Luca Pocci 286 IL SIGNOR PALOMAR, ARTIGIANO DELLA

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Luca Pocci 286 IL SIGNOR PALOMAR, ARTIGIANO DELLA
Luca Pocci
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IL SIGNOR PALOMAR, ARTIGIANO DELLA MEDITAZIONE*
L
ettura del mondo e lettura di sé
[...] la rottura di questa recita interiore che
costituisce la nostra persona [...]
(Roland Barthes, L'impero dei segni)
[...] Voglio che mi si veda in maniera
semplice, naturale e consueta, senza sforzo né
artificio: giacché è me stesso che io dipingo.
(Michel De Montaigne, Saggi)
Leggere l'opera del mondo: tale pare essere il programma che
scandisce la giornata dell'inquieto signor Palomar. Dal momento della
sua prima apparizione, nell'episodio recante il titolo rivelatore di
"Lettura di un'onda" fino all'epilogo di "Come imparare a essere
morto", il personaggio di Calvino risulta impegnato in un costante
esercizio di compitazione, quasi più che lettura, dell'altro da sé.
Compitazione delle forme del mondo attuata sottraendo singoli atomi
di esperienza - l'uno - dal complessivo continuum del molteplice.
Quasi alla stregua di una operazione di riduzione fenomenologica,
l'interesse del soggetto-Palomar si fissa su un determinato particolare,
su una distinta modalità del visibile - un'onda, la luna, un geco mirando allo stesso tempo alla sospensione di tutto il resto, ovvero il
* Desidero ringraziare il professor Brian Stock e Stefano Cracolici
dell' Università di Toronto per i preziosi consigli di cui mi sono avvalso prima
e durante la stesura del presente lavoro.
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mondo meno quel particolare. È proprio questo orientamento - questa
intenzione - verso la singolarità dell'oggetto isolato, strappato cioè alla
pluralità dei particolari che costituiscono la totalità del mondo, a
qualificare l'impresa di lettura/compitazione perseguita da Palomar
come un esercizio votato alla descrizione. Abbiamo a che fare con un
soggetto finzionale a cui l'autore empirico affida in delega, per così
dire, una sua personale ambizione; quella di operare da artigiano della
descrizione
puntigliosamente
impegnato
a
rivalutare
un'ars
dimenticata, caduta in disuso:
Così negli ultimi anni ho alternato i miei esercizi sulla struttura del
racconto con esercizi di descrizione, arte oggi molto trascurata. Come
uno scolaro che abbia avuto per compito "Descrivi una giraffa" ο
"Descrivi il cielo stellato", io mi sono applicato a riempire un
quaderno di questi esercizi e ne ho fatto la materia di un libro. Il
libro si chiama Palomar ed è uscito ora in traduzione inglese: è una
specie di diario su problemi di conoscenza minimali, vie per stabilire
relazioni col mondo, gratificazioni e frustrazioni nell'uso del silenzio
e della parola¹.
Vale mettere in risalto qui il fatto che questa sorta di dichiarazione
d'intenti compare nel saggio - una delle cinque lezioni americane dedicato all'esattezza. Calvino vi sostiene l'esistenza di un legame
speciale fra quest'ultima e la pratica del descrivere come forma di
rappresentazione. Descrivere è una via "per stabilire relazioni col
mondo", una lettura del mondo sotto il segno dell'esattezza. Un modo
di raffigurazione della realtà effettuale teso a ritrarre e dipingere più
che ad esplicare ο scolpire singoli oggetti. Palomar, dunque, sarebbe la
persona chiamata ad interpretare, a dare espressione a questa
identificazione di lettura e descrizione patrocinata dall'autore, al quale
starebbe a cuore il perseguimento del valore dell'esattezza.
Si dà il caso, tuttavia, che questo che abbiamo tracciato non sia che
un tratto del modo d'essere della persona costruita da Calvino. Di fatto,
l'impresa di lettura del mondo in cui essa è impegnata risulta
continuamente oscillare come un pendolo fra due opposti esiti: un esito
descrittivo e uno meditativo. Se il primo rappresenta il recto
dell'esercizio di lettura, il secondo a sua volta ne è senz'altro il verso.
Palomar, perciò, è anche una persona che medita. È anche un artigiano
della meditazione. E lo è, occorre aggiungere, suo malgrado poiché
l'esito meditativo della lettura del mondo è un evento che emerge, che
¹ Italo Calvino, Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio,
Milano: Garzanti, 1988, pp. 72-73.
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accade ad onta della volontà di descrivere del soggetto. A causa di
questa duplice tensione, il soggetto Palomar viene a delinearsi come il
luogo di un costante dissidio interiore fra la risoluzione a sospendere la
necessaria parzialità dell'io per una imparziale apprensione di ciò che
sta fuori e il continuo riemergere della parzialità di quello stesso io
sotto forma di introspezione e raccoglimento. Mentre il versante
descrittivo della lettura ambisce a contrarre la totalità e la complessità
del mondo condensandole in singole unità minime, il versante
meditativo, per converso, funziona da movimento di espansione. Così
la soluzione epistemologica che Palomar individua nella esattezza e
imparzialità della prassi del descrivere è insidiata - complicata - dal
manifestarsi del movimento espansivo della meditazione il cui effetto,
in ultima istanza, è precisamente quello di mettere in dubbio la validità
e l'autonomia dell'opzione descrittiva.
Proprio tale dissidio interiore costituisce l'elemento che imprime
un marchio narrativo alla rassegna di episodi di cui Palomar è
protagonista. Si può dire, infatti, che il complessivo carattere narrativo
della totalità degli episodi che formano il testo altro non è che il
prodotto del trattamento dinamico cui è sottoposto il motivo del
dissidio interiore. La stessa architettura interna del testo, rigorosamente
organizzata intorno al principio ordinatore del numero tre - tre capitoli,
ciascuno diviso in tre sezioni a ognuna delle quali corrispondono tre
episodi - trasmette il senso di una dinamica narrativa che appare
consistere nel racconto della graduale transizione dall'iniziale
identificazione con la lettura-descrizione alla finale (ri)valorizzazione
della lettura-meditazione. Non a caso, la terza sezione del terzo
capitolo, ovvero la sezione conclusiva, è annunciata da un titolo che
suona inequivocabilmente emblematico: "Le meditazioni di Palomar".
C'è un filo, dunque, che connette i singoli episodi, articolando il
complesso di essi in un tutto solidale. La presenza di un nucleo
narrativo - il motivo dinamicamente dispiegantesi del dissidio interiore
- garantisce quella relazione fra le parti che, una volta riconosciuta,
spinge a considerare il testo come una struttura dotata di organicità e
non come una mera sequenza di episodi irrelati. Il fatto poi che la
rappresentazione del dissidio interiore esibisca un senso, una direzione
- non solo la finale valorizzazione della lettura-meditazione ma anche
la morte, vera ο simbolica del protagonista - serve ad attribuire alla
narrazione il carattere progressivo di un racconto di apprendistato, se
non di formazione al mondo. Sarebbe infatti troppo sostenere che
Palomar è un Bildungsroman, poiché il personaggio omonimo nasce
già formato. Pare, cioè, aver già completato la propria Bildung.
Semmai, si tratta per lui di adeguare, di adattare la propria formazione
a ciò che sta fuori di sé. Per questo, ci pare più congruo parlare di
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apprendistato al mondo, tentativo di trovare un punto che tiene nel
rapporto con esso.
