Automotive in Emilia-Romagna

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Automotive in Emilia-Romagna
26 Commenti e inchieste
Il Sole 24 Ore
Venerdì 11 Marzo 2016 - N. 70
Lettere
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MERCOLEDÌ
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SABATO
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Adriana Cerretelli
Salvatore Carrubba
Unione succube
dei nazionalismi
che la tormentano
L
a Bce di Mario Draghi ha varato
nuove forme a sostegno della
crescita e dello sviluppo, dato che
finora il Qe, partito a marzo 2015 e che
doveva concludersi a settembre 2016, non
ha dato i frutti sperati, soprattutto in
materia di inflazione (target della Bce
intorno al 2%). Sono sicuramente azioni
importanti, se non altro per infondere
fiducia nei mercati e nei cittadini europei.
Ma, quel che manca davvero è l’Unione: il
piano Juncker, partito in pompa magna,
pare finito nel dimenticatoio. Non doveva
essere il vero volano della crescita?
Domenico Rosa
Lettera firmata
PROPRIETARIO ED EDITORE: Il Sole 24 Ore S.p.A.
PRESIDENTE: Benito Benedini
AMMINISTRATORE DELEGATO: Donatella Treu
Le lettere vanno inviate a:
Il Sole-24 Ore Lettere al Sole-24
Via Monte Rosa, 91
20149 Milano
email: [email protected]
includere per favore nome,
indirizzo e qualifica
Purtroppo da mesi il presidente della
Banca centrale europea, Mario Draghi, è costretto a farsi supplente dell’Europa che c’è sempre meno per
scongiurarne l’implosione, insieme a
quella dell’euro. Non è un caso che
anche ieri, per l’ennesima volta, annunciando nuovi interventi di stimolo monetario ha invitato i Governi a
fare a loro volta la propria parte per
favorire il rilancio dell’economia europea. Puntando su riforme strutturali accelerate e conti pubblici sani.
Sperare che l’Europa attuale possa
fare qualcosa di più dell’attuale modesto piano Juncker per gli investimenti è una pia illusione. I nazionalismi che la tormentano non sono solo
politici e sociali, sono anche economici e finanziari. In parole povere
l’atteggiamento diffuso è quello del
ciascun per sé e Dio per tutti.
COMPETITIVITÀ / 1
Sul lavoro la sfida delle medie imprese
Dopo lo tsunami,
ricostruzione e dubbi Per il Rapporto Istat sono quelle che più aumentano l’occupazione
IL GIAPPONE 5 ANNI DOPO FUKUSHIMA
di Fabrizio Onida
di Stefano Carrer
U
na ricostruzione che per alcuni aspetti sembra
appena cominciata e per altri appare troppo dispersiva e ciclopica, contemporanea a un decommissionamento del complesso nucleare di
Fukushima Daiichi che resta in una fase iniziale. A cinque
anni dallo tsunami, non è chiaro se il Giappone abbia appreso appieno la lezione della tragedia dell’11 marzo 2011.
In questi giorni a Roma l’ex premier Naoto Kan ha ricordato che dovette porsi il problema se ordinare l’evacuazione dell’intera area metropolitana di Tokyo. È un
fatto, però, che la crisi è dimenticata. I giapponesi hanno
punito il governo di allora e votato un esecutivo con un
programma di riattivazione delle centrali eventualmente anche in aree densamente popolate. Se fino a 4 anni fa i
turisti disertavano per paura il Sol Levante, ora arrivano
in numeri da record, indifferenti alla circostanza che
8mila persone al giorno lavorano a Fukushima Daiichi,
principalmente per contenere il problema dell’acqua radioattiva. Nessun altro Paese che avesse tanto sofferto
per il nucleare (militare e civile), probabilmente, avrebbe
fatto scelte simili, determinate da un mix di ragioni economiche, politiche e strategiche. Ora però si sta profilando una guerra tra governo e magistratura, dopo che un tribunale ha ordinato la sospensione dell’attività in una delle due centrali rimesse in funzione (nonostante il via libera da parte delle autorità di regolamentazione in base a
nuove regole che, va detto, rendono in teoria quelli giapponesi gli impianti più sicuri del mondo).
