Irene Marchegiani Jones 402 `AMORE E MORTE`: RI

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Irene Marchegiani Jones 402 `AMORE E MORTE`: RI
Irene Marchegiani Jones
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'AMORE E MORTE': RI-IMMAGINARE IL VERO
Non è concesso all'essere umano di accettare la propria esistenza
quando essa si svolge sempre e comunque all'insegna della morte e
dell'angoscia che essa ispira. Forse, come aveva detto Epicuro, bisogna
innanzitutto liberarsi dal timore della morte: per raggiungere la serenità
ο almeno crearsi l'illusione di poter gestire le proprie scelte esistenziali.
Illusione grande di poter conoscere la morte quando si è in vita.
Desiderio del naufragio nello spazio e nel tempo infiniti.
Con totale lucidità Leopardi non si ritrae mai di fronte alle
domande fondamentali della conoscenza, dell'etica, della filosofia. Ed
"Amore e Morte" può essere letto come il Canto della ricerca della
verità, dell'estrema necessità di conoscenza (non soltanto razionale) e
di completo rifiuto del compromesso: sempre onesto soprattutto davanti
a se stesso, il poeta offre al mondo questa sua dimostrazione di assoluto
coraggio. Canto teorico al massimo: come giocato in mezzo a numerosi
specchi riflettenti trasparenze e oscurità, come a voler ingannare il
lettore dicendo insieme verità scoperte e velate, il vero attraverso
l'illusione e l'illusione tramite il vero; versi che assommano la
riflessione passata e allo stesso tempo preannunciano l'ultima poetica
quale si dispiegherà più avanti. Opera aperta alle interpretazioni e forse
proprio per questo per sempre e a tutti contemporanea. Non a caso il
soggetto poetante compare soltanto nell'ultima strofa, decentralizzato e
perciò meno forte, aprendo proprio per questo il Canto ai lettori:
l'osservazione del mondo e la riflessione sulle sue verità non percorrono
il passaggio (più consueto) dall'individuale all'universale, ma nelle
prime tre strofe riflettono il supremo interesse antropologico del poeta
che con lo sguardo e il pensiero attraversa, per comprenderlo a fondo,
il campo immenso dell'alterità per arrivare solo dopo all'interno di se
stesso. Nella secondo strofa l'"io" è soltanto soggetto inespresso che si
nega del "Come, non so," poi nell'ultima strofa riappare, ancora
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inespresso, in "invoco" e "tentai," rafforzando progressivamente la
propria presenza prima con gli stilemi obliqui e indiretti ("da me,"
"questi occhi," "me certo," "al mio pregar," "nel mio sangue," "gittar da
me") e soltanto al penultimo verso (ri)diventando esplicitamente "io,"
nucleo e somma ormai del destino del mondo, proposta e modello di
vita e di morte. Questo "io" non assume però nessuna valenza
marginalizzante, infatti è da considerare solo decentralizzato
stilisticamente, non "debole" ma esprimente anzi una forza interiore
straordinaria: appunto "il coraggio della verità." Analizzando ed
investigando alla ricerca delle verità, nominandole, facendone materia
di Canto e traendone poesia, il poeta se ne riappropria e si fa
responsabile della propria esistenza senza delegarne la temporalità e i
limiti ad un metafisico "altro."
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Ma qual è la intentio auctoris in questo Canto forse più di altri
rappresentativo di una poesia che è un "verso-pensiero"? È ricerca di
verità e affermazione di coraggio, ma soprattutto una sfida a chi legge,
contro tutte le false credenze e le superficiali consolazioni: pensiero
scarno e semplice una volta spogliato delle immagini che lo rivestono
a ricoprirne la desolazione. È necessario però che il lettore sfogli i versi
ad uno ad uno per arrivare al messaggio ultimo, per liberarlo e scoprirlo
del "bello" che lo riveste: chi non ha il coraggio di giungere insieme al
poeta alla soglia delle progressive verità può benissimo arrestarsi ai
diversi livelli di scrittura che le velano. Questa è la sfida che Leopardi
ha lanciato attraverso il tempo, in un gioco di parole e immagini che
dicono mentre nascondono, coprono mentre svelano, alludono mentre
illudono, lasciando al poeta la libertà dello stesso riso di Tristano.
"Amore e morte": Canto della verità del nulla, la fine e la rinuncia alla
poetica (e alla filosofia) di tutte le illusioni.
Leopardi non ha mai rinunciato alla "conoscenza poetica," alla
scrittura come mezzo e via al sapere. Sulla poesia leopardiana nella sua
specifica valenza di pensiero filosofico, come forma altra del pensiero,
si è molto scritto. Essa non è da considerarsi né trascendenza né
consolazione e può rappresentare "una sosta sul baratro del nulla,"
mentre si assiste al suo "dialogare assiduo" con la filosofia. La poesia
diventa una risposta al dilemma del pensiero, particolarmente quando
Leopardi arriva ad una nuova poesia che si fa mezzo per dire quel vero
che può esistere anche dopo l'amore, anche in attesa della morte. È
nella poesia e attraverso il discorso poetico che spazi e tempi diversi,
il passato, il presente e il futuro, l'essere e il non-essere possono
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coesistere. Il linguaggio della poesia, poi, proprio in quanto vago e
allusivo, può trasmettere anche la perdita di qualunque nozione forte
dell'essere che vada al di là di un mero esistere: Leopardi nega tanto
l'essere quanto l'universale e il Canto diventa il mezzo per
rappresentare il non-essere, quella filosofia del nulla di cui si può
parlare solo poeticamente:
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Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche
rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino
evidentemente e facciano sentire l'inevitabile infelicità della vita,
quando anche esprimano le più tenibili disperazioni, tuttavìa ad
un'anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo
abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, ο
nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle altre
e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di
consolazione, raccendono l'entusiasmo, e non trattando né
rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che
veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l'anima, veduto
nell'imitazione ο in qualunque altro modo nelle opere di genio (come
per esempio nella lirica, che non è propriamente imitazione) apre il
cuore e ravviva (Zibaldone, 259-260).
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Poesia che nasce dall'immaginazione per cui l'allegoria e la metafora
sono mezzi indispensabili ed intrinseci. La distanza linguistica e la
vaghezza formano un filtro e uno schermo che servono alla poesia
perché possa "alludere" alla verità che sembra appartenere solo al
pensiero; al linguaggio viene affidato il compito di illudere,
allontanando il vero solo in apparenza, anzi facendosi mezzo per
trasmetterlo. A volte, scriveva già Leopardi giovanissimo, anche solo la
collocazione delle parole in poesia può produrre nel lettore immagini
altre da quelle volute dallo scrittore il quale può anche lasciare che si
crei questa illusoria aspettativa:
potrebbe anche il poeta lasciare e anche proccurare questa illusione,
dove pure non noccia al restante del contesto, perch'ella non fa
danno, e d'altra parte è bene che il lettore stia sempre fra le
immagini. Quello che dico del poeta s'intenda proporzionalmente
anche degli altri scrittori. Anzi questa sarebbe la sorgente di una
grand'arte e di un grandissimo effetto procurando quel vago e
quell'incerto ch'è tanto propriamente e sommamente poetico, e
destando immagini delle quali non sia evidente la ragione, ma quasi
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nascosta, e tale ch'elle paianoaccidentali, e non procurate dal poeta in
nessun modo (Zibaldone, 26).
Questo concetto del vago è tanto più determinante in un Canto come
"Amore e Morte" in cui il poeta vuole portare progressivamente il
lettore a conoscere e accettare l'estremo nulla della vita e della morte.
Per riuscire a leggervi le molteplici verità è necessario ricordare appunto
che il vero assoluto non esiste, anzi si rivela proprio nel dubbio:
Si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il
vero se non dubitando; ch'ella s'allontana dal vero ogni volta che
giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero
[...], ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa,
e sa il più che si possa sapere (Zibaldone, 1655).
Per arrivare a concepire una qualunque verità, l'animo umano deve
saper aprirsi alla molteplicità:
Quell'anima che non è aperta se non al vero puro, è capace di poche
verità, poco può scoprir di vero, poche verità conoscere e sentire nel
loro vero aspetto. [...] La ricerca delle verità, massime delle più
grandi, sopra tutto di quelle che spettano alla scienza dell'uomo, ha
bisogno della mescolanza, ed equilibrato temperamento di qualità
contrarissime, immaginazione, sentimento, e ragione, calore e
freddezza di vita e morte, carattere vivo e morto, gagliardo e languido
ecc. ecc. (Zibaldone, 1962).
