Libertà di stampa e di opinione - Tawasol Med-Net

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Libertà di stampa e di opinione - Tawasol Med-Net
DICEMBRE 2013 | VOCI
Libertà di stampa e di opinione
Cos’è cambiato nei Paesi della “Primavera araba”
WWW.BABELMED.NET:
IL SITO DELLE CULTURE
DEL MEDITERRANEO si
propone come strumento
di informazione alternativo
e indipendente, punto di
riferimento per il giornalismo
culturale dell’intera area
mediterranea, con una
dimensione transnazionale
e interculturale, dando voce
alla complessità dei grandi
dibattiti che attraversano la
regione. Il sito – in francese,
inglese, italiano e arabo - è
suddiviso in numerose
rubriche che consentono
di confrontare e intrecciare
produzioni culturali, visioni,
sguardi, percezioni, analisi
di diverse origini per ridare
profondità e verità alle
molteplici identità del
Mediterraneo.
A cura di Stefanella Campana
Sono scesi nelle piazze per liberarsi da tiranni, per chiedere più libertà, più giustizia
e meno disuguaglianze. Parole che si sono susseguite anche sul web, sui social
network, nei blog.
Tunisia, Egitto, Libia, Marocco: Paesi del Nord Africa attraversati o sconvolti da
grandi cambiamenti portati dalla ”Primavera Araba”. La libertà dell’informazione,
di potersi esprimere senza censure misura il grado di democrazia di un Paese. Per
questo abbiamo chiesto a giornalisti di quei quattro Paesi una cronaca aggiornata
per conoscere che cosa è cambiato, se c’è una vera nuova libertà di stampa e di
espressione. I loro resoconti ci parlano di profonde difficoltà pur con una nuova
consapevolezza dell’importanza di una libera informazione.
La Tunisia, dove è scoppiata la scintilla del cambiamento, subisce negli ultimi
tempi segnali di intolleranza tanto che la libertà di stampa può costare anche la
vita. In Egitto il mondo mediatico è nel caos con la tendenza ad autocensurarsi
per compiacere l’autorità che fa chiudere programmi satirici, mentre tarda la legge
sulla libera circolazione dell’informazione. Ma in una società come quella libica del
post-Gheddafi, attraversata ancora dalle violenze delle milizie, si contano ben 157
nuove testate, e i libici, soprattutto i giovani, mostrano la loro sete di libertà. Il Marocco, che secondo Reporter sans frontières, è al 136° posto nel suo ultimo
rapporto sulla libertà d’informazione, era più libera all’inizio del Regno di Mohammed VI, mentre ora si assiste alla chiusura di giornali, giornalisti processati e incarcerati con pretesti vari per far tacere le voci più libere. In tutti i quattro Paesi, il web
con i social network e i blog, si rivelano come canali importanti e alternativi per
comunicare e informare in libertà.
Medit è un progetto in
partnership tra Paralleli Istituto Euromediterraneo del
Nord Ovest e Twai - Torino
Wolrd Affairs Institute.
Il progetto Medit è sostenuto
dalla Compagnia di San Paolo.
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Libertà di espressione in Marocco
La fine di un’era, l’inizio di un’altra
Processi, boicottaggio e giornalisti incarcerati: metodi che continuano a pesare sulla
libertà di espressione in Marocco. L’informazione era più libera negli anni Duemila,
all’inizio del regno di re Mohammed VI, rispetto a oggi. Solo alcuni siti web d’informazione e i blogger indipendenti continuano a fare resistenza.
Hicham Houdaïfa – Rabat
Subito un dato: nel suo ultimo rapporto annuale sulla libertà d’informazione, reso
pubblico giovedì 17 ottobre, Reporter Senza Frontiere colloca il Marocco in una posizione poco invidiabile, 136°. Molto dietro il vicino algerino (125°) e classificato peggio della Libia (131°).
Che cosa rimprovera RSF al Marocco, che resta pur sempre un paese stabile, nel
mezzo di un mondo arabo alle prese con guerre civili, colpi di stato e gravi crisi
economiche? Innanzitutto, le promesse non mantenute. RSF evoca delle riforme
annunciate in pompa magna dal governo Abdelilah Benkirane, il capo del Partito
Giustizia e Sviluppo (PJD), arrivato primo alle elezioni legislative del novembre 2011.
Questo esecutivo, che ha il compito di applicare la nuova Costituzione, adottata dalla quasi unanimità dai marocchini, il 1° luglio dello stesso anno, aveva promesso, tra
l’altro, “la depenalizzazione dei delitti d’informazione”. Parole al vento…
Giornalisti in prigione
Mentre i venti della “Primavera Araba” inauguravano un’altra era, nei rapporti tra la
stampa libera e il potere, le cose non hanno fatto che peggiorare. Giornalismo fa
rima sempre con prigione, come nel caso del celebre editorialista arabofono Rachid
Manifestazione in favore di Ali
Anouzla
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Processo a Driss Ksikes
Niny che ha trascorso un anno in prigione, da aprile 2011 ad aprile 2012, per una
delle sue cronache. Era stato condannato per disinformazione!