Intanto basta fare un giro per le aree colpite dallo tsunami per rendersi conto che l’intera costa orientale del
Giappone settentrionale è un immenso cantiere, fin troppo favorevole all’industria delle costruzioni. Il controverso piano per costruire 400 chilometri di barriere antitsunami (la “Grande Muraglia Giapponese”) al costo minimo esorbitante di mille miliardi di yen, ad esempio, non
appare rispettoso di una sana analisi del rapporto costibenefici. Procedere in contemporanea a costruire alte
barriere e ad alzare il terreno su cui costruire le case comporta oneri sproporzionati, tanto più in Paesi spesso in
via di spopolamento. “Democrazia” e diritti di proprietà,
inoltre, hanno oggettivamente provocato gravi ritardi
nelle opere più urgenti, tanto che ancora quasi 60mila
persone vivono in prefabbricati provvisori in cui avrebbero dovuto stare per non più di due anni. Molte comunità hanno perso troppo tempo per decidere dove e come
ricostruire, mentre si è scoperto che la situazione dei registri immobiliari non è da Paese avanzato: individuare e
rintracciare i singoli proprietari di specifici lotti da espropriare per la ricostruzione ha comportato tempi e sforzi
spropositati. L’impennata dei costi dei materiali – legata
anche al decollo dei lavori per le Olimpiadi di Tokyo – ha
infine messo in difficoltà chi voleva ricostruirsi la casa da
sé. Alla fine, viene spontanea una domanda: se con un processo di ricostruzione tanto oneroso da funzionare come
un permanente stimolo fiscale, uno yen debole e il petrolio a picco, una politica monetaria ultraespansiva e un
boom di turismo straniero, l’economia giapponese fatica
a restare sopra la soglia della recessione, come sarà la performance del Paese se condizioni tanto favorevoli dovessero svanire? Il problema si porrà soprattutto a ricostruzione e Olimpiadi terminate. E forse anche prima.
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AP
Dopo 5 anni. Prosegue l’opera di bonifica attorno a Fukushima
G
iunto al suo quarto anno, il Rapporto Istat sulla competitività
dei settori produttivi, presentato lo scorso 24 febbraio a Roma, continua la tradizione di unire alla
fotografia di dati aggregati diversi approfondimenti su dati individuali (micro) delle imprese. Sappiamo bene ormai quanto divaricate sono le performance delle imprese, non solo confrontando settori e territori diversi, ma
soprattutto guardando all’interno dei
medesimi settori, territori e classi dimensionali (dalle microimprese con
meno di 10 addetti alle medie e grandi). È
la riscoperta dell’eterogeneità microeconomica, ben nota ai classici (da Smith a Marshall, Keynes, Schumpeter) ma
un po’ disprezzata dagli economisti neoclassici fino a pochi anni fa.
Tra i molti aspetti toccati dall’ottimo
rapporto Istat di quest’anno, incentrato sulla dinamica dell’occupazione, ne
colgo alcuni utili per ragionare sulla dinamica della nostra produttività, che
Auto, in Emilia un modello da imitare
di Patrizio Bianchi
C
on la presentazione in borsa
della Ferrari, negli scorsi mesi,
si riaccende il faro sulla industria italiana dell’automobile,
dopo un lungo periodo che ha visto progressivamente ridursi la produzione nel
nostro paese dal mitico picco di
1.971.969 auto prodotte nel 1989 alle 388
mila unità del 2013. Meno di 400 mila auto all’anno, corrispondenti ad uno scarno 0,6% della produzione mondiale voleva dire quasi un’uscita da un settore in
cui invece i cugini tedeschi rimanevano
ben saldi, con i loro cinque milioni e
mezzo di vetture prodotte in una Germania, che totalizzava ancora l’8,3%
della produzione mondiale, terzi nella
corsa dietro ai resistenti produttori
giapponesi, che si assicuravano il secondo posto con i loro otto milioni di
auto pari al 12,5%, e tutti dietro agli irresistibili marchi cinesi che con diciotto
milioni di auto erano passati dall’8,4 del
2005 al 27,7% della produzione mondiale di auto nel 2013.
Da allora molte cose sono già cambiate e gli irresistibili Bric stanno segnando
pesantemente la corda; Brasile e Russia
stanno affrontando crisi interne durissime, la Cina sta misurando se stessa con
una riduzione drastica dei ritmi di crescita, che mette a dura prova la stessa
struttura del potere cinese, sia all’interno ed all’esterno del paese.