Ciò detto, occorre aggiungere che la configurazione narrativa del
testo di Calvino si presenta corredata da un elemento formale la cui
rilevanza non deve essere trascurata. Ci riferiamo alla scelta autoriale
di organizzare e far ruotare il complesso dei singoli episodi attorno
all'esile silhouette finzionale del signor Palomar. L' invenzione di un
nome e di una soggettività ad esso appartenente - di Palomar ci viene
fornito un ritratto essenziale: sappiamo che è inquieto, taciturno, poco
versato nelle relazioni sociali - sembra segnalare una precisa esigenza
strategica. Calvino pare ricorrere all'identità finzionale inscritta nel
nome Palomar in quanto essa e la narrazione in terza persona gli
assicurano l'attuazione di un effetto di distanziamento. Fungono cioè da
diaframma fra sé - il soggetto empirico Calvino - e il materiale
narrato. Se in luogo del nome e della persona Palomar avessimo
un'istanza narrativa designata dal pronome "io", l'effetto potrebbe
essere quello di far passare, di comunicare, magari anche senza
confermarlo esplicitamente, il senso di una relazione di corrispondenza
fra il soggetto empirico e il soggetto implicato nella narrazione. In tal
caso, insomma, il pronome "io", lungi dal costituire un diaframma,
potrebbe essere interpretato da chi legge come il contrassegno
grammaticale dell'autore e persona empirica Italo Calvino.
Con ciò, bisogna precisare, non si vuole certo asserire che la
sopramenzionata relazione di corrispondenza si accompagna
necessariamente ad enunciazioni espresse in prima persona. Se
aderissimo a siffatta posizione, finiremmo infatti per accreditare una
regola deterministica, controfattuale e controintuitiva, da cui
discenderebbe l'arbitraria stipulazione di una necessaria identità fra
l'istanza enunciativa espressa dal pronome "io" e l'autore in carne ed
ossa. Quello che si vuol dire, invece, è che sarebbe la natura stessa del
testo, qualora vi si trovasse un io narrante e non una terza persona
investita della funzione di mediazione narrativa, ad assecondare
l'eventuale rawisamento della relazione di corrispondenza da parte del
lettore. Se si prescinde, infatti, dalla presenza di una certa dramatis
persona di nome Palomar e di una voce che ne narra il dissidio
interiore, il testo di Calvino non risulta esibire altri chiari indicatori di
fìnzionalità. Quest'ultima dipende dagli stessi elementi strategici che
assicurano l'effetto di distanziamento. La persona Palomar, pertanto,
non è consustanziale all'autore-Calvino ma gli somiglia, gli inerisce,
rappresentandone, al modo di un delegato, la tensione verso
un'adeguata modalità di lettura del mondo.
Di questa tensione e del dissidio interiore che da essa si origina
merita mettere in evidenza una sorta di implicito e tuttavia non per
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questo impercettibile movente. Si tratta della costante domanda e
ricerca di acquietamento, di tranquillitas animi, potremmo dire, che si
accompagna, influenzandone il corso, alla vicenda del signor Palomar.
Uomo inquieto, incline al dubbio, Palomar sembra instaurare una sorta
di legame necessario fra il conseguimento del giusto rapporto di
conoscenza verso il mondo - descrizione ο meditazione? - e la
conquista di serenità personale. Il problema è l'identificazione della
miglior forma da dare a tale legame. Problema che nel corso della
dinamica narrativa del testo si dispiega secondo una direzione del tutto
analoga a quella che orienta il motivo del dissidio interiore.
Dall'iniziale, completa dedizione alla oggettività dello sguardo che si
vuole impassibile e imperturbabile si passa alla presa d'atto
dell'ineludibile residuo di insoddisfazione che essa comporta. Nel
finale, l'irrisolta inquietudine di Palomar, l'ansia che gli deriva dalla
continua ricerca del giusto modo di essere al mondo determina
l'emergere del nesso, fino ad allora negato, fra indagine di sé - cura
della propria interiorità - e acquietamento, se non serenità. In totale
sintonia e sincronia, nel corpo del testo, con la scelta di aderire ad una
lettura del mondo improntata più al pathos della meditazione che non
alla gravitas della descrizione:
La strada che gli resta aperta è questa: si dedicherà d'ora in poi alla
conoscenza di se stesso, esplorerà la propria geografia interiore,
traccerà il diagramma dei moti del suo animo, ne ricaverà le formule
e i teoremi, punterà il suo telescopio sulle orbite tracciate dal corso
della sua vita anziché su quelle delle costellazioni: [...] Ed ecco che
anche questa nuova fase del suo itinerario alla ricerca della saggezza
si compie. (Palomar, p. 118)
Se la parola "itinerario", in virtù dell'idea di movimento verso una
meta che convoglia, segnala la qualità dinamica della complessiva
vicenda di Palomar, l'espressione "ricerca della saggezza", mai
comparsa in precedenza, designa invece l'acquisita consapevolezza del
nesso esistente fra indagine della propria interiorità e conquista di uno
stato di benessere. Saggezza, infatti, è termine che denota almeno una
qualità ben definita: il saper portarsi nel mondo essendo in possesso
della capacità di rapportarsi armonicamente ad esso. Questa capacità
che potrebbe chiamarsi arte del vivere presuppone la valorizzazione
della conoscenza di sé e della propria interiorità; dunque una
disposizione alla meditazione quale condizione di partenza per la
conoscenza dell'altro da sé. Nella narrazione della vicenda di Palomar è
solo al momento in cui emerge il legame fra disposizione alla
meditazione e benessere che l'orientamento verso l'arte del vivere può
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alfine prodursi. Solo in questa nuova fase alla metà dell'itinerario di
Palomar può dunque attribuirsi il nome "saggezza". Rimane il fatto,
tuttavia, che il corso del cammino e della ricerca risultano ben lungi
dall'essere conclusi. La voce narrante dichiara sì che "questa nuova
fase del suo itinerario alla ricerca della saggezza si compie". Ma questo
compiersi non è un adempimento. Al riemergere dall'esplorazione
della "propria geografìa interiore", Palomar si ritrova davanti agli occhi
lo stesso mondo, indecifrabile e privo di requie. L'armonia attesa e
promessa a se stesso risulta, una volta ancora, rimandata, inadempiuta:
Apre gli occhi: quel che appare al suo sguardo gli sembra d'averlo
già visto tutti i giorni: vie piene di gente che ha fretta e si fa largo a
gomitate, senza guardarsi in faccia, tra alte mura spigolose e
scrostate. In fondo, il cielo stellato sprizza bagliori intermittenti come
un meccanismo inceppato che sussulta e cigola in tutte le sue
giunture non oliate, avamposti d'un universo pericolante, contorto,
senza requie come lui (Palomar, pp. 118-19).
E la prosa del mondo qui che ritorna, accampandosi
prepotentemente sull'orizzonte visivo del soggetto percipiente. Con
essa, per riprendere una terminologia cara a Frank Kermode , il tempo
riacquista le consuete sembianze di chronos: successione, addizione
disorganica di momenti ed esperienze, attesa del kairos. Attesa, cioè,
del momento opportuno che intervenga a riscattare chronos dalla
condizione di mero accumulo, prefigurando l'emergere di un esito
significativo, di un adempimento.
