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Tafter Journal
scritto da Natasja Nikoli il 10 dicembre 2012
Slovenia. Dove la crisi ha spodestato la cultura d’élite
“In conformità con la Legge sul Governo, le aree di lavoro del Ministero della Cultura sono state prese in
carico dal Ministero dell’Istruzione, della Scienza, della Cultura e dello Sport.
Il sito ha smesso di aggiornarsi a marzo del 2012.”
Questo è il messaggio di ‘benvenuto’ che si legge sulla pagina internet dell’ormai ex Ministero della
Cultura della Slovenia, nazione che nel 2012 vede una delle sue città, Maribor, protagonista come
Capitale Europea della Cultura. Un paradosso tutto da analizzare, frutto di un fazzoletto di terra che conta
appena 20.256 km2 e due milioni scarsi di abitanti.
Stretti tra realtà linguistiche ed economiche ben più potenti e popolose, gli sloveni nella storia hanno
sempre saputo difendere le proprie fondamenta: il territorio e la lingua come base della propria cultura. Si
può affermare senza paura di scadere nell’esagerazione che l’esistenza di questo popolo e della sua
cultura è da attribuirsi esclusivamente alla strenua lotta per la resistenza nazionale. Questo Paese spesso
dimenticato e confuso con la Slovacchia, festeggia dopo tante lotte ad armi impari il proprio meritato
ventunesimo compleanno da nazione autonoma e sovrana.
Come si spiega allora che, in un momento di profonda crisi economica mondiale, si sia deciso di eliminare
proprio il Ministero volto a valorizzare quella che storicamente sembra essere l’unica vera risorsa del
Paese? La proposta fu seguita da accese ma brevi polemiche, proteste con tanto di strumenti musicali
dati alle fiamme e petizioni nazionali. A nulla sono valse tutte le predizioni di catastrofe imminente, il taglio
è stato netto e alla radice.
La domanda cruciale è se abbiamo bisogno di una cultura. Certo, sì. La domanda logica che segue, è se
abbiamo bisogno del ministero della Cultura. Assolutamente no.
“La Slovenia si trova ad affrontare una grave crisi sociale. Siamo alla ricerca di risposte. La cultura è
soprattutto in tempi difficili la finestra che apre gli orizzonti e le risveglia le potenzialità. Per questo motivo
– e non solo a causa del suo ruolo storico –sembra irrazionale pensare all’abolizione di un dipartimento
indipendente per la cultura. Quanto potremo risparmiare? E quanto perderemo?” Così recita l’introduzione
della petizione nazionale contro la chiusura del Ministero.
Prima di difendere l’esistenza dello stesso Ministero però, dobbiamo chiederci che cosa abbia ottenuto in
20 anni e ciò che esso simboleggia. Non solo la Slovenia, ma tutta la ex Jugoslavia ha ereditato dal
proprio passato socialista una situazione a dir poco anacronistica. Il paradosso nasce dalla cultura d’élite
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che, costretta sotto il vecchio regime a operare all’interno dell’apparato pubblico, non ha visto nella
democrazia l’opportunità di ripristinare la società civile e il proprio ruolo in essa. Fatto ancora più grave,
essa stessa ha fatto di tutto per impedire che ciò avvenisse, perché è il settore pubblico a garantire una
maggiore sicurezza del lavoro e la vicinanza a centri di potere. In una società democratica, dove non c’è
spazio per “l’ingranaggio interno”, quale fu il Partito Comunista sempre pronto ad intervenire, è rimasta
solo l’inerzia, andata poi sviluppandosi in una solidarietà negativa, che ha portato allo status di intoccabili
i beni culturali d’élite, le istituzioni pubbliche e i loro funzionari.
In Slovenia, la quota dei salari nelle istituzioni culturali negli ultimi 25 anni è passata dal 40 al 70%, di
conseguenza, i programmi culturali sono sempre più poveri di contenuti e gli automatismi nel
finanziamento delle istituzioni esistenti hanno portato ad ignorare i programmi e i risultati. La produzione
indipendente non è diventata parte del sistema culturale, ma un anomalia a cui guardare con sospetto. I
direttori, impotenti comparse tenute in ostaggio dalla politica e dagli impiegati, non hanno altro compito se
non mantenere lo status quo, allargando così un già disastroso gap generazionale tra i superprotetti
dipendenti pubblici e i giovani precari.
Contrariamente a ciò che si pensi però, la presenza dello Stato nella cultura è tanto più fondamentale
quanto il paese in questione è piccolo e culturalmente isolato. Basti pensare all’editoria, settore assai poco
redditizio in Slovenia.
Il finanziamento da parte dello Stato delle traduzioni dei migliori libri stranieri in lingua slovena e
essenziale affinché i lettori abbiano l’opportunità di leggere ed acculturarsi nella propria lingua a prezzi
contenuti. Lasciando questo settore alle regole del mercato, le case editrici opterebbero per finanziare la
traduzione di pochi e selezionati bestseller mondiali, che non necessariamente sono testi di un’elevata
qualità, lasciando ai lettori la sola possibilità di leggere i libri di loro interesse in lingua inglese o comunque
straniera. Simile è la situazione nella discografia o nel cinema, dove anche un prodotto di successo non
riesce a coprire i costi di produzione visto l’esiguo numero di potenziali fruitori. Senza i finanziamenti
pubblici, posso affermare con certezza, che in questo momento non potremmo parlare di musica o film
sloveni.
Con il cambiamento di regime abbiamo optato per il capitalismo, che ha sicuramente meno comprensione
per la cultura “senza scopo di lucro”. E ‘evidente che l’abolizione del Ministero della Cultura come organo
indipendente non risolleverà le sorti della pubblica amministrazione, tanto meno se anche il nuovo
ministero polifunzionale sceglierà lo stesso modus operandi.
Avendo iniziato questa breve riflessione con un paradosso, la si può concludere evidenziandone un altro:
questa decisione dettata da meri motivi economici e finanziari, non troverà altri beneficiari della Cultura
stessa, costretta finalmente a scendere dal decennale piedistallo elitario e lottare per la sopravvivenza
nell’arena del capitalismo. In cerca di armi e di ispirazione sarà allo stesso tempo costretta a guardare
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oltre i confini nazionali, cosa che noi sloveni, lo confesso, facciamo troppo di rado.
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