E deve lasciarsi andare all'entusiasmo ed accettare la trasparenza delle
illusioni:
Quante grandissime verità si presentano sotto l'aspetto delle illusioni
e in forza di grandi illusioni; e l'uomo non le riceve se non in grazia
di queste, e come riceverebbe una grande illusione! Quante grandi
illusioni concepite in un momento di entusiasmo, ο di disperazione ο
insomma di esaltamento, sono in effetto le più reali e sublimi verità,
ο precursore di queste, e rivelano all'uomo come per un lampo
improvviso, i misteri più nascosti (Zibaldone, 1855-56).
Il titolo stesso, "Amore e Morte," appare deviante dalle possibili
aspettative del lettore il quale, abituato alla dualità del pensiero
occidentale, sarebbe portato ad attendersi una opposizione fra i due
termini, la definizione dell'uno in quanto antitetico dell'altro. Leopardi
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invece nella prima strofa afferma innnanzitutto che l'amore e la morte
sono fratelli perché generati entrambi dalla sorte e in relazione al
concetto di "piacere," in quanto l'amore procura il piacere più grande
che si possa provare e la morte comporta la fine di ogni dolore, il che
equivale a provare piacere. L'amore inoltre è l'essenza stessa del più
profondo sentire umano e in quanto tale spinge ad affrontare con
coraggio la vita e a superarne il tedium, condizione per Leopardi
peggiore del non vivere affatto. Ecco poi che vengono progressivamente
affermati gli aspetti più potenti dell'amore, in apparente contrasto con
quanto descritto prima. L'amore è prima un languore che fa nascere un
desiderio di morire indefinito ("Come, non so"), ma se esso nasce dal
profondo del cuore e se è "vero e possente" investe l'essere umano tutto
e fa sorgere anche il desiderio di una "infinita felicità" che possa aiutare
ad attraversare il deserto della vita. Quindi l'amore diviene una "grave
procella" un "desio fiero" che ruggisce e crea l'oscurità tutt'intorno, una
"formidabil possa." Se in un primo tempo l'associazione tra amore e
morte nasce spontanea, poi essi si intrecciano in un crescendo di
passione e sofferenza, un crescendo negativo della forza d'amore la cui
funzione positiva all'interno del ciclo della vita finisce molto presto,
mentre esso si trasforma da instinto vitale a strumento di morte. Il
risultato infatti dell'amore, il suo punto d'arrivo è comunque la morte,
sia essa dovuta alla debolezza del corpo ο alla scelta deliberata del
suicidio. La quarta strofa appare come l'affermazione orgogliosa di quel
vero che il poeta ha sempre conosciuto come identificabile non con
l'amore ma con la morte. E di questa ultima verità Leopardi non ha mai
avuto paura, anzi da sempre ha invocato la morte senza aspettarsi
consolazioni di alcun tipo.
Il Canto è stato considerato spesso come sgorgato dalla fine
dell'illusione estrema dell'amore e della rinuncia ad esso, composto
molto probabilmente a Firenze nel 1832 dopo la profonda delusione
dell'innamoramento di Leopardi per Fanny Targioni Tozzetti. Ciò è
vero soltanto se ci si ferma ad una prima lettura, lasciandosi appunto
deviare dall'apparenza illusoria della poesia e delle immagini "doppie"
che essa crea e non si accetta la sfida del poeta ad andare al di là della
metafora e dell'allusione. "Amore e Morte" non è il Canto dell'amore
ο della fine di esso né della delusione che l'amore può aver provocato,
ma è il Canto che testimonia e prova l'illusione e il non-essere della
vita tutta.
La prima strofa si apre come una melodia, come se davvero qui si
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cantassero le cose belle della vita, con suggestioni mitologiche dolci e
soavi e il lettore è come cullato in quest'immagine illusoria e quasi
idillica dell'amore, quel "piacer maggiore / Che per lo mar dell'essere
si trova," il quale insieme alla morte sorvola il mondo, con un subitaneo
ed esplicito richiamo al Paradiso dantesco. L'allusione però, in poesia
e in prosa, spesso ha peso maggiore più per quanto si discosta
dall'immagine richiamata che per la sua fedeltà ad essa, più per il
distacco e la rielaborazione del testo che la facilità ad individuarlo;
inoltre non serve riconoscere l'allusione e definire i rapporti tra i testi
se non si tiene conto anche delle differenze storiche e culturali e di
come l'io lirico rifletta il proprio tempo e le realtà della propria storia
individuale e sociale. In "Amore e Morte" non siamo affatto in paradiso,
ma sulla terra, e l'amore a cui si riferisce il poeta ateo non può avere
niente in comune con la filosofia dantesca, anzi ne ribalta le valenze,
consistendo appunto il suo valore massimo nello spingere all'attività e
abbandonare un vano e riduttivo pensare ο filosofare. L'amore e la
morte "sorvolano insiem la via mortale" sul solo mondo che ci è
concesso di conoscere, non in un al di là alla cui esistenza il poeta non
crede e il valore dell'amore è proprio quello di distogliere la mente
dall'inutile e falso vero filosofico. Che cos'è poi questo "mar
dell'essere"? Non è un essere metafisico né ha valore ontologico, ma un
essere che si risolve tutto e solo nell'esistere, nella brevità e nei limiti
della vita, nella nullità del tutto: è il non-essere del deserto. Questo è un
amore quindi che già significa morte. Nella figurazione di quest'ultima
si accentua la suggestione mitologica, ma anch'essa è appunto
suggestione e illusione, un sovvertimento del mito. Nella tradizione
infatti il dio Eros non è associato alla morte come fratello. Esso è uno
degli dei primordiali (chiamato anche Protogeno, primogenito, ο Fanete,
che porta luce, rivelatore) e, anche se i racconti sulla sua origine sono
vari, Amore è in ogni caso una forza primaria che assicura la continuità
della specie, la divinità più bella, signore che domina il cuore e le
membra sia degli uomini che degli altri dei tutti. Amore è anche la
pulsione fondamentale dell'esistenza, che spinge all'azione, favorisce
l'attualizzazione, la realizzazione e l'esistenza, è il punto di contatto e
di unione della diversità, l'uscire da se stessi per riconoscere il valore
dell'"altro." Anche se la sua natura è doppia, come si ricava dal Convito
di Platone, che esso sia figlio di Afrodite Pandemia, del desiderio, ο di
Afrodite Urania, dell'amore etereo, Eros rende effettuale un momento
dell'essere e segna un passaggio. Anche la morte non è sempre e solo
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distruzione, ma è un limen, la soglia fra un mondo e un altro, un
passaggio e un attraversamento, non semplicemente la fine, in quanto
immette verso altri mondi, nozione espressa nel latino per-ire meglio
che in morire. Generata dalla Notte, essa è chiamata anche Moro, fato,
e Thanato (entrambi sostantivi maschili) e suoi fratelli sono il sonno e
i Sogni (fattore che può servire ad attribuire alla morte anche un potere
rigenerativo), ma non l'Amore. L'angoscia provocata dalla morte può
nascere ο dal timore di entrare in uno stato ignoto ο dalla paura di
rientrare nel nulla. In ogni caso la rappresentazione della Morte
nell'iconografia tradizionale è spaventevole. Ecco quindi un'altra
deviazione illusoria: come Eros era il più bello degli dei, Leopardi
paragona la morte ad una "Bellissima fanciulla, / Dolce a veder, non
quale / La si dipinge la codarda gente." Il poeta è ben consapevole di
servirsi di una nuova apparente minima verità, che la morte non è brutta
ο spaventosa, ma possiede presenti in sé i caratteri luminosi solitamente
attribuiti all'amore, per portare gradualmente il lettore verso una
ulteriore verità. In questa prima strofa quindi amore e morte sono
apparentemente fratelli in quanto entrambi bei fanciulli e poiché
rappresentano i "Primi conforti d'ogni saggio core." Sfruttando
l'immaginario mitologico, il poeta suscita nel lettore l'impressione vaga
che effettivamente Amore e Morte siano fratelli nel mito, ma
descrivendo la morte come "bellissima fanciulla" e "dolce," come dolce
era l'amore in "Il pensiero dominante," allo stesso tempo si distanzia
dalla tradizione mitologica e da quel mito falsamente evocato. Già in
questo primo gioco poetico prevalgono allusione ed illusione per deviare
e suggerire senza affermare, per alludere a qualcosa sorridendo del suo
apparente contrario. Anche questa supposta fratellanza iniziale si rivela
uno schermo in quanto ciascuno dei due termini offre un ben diverso
piacere-conforto. Dall'amore "nasce il piacer maggior," dice Leopardi,
ed infatti esso corrisponde alla vitalità, al vigore, alla passione necessari
alla vita: "Il fare un atto di vigore, ο il servirsi del vigore passivamente
ο attivamente [...] è piacevole per ciò solo" poiché
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il vivente tende essenzialmente alla vita. La vita è per lui piacevole,
quindi tutto ciò ch'è vivo, venga pur sotto l'aspetto della morte. La
felicità dell'uomo consiste nella vivacità delle sensazioni e della vita,
perciocch'egli ama la vita. E questa vivacità non è mai tanto grande
come quando ell'è corporale (Zibaldone, 2018).