Il 17 settembre scorso Ali Anouzla, fondatore del sito Lakome, è stato arrestato per
aver pubblicato sul sito un link che rinviava a un video di Al Qaeda sul Maghreb islamico (Aqmi) con un appello al jihad contro il Marocco e il suo re. E’ stato accusato di
“aiuto materiale, apologia e incitamento al terrorismo”. Ciò gli può costare fino a 20
anni di prigione. RSF, Amnesty International e, ancora, Osservatorio dei Diritti Umani
non sono i soli a inquietarsi per la sorte dei giornalisti indipendenti o dissidenti del
Regno. In merito ad Anouzla, il Dipartimento di Stato americano ha chiesto di trattare questo affare in modo “giusto e trasparente”. E aggiungendo: “La decisione del
Governo marocchino d’incolpare Anouzla ci preoccupa. Noi
sosteniamo le libertà di espressione e di informazione e, come affermiamo da sempre, i diritti universali costituiscono una parte indispensabile di tutta la società”.
Per molto tempo, l’arma del potere per mettere la museruola alla stampa aveva un
nome: l’articolo 77 del Codice dell’informazione. Un articolo che permetteva al Primo Ministro di vietare una pubblicazione con una semplice decisione amministrativa. E’ così che Le Journal, Assahifa e Demain sono stati vietati nel dicembre 2000,
per decisione del Primo Ministro dell’epoca, il socialista Abderrahmane El Youssoufi,
per aver “attentato alla stabilità del Paese”. Questi tre settimanali avevano semplicemente pubblicato una lettera, attribuita al vecchio avversario Mohamed Basri, che
accusava la sinistra marocchina di essere coinvolta nel tentativo di colpo di stato
del 1972 contro il re Hassan II, chiamando in causa direttamente il Primo Ministro El
Youssoufi. A partire dal 2003, questa legge è stata abolita. E’ stata tuttavia sostituita
con altri metodi di censura più pericolosi. I processi e il boicottaggio, da parte di
grandi gruppi economici, degli organi di stampa più indipendenti hanno finito col
provocare il fallimento di alcuni e di mettere in riga altri…
“I pretesti variano (Sahara, Islam, monarchia, stabilità, sicurezza, ecc.), ma l’obiettivo
non cambia mai: far tacere, attraverso la dissuasione poliziesca e giuridica, le voci più
credibili e più ascoltate che si autorizzano da sole senza sottomettersi ai diktat del
consenso voluto nelle alte sfere”, scriveva il drammaturgo Driss Ksikes, all’indomani
dell’arresto del giornalista Ali Anouzla. “Indagare sugli affari fiorenti dei cortigiani?
Troppo rischioso. Far scoprire le voci alternative sul Sahara? Temerario. Mettere a
nudo i discorsi degli islamisti radicali? Pericoloso. Far parlare i parenti del sultano?
Irrispettoso. Sondare il parere dei governati sul re che li governa? Sacrilegio”, spiega
Ksikes, che è stato capo redattore di Tel Quel e pure direttore della pubblicazione del
settimanale arabofono Nichane. Anche lui ha avuto a che fare con la
giustizia per un dossier dedicato alla satira.
Abdellatif Laabi, scrittore, poeta e saggista marocchino condivideva la stessa opinione quando dichiarava al sito JOL Press del 22 ottobre scorso che “da qualche anno
si assiste a un vero accerchiamento dei media. Le voci dissonanti, per non parlare
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dell’opposizione frontale, non hanno più voce in capitolo nei media pubblici”.
Internet e citizen journalism
Oggi il dissenso è altrove. È su Internet. L’esempio più clamoroso dell’influenza grandissima di Internet è l’apporto di un sito, Lakome, così come di Facebook e Twitter in
quello che è comunemente chiamato “l’affaire Daniel” (Danielgate).
Tutto è iniziato con una grazia del Re, accordata per errore a fine luglio, a Daniel
Galvan, un pedofilo spagnolo. L’uomo era stato condannato nel 2011 a 30 anni di
prigione in Marocco, per aver commesso violenza sessuale su 11 bambini dai 3 a 15
anni.
Il sito Lakone ha seguito il caso, cui gli hanno fatto eco messaggi su Facebook e Twitter. Risultato: migliaia di marocchini sono scesi in piazza a protestare contro questa
grazia concessa dal Monarca. Manifestazioni represse molto duramente.
Mohammed VI ritorna sui suoi passi e procede, il 4 agosto, al ritiro della grazia
precedentemente accordata a Daniel Galvan. Non era mai successo! All’indomani
di questo fatto, il direttore dell’amministrazione penitenziaria, ritenuto responsabile
di questo caso, viene licenziato. Il 6 agosto il Re riceve le famiglie delle vittime del
pedofilo in segno di solidarietà. Senza il lavoro del sito Lakome e dei social network,
questo caso non sarebbe mai emerso.
Una prova in più che Internet ha sostituito la stampa classica per veicolare le informazioni indipendenti, persino imbarazzanti, per il potere in carica. Sempre più
i cittadini praticano il citizen journalism mettendo sul web, su Facebook, Twitter o
Youtube, delle foto o dei video compromettenti per gli eletti locali, poliziotti, gendarmi… La resistenza continua!
Quanto alla stampa on line, è ancora in attesa di un inquadramento giuridico ipotetico per promuovere questo settore. Il ministero della Comunicazione sta per elaborare un progetto di legge in merito. Proporrà una regolazione come quella dei Paesi
occidentali? O si tratterrà di una legge che darà il colpo fatale all’ultimo bastione
della stampa indipendente del Paese? Sarà il futuro a dirlo…
Il rapporto dei marocchini con i media
I marocchini che rapporto hanno con i media? Rispetto alla televisione, i dati dell’audience confermano la popolarità dei canali transnazionali arabi, come Al Jazeera o Al
Arabiya, soprattutto dopo la Primavera Araba. L’élite francofona segue le televisioni
francesi. Le televisioni nazionali marocchine sono apprezzate per le telenovela, soprattutto turche, come pure per le partite di calcio dei club marocchini e gli incontri
per la selezione della nazionale.