Nel finale, la possibilità di tale esito significativo, continuamente
negato e differito, pare riguadagnare credito. L'ultimo gesto di Palomar
nell'episodio dal titolo "Come imparare a essere morto" è l'abbozzo di
un progetto di autobiografìa. La decisione, come informa il narratore
che di Palomar trascrive i pensieri, è quella di "descrivere ogni istante
della sua vita" fino a che avendoli descritti tutti "non pensi più d'essere
morto" (Palomar, p. 126). Questo progetto di autobiografia
dell'infinitesimo, fondato sull'inaudito proposito di restituire la totalità
di un'esistenza rappresentandone uno per uno i singoli atomi di
esperienza, i singoli istanti di vissuto, è l'evento che lascia intravedere
la possibilità di un conclusivo esito significativo. Nella forma
2
² Scrive Frank Kermode: "[...] chronos is 'passing time' or 'waiting time' that which according to Revelation, 'shall be no more' - and Kairos is the
season, a point in time filled with significance, charged with a meaning derived
from its relation to the end", in The Sense of an Ending: Studies in the Theory
of Fiction, op. cit., p. 47.
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dell'autobiografìa, infatti, il dissidio interiore può davvero finalmente
comporsi, trovare una soluzione. Ciò in ragione del fatto che in essa
descrizione e meditazione si danno necessariamente in unità.
Costituiscono cioè non un rapporto di antitesi ma una correlazione, un
rapporto di sintesi. Per il fin qui mai acquietato Palomar sembra
profilarsi la concreta possibilità di aver finalmente imboccato la via
giusta, la via che promette di realizzare l'aspirazione ad un sereno
equilibrio fra lettura di sé e lettura del mondo. A questo punto si può
veramente dire che il personaggio di Calvino ha imparato a morire nel
senso che, come afferma Daniele Del Giudice , la morte di cui la voce
narrante dà notizia e che suggella la narrazione non è l'opposto della
vita. Non si tratta, qui, di un decesso per quanto il testo, va detto, non
esclude affatto quest'ultima interpretazione che, una volta accettata,
produrrebbe un epilogo di sapore amaramente ironico. La morte di
Palomar ci appare, piuttosto, come l'annuncio di una rinascita, come il
preludio a una nuova vita. Vero e proprio inveramento del "vecchio"
Palomar.
Con questa morte simbolica, il cui effetto è quello di dar vita ad
una nuova identità, si conclude la narrazione. Il finale di essa è
l'evento che illumina e conferisce un senso all'intero itinerario percorso
3
³ Concordiamo con Del Giudice sul fatto che la morte di Palomar, di cui si dà
notizia nel finale, non rappresenta un decesso ma al contrario una metamorfosi,
una morte civile che annuncia la nascita di un nuovo, risolto soggetto.
All'opposto di noi, tuttavia, Del Giudice non vede né il motivo del dissidio
interiore né la graduale faticosa valorizzazione della lettura-meditazione in cui
esso, secondo noi, si risolve. Cosicché la rinascita di Palomar consisterebbe
nella finale, totale identificazione con la lettura descrizione: "Io non sono tra
quelli che pensano che Palomar muoia veramente, e che quindi leggerebbero le
pagine finali di quel libro come una precognizione di ciò che sarebbe accaduto.
A Palomar, lì, capita qualcos'altro: cambia, rinasce, muta pelle, proprio perché
radicale è stato il tentativo che ha fatto, forse mai così radicale nell'esperienza
di Calvino, e cioè rinunciare definitivamente al modello, ricominciare da capo,
tentare una percezione fenomenologica della realtà (e un suo racconto, un
racconto di questa realtà, attraverso la descrizione) senza diaframmi e dunque
senza intenzioni", in Daniele Del Giudice, "Tavola Rotonda", Atti del
convegno internazionale su I. Calvino, op. cit., p. 360.
Barberi Squarotti, a sua volta, vede la tensione meditativa di Palomar ma
la considera una componente minore del progetto di descrizione. Il testo,
dunque, sarebbe una "[...] ironica cronaca del minimo vitale, del minimo
sociale, del minimo di pensiero e di meditazione, del minimo di rapporto con
gli altri", in Giorgio Barberi Squarotti, "Dal Castello a Palomar: il destino
della letteratura", ibid., p. 344.
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dal protagonista. Dalla prospettiva del finale, cioè, l'itinerario della
vicenda di Palomar acquista il carattere di un movimento progressivo accidentato e nient'affatto lineare - verso la possibilità di una forma di
acquietamento, di ben-essere al mondo. La morte del vecchio, inquieto
io sembra indicare l'eventualità dell'irruzione di un altro tempo, un
tempo salutare ed opportuno: il kairos dell'adempimento. Non resta qui
che ripercorrere, una per una, le tappe di avvicinamento ad esso.
Meditazione descrittiva e autobiografia dell'Infinitesimo
La vicenda umana del signor Palomar s'inaugura sotto il segno di
un'acuta opposizione dialettica fra io e sguardo. In un primo tempo la
totale, esclusiva adesione alla presunta imparzialità oggettiva della
descrizione si sostanzia nella assoluta valorizzazione dell'atto del
vedere a scapito della soggettività, ovvero della causa del vedere
stesso. L'ambizione del personaggio di Calvino è insomma quella di
farsi puro sguardo, pura visione, elevando l'attività oculare ad unico
strumento di lettura del mondo circostante e sopprimendo, nel
contempo, l'ingombrante parzialità del proprio io. Quest'ultimo è
considerato un ostacolo in virtù della sua stessa natura che si esprime
nella incessante opera di mediazione dell'altro da sé. Occorre, perciò,
sopprimere la contingenza, la parzialità del proprio io al fine di
guadagnare la presunta immediatezza cognitiva connessa allo sguardo.
Questa istanza di oggettività è presente - è inscritta, verrebbe da dire nel nome stesso del protagonista che richiama alla mente quello di un
ben noto osservatorio astronomico: Mount Palomar. Siffatta omonimia
allude piuttosto esplicitamente al desiderio di modellare l'attività di
osservazione dell'occhio anatomico sul rigore e l'asettica esattezza
dell'occhio tecnologico. Una volta programmata la riduzione di sé a
puro sguardo, si tratta, per quello sguardo, di acquisire l'anonimato che
caratterizza la macchina, l'osservatorio. Vedere per Palomar significa
dunque osservare con il massimo rigore e la massima esattezza
possibili. Al proprio vedere non si vuole concedere di prendere la
forma del contemplare, poiché se ciò avvenisse, come suggerisce
l'attacco del primo episodio, "Lettura di un'onda", la presenza
mediatrice della soggettività tornerebbe ad imporsi, a stabilire una
relazione di compartecipazione con l'oggetto a cui è diretto lo sguardo.
Senza contare l'idea di vaghezza (o indistinzione) che, sebbene non sia
detto apertis verbis, Palomar sembra tuttavia incline ad associare
proprio alla forma della contemplazione:
Non è assorto, perché sa bene quello che fa: vuole guardare un'onda e
la guarda. Non sta contemplando, perché per la contemplazione ci
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vuole un temperamento adatto, uno stato d'animo adatto e un
concorso di circostanze esterne adatte: e per quanto il signor Palomar
non abbia nulla contro la contemplazione in linea di principio,
tuttavia nessuna di quelle tre condizioni si verifica per lui. Infine non
sono "le onde" che lui intende guardare, ma un'onda singola e basta:
volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto
un oggetto limitato e preciso. (Palomar, p. 5)
Αll'ambizione di farsi puro sguardo, di accedere alla condizione di
soggetto sottratto all'ipoteca della soggettività, si aggiunge la volontà di
circoscrivere l'osservazione del mondo dell'esperienza a singole unità
minime - un'onda, la spada del sole - ο quantomeno a oggetti limitati e
ben definiti; due tartarughe, la luna, un geco, un prato, ecc. Il rifiuto
delle sensazioni vaghe è l'effetto di un sentimento di horror infiniti.