A Firenze per Leopardi l'amore si concretizza nella persona di Fanny
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ed è indubbiamente vero che in questi anni fiorentini il poeta si scopre
in nuovo coraggio e fa esperienza di un nuovo "fervore di rapporti"
portando a compimento la coscienza della propria poesia e del proprio
pensare, tanto che può affermare:
Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di
sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l'opinione
sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo
stato suo nella vita. [...] Agli altri il conoscimento e il possesso di se
medesimi suol venire ο da bisogni e infortuni, ο da qualche passione
grande, cioè forte; e per lo più dall'amore; quando l'amore è gran
passione; cosa che non accade in tutti come l'amare. [...] In fine la
vita a' suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa
udita in veduta, e d'immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad
essa, forse non più felice, ma per dir cosi, più potente di prima, cioè
più atto a far uso di se e degli altri (Pensieri LXXXII).
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La positività dell'amore in questa istanza consiste proprio nel suo
storicizzarsi, nel passaggio da cosa "immaginata" a cosa "reale": è
determinante che esso sia "gran passione" e non venga inteso
"debolmente" né come superficiale e vaga sensibilità né in senso
stilnovistico. Il piacere non esiste ο meglio non è raggiungibile l'infinità
di esso a cui l'essere umano aspira, per cui l'amore è una momentanea
illusione di piacere, necessario al piacere che si può ottenere attraverso
l'immaginazione e necessaria spinta all'attività: "Quindi l'attività
massimamente è il maggior mezzo di felicità possibile [...] è il mezzo
di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente
e realizzabile nella vita." Amore come spinta alla vita, intesa come
natura ed esistenza:
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Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che
l'esistenza, l'essere, la vita, sensitiva e non sensitiva, delle cose. [...]
E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior
vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che la vita
ecc. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto
essa vita è maggiore e più viva. La vita generalmente è tutt'uno colla
natura, la vita divisa ne' particolari è tutt'uno co' rispettivi subbietti
esistenti. Quindi ciascun essere, amando la vita, ama se stesso. [...]
Sicché l'uomo, l'animale ecc. ama le sensazioni vive ecc. ecc. e vi
prova piacere, perch'egli ama se stesso (Zibaldone, 3814).
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D'altra parte, il piacere può nascere anche dalla cessazione del dolore:
Parecchie volte un vigore straordinario e passeggero, cagiona al corpo
e a' nervi un certo torpore, per cui l'animo s'abbandona in seno di
una negligenza circa le cose e se stesso, in maniera che ο vede tutto
dall'alto, e come non gli appartenesse se non debolissimamente; ο non
pensa quasi a nulla, e desidera e teme il meno che sia possibile.
Questo stato è per se stesso un piacere. Il languore del corpo alle
volte è tale, che senza dargli affanno e fastidio, affievolendo le facoltà
dell'animo, affievola ogni cura e ogni desiderio. L'uomo prova allora
un piacere effettivo (Zibaldone, 1581).
Poiché il piacere infinito, sempre infinitamente desiderato dagli esseri
umani, non esiste, a volte il piacere consiste proprio nell'affievolirsi del
suo desiderio stesso:
Il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie
di sonno e di morte. Il piacere è piuttosto una privazione ο una
depressione di sentimento che un sentimento e molto meno un
sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della insensibilità e della
morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita e
alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore. Onde
è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e
senz'altro patimento che nasca ο sia annesso a questa privazione.
Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva,
non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere
che è il suo contrario (Zibaldone, 4074).
Ecco che anche la morte diviene portatrice di piacere: apparentemente
in contrasto, in questa prima strofa l'amore e la morte sono riuniti
all'interno delle contraddizioni insite al concetto di piacere.
Nella seconda strofa comincia a rivelarsi una fratellanza più
profonda tra l'amore e la morte, un ulteriore livello di significato, che
nasce dalla progressiva identificazione dell'amore con la morte stessa.
Se prima Leopardi aveva accentuato la valenza positiva dell'amore dal
quale "nasce il coraggio / ο si ridesta," adesso insieme ai primi segni
d'un amore nascente "Un desiderio di morte si sente: / Come non so:
ma tale / D'amore vero e possente è il primo effetto." E la vita, "lo mar
dell'essere" iniziale diventa "questo deserto" in cui non esiste più
neanche l'illusione della possibilità d'amore inteso come sguardo al di
fuori di se stessi e unione completa con Γ "altro" oggetto del desiderio.
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Il deserto è questo, ciò che è qui, la vita, mentre l'infinita felicità è
quella, laggiù, in un altro spazio, nel non-spazio che può essere solo il
nulla. Con l'esperienza dell'amore si fa esperienza dell'immaginario
interiore, del mondo dell'inconscio e delle sue immagini ben diverse da
quelle "illuminate" dalla coscienza e dalla razionalità, si fa dunque
esperienza del mondo degli inferi, quella vita inferior ("più in basso" e
non "più bassa") che è alla base più profonda dell'esistenza e del
sentire, contrapposta al pensare, al mondo della coscienza che aiuta a
vedere, che porta luce ed è quindi luminoso (se non illuminato ο
illuminante). Da questa esperienza di sé l'essere umano sfocia
all'esperienza dell'immaginario della morte che sorge dallo stesso
mondo plutonico inconscio. L'inconscio prevale sulla coscienza, il
sentire sul pensiero portando così ad un vero più profondo ed
eliminando le false verità della ragione. Di nuovo le immagini evocate
possono richiamare un qualcosa d'altro, deviando in parte il lettore con
l'allusione letteraria colta: un campo semantico parzialmente
stilnovistico evoca simboli della tradizione per negarli e rigettarne le
valenze. L'amore non è via alla sublimazione, alla riflessione filosofica,
alla metafisica, ma forza materiale che serve alla riproduzione, a quel
ciclo vitale di cui la vera "signora" è soltanto la natura. L'"infinita /
felicità," frutto di pensiero, è destinata a rivelarsi falsa, inesistente,
impossibile a raggiungersi. Quello che era impulso positivo e poi
"pensiero" di morte, diventa forza travolgente. La naturalezza del
passaggio dal sentimento d'amore alla considerazione della morte
avviene appunto perché tutti e due fanno parte dello stesso mondo
immaginifico dell'inconscio: l'amore serve a far sorgere tutte le
immagini più istintive per portarle alla superficie, ma la sua forza non
è sufficiente a risolvere il nulla della vita e della morte, bensì soltanto
a vivere nell'unico modo possibile, sempre e comunque momentaneo e
limitato. L'amore-vita conosce solo un attimo di attuazione nel mondo,
un esistere finito e limitato nel tempo e nello spazio, un casuale
clinamen. Insieme al desiderio d'amore sorge la consapevolezza di
quanto esso sia impossibile da soddisfare e con questo nascono
sgomento e pena:
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La forze del desiderio ch'ei concepisce in quel punto, l'atterisce per
ciò ch'ei si rappresenta subito tutte in un tratto, benché confusamente,
al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; perocché
il desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio,
vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è
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pena perpetua (Zibaldone, 3445).
In "Amore e Morte" la nozione di desiderio si espande a rappresentare
l'impossibilità d'infinito della vita stessa, "Forse gli occhi spaura / Allor
questo deserto," l'illusione che attraverso un'altra persona, attraverso
l'eros (inteso in senso lato quale spinta dionisiaca alla vita e alla
partecipazione in essa) si possa raggiungere l'"infinita felicità" e una
conoscenza più profonda.
La descrizione fisica dell'amore rispecchia un'ulteriore allusione.