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Quanto alla radio, è il canale Mohammed VI a dominare su tutte le emittenti pubbliche e private: è interamente dedicato al Corano e all’Islam.
Da uno studio realizzato all’inizio del 2011 nell’ambito del “Dialogo nazionale-media-società”, è emerso che “i media marocchini soddisfano solo parzialmente i bisogni dei giovani”. Lo studio, effettuato su un campione di centinaia di giovani tra i 15
e i 29 anni, rivela che tre quarti degli interrogati non acquistano né riviste né quotidiani marocchini. Lo studio evidenzia che è Internet il mezzo più usato come fonte
d’informazione, poiché, tra i media, è “quello che ispira più fiducia”. Internet e anche
citizen journalism. I dati attestano la popolarità dei social media.
Facebook, per esempio, contava nel 2012 circa 4,7 milioni di contatti marocchini, di
cui il 43 per cento nella fascia 18-24 anni. È dal social network che prendono il via
i principali movimenti di protesta prima di materializzarsi nella realtà. A cominciare
dal movimento “20 febbraio” che si è formato sui social network o ancora “Freekiss”,
un’operazione iniziata da gruppi di internauti su Facebook, per protestare contro
l’arresto di due adolescenti, un ragazzo e una ragazza, entrambi di 15 anni, citati per
“attentato al pudore”, a Nador, nel nord del Paese, accusati per aver messo su
web una foto che li mostrava mentre si abbracciavano. Un appello di adesione alla
manifestazione organizzata in loro favore è stato lanciato su Facebook e seguito da
un’iniziativa di Freekiss (bacio libero), organizzata a Rabat in segno di solidarietà.
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Libia: l’informazione nell’era post
Gheddafi
Tra quotidiani, settimanali, mensili e periodici vari, attualmente si contano oltre cento testate, in continua crescita. Una reazione alla precedente chiusura totale di spazi
di libertà d’espressione. Nella Jamahiria del colonnello c’erano solo sei testate, tutte governative. La prima emittente televisiva privata nella storia della Libia è stata
Al-Hurra (Libia Libera), creata a Bengasi come web tv dal suo fondatore Mohammed
Nabbous. La Tv statale, Allibyia, è in mano alla Fratellanza musulmana.
Farid Adly – Tripoli
In questi due anni dalla caduta del regime dittatoriale della famiglia Gheddafi, l’informazione in Libia ha subito uno stravolgimento straordinario in quantità e qualità.
Ma non c’è una vera libertà di stampa perché permangono ancora nella società,
e soprattutto tra le milizie armate, atteggiamenti che considerano l’informazione
come lo zerbino del potere. Tuttavia, il paragone tra la fase precedente al 17 febbraio
2011 e la situazione attuale è scontato: il cambiamento è notevole, perché nel cuore
della rivolta è nata la voglia di libertà d’espressione, di informarsi e di informare, con
un’azione di massa diffusa, sfruttando non solo blog, social network e Youtube, ma
anche carta stampata, radio e Tv.
L’importanza della comunicazione è stata colta presto dal Consiglio Nazionale di
Transizione (CNT) che ha chiamato a dirigere il Dipartimento di informazione il giornalista Mahmoud Shammam, con alle spalle anni di esilio e di lavoro nell’emittente
Al Jazeera. Nella stessa sede del Consiglio, al Tribunale di Bengasi, è stato creato un
Media-Centre, dove prestavano la loro opera volontaria, su quattro turni, 24 ore al
giorno, centinaia di studenti universitari, ragazzi e ragazze della Facoltà di Comuni-
Manifestazione in favore di Ali
Anouzla
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Campagna elettorale
cazione, diretti dal Rettore della stessa facoltà. In quei momenti concitati della rivolta
è nata anche la prima emittente televisiva privata nella storia della Libia: Al-Hurra
(Libia Libera). E’ stata creata a Bengasi, come web tv, da Mohammed Nabbous, un
media-attivista giovane, dall’inglese fluente, che nei primi giorni della rivolta è stato
una preziosa e riconosciuta fonte di informazioni affidabili per molti giornalisti internazionali. Nabbous è stato assassinato dai cecchini delle brigate di Gheddafi il 19
marzo 2011, mentre stava documentando l’entrata dei carri armati governativi nella
città. L’emittente ha continuato il suo lavoro con l’impegno della moglie del fondatore, insieme a un gruppo di loro amici. Attualmente la Tv trasmette anche su satellite
ed è guidata dalla vedova Nabbous che coordina una squadra di giornalisti formati
sul campo. Il palinsesto è ricco di inchieste sulle realtà sociali e sulle problematiche
della vita quotidiana in presa diretta, anche nei quartieri popolari dove la popolazione meno abbiente continua a vivere nelle difficoltà. La linea editoriale è fortemente
anti gheddafiana e durante l’assedio di Bani Walid, nell’ottobre di un anno fa, la sede
di Bengasi dell’emittente è stata bersagliata da un gruppo di nostalgici del vecchio
regime che ne ha devastato gli studi. Le battaglie contro lo strapotere dei “piccoli
Gheddafi”, i capi delle milizie che imperversano nelle città libiche, sono costate all’emittente un alto prezzo in intimidazioni, minacce e attacchi terroristici.
L’ultimo, durante lo scorso ottobre 2013, quando una carica di esplosivo ha distrutto
la facciata del palazzo che ospita gli studi.
