Viaggio nel cuore di un uomo
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Viaggio nel cuore di un uomo
VIAGGIO NEL CUORE DI UN UOMO Racconto di Gianni Delorenzi - ©2004 Capitolo 12 Ora non solo le notti, ma anche le giornate si erano fatte fredde e pungenti e se il sole c’era, era pallido, lontano e inconsistente. Quello che arrivava non doveva essere il padrone, altrimenti la cagnara sarebbe stata meno furiosa. Jannaris diede una voce prima che l’intruso finisse sbranato e aspettò che venisse avanti. Questi si avvicinò e si lasciò annusare dai cani e toccare dal cieco, così che la paura che provavano tutt’e quanti si quietasse. - Fammi sedere accanto al tuo fuoco e riposare per un po’, vedrai che saprò ripagarti come si conviene ad un uomo giusto - disse l’uomo. - Sono solo uno schiavo greco - rispose Jannaris - il mio fuoco è il tuo fuoco e la terra che calpesti è la terra di tutti. - Ah, sei greco! - esclamò il nuovo venuto - e non sapresti dirmi se nella tua patria non ci sia bisogno di buoni falegnami? Jannaris era furbo e per un attimo accarezzò l’idea di aver trovato un alleato in grado di riportarlo tra la sua gente, ma poi si ricordò che era cieco e pensò che se fosse davvero ritornato avrebbe magari deluso coloro che gli avevano voluto bene. Perché correre il rischio? Era convinto che per un cieco la vita non avrebbe più potuto essere come prima. Fu per questo che rispose: - Perché fuggi dalla tua gente? Se hai commesso del male, riparalo: è meglio che fuggire tra gente che non parla la tua lingua e che mai ti accetterà fino in fondo tra di loro. - Non ho commesso nessun male, nessun delitto. Sono un uomo giusto (13), nessuno mi accusa, eppure devo fuggire. - Perché? - chiese Jannaris che capiva sempre meno l’enigma. Passò un tempo infinito. Il silenzio era vivo: il crepitio del fuoco, l’erba staccata dalle mascelle delle pecore, i sospiri dei cani che sognavano beati. Sembrava chiaro che il falegname non avrebbe risposto e Jannaris si sentiva un po’ colpevole per essere stato indiscreto con le sue domande, ma dopo un po’ inaspettatamente cominciò a narrare la sua storia. - Mi chiamo Giuseppe, abito a Nazaret, ma sono originario di Betlemme. Faccio il falegname, ma discendo da una stirpe di re. Tra i miei padri c’era il re Davide che costruì in Gerusalemme un tempio che di così belli non se ne sono mai più visti sulla terra. Prima di lui nella mia stirpe ce ne fu un altro che si chiamava Giuseppe come me: faceva dei sogni incredibili e interpretando questi sogni fece grande la gloria del faraone d’Egitto e salvò i suoi fratelli e tutto il mio popolo dalla catastrofe certa. Anche se sono solo un falegname, dentro di me mi sono sempre sentito forte e importante come un re, perlomeno sono il re di me stesso. Volevo anche somigliare un po’ a quell’altro mio antenato che si chiamava Giuseppe come me e che sapeva fare dei sogni ispirati da Dio: per questo avevo anche speso tutti i miei risparmi di lavoro di falegname nei cantieri navali di Carfanau (14) per farmi tessere una magnifica tunica senza cuciture e dalle lunghe maniche, proprio simile a quella che si dice indossasse pure lui. Con questa mia tunica, appena ricevuta nuova di trinca, entrai nel tempio per vedere se mi veniva qualche sogno speciale. Dentro c’erano dei giovani che volevano sposare una giovinetta che era in piedi sull’altare ed era tutta ricoperta di veli. Passò un sacerdote e diede a ognuno una verga. Alla fine gli rimaneva una vergola un po’ storta e lunga la metà delle altre. Siccome non rimaneva più nessuno, la diede a me che ero lì per caso solo a guardare. Non ci vorrai credere, ma come la presi in mano fiorì all’istante e ne venne fuori una colomba bianchissima che cominciò a svolazzare tra me e la ragazza (15). Anche se non volevo, dovetti portarla a casa mia con la promessa che l’avrei sposata a tempo debito. Quando si tolse il velo che le copriva il volto, mi mancò la parola tanto era bella: impossibile immaginare qualcosa di meglio… Comunque, bella o non bella, di soldi per vivere non ne avevo più perché li avevo spesi tutti per la tunica e allora dovetti tornare a lavorare per qualche mese a Carfanau (15). Quando tornai a casa la Maria, così si chiama questa ragazza, mi disse che era incinta. Io di sicuro sapevo solo che non potevo essere il babbo del suo bambino. Che dovevo fare? Jannaris si chiese se questa Maria non fosse la stessa che aveva incontrata nella sua visita a donna Elisabetta. Era possibile, ma per esserne certi si sarebbe dovuto saperne di più. Questo uomo parlava di re e di sogni, ma la sua poteva anche essere solo una qualunque storia di corna come tante altre. Jannaris non sapeva che dire, ma dopo un po’ Giuseppe continuò senza attendere la risposta: - Se andavo dai sacerdoti a dire che la Maria era incinta e io non ero il padre del bambino, la lapidavano. Se dicevo che sono il padre ci lapidavano tutte e due perché non eravamo ancora sposati secondo le nostre usanze. Lo sai che significa essere lapidati? Jannaris sapeva tutto di morti violente e più di mille ne aveva viste per terra e per mare. In quell’epoca turbolenta di guerre senza quartiere, decapitare, impiccare o crocefiggere era cosa di tutti i giorni e la vita umana valeva meno della piuma di un uccello… Certo che la lapidazione era uno dei supplizi più tremendi. Il condannato veniva interrato fino alla cintola e poi si cominciava a tirargli dei sassi tanto grossi da far male ma non così grossi da uccidere. Alla fine il poveraccio, ferito e tumefatto, restava sepolto sotto un mucchio di sassi e moriva asfissiato. - Scappo - aggiunse Giuseppe - scappo perché non so se quel figlio che deve nascere a Maria sia la volontà di Dio o meno, sia dovuto all’intervento di un angelo o meno, sia il frutto di un peccato o meno. Scappo verso la terra d’Egitto dove già fu esule quel mio antenato che sognava e di cui ti ho appena raccontato. Scappo con la morte nel cuore perché a me quella Maria piaceva proprio molto.