Lo stesso giorno in cui scrive nella Zibaldone la riflessione appena
riportata, Leopardi cita anche due versi di Saffo tratti dal suo poema
forse più famoso, conosciuto (erroneamente) come il poema della
gelosia: alla vista della persona amata il cuore balza nel petto ed è
colpito da spavento e si spaura. È noto poi come nei versi seguenti
Saffo continui descrivendo gli effetti fisici dell'amore sul corpo intero,
le orecchie, la lingua, gli occhi, la pelle: immagini eterne della passione.
Così incalza ora in "Amore e Morte" la rappresentazione materiale e
concreta dell'amore, in un crescendo di consapevolezza e sofferenza
ottenuto anche dalla esplicita successione temporale espressa in
"Quando," "Allor e Poi." È molto diversa e lontana dal "pensiero"
questa forza vitale spaventosa che crea e distrugge contemporaneamente,
che spinge sia alla vita che alla morte, mezzo di perpetuazione della
materia vitale, parte del ciclo di nascita e morte che è tutto quanto la
natura concede agli esseri umani. L'amoroso affetto si fa "fier desio, /
Che già, rugghiando, intorno intorno oscura" e poi diventa una
"formidabil possa" che porta l'amante ad implorare la morte. Gli
avverbi di tempo e il passaggio dal presente dei verbi quali "avvolge"
e "fulmina" al passato remoto di "chiamò" ed "invidiò" danno ora ai
versi un tono di racconto, quasi il poeta stesse creando un nuovo mito
ο raccontando velatamente di se stesso e di una storia del suo passato,
quando anche lui era un "affannoso amante."14 Questo aspetto
dell'amore come forza naturale che negli uomini, negli animali, nella
natura intera spinge alla vita è sempre presente nella riflessione
leopardiana come quando, dopo aver affermato la necessità della
bellezza fisica, il poeta sostiene che il cuore può credere di amare lo
spirito, ma anch'esso, come l'intelletto, è materia:
Ho detto che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni
e concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore
e alla fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le
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qualità dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più
immensamente lontane in apparenza dalla materia, non si amano, non
fanno effetto veruno se non come materia, e in quanto materiali.
Divideteli dalla bellezza, ο dalle materie esteriori, non si sente più
nulla in essi. Il cuore può ben immaginarsi di amare lo spirito, ο di
sentir qualcosa d'immateriale: ma assolutamente s'inganna (Zibaldone,
1694).
In questo senso è palese il nesso di amore e morte: come l'amore,
anche la morte serve alla vita, al suo ciclo: "È già notato che la morte
serve alla vita, e che l'ordine naturale è un cerchio di distruzione, e
riproduzione." Il pensiero della morte segue in modo naturale a quello
dell'amore inteso come vita ο come forza che genera la vita, in quanto
la stessa vita generata è destinata sempre e comunque a perire (e perire). Appare allora un altro punto di fratellanza fra l'amore e la morte:
l'amore è un accadimento casuale ed accidentale destinato a finire
sempre e comunque nel nulla così come accidentale e casuale è la morte
sua sorella di cui non ci è dato conoscere né il tempo né il luogo.
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L'amore però non è solo questo e come ogni altra cosa al mondo
presenta più di una faccia: "Si suol dire che tutte le cose, tutte le verità
hanno due facce, diverse, ο contrarie, anzi infinite."16 Amore significa
anche illusione, non semplicemente contingente e limitata alla illusionedelusione amorosa, ma illusione esistenziale, la capacità/potenzialità
stessa di illudersi e sperare, di immaginare e creare." È essenziale a
questo riguardo rileggere anche solo poche righe della Storia del genere
umano per comprendere il significato vasto e profondo del significante
amore: "Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a
tutti gi altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana"
e "negli animi che egli elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto
il tempo che egli vi siede, l'infinita speranza e le belle e care
immaginazioni degli anni teneri." L'amore è ciò che fa della vita una
"cosa arcana e stupenda," è desiderio e appare unito alla speranza la
quale "è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile
dal sentimento della vita, cioè dalla vita propriamente detta, come il
pensiero, e come l'amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene,"
ed è "inseparabil cosa col desiderio." "Quella / Nova, sola, infinita /
Felicità che il suo pensier figura" è, secondo il "sistema" leopardiano,
già minata all'origine di falsità ed errore proprio perché originata dal
pensare. Nella prima strofa infatti la valenza positiva dell'amore era
appunto il fatto di rendere gli esseri umani, "l'umana prole," "sapiente
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Irene Marchegiani Jones
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in opre, / non in pensiero invan," mentre ora l'errore causato dal
pensiero è proprio quello di concepire (con la mente) la possibilità di
una "infinita felicità." Questo amore-desiderio-speranza con l'ausilio
dell'immaginazione-illusione rende possibile la poesia, illusione
massima attraverso la quale si può arrivare a scoprire e raccontare il
vero per percorrere il deserto della vita. L'eros che nasce dall'inconscio
è il nucleo da cui sgorga la stessa forza dell'immaginario che porta
all'amore, alla verità e alla poesia, i quali diventano strumenti di
conoscenza e soprattutto i mezzi che permettono all'essere umano di
attraversare il deserto, per comprendere quell'"arcano mirabile e
spaventoso dell'esistenza universale." All'origine di tutto sta
l'immaginazione che "è la sorgente della ragione, come del sentimento,
delle passioni, della poesia," per cui il poeta non può fare poesia senza
le illusioni del cuore: "Un poeta, una poesia, senza illusioni senza
passioni, sono termini che reggano in logica?" Allo stesso tempo non
si può arrivare alle verità essenziali dell'esistenza:
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Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse; ο
la ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno
scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più
sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti verità filosofiche
che si posseggano, e rivelato ο dichiarato i più grandi, alti, intimi
misteri che si conoscano, della natura e delle cose (Zibaldone, 32443245).
Poesia e filosofia sono facoltà affini fra di loro in quanto partecipano
"all'indole primitiva dell'ingegno, alla disposizione naturale, alla forza
dell'immaginazione" e le "grandi verità" si scoprono solo grazie ad un
"entusiasmo della ragione." Allo stesso modo "la poesia sta
essenzialmente in un impeto" e con il suo linguaggio metaforico
prolunga la vita delle illusioni e contemporaneamente permette il lampo
conoscitivo che trasmette il vero, altrimenti indicibile e inconoscibile.
Il vero a cui arriva la filosofia da sola invece è un non-vero, una falsa
verità. Per questo in La storia del genere umano Giove invia sulla terra
"Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme di nome al fantasma cosi
chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo." Il fantasma è
l'amore falso, la passione temporanea destinata a finire, il sentimento
individuale aleatorio, ciò che dà agli esseri umani l'erronea illusione di
immortalità e di un possibile infinito. Il dio Amore invece conosce
l'antica pietas e porta fra gli uomini "piuttosto verità che rassomiglianza
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'Amore e Morte'
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di beatitudine" insieme alle "stupende larve" dell'infanzia della storia
umana. Questo è l'Amore che aiuta a superare la paura della morte, che
accomuna tutti gli esseri umani di qualunque classe sociale essi siano,
intellettuali e no, nobili e contadini, nella naturalezza e spontaneità di
un sentire che permette di comprendere la "gentilezza del morir"; un dio
che probabilmente nel rimuovere il timore della morte rende possibile
vivere nel presente, anche se per poco.
Nella terza strofa di "Amore e Morte" anche la valenza positiva di
questo "ultimo" dio si rivela una falsità indotta dalla scrittura. È vero
che esso permette di guardare alla morte senza timore, è vero che in ciò
riunisce la "negletta plebe," l'"uom della villa, / Ignaro d'ogni virtù che
da saper deriva" (virtù falsa essa stessa perché appunto derivata dalla
conoscenza razionale) e la "donzella timidetta e schiva," ma questo dio
dall'apparenza amorosa e pietosa conduce (ed induce) ad una morte
violenta. Il poeta illude di nuovo il suo lettore: descrivendo il potere
spaventoso dell'amore egli finisce con il proclamare un altro motivo di
fratellanza fra l'amore e la morte. L'amore infatti ο per il dolore che
procura, il "gran travaglio interno," ο per la sua esplicita spinta al
suicidio, conduce in ogni caso alla morte e "nel fraterno poter Morte
prevale." Questa fratellanza è ancora una volta illusoria, poiché fra i due
significanti non c'è reale uguaglianza, c'è solo il prevalere fatale ed
inevitabile della morte. Quello che in precedenza era stato descritto
come un vago desiderio di morire diventa un impulso invincibile di cui
l'amore è il mezzo indispensabile. L'amore adesso sembra essere
proclamato non tanto per alcuni valori positivi che può apportare,
quanto per quel momento in cui con la morte esso stesso finisce, cessa
di esistere e diventa anch'esso parte del non-essere.