Nella sua accezione negativa, infinito sta per in-definito, ovvero
mancanza di ogni limite, assenza di determinazione e ordine,
smisuratezza incommensurabilità. Alla negatività dell'in-definito,
Palomar oppone un'ostinata tensione verso campi di osservazione finiti,
verso orizzonti d'esperienza conchiusi. Veri e propri atomi di mondo
capaci di soddisfare la domanda di commensurabilità che alimenta il
progetto di lettura del personaggio di Calvino. Questa regolazione dello
sguardo su unità di esperienza finite rappresenta il metodo che ispira la
prassi descrittiva sposata dal soggetto. Ma l'elaborazione di tale metodo
non esprime soltanto la volontà di addivenire ad un criterio di
commensurabilità che permetta l'attuazione di una esatta operazione di
recensione del mondo. Il metodo di Palomar, infatti, sembra anche
proporsi quale tentativo di risposta ad una questione già sollevata da
Roland Barthes , ovvero la possibilità ο meno di concepire e fondare
una scienza dell'unico, una mathesis singularis. A suffragare tale
ipotesi è il fatto che, nel descrivere un'onda ο la spada del sole,
Palomar intende scientemente descrivere, di fatto, proprio quella
particolare onda e quella particolare spada del sole. Fissando lo
sguardo su queste due particolari modalità del visibile, il soggetto mira
al conseguimento di due singole conoscenze puntuali. Mira, cioè, a
cogliere il significato essenziale di due distinti avvenimenti minimi. La
speranza è quella di fondare una mathesis singularis non fine a se
stessa ma capace piuttosto di consentire il passaggio ad un qualche
4
4 "In questa controversia tutto sommato convenzionale tra la soggettività e la
scienza, maturai un'idea bizzarra: perché mai non avrebbe dovuto esserci, in un
certo senso, una nuova scienza per ogni oggetto? Una mathesis singularis (e
non più universalis)?" in Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla
fotografia, op. cit., p. 10 (La chambre claire: note sur la photographie, 1980).
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sistema di conoscenza generale, ad una mathesis universalis.
Quest'ultima è concepita, dunque, come un'estensione dei dati e
responsi ottenuti dall'operazione di descrizione di avvenimenti minimi:
"Solo se egli riesce a tenerne presenti tutti gli aspetti insieme, può
iniziare la seconda fase dell'operazione: estendere questa conoscenza
all'intero universo" (Palomar, p. 9).
La "seconda fase", tuttavia, rimane lettera morta. Ad andare in
scena, in effetti, non è l'auspicato e programmato processo di
estensione del particolare nell'universale. In luogo di esso, assistiamo
all'accadere di un movimento di spontanea espansione, come se il
singolo atto di descrizione del singolo atomo di realtà finisse ogni volta
per risolversi non nel passaggio da una conoscenza puntuale ad una
generale ma, al contrario, nell'irruzione della dimensione del dubbio. In
altre parole, il processo di contrazione del mondo dell'esperienza che si
accompagna all'operazione di descrizione finisce, immancabilmente,
per ribaltarsi nel suo opposto: nella moltiplicazione delle prospettive di
osservazione che, dilatando la possibile realtà del singolo oggetto,
mettono in crisi l'affidabilità cognitiva dell'io-sguardo. La precaria
plasticità di esso è insomma costantemente insidiata dall'inarginabile
(ri)affìorare della fluidità dell'io meditante. Una sorta di ritorno del
rimosso che reca con sé dubbi e interrogativi circa la presunta certezza
del metodo descrittivo intenzionalmente adottato. Come osservato in
precedenza, l'approdo cognitivo che Palomar ricerca nella letturadescrizione è continuamente negato dall'emergenza della meditazione
da cui discendono non esiti ο soluzioni ma, piuttosto, un inesausto
movimento di circumnavigazione dell'oggetto di conoscenza.
Nel terzo episodio della prima sezione intitolato "La spada del
sole", il solo voler guardare, la mera intenzione di recensire l'oggetto
che si accampa sull'orizzonte visivo dell'io-sguardo risulta manchevole,
insufficiente. La spada che i raggi del sole ricamano sulla superfìcie del
mare richiede - quasi prescrive - al soggetto la sospensione
dell'equazione vedere = conoscere. È come se essa esigesse da chi la
osserva una riflessione, una interrogazione sul proprio vedere. Accade
qui registrato e rappresentato dalla voce del narratore, quel movimento
di espansione dell'oggetto osservato di cui si diceva sopra. E la
riflessione che rompe gli argini della lettura descrizione non è altro che
il ritorno della soggettività sotto forma di meditazione e colloquio
interiore. Il percorso di riflessione - la circumnavigazione dell'oggetto
- si articola essenzialmente in due tappe. All'inizio, interrogandosi sulla
relazione fra quella spada del sole e se stesso, Palomar appare convinto
che ciò che vede non sia che un prodotto del proprio vedere. La spada
del sole non esiste in quanto fatto bruto, in quanto fenomeno naturale.
Essa è un oggetto mentale che esiste non in sé ma fuori di sé, essendo
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proprio la visione del soggetto percipiente a farla esistere. Stando così
le cose, la conclusione della tappa iniziale della meditazione intorno
alla spada del sole non può che essere la convinzione da parte del
soggetto di star nuotando nella propria mente poiché "è solo là che
esiste questa spada di luce" (Palomar, p. 16). Ma tale conclusione che
pare sostanziarsi nella riesumazione del principio dell'esse est percipi
di berkeleyana memoria non è che un approdo provvisorio. Il dubbio
che siffatto idealismo di stampo berkeleyano costituisca un errore, una
soluzione inaccettabile, spinge l'io meditante a riprendere il cammino,
cambiando rotta. Non è forse vero, riflette Palomar, che il fatto stesso
di vedere qualcosa implica che quel qualcosa esiste in sé, fuori della
mente del soggetto percipiente? Se così non fosse, prosegue Palomar, il
mondo che ci circonda in forma di possibile attualizzato non
esisterebbe. Ο meglio, esisterebbe solo in qualità di oggetto da
percepire. Il fatto è che il mondo esiste "prima degli occhi", prima "di
qualsiasi occhio":
[...] cerca d'immaginare il mondo prima degli occhi, di qualsiasi
occhio; e un mondo che domani per catastrofe ο lenta corrosione resti
cieco. [...] Ora tutte le tavole del surf sono state tirate a riva, e anche
l'ultimo bagnante infreddolito - di nome Palomar - esce dall'acqua.
Si è convinto che la spada esisterà anche senza di lui: finalmente
s'asciuga con un telo di spugna e torna a casa. (Palomar, p. 20)
L'episodio della "spada del sole" rappresenta, non v'è dubbio, uno
snodo importante all'interno della dinamica narrativa della complessiva
vicenda di Palomar. Qui, come si è visto, la forza espansiva della
meditazione che si oppone alla forza contrattiva della descrizione
guadagna, per così dire, il proscenio. Tuttavia il riemergere
dell'autoriflessione a questo punto della narrazione è si un indizio, un
segno anticipatorio dell'esito finale - con il profilarsi di una soluzione
al dissidio interiore che agita il personaggio di Calvino - ma, di certo,
non la cessazione del programma di astensione dalla soggettività. Il sé
continua ad essere concepito come lo scomodo diaframma che ostacola
la traiettoria dello sguardo impedendo il verificarsi del desiderato
approdo all'oggetto osservato. Il programma di Palomar, dunque,
continua a tendere verso l'annullamento del sé nella presunta esatta
immediatezza del proprio vedere. Perché l'impresa di lettura dell'opera
del mondo si risolva nell'atteso conseguimento di una conoscenza
obiettiva e puntuale, occorre autoeclissarsi. Azzerare, cioè, il paesaggio
interiore dei propri affetti, delle proprie passioni, idiosincrasie,
convinzioni e accedere allo stato di praesentia in absentia.
