISTI Rete di sicurezza informatica CSIRT a tutela di PMI e studi professionali Prevista dalla direttiva Ue, dovrà essere designata da ogni Stato membro per essere il punto di appoggio per chi subisce un cyber attack / Maria Chiara VIETTI e Giovanni OSSOLA Il 6 luglio 2016 il Parlamento europeo ha adottato la direttiva 2016/1148/UE recante misure per un livello comune di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi dell’Ue (direttiva Network and Information Security NIS). L’obiettivo della direttiva è quello di stabilire delle misure volte al conseguimento di un livello comune elevato di sicurezza della rete e dei sistemi informativi nell’Unione così da migliorare il funzionamento del mercato interno. In tal senso la direttiva obbliga tutti gli Stati membri ad adottare una strategia nazionale in materia di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi. La direttiva crea una rete di gruppi di intervento per la sicurezza informatica in caso di incidente chiamata rete CSIRT ( Computer Security Incident Response Team). Ogni Stato membro dovrà designare uno o più CSIRT che siano conformi a determinati requisiti quali, ad esempio, un alto livello di disponibilità dei servizi di comunicazione, personale sufficiente a garantire l’operatività 24 ore su 24, ubicazione in siti sicuri, disponibilità di spazi di lavoro e di backup. I CSIRT dovranno trattare gli incidenti e i rischi secondo una procedura ben definita. Effettivamente, la rete CSIRT potrebbe essere il punto di riferimento in caso di incidenti di cyber. I CSIRT sono la prima risposta alle richieste di un team nazionale per una protezione, punto di appoggio per le PMI e gli studi professionali che si trovano coinvolti in cyber attack. In Italia il DLgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), modificato dal DLgs. 70/2012, all’art. 16bis comma 4 ha istituito il CERT (Computer Emergency Response Team) nazionale presso il Ministero dello Sviluppo economico. Si può dire, però, che il CERT non sia mai stato considerato effettivamente un punto d’appoggio per le società colpite da cyber attack. Pertanto, si auspica che i CSIRT, con la nuova direttiva, vengano formati in modo idoneo, garantendo le giuste risorse. Il CERT in Italia, seppur esistendo sulla carta, non ha a disposizione adeguate risorse e personale per poter svolgere la propria attività ed essere quindi un punto di riferimento. I CSIRT previsti dalla direttiva dovranno essere dei team a cui le PMI e gli studi professionali potranno rivolgersi in caso di attacchi e incidenti. La rete dovrà adoperarsi per prevenire gli attacchi informatici. La direttiva introduce, inoltre, all’allegato II gli operatori di servizi essenziali che sono coloro che operano nei settori come energia, trasporti, settore bancario, infra- strutture e mercati finanziari, settore sanitario, fornitura e distribuzione di acqua potabile, infrastrutture digitali. Gli operatori di servizi essenziali sono quelle società pubbliche o private che svolgono un’attività che fornisce un servizio essenziale a livello economico-sociale. Se società grandi e strutturate come Sony, Anthem e Benetton hanno subito degli attacchi che hanno portato a ingenti perdite economiche, si può capire come un attacco a operatori essenziali come un gestore dell’acqua, dell’energia o di servizi di trasporto potrebbe avere un impatto devastante a livello sia economico, sia sociale, mettendo in crisi l’intero sistema. Tali operatori dovranno adottare misure tecniche ed organizzative adeguate e proporzionate alla gestione dei rischi. Le PMI/SME (small and medium enterprises) che operano in tali settori in Italia dovranno adottare le misure di sicurezza previste al fine di prevenire e minimizzare l’impatto di incidenti a carico della sicurezza della rete e dei sistemi informativi utilizzati per la fornitura di servizi essenziali. Se il cyber viene considerato un rischio per le società e le PMI italiane, non bisogna sottovalutare la possibilità che i cyber attack colpiscano anche i professionisti o ancor più gli studi professionali. Uno studio professionale, infatti, viene continuamente a contatto con informazioni riservate delle società clienti e un hacker potrebbe facilmente ottenere più obiettivi con un solo attacco. La maggior parte degli studi professionali e delle PMI ritiene che i cyber attack non siano un pericolo poiché si concentrano nei confronti di grandi imprese. Non è così, in quanto più volte uno studio professionale è stato colpito da attacchi di cyber. Ciò che è importante considerare è “not if but when”. Gli attacchi non seguono una logica ma vanno a colpire in modo “randomico” qualsiasi posto in cui si possa ravvisare del danaro. A livello interno gli studi professionali e le PMI devono correre immediatamente ai ripari per creare una barriera adeguata a prevenire tali rischi. A livello Paese, invece, ci si interroga su quale sarà la strategia che verrà adottata dall’Italia e se effettivamente verranno fornite risorse economiche sufficienti e personale tecnico competente al fine di salvaguardare un pericolo che è ormai imminente. Si dice che la guerra del futuro sarà quella informatica. Riuscirà l’Italia a prepararsi adeguatamente per il recepimento della direttiva nel 2018? Sarà ancora garantita l’affidabilità dei servizi forniti dalle PMI operatori di servizi essenziali in Italia e degli studi professionali? Direttore Editoriale: Michela DAMASCO EUTEKNE.INFO È UNA TESTATA REGISTRATA AL TRIBUNALE DI TORINO REG. N. 2/2010 DELL’8 FEBBRAIO 2010 Copyright 2017 © EUTEKNE SpA - Via San Pio V 27 - 10125 TORINO