Se si accetta però la dichiarazione iniziale di fratellanza dei due
termini ci si deve chiedere se la morte sia sorella dell'amore proprio in
quest'ultimo significato di non-essere; quindi, dopo aver considerato i
termini variati e variabili del discorso rappresentato dal significante
amore, resta da considerare la teoresi del discorso leopardiano sulla
morte, teoresi complessa e molteplice. La morte può essere dilettevole,
come lo è il sonno che non significa la fine della vita quanto piuttosto
una specie di interruzione di essa e come sono dilettevoli i momenti che
precedono il sonno: anche "il letargo proveniente da infermità, anche
mortale, è dilettevole" tanto che Leopardi non dubita che "l'uomo (e
qualunque animale) non provi un certo conforto e un tal qual piacere
nella morte" ο meglio "il torpore della morte dev'essere tanto più
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Irene Marchegiani Jones
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dilettevole, quanto maggiori sono le pene che lo precedono." La morte
può anche essere un piacere languidissimo, in quanto consistente in un
meno di vitalità:
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È egli possibile che nella morte v'abbia niente di vivo? anzi ch'ella
sia un non so che di vivo per natura sua? come dunque credere che
la morte rechi, e sia essa stessa, e non possa non recare un dolor
vivissimo? [...] Così non si dee creder nemmeno che quel piacere
fisico ch'io affermo essere nella morte, sia una piacer vivo ma
languidissimo (Zibaldone, 2566-2567).
Ciò che soprattutto conta però è arrivare a capire che "la natura è vita"
ed "esistenza" e che "se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser
morte sono termini contradditori." La morte è il non-essere, quel nulla
che è il solo bene possibile: "Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è
male. [...] Non v'è altro bene che il non-essere, con v'è altro di buono
che quel che non è; le cose che non sono cose; tutte le cose sono
cattive" per cui "il non essere sarebbe per loro assai meglio che
l'essere." Questa è anche una delle differenze fra la concezione
leopardiana della morte e quella epicurea. Epicuro aveva cercato di
eliminare il timore della morte per chi è ancora vivo, per rendere felice
la vita del saggio: la morte non c'è finché c'è la vita e quando essa
arriva non ci siamo più noi, concetto poeticamente trasmesso da
Lucrezio in "Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum" (III 830).
Nella morte leopardiana invece si riflettono le contraddizioni insite nella
natura stessa delle cose, infatti essa "è il dolore supremo, e il più
temuto; ma, insieme, la morte è l'unico rimedio al dolore e
all'angoscia" e "la realtà della morte è la realtà di questa
contraddizione," infatti:
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Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente
falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in
natura. [...] Dunque l'essere dei viventi è in contraddizione naturale
essenziale e necessaria con se medesimo. [...] Intanto la infelicità
necessaria dei viventi è certa. E però, secondo tutti i principii della
ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere
che l'essere. Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla
e ciò che non è sia meglio di qualche cosa? [...] Del resto e in
generale è certissimo che nella natura delle cose si scoprono mille
contraddizioni in mille generi e di mille qualità (Zibaldone, 40994100)
'Amore e Morte'
417
Per il lettore contemporaneo è probabilmente immediata un'associazione
con il pensiero freudiano che connette l'impulso a generare vita con
l'impulso alla distruzione, il nesso dualistico fra amore-vita e il suo
contrario, la morte. L'amore e la morte però non sono fratelli solo
perché l'uno porta all'altra né perché entrambi generati dalla sorte, ma
anche perché sono tutti e due un non-essere e l'amore è già da sempre
in un certo senso equivalente alla morte all'interno del "sistema"
leopardiano: l'amore, che è anche desiderio e speranza, come desiderio
indica ciò che non si può raggiungere, l'assenza dell'altro, la distanza
da ciò che è al di fuori di se stessi, la mancanza. È soltanto per poco
che l'io si attualizza al di fuori di se stesso. Nel momento in cui si ama
un'altra persona ci differenziamo ο perlomeno ci rendiamo conto della
differenza e della distanza fra noi e Γ "altro/a" e l'io si riconosce e si
identifica anche come diverso. In questo momento può verificarsi un
lampo conoscitivo che non è coscienza razionalizzata, quanto piuttosto
una percezione profonda ed indistinta di noi stessi e del mondo, mentre
si sente-percepisce l'impossibilità di giungere all'oggetto del desiderio.
Il che è simile a desiderare l'infinito e avvertire-sapere che esso è
irraggiungibile, anzi non-esistente se non come appunto desiderio dentro
di noi. Da questo sorge la speranza di morire, che è speranza di tornare
al nulla originario ο di toccare il proprio infinito interiore. Nella
speranza della morte, nel desiderio di "naufragare" nel nulla scompare
chiaramente anche la paura ancestrale di morire. La morte come oggetto
del desiderio è sorella dell'amore così come lo è la morte concepita
come sofferenza ed angoscia. Mentre ogni essere umano può conoscere
effettivamente solo la propria morte, dall'altro lato, come attraverso
l'amore il soggetto esce al di fuori di se stesso, così l'unica morte a cui
è possibile effettivamente assistere è quella degli altri, il che comporta
dolore e pena. È per questo che gli esseri umani hanno così tanta paura
della morte che è necessaria la forza possente dell'amore per superarla,
oltre al fatto che non hanno il coraggio di accettare il tornare al nulla
e al non-essere. Inoltre l'angoscia mortale nasce anche dall'esistenza, da
questo momento, generato dalla pura e semplice casualità, che è
chiamato vita e che ci rifiutiamo di (ri)conoscere come breve ed
effimero. Non si ha paura dell'attimo in cui la morte sopravvivene,
poiché in quel momento l'essere umano cessa di esistere e quindi di
"sapere" anche della propria morte, ma della vita stessa che è solo
attesa della morte. L'amore e la morte, anzi l'amore e l'attesa
angosciosa della morte, sono fratelli come parte del finito che è il
Irene Marchegiani Jones
418
mondo. Si moltiplica il discorso morte.
Per Leopardi anche la morte, come l'amore della vita, fa parte del
meccanismo creato dalla natura per la riproduzione:
L'amor della vita e il timor della morte non sono innati per se:
altrimenti niuno s'ammazzerebbe. Innato è l'amore di se, e quindi del
proprio bene, e l'odio del proprio male [...]. Ecco dunque che la
natura ha provveduto alla conservazione, rendendo immancabile
questo errore di giudizio (Zibaldone, 4242).
E non c'è alcun motivo di ritenere che dal 1827, anno di questa
riflessione, alla composizione di "Amore e Morte" il poeta abbia
modificato a questo riguardo la sua concezione della natura ritenuta un
"meccanismo inconscio di produzione-distruzione, privo di scopo o,
tutt'al più, avente per scopo la conservazione della specie e non
dell'individuo." La natura non ha mai come fine la felicità degli esseri
umani, durante l'esistenza dei quali la somma dei dispiaceri supera
sempre quella dei piaceri:
32
ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura per
necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e
cosi ciascuna specie presa insieme, e così la università dei viventi.
Contraddizione evidente e innegabile nell'ordine delle cose e nel
modo della esistenza, contraddizione spaventevole, ma non però meno
vera; misterio grande, da non potersi spiegare, se non negando (giusta
il mio sistema) ogni verità e falsità assoluta, e rinunziando in certo
modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et
non esse (Zibaldone, 4129).
Si compie forse proprio qui la fine dell'assolutismo della ragione e ha
inizio la molteplicità del vero, la possibilità che una cosa
contemporaneamente sia e non sia, contraddizione corrispondente al
desiderio di infinito insito negli esseri umani: "L'uomo è infelice perché
malato di infinito," inteso come "fonte di timore e luogo d'abbandono:
in esso si sprofonda" e forse si può aggiungere che in esso si naufraga;
l'uomo "aspira all'infinito, ma l'infinità gli è preclusa" per cui "è
lacerato in se stesso per costituzione," anche il fine del desiderio è
infinito e si sposta sempre un po' più lontano fino a mostrarsi
irragiungibile e "qualsiasi piacere una volta raggiunto è oltrepassato. Da
qui la delusione e il dolore."