In questo quadro tuttavia la produzione italiana di automobili registra una
sensibile crescita che va tuttavia misurata più in valore che nel numero dei veicoli prodotti che pure crescono nel 2015
oltre il 70% rispetto all’anno prima, già
in crescita rispetto al 2013. È successo infatti che all’aumento della estensione
del mercato – dai mercati nazionali ai
mercati continentali e da questi ai mercati globali – il mercato cambia, si trasforma e soprattutto si segmenta e così
si generano due mercati separati, con
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(1-9 addetti), tipicamente caratterizzate
da una minore intensità di capitale, minori economie di scala e conseguente
minore produttività per lavoratore
(Rapporto annuale Istat 2015, cap. 3). Si
ricordi che la produttività (valore aggiunto) per addetto assai più che raddoppia, passando dai 27.000 euro delle
microimprese ai 67.500 euro delle cosiddette “grandi” imprese con più di 250
addetti (Istat report 9 dicembre 2015).
Le tendenze recenti evidenziate dall’Istat, riflesso della lunga durata della
crisi post-2008, accentuano dunque lo
strutturale “nanismo” del nostro apparato produttivo, una delle maggiori cause del citato arretramento relativo della
nostra produttività. Basti ricordare che,
tra industria e soprattutto servizi, in Italia le microimprese pesano per il 47 per
cento degli occupati, contro una media
UE del 29 per cento. Reciprocamente, le
“grandi” imprese assorbono in Italia
soltanto il 20 per cento degli occupati,
contro il 28 per cento della Spagna, il 37
per cento in Francia e Germania, il 46
per cento nel Regno Unito.
Terzo, un altro dato incoraggiante
per le medie imprese: sempre nel triennio 2012-2015 quelle più produttive, tanto più se più giovani e maggiormente
proiettate sui mercati internazionali,
sono anche quelle che più hanno contribuito ad aumentare l’occupazione
(quindi circolo virtuoso dal Pil alla produttività e non viceversa).
Infine, a proposito di eterogeneità tra
imprese anche all’interno della stessa fascia dimensionale (aspetto che la politica industriale degli incentivi a pioggia
tende a dimenticare), già il citato rapporto annuale Istat 2015 notava che in tutte le
fasce dimensionali – ad eccezione delle
microimprese – le imprese più produttive (appartenenti al quarto quartile della
distribuzione statistica) mostrano una
produttività per addetto superiore a
quella mediana del quartile superiore.
Sono le imprese più dinamiche, vincenti
nella competizione internazionale, verso cui dovrebbe essere maggiormente
rivolta l’attenzione del policy maker.
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Competitività / 2. La sinergia che funziona tra università e aziende
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da quasi un ventennio mostra un preoccupante peggioramento nei confronti internazionali.
Primo, una buona notizia: considerando il campione chiuso delle imprese
risultate attive lungo l’intero triennio
2013-2015, quindi al netto di nascite e
cessazioni di attività, il saldo tra posizioni lavorative create (1,1 milione) e distrutte (845 mila) è stato positivo
(255mila), contribuendo così alla pur
lenta recente ripresa del tasso di occupazione 15-64 anni, dopo il vistoso calo
dal livello pre-crisi (58-59 per cento) al
minimo del 55 per cento nel gennaio
2014. In particolare, le imprese di media
dimensione (50-249 addetti) hanno registrato la maggiore incidenza delle
unità in crescita occupazionale.
Tuttavia, secondo punto, la dinamicità o mobilità occupazionale (differenza
tra percentuale di imprese che hanno
aumentato e di imprese che hanno ridotto la propria domanda di lavoro) risulta crescere spostandosi dalle imprese medie e grandi verso la fascia delle
piccole (10-49 addetti) e micro imprese
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andamenti diversi ed in parte anche anticiclici, da una parte i mercati di base, in
cui il prezzo è ancora fattore dominante,
ed un mercato “premium” dove la qualità, l’immagine, la tecnologia fanno la differenza, ed è qui necessariamente che si
colloca e si deve collocare la ripresa italiana, definendo produzioni di alta gamma, che a loro volta stanno ridefinendo
una nuova geografia industriale, che
nella realtà italiana trova oggi un suo caposaldo fra il Po e l’Appennino.
Fra Bologna e Parma, con evidente
centro nella provincia di Modena, si
concentrano oggi un numero significativo di global premium player e di
subfornitori di primo livello, che definiscono un nuovo distretto dei motori, che si presenta oggi con un sistema
tecnico-scientifico, che si sta attrezzando per sostenerne la crescita, dato
dalle quattro università emiliane, da
una vasta rete di scuole tecniche e
professionali, da un apparato di ricerca, a cui contribuiscono massicciamente le sedi degli enti nazionali di ricerca presenti nell’area.