Tra quotidiani, settimanali, mensili e periodici vari, si contano attualmente in Libia
almeno 157 testate, numero in continua crescita. Questa fioritura di “luoghi” di informazione e comunicazione sembra una reazione allergica alla precedente chiusura
totale di ogni spazio di libertà d’espressione. Infatti, nella Jamahiria del colonnello
c’erano soltanto sei testate, tutte governative, e vigeva il regime del censore che
controllava ogni parola prima di dare il “visto, si stampi!”.
Il settore televisivo, malgrado i significativi investimenti richiesti, non è stato esente
da questo fenomeno. In diversi casi si è sopperito alla mancanza di capitali con le più
povere e snelle web tv. Grazie al digital divide, queste emittenti raggiungono però
solo un pubblico di nicchia. Le televisioni terrestri e satellitari restano le più importanti per orientare l’opinione pubblica, perché si possono seguire da casa con un
semplice apparecchio ricevente, senza abbonamenti e senza costi di reti via cavo o
cellulari. La Tv statale, Allibyia, è in mano alla Fratellanza musulmana, e questo grazie
al suo entrismo, negli ultimi anni del regime, nel progetto di Libia Al-Ghad (Libia del
Domani) di Seif Islam Gheddafi, progetto che mirava all’eredità del potere, da padre
in figlio, con una serie di operazioni di maquillage alla dittatura. Oltre alla emittente
Allibyia, ci sono molte emittenti private di carattere nazionale e diverse Tv locali,
come quella di Misurata e di Zentan, due località che hanno svolto un ruolo di primo
piano nella resistenza alle Brigate di Gheddafi.
In Libia, caso unico nel mondo arabo, vi è un canale televisivo privato che trasmette
in una lingua di una minoranza, quella Amazig. La proliferazione di canali televisivi
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non è stata seguita da una regolamentazione dell’etere e al momento non è possibile definire né la loro influenza sull’opinione pubblica né l’indice di gradimento delle
diverse emittenti. Inoltre, l’incidenza delle entrate pubblicitarie è ancora
scarsa. Secondo alcuni osservatori che si sono espressi sui periodici culturali Fosul
Arb’a (Le quattro stagioni) e Al-Mayadeen (Le piazze) “la fase attuale è quella degli
investimenti, per occupare uno spazio nel mercato. Questo si prospetta un settore
promettente a causa dei futuri piani di ricostruzione, ma al momento attuale è pieno di incognite per l’instabilità del paese”.
La sete di libertà la si tocca con mano tra i giovani libici. Lo hanno dimostrato sfidando le milizie a Bengasi, lo scorso giugno 2013, attaccando le caserme dei barbuti
armati a mani vuote e cacciandoli in malo modo, per via della loro condotta arrogante, del loro tentativo di controllare la vita sociale e di imporre comportamenti
tipici di un Islam estremista e oscurantista. La battaglia per uno stato moderno in
Libia, malgrado le difficoltà, non è persa perché, oltre alle sfide in seno al Governo e
al Parlamento, c’è una stampa che resiste alle minacce e rivendica un ruolo indipendente e autonomo. La società civile libica, malgrado la sua recente riorganizzazione,
ha una capacità di discernimento sorprendente, che ha trovato nei social network
e nei blog un canale alternativo di espressione e di comunicazione per farsi sentire,
sia dal pubblico sia dalle istanze del potere. Uno spazio minoritario, ma efficace per
campagne su temi specifici come la lotta alla corruzione e ai soprusi delle milizie
armate o per l’affermazione dei diritti umani.
Al web si aggiunge lo spazio radiofonico, in forte crescita, che ha raccolto attorno
a sé molti giovani creativi che hanno riversato la loro rabbia civile nella musica e in
trasmissioni satiriche, diventando così popolari da seppellire sotto una gran risata gli
uomini del malaffare, come nel caso del rapimento del Primo ministro, Alì Zeidan:
i sequestratori sono stati presi in giro in un “instant rap”che è diventato il jingle di
molte emittenti radiofoniche.
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Tunisia, libertà di stampa a rischio della
vita
L’informazione non è mai stata così libera, ma secondo il Centro di Tunisi per la Libertà di stampa si contano in media 25 aggressioni al mese nei confronti di giornalisti.
Vanno dall’intimidazione all’aggressione fisica, passando per le molestie e le minacce di morte. I giornalisti si trovano costretti a essere “la voce di chi non ha voce”.
Jalel El Gharbi – Tunisi
La stampa non è mai stata così libera e i giornalisti così soggiogati. Questo paradosso, in tempi tumultuosi, deriva dal fatto che una realtà e la sua negazione coesistono.
I giornalisti tunisini sono liberi. La sfera del proibito si è ridotta notevolmente. I tabù
politici sono caduti. In ogni palinsesto televisivo, nei talk-show che fanno il successo
delle emittenti tv e anche in quelle radiofoniche come Mosaique FM, i politici sono
bersaglio di una critica implacabile.
Politicamente sembra non ci siano limiti alla critica, ma quando si tratta di religione
o di morale è meglio essere prudenti. Oggi, si può dire che qualunque cittadino può
chiamare una radio ed esprimersi liberamente. Il Paese a volte sembra un Hide Park
con il suo Speakers’Corner e i tunisini indulgono apertamente nell’esercizio della
libertà. E ne hanno un gran bisogno dal momento che la realtà è deprimente. I giornali si abbandonano volentieri a una libera espressione, spesso ribelle o sediziosa,
impensabile prima del 14 gennaio. Intanto, un’altra forma di giornalismo è fiorita nel
Paese: il giornalismo investigativo, d’inchiesta.