Nella seconda parte della terza strofa la morte sembra portare
33
'Amore e Morte'
419
l'unica sicura felicità concessa agli esseri umani, porta l'"Oblio," sia per
chi muore che per chi resta, valore positivo, perché non illusorio e falso
ed anche istintivo e non risultante dalla ragione. Ora essa sembra
prevalere definitivamente sul fratello, mentre il mondo (la storia?) fa da
spettatore, e "ride" di un riso anch'esso errato e illusorio in quanto ozio
e vecchiaia sono ulteriori falsi valori di chi crede al progresso e si illude
che il tempo esista. Ma, dopo aver mostrato che l'amore porta
comunque alla morte e che questa prevale in ogni caso, nella quarta
strofa il poeta offre un'altra parvenza della similarità fra i due
significanti. Leopardi riprende il concetto iniziale della loro fratellanza
e unificandoli li chiama di nuovo "dolci signori, amici / All'umana
famiglia": l'illusione di questa immagine viene scoperta del tutto
immediatamente dopo, nella forza di quel "E tu" rivolto unicamente e
solo alla morte. L'amore è diventato metafora di tutte le illusioni, un
inganno esistenziale, una presenza estranea e ai margini, mentre la
morte resta l'interlocutrice del dialogo, l'altro polo del colloquio
familiare, l'oggetto ultimo e l'unico ottenibile del desiderium. Essa non
è più il risultato dell'amore né semplicemente la fine dei dolori, ma
assume il carattere di quella "Nova, sola, infinita / felicità" che era stata
per un attimo concepita come possibile grazie all'amore; il significante
morte diventa la non-vita, il non-essere, Tunica forma di infinito
possibile, cioè il nulla. È questa la morte a cui Leopardi è sempre stato
fedele; si riscontra infatti nel suo pensiero una certa linearità quale egli
riafferma proprio negli ultimi versi: "E tu, cui già dal cominciar degli
anni / Sempre onorata invoco." Fin nel 1820 il poeta scrive:
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Io bene spesso trovandomi in gravi travagli ο corporali ο morali, ho
desiderato non solamente il riposo, ma la mia anima senza sforzo, e
senza eroismo,
si compiaceva naturalmente nell'idea di
un'insensibilità illimitata e perpetua, di un riposo, di una continua
inazione dell'anima e del corpo, la qual cosa desiderata in quei
momenti dalla mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome
espresso di morte, né mi spaventava punto (Zibaldone, 291-292).
In seguito, come in "Amore e Morte," in Pensieri VI, il poeta scrive che
"La morte non è male: perché libera l'uomo da tutti i mali, e insieme
coi beni gli toglie i desiderii."
Anche l'immenso potere della morte però può essere un'illusione:
il poeta, mentre lo afferma, "Al cui poter nessun poter somiglia /
Nell'immenso universo," contemporaneamente lo nega indicando nel
Irene Marchegiani Jones
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fato la forza maggiore "e non l'avanza, / Se non quella del fato, altra
possanza." Il fato che è la stessa sorte che ha generato l'amore e la
morte. La morte è essa stessa un inganno se caricata di valenze altre dal
nulla e non-essere. È il linguaggio che continua a creare l'aspettativa
della verità: essa è detta "dell'età reina," signora del tempo, quindi di
qualcosa di assolutamente relativo, effimero, non-esistente:
Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e
indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente
di questa esistenza; ο piuttosto è una nostra idea, una parola. La
durazione delle cose che sono è il tempo. [...] Medesimamente dello
spazio. [...] La conclusione si è che tempo e spazio non sono in
sostanza altro che idee, anzi nomi (Zibaldone, 4233).
La speculazione metafisica di tutti i secoli ha portato solo ad
"innumerevoli ed immense quistioni" che non sono altro che
"logomachie." La morte è regina di un'illusione, per cui si rivela essa
stessa l'ultima illusione, come il desiderio e la speranza di un infinito
temporale e di eternità. La verità significa arrivare a comprendere che
ogni cosa ha ed è un limite, che l'infinito non esiste se non nel nulla:
L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra
piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. [...] Ma l'infinito è
un'idea, un sogno, non una realtà. [...] Pare che solamente quello che
non esiste, la negazione dell'essere, il niente, possa essere senza
limiti, e che l'infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla
(Zibaldone, 4177-4178).
Inoltre "chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?"
L'essere è un non-essere, non esiste ed è (il) nulla, tutto ciò che può
esistere anche solo momentaneamente nasce da questo nulla ed è
destinato a tornare nel nulla: l'amore, la vita, la vitalità altro non sono
che un momento dell'esistere e anche il prevalere della morte
nell'ultima strofa è un'illusione: la morte che diventa quiete, pace, in
apparenza l'unica verità sicura, l'approdo per chi è stanco di vagare è
anch'essa solo una parvenza di verità, ο tutt'al più un vero fra gli altri,
anch'essa solo un attimo aleatorio della vita. La vita mortale è finita:
anche se tempo e spazio non esistono di per sé, esiste la loro
limitatezza, dramma del soggetto che ama (cioè vive), questo "io" che
si figura la felicità infinita e insieme la limitatezza e la morte. Il
linguaggio poetico crea l'apparente predominio della morte con un
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'Amore e Morte'
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andamento di preghiera, una preghiera alla morte, ο meglio: "la
modalità è ora quella dell'inno" al cui tono contribuiscono "tre grandi
periodi in progressione" oltre al moltiplicarsi degli enjambement e "la
frequenza delle sfasature metrico-sintattiche, le stesse iterazioni con
effetto martellante e ascensionale." L'amore e la morte tornano ad
essere accomunati in questo rifarsi desiderio e speranza di ciò che non
è: forse è possibile che come l'amore e la vita, la morte stessa non sia
altro che un sogno. E come le illusioni, il sogno, sia essa dell'amore e
dell'infinito che del nulla e della morte, ha potuto acquisire una sua
momentanea esistenza (ma non realtà) nel linguaggio:
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Qui non si avrebbe d'infinito che il tempo, il quale non è cosa alcuna,
è nulla, e però la infinità del tempo non proverebbe né la esistenza né
la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del
nulla, infinità che non esiste né può esistere se non nella
immaginazione ο nel linguaggio (Zibaldone, 4181).
La forza del periodare e l'elevatezza del tono contribuiscono
all'affermazione di un altro forse ultimo vero: la preghiera alla morte
serve alla negazione di Dio e di qualunque metafisica ο forma ideale
platonica. Con essa il poeta rifiuta ogni consolazione. L'estrema
illusione, il falso vero, che la vita abbia anche valore ontologico, è
alimentata dalla religione e dalle istituzioni che di essa si servono e su
cui ogni forma di potere sempre si basa: "Non benedir, com'usa / Per
antica viltà l'umana gente; / Ogni vana speranza onde consola / Se coi
fanciulli il mondo, / Ogni conforto stolto / Gittar da me." Anche nel
Dialogo di Tristano e di un amico, composto anch'esso a Firenze
probabilmente allo stesso tempo di "Amore e Morte," Tristano rifiuta in
maniera totale e senza compromessi ogni consolazione nella completa
accettazione del vero, e, se afferma di invidiare i morti, pure non si
sottomette né all'infelicità né soprattutto alla sorte, anzi il suo desiderare
la morte diventa un atto di coraggio: prendendo coscienza del vero e
facendone una scelta se ne riappropria e non soccombe al fato. Allo
stesso modo attraverso il Canto il poeta salva la libertà di scelta e il
valore dell'individuo. Il tono di preghiera e di inno degli ultimi versi
assume anche accenti di comando attraverso l'incalzare degli imperativi
rivolti alla morte: "Non tardar più, t'inchina," "Chiudi," "Non ricolmar,"
"Non benedir." Inoltre i numerosi "non" possono essere letti come
l'immagine speculare contraria di una preghiera, la sua negazione.