Nella sola provincia di Modena si
concentrano oggi Ferrari, Ferrari corse,
Maserati, Alfa Romeo (con le attività di
ricerca e sviluppo), a cui possiamo aggiungere Cnh – veicoli industriali, con
un fatturato complessivo che nel 2013
era di circa 6,6 miliardi di euro e 7,500 dipendenti, 190 fornitori con un fatturato
con altri 3500 dipendenti. Nel resto della regione ritroviamo Lamborghini a cui
si aggiunge Ducati, del Gruppo Volkwagen Audi, due piccole imprese ma superspecializzate, come Pagani e Tororosso (ex Minardi), la Dallara che oltre a
produrre carrozzerie per auto da corsa
ad altissima tecnologia è oggi leader
mondiale nel testing delle auto a cui si
aggiunge un’imprese come la modenese Coxa, leader nella progettazione dei
motori. Vi sono poi subfornitori della
dimensione di VM per i motori diesel, di
Bosch Rexroth, di Marelli, e una varietà
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di subfornitori di qualità che insieme
fatturano altri tre miliardi di euro, con
quasi diecimila addetti.
Ciò che deve essere rilevato di questa area è la nuova concentrazione che
si è creata soprattutto nelle attività di
ricerca e sviluppo, che raggiunge il suo
massimo nelle componenti elettroniche, nei materiali e nella progettazione
e testing dei motori, con un suo apice
GIORNALISMO
Premio Ischia
al gruppo Raqqa
pIl premio Ischia Internazionale 2016
va a «Raqqa is being slaughtered silently», gruppo di giornalisti e attivisti dei
diritti umani che pubblicano a Raqqa in
Siria un sito web e pagine di social che
testimoniano le violenze commesse
contro la popolazione civile dall'Isis e
dal regime di Assad. La giuria con questo riconoscimento ha sottolineato il lavoro ammirevole in un città devastata,
dove il dovere di informare comporta il
rischio della propria vita. I «giornalisti
dell’anno» sono il vicedirettore del
Corriere della Sera, Barbara Stefanelli,
ideatrice del blog «La 27/ma ora», l’inviato di Sky Tg 24 Pio D’Emilia, autore
dei reportage sui migranti e su Fukushima, Pierluigi Pardo, conduttore del programma sportiva Tikitaka di Mediaset,
mentre a Francesca Fialdini va un riconoscimento speciale, nel segmento “Infotainment”, per la conduzione del programma “Uno Mattina” della Rai. La
premiazione avverrà il 1° luglio alle
21,00 nel corso di uno spettacolo organizzato dalla Fondazione Premio Ischia
in piazza San Restituta a Lacco Ameno e
sarà preceduta da una serie di dibattiti,
ripresi dalle telecamere di Sky TG 24.
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nel comparto delle vetture da competizione, che sono il vero laboratorio del
settore automotive.
Nella nuova geografia europea tali
addensamenti si ritrovano nel Baden
Württemberg dove sta crescendo la iniziativa detta «Arena 2036», in cui diversi produttori di primo livello hanno insediato nel campus della Università di
Stoccarda un centro di ricerca sui veicoli di nuova generazione, nella Motor valley inglese, tra Birmingham e Warwick
dove si sta concentrando un National
automotive innovation center, fortemente integrato tra imprese ed istituzioni pubbliche. A Torino l’insediamento dentro al Politecnico del centro
di ricerca e formazione di General Motors ha indubbiamente rilanciato le attività in un territorio, che pur avendo sofferto di profonde ristrutturazioni è ancora di riferimento nel settore. Del resto
nella Motor Valley emiliana si stanno
consolidando soprattutto intorno al
tecnopolo di Modena e di Bologna significativi investimenti pubblici e privati in
ricerca e alta formazione formazione
appunto nella area “premium” cioè sulla fascia alta delle produzioni.
Questa nuova geografia si fonda su
una profonda integrazione fra imprese,
università e enti pubblici di ricerca, con
il bisogno di consolidare nuove grandi
infrastrutture di ricerca per la gestione
di masse inedite di dati, generazione di
nuovi materiali on demand e strutture di
testing e prova, il cui peso però non possono essere definiti per servire ambiti
locali, ma debbono candidarsi a divenire il centro di sistemi hub and spoke di dimensione almeno europea.