La stampa in Internet da questo punto di vista è affidabile. Siti come
http://athawranews.net/category/journal_electronique (in arabo) si specializzano nella lotta contro la corruzione. Si può citare anche questo portale francofono specializzato nell’informazione politica ed economica http://www.kapitalis.com.
Manifestazione davanti alla sede
della TV nazionale
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Un terzo sito, spesso ben informato, è http://businessnews.com.tn (in francese). Il direttore di questo giornale on line ha pubblicato un libro consacrato agli errori del
Presidente della Repubblica, il cui titolo riprende un’espressione desueta usata da
Moncef Marzouki, “Bontà divina! L’uomo che non ha saputo essere presidente”.
Una volta ci si accontentava della lettura di libri scritti da giornalisti francesi su Ben
Ali. E si stava attenti a non stampare testi così compromettenti.
Oggi la Tunisia sembra avere più bisogno di un’informazione d’inchiesta che di opinione. Rivelare certe verità sembra essere di un’importanza cruciale. Non stupisce
pertanto che si sia affermato il giornalismo investigativo. Giornalisti e blogger vi si
dedicano con passione.
L’Università di Tunisi non è rimasta a guardare: sta per lanciare un master professionale in giornalismo d’inchiesta. È grazie ai media – classici o alternativi – che vengono rivelati gli scandali, mettendo in discussione per esempio la pretesa di probità
grazie alla quale Nahdha ha avuto accesso al potere. Altro paradosso: il partito al
potere, che sa bene come la libertà di stampa gli sia dannosa, sa anche che è suo
interesse dimostrare che i media sono liberi. Per risolvere questo paradosso, il partito
al potere se ne vanta ufficialmente, mentre dietro le quinte incoraggia ogni azione
contro i giornalisti, tanto che la professione è diventata una delle più rischiose: si
va dall’aggressione fisica alla precarietà professionale. Secondo Moncef Ben Mrad,
direttore generale del giornale “Akhbar al Joumhouria” (Le notizie della Repubblica),
le sfide che devono affrontare i giornalisti tunisini dopo la rivoluzione sono innumerevoli, “violenza esercitata contro i giornalisti dal discorso della Troika al potere o dai
loro partigiani, aggressioni fisiche, minacce successive e persistenti contro i giornalisti e la libertà d’informare, processi, precariato delle associazioni della stampa indipendenti che fa temere la perdita del posto di lavoro, assenza di un quadro giuridico
di sostegno e ambiguità nell’ambito dell’applicazione del decreto 115, autoinganno
di tutta la classe dirigente che vuole mettere al passo la libertà d’informare”.
Il Decreto 115 limita fortemente la concentrazione di media in mano a singoli e tutela la libertà di stampa, il diritto all’informazione e la protezione delle fonti, oltre alla
libertà dei giornalisti di accedere a tutti i documenti amministrativi presso gli enti
pubblici (ndr).
Numerosi tunisini non capiscono come si possa attentare alla libertà di stampa
dopo la rivoluzione. È la nozione stessa di libertà che è meglio rivedere. La libertà:
un avvicendarsi ininterrotto di liberazioni, di lotte.
La stampa è repressa dal momento che un regime cerca di apparire per quello che
non è. Ben Ali voleva passare a tutti i costi per democratico, Nahdha vuole essere considerato come il miglior partito al governo di tutti i tempi. Ora, niente può
privare i Tunisini di una libertà che hanno atteso troppo a lungo. Zied Krichen, del
giornale Le Maghreb, l’ha detto chiaramente dai microfoni di una radio indipendente Mosaique FM, il 23 ottobre 2013: “Preferisco vivere in un Paese dove c’è libertà di
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espressione, anche se la mia vita è minacciata, piuttosto che vivere in un Paese sicuro dove non ho il diritto di esprimermi”.
Le parole di Zied Krichen sono state riprese in modo diffuso. Zied Krichen e Hamadi
Redissi, professore di Scienze politiche, sono stati attaccati il giorno in cui erano andati a sostenere Nebil Karoui nel processo denominato “Persepoli”. La scena è stata
filmata e si vedono dei teppisti attaccare violentemente i due uomini.
Il 3 maggio 2012 Nebil Karoui, capo della Tv privata Nessma che trasmette in tutto
il Maghreb, è stato condannato a un’ammenda di 2400 dinari (1200 euro) per attentato alla morale e per disturbo dell’ordine pubblico, in seguito alla diffusione il 9
ottobre 2011 di Persepolis, il film di Marjane Satrapi, ispirato al suo fumetto, che suscitò la collera dei salafiti e l’indignazione dei seguaci di Nahdha. Tuttavia, gli islamici
dovrebbero sospettare che la diffusione di questo film li abbia favoriti, visti i risultati
elettorali”. Il caso è superato perché il film è già stato proiettato
a Tunisi senza che nessuno si sia indignato.