Adesso il lettore è in grado di intendere il Canto del vero, anzi il
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Irene Marchegiani Jones
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coraggio e la risolutezza del poeta gli servono da spinta per portare il
proprio sentire alla sua stessa altezza e superare insieme all'angoscia
anche la passività dell'attesa della morte. Tristano-Leopardi non sceglie
il suicidio, ma l'aspettativa della fine della vita con un moto attivo, reso
possibile dall'impulso offerto dall'eros: "Me certo troverai, qual sia
l'ora / Che le tue penne al mio pregar dispieghi, / Erta la fronte, armato,
/ E renitente al fato." Questo "certo" è di solito interpretato con valore
avverbiale, ma non è da escludere la sua funzione di predicativo
dell'oggetto "me" usato nel senso di "risoluto," tenendo presente la sua
derivazione dal latino cernere in cui si intrecciano i significati di
distinguere, separare, stabilire e lottare. Il momento della morte è deciso
dal fato (non dalla morte stessa) ma la forza e il coraggio di attraversare
il deserto sono nelle mani del poeta. Alcune osservazioni lessicali
possono servire a rafforzare questa affermazione di scelta attiva, di
presa di coscienza da parte del poeta della propria forza: proprio il
termine "coraggio," ad esempio, del v. 23 è un hapax nei Canti, così
come il participio passato con valore aggettivale di "erta" al v. 110 e i
"disusati preghi" del v. 105, mentre il "renitente" del v. 111 si ritrova
soltanto in "La ginestra" riferito appunto al fiore del deserto. Altri
termini poi si ritrovano solo in "Amore e Morte" e in "La ginestra,"
come "pronto" al v. 21, "formidabil" al v. 46 e "fulmina" del v. 47, tutti
parte di un campo semantico definibile come attivo e possente.
Leopardi cerca di combattere tutte le false credenze, soprattutto
l'illusione che la vita sia qualcosa di più di un esistere effimero e
casuale, che possa avere la consistenza di un essere. Il "coraggio della
verità" è indispensabile per capire e accettare il fatto che non c'è
nessuna possibilità di compromesso con il nulla. L'ultima illusione
contro cui si erge Leopardi è la vita stessa e tutto ciò che ne è parte.
Non l'illusione dell'amore, che, forza possente e vitale, esiste nel breve
momento del suo essere al mondo e può solo darci coraggio aiutandoci
ad attraversare questo temporaneo esistere e accettare il nulla della
morte. Non l'illusione della morte la quale ο è l'unica ed ultima
speranza ο è il nulla. Si arriva dunque all'estremo livello della
fratellanza tra l'amore e la morte, che è ancora un altro e più radicale
dei precedenti: esso consiste appunto nella casualità assoluta e completa
(il che suona come un assurdo ossimoro), sia essa chiamata sorte ο fato,
che li ha generati entrambi ma che non può assumere alcun valore
ontologico. Leopardi riafferma, solo e solitario dinanzi al mondo e alla
società, il suo materialismo cosciente e completo, il rigetto di ogni falsa
'Amore e Morte'
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consolazione e credenza; nella sua negazione della metafisica neanche
il fato ha alcuna consistenza. La vita è da considerarsi una
determinazione-attualizzazione momentanea, per cui arrivando a
conoscere la verità della morte si arriva anche a capire la limitata
determinazione della vita e accettando quest'ultima si accetta / ci si
impadronisce anche della morte e non se ne rimane semplicemente
"vittime." Questo vero può essere svelato in pieno soltanto dopo aver
attratto ed "illuso" il lettore con le apparenti allusioni, con la poesia del
vago e del bello, con l'apparente felicità dell'amore e le illusioni dei
suoi valori positivi: il poeta che ha sempre proclamato la validità del
sentire di fronte al falso del pensiero e della ragione, si serve proprio
del sentire più profondo ed inconscio per arrivare ad affermare l'unico
vero possibile, l'approdo estremo e della ragione e del cuore. Ed accetta
e rivela la verità con tutto se stesso, un io composto di cuore e di
mente, ricomposto in unità di sentire e pensare, nell'attesa fiduciosa
dell'arrivo della fine della vita: allora si addormenterà sereno fra le
braccia della morte nella consolazione del nulla, dimenticando il suo
essere e scomparendo nel non-essere. Attraverso il linguaggio poetico
ed agendo per gradi, il poeta ha progressivamente preparato il lettore ad
arrivare alle ultime affermazioni delle proprie verità, lo ha aperto alla
possibilità di un compatire/comprendere risultante dalla combinazione
di raziocinio e pathos. In un lontano passato già Lucrezio aveva scritto
che per "vedere" al di là del visibile è necessaria la animi ratio, la
ragione dello spirito: hoc animi denum ratio discernere debet.
Sappiamo però che il poeta si limita a desiderare la morte: nel
Canto questo è presentano come un atto di eroico coraggio e di
affermazione della libertà del soggetto, ma nasce l'estremo dubbio che
sia la scelta stessa a non esistere in quanto rappresenterebbe una vittoria
dell'essere umano, impossibile nella nullità di ogni cosa.
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California State University,
Long Beach, California
IRENE MARCHEGIANI JONES
NOTE
Sebastiano Timpanaro, "Epicuro, Lucrezio e Leopardi," in Nuovi studi sul
nostro ottocento (Pisa: Nistri-Lischi, 1995), p. 175.
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Irene Marchegiani Jones
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Per come la poesia e la filosofia si muovono in Leopardi sullo stesso piano
basti pensare ad Antonio Prete, Il pensiero poetante (Milano: Feltrinelli, 1996).
A livello filosofico, Gianni Vattimo (Oltre l'interpretazione [Bari: Laterza,
1994]) afferma che "l'estetica non può più essere [...] riflessione sulle pure e
semplici condizioni trascendentali di possibilità dell'esperienza dell'arte e del
bello, ma deve farsi ascolto della verità che 'si apre' nelle opere" (p. 83) e "la
verità" dell'arte che la filosofia deve cercare di capire non è tanto ciò che i
poeti dicono [...], ma il significato ontologico, per la storia del senso dell'essere,
che si può cogliere nel destino dell'arte e della poesia nell'epoca della fine della
metafisica" (p. 88). Alberto Folin (Leopardi e la notte chiara [Venezia:
Marsilio, 1993]) poi scrive che "se l'assenza non può essere detta con il
linguaggio logico-discorsivo della filosofia, essa potrà essere e-vocata (nel senso
forte di 'chiamata fuori') con il linguaggio 'sentimentale' della poesia.
Quest'ultima offre infatti l''inaudita' capacità di dire le cose e, a un tempo,
allontanarle, sprofondarle nell'oblio" (p. 33).
2
Antonio Prete, Finitudine e infinito. Su Leopardi (Milano: Feltrinelli, 1998),
p.9.
Walter Binni (La protesta di Leopardi [Firenze: Sansoni, 1973]) parla proprio
di "un nuovo fervore di rapporti" e di una "nuova poetica" riflettente, a partire
dal 1830 e dal secondo soggiorno fiorentino, la "suprema maturazione e
sicurezza poetica e combattiva dell'ultimo Leopardi" il quale dimostra un "più
sicuro e consapevole possesso di sé [...] delle proprie prospettive morali ed
ideologiche in attrito crescente e più diretto con le ideologie della Restaurazione
e dei gruppi liberali e spiritualistici" (p. 137).
Umberto Eco (Kant e l'ornitorinco [Milano: Bompiani, 1977]), parlando
dell'essere e del potere del linguaggio, osserva come fin dal neoplatonismo
dello pseudo-Diogini si presentava l'idea di un "Uno divino" che non può essere
né definito né circoscritto per cui "non si potrà nominarlo che ossimoricamente
come 'caligine luminosissima,' ο per altre oscure dissimiglianze [...]. Questo
modo detto 'simbolico,' [...] è l'esempio di come si possa parlare dell'essere
solo per via poetica. [...] Dell'inconoscibile possono parlare solo i Poeti, maestri
della metafora (che dice sempre altro), e dell'ossimoro" (pp. 20-1).
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Le citazioni dallo Zibaldone sono indicate secondo la tradizionale numerazione
dell'autografo e seguendo il testo da Tutte le opere, con introduzione e a cura
di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Vol. II (Firenze:
Sansoni, 1976).
Il secondo soggiorno di Leopardi a Firenze va dal maggio 1830 agli inzi di
settembre del 1833, periodo corrispondente al suo innamoramento per Fanny
Targioni Tozzetti, generalmente identificata con l'Aspasia leopardiana.
Un'analisi linguistica specifica dei canti "fiorentini," che non vanno limitati
all'esperienza dell'amore, è stata condotta da Fiorenza Ceragioli, I canti
fiorentini di Giacomo Leopardi (Firenze: Olschki, 1981), mentre numerosi sono
gli studi sulla biografia e sul pensiero leopardiani in connessione con la
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'Amore e Morte'
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permanenza di Leopardi a Firenze e i suoi rapporti con gli intellettuali
fiorentini. A proposito del rapporto fra Leopardi e Fanny, Mario Marti (Ultimi
contributi dal certo al vero [Lecce: Congedo, 1995]) ritiene che nei canti
composti a Firenze, come appunto "Amore e Morte," "confluiscano le diverse
esperienze amorose vissute dal Leopardi" (p. 148) e che quindi non sia tanto
ovvia l'identificazione di Aspasia con Fanny. Anthony Verna ("The Bower and
the Desert: The Concept of Love in Leopardi's Post-Idyllic Poetry," in Donna.