Questo per il settore automotive, ma
egualmente si deve ragionare per le altre filiere su cui si sta riorganizzando
l’industria mondiale in questa fase in cui
gli irresistibili paesi emergenti stanno
già anzitempo mostrando segni di senilità e la vecchia Europa ha una occasione
per ringiovanirsi. Mai come oggi la nuova politica industriale passa per la capacità di generare convergenza ed integrazione fra sistema produttivo e sistema
nazionale della ricerca.
INTERVENTO
Coraggio
per uscire
dal vicolo cieco
della crisi
di Giorgio La Malfa
G
iampaolo Galli mette in
guardia il Governo dal farsi
tentare dalla proposta di una
politica straordinaria di
stimolo fiscale che faccia ripartire
davvero l’economia italiana. Fa tre
obiezioni e invita “a non abbandonare la
strada della riduzione del deficit.” Il
problema è che Galli trascura il punto di
partenza del mio ragionamento e cioè
che finora il Governo si è attenuto alla
strada da lui proposta cercando di far
ripartire l’economia italiana senza
violare i vincoli del fiscal compact.
L’esperimento è fallito: la ripresina si va
spegnendo, come certifica l’Istat, e
l’Italia mancherà nel 2016 agli impegni
del fiscal compact sia per il deficit che
per il rapporto debito-Pil, come si legge
nella lettera della Commissione
Europea di ieri.
Dunque, dopo due anni l’economia
non riparte e le procedure di infrazione
si avvicinano. Continuare così o
cambiare strada?
Delle 3 obiezioni di Galli solo una è
sostanziale, ma non poggia su alcun
argomento. Una manovra espansiva –
dice Galli - imporrebbe domani una
manovra eguale e contraria per
riportare il deficit lungo il percorso di
rientro. Per cui questa politica potrebbe
migliorare la congiuntura oggi “ma al
costo di politiche restrittive e di una
probabile nuova recessione in futuro.”
Dimostrazione? Nessuna.
La maggior parte degli economisti
conviene invece nel ritenere che, se c'è
una capacità produttiva inutilizzata, uno
stimolo proveniente dalla domanda
creerà nuovo reddito, allevierà la
disoccupazione e produrrà un gettito
fiscale aggiuntivo che contribuirà a
rimettere in equilibrio il bilancio a un
più basso rapporto debito-Pil. Il gettito
fiscale aggiuntivo potrà essere
sufficiente a chiudere il gap, oppure no.
Se no, bisognerà immaginare (modeste)
manovre correttive, ma non è affatto
detto che i cosiddetti moltiplicatori
sarebbero allora eguali a quelli di oggi.
Sermplicemente non lo sappiamo.
Vi sono posizioni diverse fra gli
economisti su questo punto. E nessuno
può proclamare le proprie opinioni
come verità. Osservo a Galli che la
strada dell’austerità, ampiamente
esplorata in questi anni, ha lasciato
dietro di sè molte macerie e che molti
economisti partiti da altre posizioni oggi
convergono – penso ai professori
Alesina e Giavazzi e agli economisti del
Fondo Monetario – sulla mia tesi. Fallita
l’altra politica, forse è il caso di riflettere
seriamente a questa proposta.
La seconda obiezione di Galli è che
aumentare la spesa pubblica è facile,
difficile diminuirla. È una osservazione
su cui sono d’accordo: per questo ho
scritto che l’aumento del deficit
dovrebbe essere destinato alla riduzione
del prelievo fiscale e al finanziamento di
specifici investimenti pubblici.
Infine, dice Galli, i mercati finanziari
potrebbero reagire mettendo in crisi il
debito pubblico. Il rischio è reale, ma di
per sé non rende cattiva la politica
proposta. Si tratta di esserne
consapevoli e di preparare un piano
credibile che preveda, come ho scritto,
misure straordinarie di alienazione di
beni pubblici. Peraltro siamo già oggi, a
debito crescente, esposti a questo
rischio. Solo una forte crescita reale
dell’economia può disinnescare la mina.
Conclusione. Se la politica condotta
in questi due anni avesse funzionato, se
ci fosse la ripresa promessa,
accompagnata da una riduzione della
devianza dei parametri della finanza
pubblica, Galli avrebbe titolo a proporre
di non cambiarla. Ma l’Italia è in un
vicolo cieco. La ripresa si è spenta, i
parametri della finanza pubblica
peggiorano. Continuando così andremo
a sbattere contro il muro del debito
pubblico. Capisco che ci voglia coraggio
per tentare una sortita. Molto coraggio e
molta credibilità.
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SUL SOLE DEL 9 MARZO
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