Non è la prima volta che Nessma Tv è vittima dell’intolleranza: i suoi principali editorialisti, i due Soufiene, sono stati aggrediti e minacciati di morte. Soufiene ben
Farhat, che ha lasciato l’emittente, vive sotto protezione della polizia. Quanto a Soufiene Ben Hmida, è stato aggredito verbalmente e fisicamente. Oggi Ness-Nessma, il
talk show quotidiano della Tv è senza dubbio la trasmissione che batte tutti i record
nonostante il boicottaggio da parte di persone come Habib Ellouz, eletto della costituente, che ha manifestato la sua posizione favorevole alla sua chiusura. L’emittente
ha annunciato in un comunicato all’opinione pubblica di aver ricevuto delle minacce. Pesano ancora oggi una serie di minacce su questa televisione. Per esempio, è
stata accusata di far parte dei “media della vergogna”, una definizione che vuole ricordare ai media di essere compromessi col regime di Ben Ali. Questa etichetta è
distribuita generosamente dagli islamisti per designare tutti quelli che rifiutano di
omologarsi.
Stranamente, il partito al potere non vede che sono piuttosto i suoi media che rassomigliano a quelli di Ben Ali. Quando il canale Tv Al Moutawassat , vicino al partito
al governo, afferma che non ci sono terroristi ma cercatori di tesori, o quando il giornale Al Fajr, organo del partito Nhadha, passa sotto silenzio l’assassinio di Mohamed
Brahmi, questi media fanno meglio di quelli di Ben Ali. Comunque i tunisini riservano loro lo stesso trattamento: li boicottano.
Più di una volta, il potere ha dato l’impressione – per usare un eufemismo – di avere
difficoltà ad accettare la libertà di stampa e di pensare che la libertà sarebbe tessere
le sue lodi. Molti giornalisti ne hanno fatto le spese. Il giornalista Zied Al Hani, per
esempio, ha avuto problemi con la giustizia ed è stato anche incarcerato. E’ uno dei
rari giornalisti che non temeva di farsi sentire sotto il governo di Ben Ali, tuttavia
quest’ultimo non ha mai osato arrestarlo.
Abdessalem Kekli, che per molto tempo ha collaborato al giornale Al Maoukef, una
delle rare pubblicazioni indipendenti, spesso sequestrata dal Governo, non ha
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dimenticato le restrizioni del regime di Ben Ali. Tuttavia, il suo status di universitario
e soprattutto di sindacalista gli dava un’immunità relativa.
“Chi non ha fatto del giornalismo prima della rivoluzione – ci confida Abdessalem
Kekli – non può immaginare il peso delle pressioni che il regime di Ben Ali esercitava
sui giornalisti. Ho collaborato per sette anni al Maoukef fino al momento della rivoluzione. Questo giornale era uno delle rare tribune dell’opposizione. Pubblicarlo era
un’impresa azzardata. Era spesso sequestrato in tipografia e persino sulle bancarelle.
Il potere faceva di tutto per vietarne l’accesso ai lettori. Inoltre, i giornalisti subivano
la doppia pressione della censura e dell’autocensura… Oggi il giornalismo si è liberato dalla paura, ma il potere non accetta questa libertà”.
È vero che non si contano più i tentativi mirati a mettere la museruola ai media. Il
più spettacolare di tutti fu senza dubbio il sit-in della televisione nazionale. Il 2 marzo
2012, dei manifestanti vicini a Nahdha e alla sua rete di sostenitori della rivoluzione,
decidono di tenere un sit-in davanti alla sede della televisione per chiedere che
venga ”liberata” da esponenti di sinistra e dagli ex del RCD (Rassemblement Constitutionnel Démocratique, il partito di Ben Ali). La sede fu liberata soltanto due mesi
dopo, grazie all’intervento del ministro dell’Interno: i disordini tra i dimostranti e i
giornalisti, stanchi per le provocazioni giornaliere dei “barbuti”, erano all’ordine del
giorno e la situazione rischiava di degenerare.
Oggi in Tunisia, sembra che il ruolo dei media non si limiti solo a informare. I giornalisti si trovano costretti a essere “la voce di chi non ha voce”, come dice la frase presa
a prestito a Lamartine e che piace ripetere a Tunisi. I giornalisti tunisini si sono trovati
investiti da una missione che altrove non attiene all’informazione: mettere a nudo la
miseria sordida nelle zone frontaliere, e soprattutto prevenire il paese contro la minaccia terrorista. Sono i giornalisti che hanno rivelato l’esistenza dei campi di addestramento. I giornalisti hanno ugualmente messo a nudo dei casi di corruzione. Il più
éclatante riguarda Rafik Ben Abdessalem, in quello che è stato definito “Sheratongate”, affaire che ha coinvolto il giovane ministro. La blogger Olfa Riahi rivela le “leggerezze” del ministro che deve il suo ruolo più al suo status di genero di Ghannouchi
che alle sue competenze. Rafik Ben Abdessalem si difende: non avrebbe fatto altro
che pagare una camera d’albergo a una cugina venuta a trovarlo! Non si rimprovera
a questo ministro solo le sue notti tumultuose. Si è reso responsabile di malversazione, ma il caso non sembra preoccupare Rafik Ben Abdessalem. E’ Olfa Rihai che
ha invece dovuto preoccuparsi dal momento che le era stato impedito di lasciare il
paese. Reporter senza frontiere è dovuto intervenire.
Secondo il Centro di Tunisi per la Libertà della stampa si contano 25 aggressioni al
mese contro i giornalisti. Queste aggressioni, quasi quotidiane, vanno dall’intimidazione all’aggressione fisica passando per le molestie e le minacce di morte.
Come è chiaro, l’informazione è al centro di una battaglia decisiva in cui una parte
del popolo aspira a un modello che perpetui i valori nazionali, aperti a tutte le culture e contro un modello di ubbidienza integralista che promuove purezza e purghe.