Women in Italian Culture [Toronto: Dovehouse, 1989], pp. 285-95) esamina,
negandola, la misoginia di Leopardi e amplifica la prospettiva entro cui
considerare la questione delle figure femminili nella poetica e nella vita stessa
di Leopardi. Per quanto riguarda Fanny, per ora si conoscono due lettere
inviatele da Leopardi, in cui il poeta riafferma la propria filosofia disperata e
sembra riferirsi esplicitamente proprio ad "Amore e Morte" quando scrive che
"l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo e le sole solissime
degne di essere desiderate." Dalle lettere di Pietro Giordani a Fanny, però, si
può probabilmente dedurre che il rapporto fra la donna e il poeta sia stato più
profondo e duraturo, poiché il Giordani, dopo la morte di Leopardi, insiste a più
riprese perché la dama fiorentina gli faccia avere copia delle "bellissime" lettere
inviatele dal Leopardi.
Par. I, 113: "Per lo gran mar dell'essere."
Jacques Derrida in "Apories: Mourir-s'attendre aux limites de la vérité," in Le
passage des frontières: Autour du travail de Jacques Derrida (Parigi: Editions
Galilée, 1993).
Riguardo all'ispirazione figuratica del Canto, Giovani Carsaniga (Giacomo
Leopardi: The Unheeded Voice [Edinburgh: Edinburgh University Press, 1976],
p. 106) fa riferimento al lavoro di Giuseppe Micali, Storia degli antichi popoli
italiani, pubblicato a Firenze nel 1832. Luigi Blasucci (I tempi dei "Canti":
Nuovi studi leopardiani [Torino: Einaudi, 1996], pp. 158-9) segnala "alcune
sculture di soggetto femminile ammirate nello studio romano di Pietro
Tenerani" e per quanto concerne la rappresentazione positiva della morte indica
altri due documenti dello stesso periodo: la lettera del 16 agosto a Fanny e
l'iscrizione per un busto di Raffaello.
Le citazioni dai Pensieri sono tratte da Tutte le opere.
Zibaldone, 650.
Ceragioli, op. cit., pp. 112-17.
Fin dai tempi del suo primo amore, i cui molteplici e sottili effetti sono
descritti in Memorie del primo amore, Leopardi aveva sentito e analizzato le
pene e presentito il dolore che ogni innamoramento gli avrebbe sempre
procurato.
Zibaldone, 1531.
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Ibid., 1632.
L'amore è considerato come l'ultima, estrema illusione, ma né come
espressione del bisogno del divino né come avente alcuna valenza metafisica.
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Irene Marchegiani Jones
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Coro di morti, v. 23.
Zibaldone, 4145-4146.
Cantico del gallo silvestre.
Zibaldone, 2134.
Ibid., 2945.
Ibid., 3383.
Ibid., 4356.
Gianni Vattimo (Filosofìa '95, a cura di Gianni Vattimo [Bari: Laterza,
1996]) osserva che "il nesso tra poesia e filosofia va cercato [...] nel mistero che
accomuna questo molteplice poiein, per cui pensare e poetare richiedono un
costruire" (p. 6). Anche Antonio Prete (Finitudine e infinito), parla di
corrispondenza fra eros e poiesis soprattutto nei canti del ciclo di "Aspasia," in
"relazione con l'infinito, con la sua impossibile esperienza" (p. 110); inoltre
"l'eros è relazione con l'assenza dell'altro" (p. 107).
Uno studio esauriente sulla morte chiaramente richiederebbe una completa
analisi di tutti i testi leopardiani.
Zibaldone, 291.
Ibid., 3813.
Ibid., 4174-4177.
Timpanaro, op. cit., pp. 180-3.
Emanuele Severino, Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi
(Milano: Rizzoli, 1997), pp. 325-6.
Timpanaro, op. cit., p. 197.
Salvatore Natoli, "Malati d'infinito. Storia del genere umano," in Letture
leopardiane. Terzo ciclo, a cura di Michele dell'Aquila (Roma: Fondazione
Piazzola, 1997), pp. 103-26. Anche Roberto Bertoldo (Nullismo e letteratura
[Novara: interlinea, 1998]) afferma che "Leopardi ratifica la crisi del principio
di non contraddizione" (p. 135). Anna Dolfi (La doppia memoria [Roma:
Bulzoni, 1986]) sempre a proposito della contraddizione scrive: "La stabile
presenza della contraddizione che distingue l'irresolubile polarità leopardiana
contro la triade logica dell'hegelismo prova che l'inquietudine di Leopardi non
è relativamente ai fini, come quella di Hegel, ma rispetto all'essere: è antinomia
del reale [...]. Se un superamento esiste del principio di non contraddizione è
sul piano umano-sentimentale, non logico-filosofico [...]. Il drammatico
leopardiano è nella radicalizzazione in re delle contraddizioni; la collisione è
esterna, così come avveniva nell'antica tragedia: da una parte l'individuo che
crede al sentimento e alla logica, dall'altra la natura con la sua ferrea, fredda,
irrazionale illogicità" (pp. 22-5).
In questo riso forse il poeta si fa gioco addirittura di se stesso per aver
creduto, proprio lui, alla valenza positiva dell'amore.
Zibaldone 4275.
Blasucci, op. cit., pp. 142-3 e p. 155. Il fatto che l'enjambement contribuisca
in Leopardi a "prolungare l'effetto di certi aggettivi, specialmente significanti
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spazio" è rilevato anche da Antonio La Penna, "Leopardi fra Virgilio e Orazio,"
in Tersite censurato (Pisa: Nistri Lischi, 1991), p. 269.
Anche nel dialogo l'amore scompare e resta solo la presenza della morte,
mentre finiscono anche le speranze-illusioni di gloria e di immortalità. Gli esseri
umani, come l'"umana gente" del Canto, non sono capaci di accettare
soprattutto tre verità essenziali: il fatto che non sanno nulla, che non sono nulla
e che non c'è nulla da sperare. Lo stesso concetto è espresso nell'ultima pagina
dello Zibaldone: "Due verità gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una
di non saper nulla, l'altra di non essere nulla. Aggiungi la terza, che ha molta
dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte."
Nella conosciutissima lettera a Luigi De Sinner del 24 maggio 1832 Leopardi
parla di coraggio nell'accettare la propria filosofia disperata, esprimendo le
stesse convinzioni presenti nell'ultima strofa di "Amore e Morte." La nozione
di coraggio connessa con quella di padronanza appare già in Zibaldone 4391:
"Terribile ed auwful è la potenza del riso; chi ha il coraggio di ridere, è padrone
degli altri, come chi ha il coraggio di morire." Interessante qui anche il potere
del "riso" e la sua associazione con entrambi i significanti di coraggio e di
morte.
Roberto Bertoldo, op. cit., presenta un'interpretazione in un certo senso "ricostruttiva" del materialismo e nichilismo leopardiano per cui egli usa il termine
nullismo, intepretazione che, con le dovute differenze, si avvicina al
superamento emozionale della coscienza del nulla quale può essere "letto" in
questo Canto: "Certamente il nichilismo da cui Leoaprdi parte si fonda su un
materialismo non chiaramente tipizzato, ma Leopardi mira, comunque, a
riscattare la nostra finitudine senza più l'ausilio di fedi metafisiche. La proposta
oltre il nichilismo di Leopardi è tuttora valida e nullistica, anche se il nichilismo
si è aggiornato. Mentre il finito nei nichilisti assume valore per un bisogno
egoistico di evasione, che è una forma sottile d'illusione, in seguito
all'inconsistenza dell'infinito, che è l'illusione classica, il finito nei nullisti è
avvalorato come luogo della vita, dell'azione altruistica. L'azione leopardiana
[...] si realizza fenomenicamente [...] e all'io foscoliano Leopardi contrappone
il noi, alla solitudine dell'esule la solidarietà dei carcerati" (pp. 135-6).
Lucrezio, De Rerum natura, IV 384.
Leopardi non era arrivato alla consapevolezza che anche la volontà può essere
un sogno né alla negazione estrema del soggetto in quanto espressione di
imposizione e di potere.
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