Questa fuga dalla parzialità del sé, dall'ineludibile contingenza e
resistenza del proprio stesso esserci è al centro dell'episodio dal titolo
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"L'occhio e i pianeti". In un a parte, graficamente evidenziato dalla
forma parentetica, la voce narrante, commentando a beneficio del
lettore la tentata fuga del protagonista dalla parzialità del proprio sé,
avanza l'ipotesi - somigliante in realtà ad un fermo giudizio - che si
tratti in ultima istanza di un vano, impraticabile desiderio di evasione.
Cosicché la difficoltà di stabilire un rapporto soddisfacente con la
totalità degli oggetti osservati, i corpi celesti, non sarebbe altro che il
segnale della resistenza opposta dalla soggettività: "[...] (A meno che la
difficoltà di carattere non sia tutta dalla parte del signor Palomar:
invano egli cerca di sfuggire alla soggettività rifugiandosi tra i corpi
celesti)". (Palomar, p. 40)
Secondo Nathalie Roelens, il desiderio di evadere dalla
contingenza della propria soggettività si manifesterebbe, per così dire,
a monte; nella scelta da parte di Palomar di concentrare la propria
attenzione su certi campi di osservazione piuttosto che altri. Sarebbe
significativo
[...] il fatto che Palomar predilige come campi d'osservazione
un'onda, un seno nudo, il riflesso del sole, un prato, delle tartarughe,
delle stelle e così via, quindi delle cose che appartengono al regno
naturale (minerale, vegetale, animale ecc.) In effetti, egli ha eliminato
in anticipo i prodotti della civiltà, più inquinati semioticamente. Un
esempio sintomatico ci viene dato quando Palomar e sua moglie
scelgono di guardare il geco invece della televisione5.
Il giudizio della Roelens è tanto interessante quanto, per la verità,
incompleto. Che Palomar prediliga campi di osservazione e fenomeni
appartenenti alla sfera semioticamente meno inquinata del regno
naturale è un fatto innegabile. Ma di tale predilezione occorre
individuare la motivazione, cosa che Roelens omette di fare. Ebbene,
una scelta così definita pare inscriversi proprio nel tentativo ostinatamente perseguito da Palomar - di sospendere la presenza della
soggettività che macchia e offusca il potenziale nitore traslucido della
pura visione. Dirigendo lo sguardo verso cose e fenomeni che si
situano al di fuori dei confini del consorzio umano, il personaggio di
Calvino sembra spinto dalla convinzione che tale opzione possa
facilitare il conseguimento di immediate verità puntuali. Va aggiunto
poi che i "prodotti della civiltà", per quanto relegati in secondo piano,
sono cionondimeno tutt'altro che eliminati. Nelle sezioni "Palomar fa la
spesa" e "I viaggi di Palomar", l'attenzione di quest'ultimo è
5 Nathalie Roelens, L Odissea di uno scrittore virtuale, op. cit., p. 36.
Luca Pocci
298
circoscritta, di fatto, a prodotti e situazioni appartenenti alla sfera del
consorzio umano.
Nella prima, deciso a tener fede al proponimento di farsi puro
sguardo esplicitamente ribadito nel corso dell'episodio "L'occhio e i
pianeti" - "[...] Forse la prima regola che devo pormi è questa:
attenermi a ciò che vedo" (Palomar, p. 41) - Palomar ingaggia una
vera e propria lettura del quotidiano. Gli scenari che le fanno da sfondo
e su cui si concentra l'attenzione dell'osservatore non sono il mare, i
corpi celesti, gli animali ma una charcuterie, un negozio di formaggi,
una macelleria. Veri e propri istituti della vita quotidiana. È proprio in
questi spazi consacrati alla compravendita, alla transazione di merci
alimentari che Palomar, venuto per osservare e acquistare, finisce per
interrogarsi e raccogliersi in sé scivolando nell'alveo della meditazione.
In questi luoghi eminentemente mondani va in scena, appunto, una
meditazione del quotidano. Ma anche qui l'emergere della soggettività
è un evento che accade a dispetto del volere del soggetto. Di nuovo si
manifesta la profonda frattura tra voler essere ed essere, tra il progetto
di contrarre il mondo all'immediata evidenza del visibile e
l'incancellabile necessità di venire a patti con la parzialità del proprio
sé. A tal riguardo la sezione "Palomar fa la spesa", per il modo in cui la
sequenza dei singoli episodi è articolata, può considerarsi una sorta di
mise en abîme della complessiva dinamica narrativa che caratterizza
l'intera vicenda del protagonista. L'episodio che inaugura la sezione "Un chilo e mezzo di grasso d'oca" - si apre infatti su uno scenario
dominato dalla presenza di uno sguardo vigile e attento. Si tratta,
ovviamente, dello sguardo di Palomar di cui il narratore riferisce,
verbalizza la visione. Alla stregua di una ripresa in soggettiva, il
narratore assume la prospettiva percettiva del personaggio,
accompagnandone e registrandone i movimenti. Il risultato è una sorta
di gioco di specchi in cui un occhio fuori scena osserva e trascrive il
comportamento descrittivo del personaggio:
II grasso d'oca si presenta in flaconi di vetro, contenenti ognuno, a
quanto dice un'etichetta scritta a mano: "due membra d'oca grassa
(una zampa e un'ala), grasso d'oca, sale e pepe. Peso netto: un chilo e
cinquecento" (Palomar, p. 69).
Ma l'impresa di descrizione non è che all'inizio e già la trasparente
imparzialità di essa comincia ad entrare in crisi. Un primo segnale è la
comparsa del verbo "contemplare" - "Aspettando in fila, il signor
Palomar contempla i flaconi" (Palomar, p. 69) - che registra il
verificarsi di una modificazione nel comportamento visivo del
personaggio. Il passaggio, cioè, dall'ottica oggettiva e imparziale -
Il Signor Palomar, artigiano della meditazione
299
quantomeno supposta tale - dell'osservazione a quella soggettiva e
parziale della contemplazione, in precedenza peraltro negata. Va notato
inoltre che a questo esercizio contemplativo insolitamente prosaico - lo
scenario di esso è, come detto, una charcuterie - fa seguito una
fantasticheria erotica. Oltre a rappresentare una ennesima variazione
sull'antico tema del legame fra cibo ed eros, tale fantasticheria
costituisce altresì un ulteriore indizio dello sgretolamento dell'iniziale
rigore descrittivo assunto dal personaggio.
È tuttavia nei due episodi successivi che la caduta di tensione
descrittiva si risolve nell'ascesa della forza espansiva della meditazione.
Ne "Il museo dei formaggi", fra clienti disciplinatamente in fila e
solerti commesse, Palomar si ritrova a meditare sul tipo di relazione da
stabilire con le opere di scienza formaggiera che lo circondano. Optare
per una conoscenza globale, enciclopedica ο piuttosto selezionarne una,
una specifica opera formaggiera, e farla propria identificandosi con
essa? Ecco il dubbio che occupa i pensieri di tanto inconsueto cliente.
Il problema è che Palomar "[...] al posto dei formaggi vede nomi di
formaggi, concetti di formaggi, significati di formaggi, storie di
formaggi, contesti di formaggi, psicologie di formaggi [...]" (Palomar,
p. 74).