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I media in Egitto, più “realisti” del re
Il problema attuale non sta nel margine di libertà accordata alla stampa, ma piuttosto nel caos che governa i media e la tendenza ad auto censurarsi per compiacere
l’autorità o per piegarsi al clima generale. L’emittente CBC ha sospeso il popolare
show satirico di Bassem Youssef, un caso di evidente repressione della libertà di
espressione dopo il 30 giugno.
Dina Kabil - Il Cairo
Il torrente di collera che ha seguito la trasmissione politica satirica “Il Programma”
di Bassem Youssef riassume lo stato attuale della libertà di espressione nei media
egiziani, e soprattutto la polarizzazione che contrassegna l’opinione pubblica dopo
il 30 giugno. Tutto nero o tutto bianco: glorificare l’icona di Al-Sissi, il ministro della
Difesa, riconosciuto da milioni di egiziani come il salvatore nei confronti del potere
islamista, oppure qualificare il 30 giugno come un colpo di Stato e allinearsi ai clan
dei Fratelli musulmani.
La prima trasmissione di al-Bernameg, dopo un’interruzione di quattro mesi, ha cristallizzato questa crisi: si tratta di un colpo di Stato o invece di una seconda immensa ondata popolare della rivoluzione del 25 gennaio? Il John Stewart egiziano, che
figura nella lista delle cento personalità più influenti del 2013 stilata dal settimanale
americano Time, non ha risparmiato nessuno con la sua satira, nemmeno il discorso
di Al Sissi né del presidente ad interim Adly Mansour.
All’indomani della trasmissione si sono accumulate molte denunce contro di lui,
accusandolo, tra l’altro, di “nuocere all’immagine dell’Egitto davanti al mondo e
all’opinione pubblica e di minacciare la sicurezza pubblica”. Il generale Sameh Seif
al-Yazal, direttore del Centro al-Gomhoureya per gli studi sulla sicurezza è arrivato
a ritenere che questa trasmissione colpisca direttamente la persona del direttore
generale delle Forze armate, dichiarando che “ciò va nell’interesse dei Fratelli musulIl popolo vuole epurare la tv
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Bassem Youssef
mani”.
Uno stato di cose in cui non si possono dimenticare le antiche collere, poiché Bassem Youssef era stato arrestato, e poi liberato sotto cauzione il 31 marzo scorso, durante il governo del presidente Mohamed Morsi, dopo una denuncia depositata da
un avvocato per “aver insultato il presidente – schernendo la sua immagine all’estero
– e la religione, nonché aver dileggiato il rito della preghiera”.
Da parte sua e contro ogni previsione, l’amministrazione della rete dei canali CBC
su cui “Il Programma” va in onda, ha pubblicato un comunicato in cui conferma che
continuerà a sostenere la volontà del popolo egiziano e che cercherà di non utilizzare termini, allusioni o scene che potrebbero ferire i sentimenti del popolo o nuocere
ai simboli dello Stato. Alla fine CBC ha sospeso il popolare show satirico dopo che il
secondo episodio della terza stagione ha rivelato che “è stata violata la nostra linea
editoriale”.
La crisi scoppiata per una trasmissione, satirica per definizione, diretta a una società
che apprezza le battute di Bassem Youssef, riflette la sfida della libertà di espressione
in Egitto, dopo il 30 giugno. Quanto ai Fratelli musulmani, cinque reti satellitari sono
state chiuse dopo la destituzione di Mohamed Morsi il 3 luglio 2013. Sul fronte liberale, grandi figure dei talk show come Yousri Fouda e Rim Magued del canale privato
ONTV, che hanno sostenuto fin dall’inizio la rivoluzione del 25 gennaio, hanno fatto
la scelta di tacere. Come se un contratto non scritto incitasse i personaggi dei media
a entrare nel gioco del potere oppure a ritirarsi completamente dalla scena.
Nuovi sintomi: polarizzazione e autocensura
Ci sono cambiamenti radicali portati dalla rivoluzione? L’organizzazione del mondo
mediatico non è cambiato: da una parte i giornali nazionali e l’Unione della Radio e
della Televisione egiziana (URTE) che sono sempre i portavoce del potere in carica,
dall’altro le istituzioni private cosiddette indipendenti. È vero che nuovi giornali e
canali sono stati lanciati dopo il 25 gennaio, come il quotidiano al- Tahrir e la Tv che
porta lo stesso nome, quello della famosa piazza icona della rivoluzione, il quotidiano al Watan, la rete al Nahar o Sadal Balad. E persino il quotidiano al Shorouk, che
esisteva dal 2009, si è convertito momentaneamente, dopo il 25 gennaio 2011, alla
difesa degli obiettivi della rivoluzione.
Ma numerosi giornali o reti private non hanno tardato ad allinearsi dalla parte dei
Fratelli musulmani e, quando sono scoppiate le manifestazioni del 30 giugno contro il potere islamico, i magnati della stampa hanno partecipato alla crisi politica. In
maggioranza uomini d’affari, essi rappresentano le forze della contro rivoluzione che
vogliono restaurare il vecchio regime, imporre di nuovo i tabù e “orientare” in qualche modo l’opinione pubblica, in funzione dei loro interessi personali.
“I media sono entrati nel gioco della polarizzazione a detrimento della professionalità”, spiega Abdel Radi, ricercatore nella Rete araba per l’informazione dei diritti dell’
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uomo (NHRI).