Alla fine è la commessa a interrompere il filo della meditazione,
cosicché l'assorto Palomar, guardato con commiserazione dal resto
degli astanti, è bruscamente ricondotto alla realtà senza essere riuscito a
sciogliere il dubbio di metodo che lo assilla. Il discorso sul metodo
prosegue e approda ad una soluzione ancorché temporanea e
provvisoria, nel terzo ed ultimo episodio della sezione, "Il marmo e il
sangue", dove volontà descrittiva e tensione meditativa articolano una
relazione di unità. Appaiono, qui ed ora, non disgiunte ma congiunte.
Più precisamente, la prima è messa al servizio della seconda, di quella
che abbiamo chiamato meditazione del quotidiano. Mentre l'occhio
rileva e recensisce la varietà di colori delle diverse carni esposte e
l'armamentario di ferri del mestiere che servono a modellarle, va in
scena una sorta di trasfigurazione, di elevazione sublimante del luogo.
Improvvisamente la macelleria acquista l'aura di un luogo di culto,
diventa un tempio - "Tra i muri della macelleria egli sosta come in un
tempio" (Palomar, p. 77) - dove il soggetto si raccoglie a meditare con
"sentimento religioso" sulla memoria culturale inscritta nella storia di
questo "sacro" istituto della vita quotidiana. Così, le parole con cui il
narratore sigla l'episodio ritraggono un soggetto che alla gravitas
dell'imparzialità oggettiva ha sostituito il pathos del raccoglimento
interiore:
Luca Pocci
300
Un sentimento non esclude l'altro: lo stato d'animo di Palomar
che fa la fila nella macelleria è insieme di gioia trattenuta e di
timore, di desiderio e di rispetto, di preoccupazione egoistica e
di compassione universale, lo stato d'animo che forse altri
esprimono nella preghiera. (Palomar, p. 79)
Questa meditazione del quotidiano a cui corrisponde un
rovesciamento della prospettiva dello sguardo, dal fuori al dentro - per
ciò si parlava di mise en abîme dell'intera vicenda - si trasforma in
riflessione sulla meditazione nell'episodio "L'aiola di sabbia", collocato
all'inizio della sezione intitolata "I viaggi di Palomar". Lo scenario che
fa da cornice all'episodio è, questa volta, un vero e proprio luogo
deputato alla contemplazione: il giardino di rocce e sabbia del tempio
Ryoanji di Kyoto. Secondo la dottrina Zen, la concentrazione dello
sguardo e dell'attenzione sul rettangolo di rocce e sabbia consentirebbe
la liberazione dalla relatività del proprio io nonché la purificazione
della mente quale effetto dell'intuizione dell'io assoluto. Nel rispetto
dello spirito e della funzione del luogo, Palomar è venuto al tempio
Ryoanji per meditare. Ma il problema è che il luogo in questione è
anche, ed oggi forse soprattutto, un noto santuario del turismo di
massa. L'invadente presenza di rumorose frotte di visitatori impedisce
il verificarsi di due condizioni tradizionalmente essenziali all'esercizio
della meditazione: solitudine e silenzio. Che fare, dunque? Rinunciare
sic et simpliciter al desiderio di raccogliersi in contemplazione del
giardino Zen, piegandosi in tal modo alla logica livellatrice e
uniformante del turismo di massa ο magari indulgere nell'aristocratico
rimpianto di un buon tempo antico, un illud tempus in cui l'otium del
raccoglimento interiore costituiva un valore?
A queste due soluzioni il cui comun denominatore è il sentimento
di resa alla presunta irreversibilità di un determinato stato di cose,
Palomar preferisce una terza via. Una sorta di complessa scommessa
con se stesso e con l'esistente nel diffìcile intento di opporsi a quella
che oggi, nelle società occidentali ο occidentalizzate quali il Giappone,
appare come una ineluttabile necessità: l'inattualità della meditazione.
Perché quest'ultima torni ad essere attuale, ad essere vissuta e concepita
come forma del possibile piuttosto che come oggetto di antiquariato
storico definitivamente consegnato alla memoria di un passato da
riampiangere ο tutt'al più emulare, occorre, riflette Palomar per bocca
del narratore "[...] mettersi per una via più diffìcile, cercare d'afferrare
quel che il giardino Zen può dargli a guardarlo nella sola situazione in
cui può essere guardato oggi, sporgendo il proprio collo tra altri colli"
(Palomar, p. 95).
Il Signor Palomar, artigiano della meditazione
301
Il sentiero da seguire, insomma, è quello tracciato nei tre episodi
che compongono la sezione "Palomar fa la spesa". Si tratta, in
sostanza, di disporsi a meditare fra la gente contornati dal rumore di
fondo che essa produce. Tale audace scelta sottende un vero e proprio
capovolgimento di quella specifica topologia della meditazione
arrivataci pressoché intatta lungo secoli e secoli di tradizione storica.
All'atto del meditare, non importa se con finalità di elevazione religiosa
ο di semplice ispezione della propria interiorità, si è sempre associato
storicamente il significato di vacanza dalle cure e dagli affanni della
vita sociale. Sinonimo, quest'ultima, di deficit spirituale e inautenticità.
In ragione di ciò, l'esistenza del vincolo necessario fra meditazione e
contesti ambientali isolati, al riparo dal frastuono e dalla prosa del
mondo, non è mai stata disconosciuta ο posta seriamente in questione.
Al contrario, questi non hanno mai cessato di rappresentare la conditio
sine qua non di quella, in obbedienza ad un paradigma illustrato, fra
gli altri, dal Petrarca della Vita solitaria.
Se dunque, tradizionalmente, l'esercizio della meditazione
comporta un preventivo movimento di distanziamento e separazione
fisica del soggetto, un volontario esilio dal mondo, con Palomar
assistiamo invece al movimento esattamente opposto. Egli va
letteralmente incontro al mondo. Discende e s'immerge in esso. E per
far si che questa sua immersione non si traduca in smarrimento, in
naufragio nell'amorfa continuità dei gesti, dei segni e delle vicissitudini
che scandiscono la quotidianità della vita sociale, Palomar si affida
all'ancora sicura della facoltà di attenzione. Facoltà che, a onor del
vero, accompagna il corso dell'intera impresa di lettura, influenzandone
tanto il versante meditativo quanto quello descrittivo. In tal senso, se
facciamo nostra l'affermazione di Cristina Campo secondo cui
l'attenzione è fra tutte le facoltà quella che permette all'uomo di
"attuare la sua massima forma" , possiamo lecitamente concludere che
la fervida attenzione messa in mostra da Palomar non è che il segno
evidente del desiderio di massimizzare la qualità del proprio rapporto
di conoscenza con il mondo. Ciò detto, andrà poi osservato come
6
6 Nel saggio "Attenzione e poesia", compreso nel volume miscellaneo dal
titolo Gli Imperdonabili, Cristina Campo offre un vero e proprio elogio della
facoltà di attenzione: "Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre
senza riposo all'equivoco dell'immaginazione, alla pigrizia dell'abitudine,
all'ipnosi del costume la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare, la sua
massima forma. E chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità in un
tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo,
il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione", in
Cristina Campo, Gli Imperdonabili, op. cit., p. 170.
Luca Pocci
302
questa inflessibile volontà di attenzione sia lo strumento con cui il
personaggio Calvino garantisce a se stesso la possibilità di ritagliarsi
spazi di silenzio e solitudine in pubblico. In mezzo alla temperie della
convivenza con gli altri. Lungi dall'essere deprivati del loro valore,
solitudine e silenzio sono piuttosto sottoposti ad un processo di
ripensamento che ne ridefinisce senso a partire dall'esigenza di
osservare ο meditare "sporgendo il proprio collo tra altri colli". Da
fattori esterni - meri corollari ambientali esistenti indipendentemente
dalla volontà del soggetto - solitudine e silenzio sono ripensate e
trasformate in creazioni del soggetto stesso. Per Palomar, in altre
parole, quiete e isolamento non sono qualità da scoprire
nell'appartatezza di un determinato luogo ma situazioni da inventarsi
ovunque, facendo leva sullo schermo protettivo della facoltà di
attenzione.
Sulla rilevanza della relazione fra quest'ultima e il silenzio, in
particolare, conviene senz'altro soffermarsi. Conviene per la semplice
ragione che l'importanza tematica di tale relazione è un dato talmente
vistoso da non poter sfuggire neanche al meno avvertito dei lettori. Fra
l'altro, il binomio attenzione/silenzio assume centralità tematica specie
in alcuni episodi del terzo ed ultimo capitolo, sintomaticamente
contrassegnato dal titolo "I silenzi di Palomar". Gli episodi in questione
sono il già considerato "L'aiolà di sabbia" e soprattutto "Del mordersi
la lingua". Insieme sembrano rimandare, fare da viatico, al manifestarsi
nel finale della possibile soluzione al dissidio interiore che, come
anticipato, pare consistere nella naturale coesistenza di meditazione e
descrizione nella forma dell'autobiografia. In "Del mordersi la lingua"
apprendiamo senza tema di equivoci quanto ci era già stato dato ad
intuire. Sapevamo già, per via della scarna ma essenziale
caratterizzazione fornitaci dalla voce narrante, che Palomar è un tipo
taciturno, un moderatissimo utente della parola. Già da questo specifico
tratto caratteriale si poteva legittimamente inferire ciò che nell'episodio
summenzionato è detto in maniera esplicita. E cioè che per l'attento
Palomar, il silenzio costituisce un valore; che esso è l'oggetto di una
predisposizione vissuta alla stregua di una vocazione:
In un'epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per
proclamare opinioni ο giudizi, il signor Palomar ha preso l'abitudine
di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione.
[...] Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio. (Palomar, p.
103)
Contro lo spreco verbale, la smodata loquela suscettibile di
trasformarsi nel chiasso della chiacchera fine a se stessa, si proclama
Il Signor Palomar, artigiano della meditazione
303
qui l'esigenza di una sorta di rigorosa ecologia della comunicazione. Il
bersaglio del silenzioso Palomar è l'esorbitante dispendio dei
consumatori della parola. Coloro cioè per cui tacere significa
semplicemente non parlare; assenza di discorso e comunicazione.
Esiste invece, per chi lo sa sentire, un silenzio-discorso , un parlar
tacendo il cui senso dipende dalla capacità di saper dosare
opportunamente un esiguo numero di intervalli di parola. Sono questi
ultimi che interrompono il vuoto del flusso del tacere e lo trasformano
in un pieno, ovverosia in un silenzio-discorso:
7
Infatti, anche il silenzio può essere considerato un discorso, in quanto
rifiuto dell'uso che altri fanno della parola; ma il senso di questo
silenzio-discorso sta nelle sue interruzioni, cioè in ciò che di tanto in
tanto si dice e che dà un senso a ciò che si tace. (Palomar, p. 104)
Abbiamo qui, filtrato e sintetizzato dalla testimonianza della voce
narrante, un movimento meditativo intorno al valore di un particolare
modo di fare silenzio. Il modo, appunto, del silenzio-discorso. Ma
soprattutto abbiamo l'espressione di una precisa scelta etica: il "rifiuto
dell'uso che altri fanno della parola". L'importanza di questa presa di
posizione nella complessiva vicenda di Palomar è data dalla sua natura
di atto della soggettività. Scegliere in senso etico significa infatti, fra le
altre cose, mettersi in gioco, orientare la propria esistenza in una
direzione piuttosto che un'altra, dare espressione alla parzialità del
proprio sé. L'assunzione della dimensione dell'etica segna dunque
l'avvenuta accettazione - una vera e propria (ri)valorizzazione dell'orizzonte della soggettività. Orizzonte che delimita e circoscrive il
raggio del pensiero, vanificando qualsivoglia progetto di totale
evasione da sé. Per questo occorre abbandonare l'idea di costruire il
modello di conoscenza in grado di dedurre, lucidamente e
infallibilmente, la sostanza delle cose. Occorre disfarsi di ogni
epistemologia che premi innalzandole al rango di valori, le condizioni
dell'impassibilità e del distacco in nome di una conoscenza idealmente
immune e imperturbata da residui di esperienza. Alla rigidità del
modello che mira ad afferrare, quasi a prelevare oggettivamente, la
sostanza delle cose, Palomar decide di sostituire la fluidità di un
conoscere che, muovendo dalla presa d'atto dell'ineludibile parzialità di
ogni lettura del mondo, si risolva a concepire le cose alla stregua di
accadimenti. Realtà sfuggevoli, contingenti, implicanti un soggetto
7 Per un'indagine sul valore comunicativo del silenzio nella modernità, cfr.
Peter Burke, The Art of Conversation, Cambridge: Cambridge Polity Press,
1993).
Luca Pocci
304
disposto più a inseguirne la forma mettendo in campo la propria
esperienza che non a ghermirne la sostanza.
Per far questo, è meglio che la mente resti sgombra, ammobiliata solo
dalla memoria di frammenti d'esperienza e di principi sottintesi e non
dimostrabili [...] Così preferisce tenere le sue convinzioni allo stato
fluido, verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio
comportamento quotidiano, nel fare ο nel non fare, nello scegliere ο
escludere, nel parlare ο nel tacere. (Palomar, p. 110)
Questo elogio della fluidità come categoria connessa al pensiero e
al conoscere a partire dal dato ineludibile della propria soggettività è
l'atto che precede la finale, definitiva legittimazione della letturameditazione. Nella sezione conclusiva, "Le meditazioni di Palomar", le
ultime resistenze offerte dal richiamo totalizzante del distacco e della
impassibilità associate all'ottica descrittiva, vengono una volta per tutte
dissipate. La vicenda dell'inquieto personaggio, costantemente
impegnato nella ricerca di un soddisfacente ubi consistam, s'incanala
verso un esito risolutivo. Un esito capace di porre termine alle
peripezie del dissidio interiore. A inaugurare la stagione finale della
vicenda di Palomar è un esplicito omaggio all'insostituibile funzione
della facoltà di attenzione. Decidendo di intensificare la propria
adesione ad essa - "Il signor Palomar ha deciso che d'ora in avanti
raddoppierà la sua attenzione" (Palomar, p. 111) - Palomar opera una
mossa che manifesta un legame di continuità con la riflessione sul
silenzio che la precede. Se quest'ultima, come osservato, si era risolta
nell'espressione di una precisa scelta etica, in un atto della soggettività,
il susseguente appello all'attenzione, a sua volta, deve senz'altro
leggersi come un appello all'attenzione del soggetto più che dell'iosguardo.
Ne "Il mondo guarda il mondo", episodio che inaugura la sezione
conclusiva, Palomar non può fare a meno di constatare la realtà di uno
stato di cose di cui si può negare l'evidenza senza tuttavia poterne
cancellare la necessità. Non si può cioè guardare il mondo come se il
mondo guardasse se stesso. Non si può poiché ogni sguardo e ogni
attenzione hanno un'origine, una causa efficiente. Quando si guarda il
mondo, riflette Palomar, lo si fa con i propri occhi, con uno sguardo
che è la proiezione di un dentro, di una soggettività. Vedere da fuori di
sé, farsi equanime, assoluta visione è un desiderio che cozza contro
l'irriducibile necessità del proprio essere in forma di soggetto:
Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l'io? Di chi
sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l'io sia uno che
Il Signor Palomar, artigiano della meditazione
305
sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d'una finestra e
guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui.