Nella sua ricerca sui media dopo il 30 giugno, è arrivato alla conclusione che questi
si adattano alla tendenza del potere, concordando che i Fratelli sono il nemico e i
rappresentanti del terrorismo che bisogna combattere. Si deve dunque constatare
che tutti i media, tradizionali o satellitari, la stampa scritta e audiovisiva, durante la
copertura delle repressioni sanguinose del sit-in di Rabea al Adawiya hanno esibito
varianti dello stesso tema: la guerra contro il terrorismo.
Attualmente sembra delinearsi una nuova linea: sottomettersi al clima generale e
auto censurarsi. “Il plafond della libertà si è ristretto nella stampa indipendente dopo
il 30 giugno, in primo luogo per considerazioni finanziarie - sottolinea Khaled al Sergany, editorialista del quotidiano nazionale Al-Ahram ed esperto mediatico –. I dirigenti dei giornali che prima hanno concesso un margine di libertà, sotto il governo
di Mohamed Morsi, hanno convenuto di non opporsi al potere in carica e nemmeno
ai membri del governo”.
Quanto alle linee rosse da non oltrepassare, sono gli editori dei giornali che le stabiliscono e non il potere. Molti osservatori condividono questa analisi. “E’ il clima
fascista che influenza i dirigenti delle società editrici”, sottolinea al-Sergany facendo l’esempio delle rubriche di alcuni scrittori sostenitori dei Fratelli musulmani che
sono stati vietati a più riprese dal quotidiano al-Shorouk, senza il minimo intervento
del potere. Se esiste un margine di libertà, insiste Abdel Radi, non è dovuto a una
volontà politica del cambiamento. Sono i media che si sono accaparrati questo margine dopo il 25 gennaio.
“Si tratta di soddisfare il clima generale e di essere sulla stessa lunghezza d’onda del
giornalismo sociale su Youtube e sui blog”, afferma il giovane ricercatore.
La legislazione relativa all’informazione: lo status quo
Khaled al Sergany riconosce che i media non sono evoluti dopo la rivoluzione del
2011: “Abbiamo lasciato sfuggire le opportunità del cambiamento. Non dimentichiamo che è nel periodo di transizione del potere che gli apparati della polizia e
dei media sono i primi a essere ristrutturati, come è successo in altri paesi che hanno
conosciuto dei sollevamenti popolari. Pertanto in Egitto, tutto resta nelle mani dello
Stato che controlla i permessi per lanciare dei nuovi giornali, televisioni o radio”. Tuttavia, al Sergany nota che una delle opportunità del dopo 30 giugno è la modifica
della legge che regola l’Alto Consiglio della stampa che prevedeva che i membri
fossero nominati dal presidente dello Stato e vicini al partito al potere.
I giornali nazionali erano così gestiti dal Consiglio consultivo, quindi da una maggioranza parlamentare che orientava l’informazione secondo i propri interessi. La
modifica è avvenuta all’indomani del 30 giugno: i membri del Consiglio sono ormai
degli specialisti, in numero di 15. Il sequestro del Consiglio consultivo sulla stampa
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è terminato e la gestione dei giornali nazionali è ora affidata all’Alto Consiglio della
stampa. Ma la situazione resta tuttavia sclerotizzata.
Quanto alle punizioni e alla prigione in seguito a processi su pubblicazioni, entrambe restano in vigore senza alcun cambiamento delle leggi. Il giornalista Ahmed
Abou Derae, il primo a essere portato davanti a un tribunale militare dopo il 30
giugno, è accusato di aver pubblicato informazioni false sulle forze armate. Ma la
notizia recente, secondo Abdel Radi, è che i giornalisti sono arrestati il più sovente
alla rinfusa, senza una vera accusa, non a causa della loro identità di giornalisti, ma
per aver sostenuto una data forza politica nelle manifestazioni di massa o a causa
della loro semplice presenza nei luoghi delle manifestazioni.
La sfida non sta nel margine di libertà accordato alla stampa, ma nella cacofonia che
regge i media, come sintetizza al-Sergany, poiché la legge sulla libera circolazione
delle informazioni non ha ancora visto la luce. “Il 90% delle informazioni sono inaccessibili, come gli attentati quotidiani che avvengono nel Sinai”, puntualizza Dina
Samak, responsabile della rubrica News su Al-Ahram Online.
Se prima della rivoluzione del 25 gennaio, era sostanzialmente impossibile ottenere
notizie su una partita di football organizzata dalle forze armate, le altre fonti, come il
ministero delle Finanze o dell’Industria, fornivano almeno delle informazioni.
“Oggi, e durante i due periodi transitori, ogni informazione è considerata come proveniente da una fonte sovrana”, spiega Dina Samak. Si vede la famosa espressione
invadere ossessivamente i giornali: “secondo una fonte che ha preferito serbare l’anonimato”. Per un ricercatore come Abdel Radi, la mancanza di informazioni affidabili è molto grave, soprattutto per quello che riguarda gli atti di violenza durante gli
anni della rivoluzione.
“All’origine è la riservatezza delle informazioni”, s’indigna Karim descrivendo la mentalità che regge lo Stato, ricordando l’interrogatorio e il licenziamento di un funzionario, da parte dell’organizzazione centrale di certificazione incaricata di controllare le fonti finanziarie dello Stato, poiché aveva osato rivendicare la ristrutturazione
dell’istituzione.
Nonostante stia attraversando un periodo transitorio difficile, l’Egitto è sulla buona
strada per formulare la costituzione e avere un parlamento eletto. L’avvenire della
libertà di informazione è legato ai suoi professionisti: pretendere diritti e costruire
dei media indipendenti o ritornare al modello della propaganda di Stato.
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