(Palomar, p. 112)
Per il Palomar di questa ultima stagione l'atto del vedere è, dunque,
più di un puro e semplice atto mentale. Esso è un atto della
soggettività. In quanto tale, varrà rovesciarne la prospettiva, dislocarla
dall'osservazione del fuori e puntarla direttamente sulla causa,
sull'origine, ovvero sulla soggettività stessa. Si tratta, in sostanza, di
rigirare lo sguardo, dirigendolo su se stessi e sulla propria interiorità.
È quanto avviene nell'episodio successivo, "L'universo allo
specchio", dove la conoscenza di sé diventa la condizione prioritaria
per raggiungere la meta della saggezza e lo stato di stabile
acquietamento che ad essa si accompagna. Viene presa qui la
risoluzione ad intraprendere un esercizio di meditazione descrittiva;
un'indagine di sé capace di combinare la profondità del raccoglimento
interiore con la pittura di superficie della descrizione. L'imperativo che
Palomar impone a se stesso è l'esplorazione della propria geografia
interiore allo scopo di disegnare una mappa del complessivo paesaggio
della propria soggettività. Infatti "non possiamo conoscere nulla
d'esterno a noi scavalcando noi stessi - egli pensa ora - l'universo è lo
specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a
conoscere in noi" (Palomar, p. 118).
Ma la svolta meditativa, per quanto convinta e consapevole, non
garantisce ancora l'adempimento delle aspettative che Palomar ha
investito in essa. Al termine dell'episodio non si danno né saggezza né
pace interiore. Ambedue rimangono traguardi ancora fuori della portata
del soggetto. Tuttavia l'agognato adempimento è solo rimandato. Prima
che esso si realizzi, assistiamo provvisoriamente ad un ultimo
impetuoso ritorno del programma di astensione dalla soggettività.
Riemerge, in sostanza, la tentazione di negare la necessaria contingenza
di "quella macchia d'inquietudine che è la nostra presenza" (Palomar,
p. 122).
In "Come imparare a essere morto", epilogo della vicenda, un
Palomar senza requie, deluso e disilluso dal frustrante risultato della
8
8 Che il vedere di Palomar sia un puro atto mentale è la tesi di Marco Belpoliti,
il quale afferma: "Tra i tre differenti verbi che la lingua italiana ci offre per
definire la principale attività che svolge il signor Palomar - 'osservare,'
'guardare,' 'vedere' - il verbo più adatto è sicuramente 'vedere'; l'antica radice
indoeuropea di questa parola indica in modo inequivocabile che l'atto di vedere
non è disgiunto da quello di conoscere: vedere è un atto mentale", in Marco
Belpoliti, Storie del visibile: lettura di Italo Calvino, op. cit., p. 71.
Luca Pocci
306
svolta meditativa, spinge la volontà di negazione della soggettività fino
al punto di prefigurare non più una semplice astensione ma una
radicale eliminazione. Palomar, in altre parole, decreta la morte di sé,
della propria soggettività. Con un gesto di lucida follia, decide di dare
esecuzione all'assurda ambizione di morire in vita, in nome di quel
sublime distacco e di quella suprema impassibilità che solo l'imitazione
della definitezza della morte può garantire. Nemmeno questa estrema
simulazione, però, sortisce gli effetti sperati. Anche facendo il morto,
Palomar rimane se stesso. Inquieto e scorbutico, deve rassegnarsi
all'impossibilità di svuotarsi della propria soggettività accettando di
rimanere sempre e comunque, a dispetto del desiderio di
autoannullamento e anonimato, il morto Palomar:
Ognuno è fatto di ciò che ha vissuto e del modo in cui l'ha vissuto, e
questo nessuno può toglierglielo. [...] Per questo Palomar si prepara
a diventare un morto scorbutico, che mal sopporta la condanna a
restare così com'è, ma non è disposto a rinunciare a nulla di sé
neanche se gli pesa. (Palomar, p. 125)
È proprio l'ennesimo e questa volta definitivo fallimento del
programma di negazione della soggettività a spianare la strada verso la
soluzione del dissidio interiore. Nel finale, come scosso da
un'illuminazione fulminea, Palomar intuisce che per accedere al
traguardo della pace interiore si deve far sì che meditazione e
descrizione consistano in una forma. Attraverso la voce del narratore e
in parte anche in prima persona, detta dunque le ultime volontà prima
di seppellire il "vecchio", irrisolto Palomar e rinascere a nuova vita. La
conclusione è un omaggio, anch'esso radicale ed estremo, alla propria
soggettività. Un omaggio che si sostanzia nella scelta di far consistere
meditazione e descrizione nella forma dell'autobiografia:
"Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante pensa Palomar - e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non
se ne vede più la fine". Decide che si metterà a descrivere ogni
istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà
più d'essere morto. In quel momento muore. (Palomar, p. 126)
La narrazione termina qui, esattamente nel punto in cui si profila
all'orizzonte la nascita di una nuova vita e di una nuova soggettività.
Novello Montaigne , l'ultimo atto di Palomar è l'annuncio che è se
9
9 Le ultime volontà di Palomar sembrano echeggiare la dichiarazione d'intenti
che Montaigne esprime nel prologo ai Saggi: "Questo è un libro di buona fede,
Il Signor Palomar, artigiano della meditazione
307
stesso che vuole dipingere, nella forma audace e inaudita
dell'autobiografia dell'infinitesimo. Se stesso nel mondo e il mondo
dentro se stesso.
LUCA POCCI
University of Toronto,
Toronto, Ontario
OPERE CITATE
Barberi Squarotti, Giorgio. "Dal Castello a, Palomar: il destino della letteratura",
in Atti del convegno internazionale su Italo Calvino, Milano: Garzanti,
1988.
Barthes, Roland. L'impero dei segni, trad. it. di Marc Vallora, Torino: Einaudi,
1984 (L'empire des signes: 1970).
. La camera chiara: nota sulla fotografia, trad. it. di Renzo Guidieri,
Torino: Einaudi, 1980 (La chambre claire: note sur la photographie: 1980).
Belpoliti, Marco. Storie del visibile: lettura di Italo Calvino, Rimini: Luisè, 1990.
Burke, Peter. The Art of Conversation, Cambridge: Cambridge Polity Press, 1993.
Calvino, Italo. Palomar, Milano: Mondadori, 1994 ( l ed. 1983).
. Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, Milano:
Garzanti, 1988.
Campo, Cristina. Gli imperdonabili, Milano: Adelphi, 1987.
Del Giudice, Daniele. "Tavola rotonda", in Atti del convegno internazionale su
Italo Calvino, Milano: Garzanti, 1988.
Kermode, Frank. The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction, New
York: Oxford University Press, 1966.
Montaigne, Michel. Saggi, a cura di Virginio Enrico, Milano: Mondadori, 1986
(Essays: 1580).
Petrarca, Francesco. De vita solitaria, a cura di G. Martellotti, Milano-Napoli:
Ricciardi, 1955.
Roelens, Nathalie. L'odissea di uno scrittore virtuale, Firenze: Cesati, 1989.
a
lettore. [...] Voglio che mi si veda in maniera semplice, naturale e consueta,
senza sforzo né artificio: giacché è me stesso che io dipingo. [...] Così lettore,
sono io stesso la materia del mio libro [...]", in Michel Montaigne, Saggi, op.
cit., p. 19.