Habille` d`eau, immagine e tempo

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Habille` d`eau, immagine e tempo
Habille' d'eau, immagine e tempo
Voi siete una compagnia di danzatrici presenti però in molti festival di teatro. Come vedi oggi la linea
di confine tra la danza e il teatro, anche in base al lavoro che voi fate?
Personalmente non credo ad alcuna categorizzazione. Il teatro attinge alla danza per rinnovarsi. Il corpo
è oggetto di ricerca nella danza e molte intuizioni sviluppatesi in questo ambito trovano poi adeguata
manifestazione e approfondimento teorico nel contesto teatrale. Il discorso sull’interdisciplinarietà delle
arti è complesso: la sinergia dei linguaggi è costitutiva del teatro, ma non riguarda la molteplicità degli
strumenti utilizzati, piuttosto la radice comune alle arti performative: l’enigma della presenza.
La danza butoh quanto ha influenzato i vostri lavori?
La pratica teatrale di Habillè d’Eau non è butoh. Certo l’esperienza con Masaki Iwana è stata
importante e del butoh manteniamo l’attitudine performativa, ma Iwana lavora con modalità di
linguaggio, stimoli culturali e finalità completamente diverse dalle nostre; inoltre danza
prevalentemente solo. Il nostro lavoro ha come obiettivo un oggetto corale complesso. La regia è molto
dettagliata, la luce e il suono hanno una funzione strutturale e c’è un’estrema cura dell’istante: in ogni
momento sappiamo esattamente quello che deve succedere.
Un corpo controllato, quindi…
Lavoriamo sulla presenza. Come poi essa si manifesta è la conseguenza di un approfondimento, di una
discesa nell’essere che può tradursi in danza, teatro, suono o canto. Credo che sia questo atto di
presenza ad unire il danzatore, l’attore, il performer.
A Contemporanea presentate Camera, un lavoro sul tempo. Come lo avete sviluppato?
Abbiamo indagato il tempo lavorando sulla sfasatura esistente tra tempo oggettivo e percezione della
durata da parte dello spettatore, tra tempo matematico e tempo qualitativo. Camera è un esperimento
sulla percezione di blocchi di durata disposti lungo l’asse orizzontale, sulla successione e il suo inverso,
un conto alla rovescia sul vettore tempo che dimensiona e orienta lo spazio stesso. Mi interessa che lo
spettatore si accorga di sentire passare il tempo. Se tu vedi un’azione per la prima volta le attribuisci
una certa durata; se poi magari la rivedi può sembrarti più lunga o più breve, e ti accorgi di questo
scarto temporale che vivi. In scena un orologio con segnale sonoro indica allo spettatore l’ora esatta e
decreta la durata oggettiva dell’evento.
A luglio presenterete un progetto al Festival Armunia di Castiglioncello di cui Camera fa parte…
Un primo studio dello spettacolo che faremo è stato presentato già l’anno scorso al Festival di
Santarcangelo. Lì l’atto aveva come unico oggetto la percezione di un segmento temporale
discrezionalmente definito. Camera è un’ulteriore articolazione di questo percorso sul tempo, ma in
questa forma non ricomparirà nel prossimo lavoro. A Castiglioncello non presenteremo lo spettacolo
definitivo, ma un’ulteriore studio, più ricco, che avrà la durata canonica di un’ora.
Una ricerca che dura quindi da un’anno…
Il fatto è che noi non abbiamo un posto nostro dove poter lavorare. Il nostro benefattore, il Teatro Furio
Camillo di Roma, ci lascia usare una piccola sala, ma non è ovviamente sempre disponibile; mentre per
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me è più importante il lavoro quotidiano che la rappresentazione finale dal punto di vista economico.
Dal punto di vista economico lo spettacolo con il pubblico è uno strumento che dovrebbe garantire la
possibilità di andare in sala ogni giorno.
Non ricevete nessun finanziamento o sostegno?
No, assolutamente. Ma l’economia scomposta della danza non riguarda solo la nostra compagnia, è una
situazione generale diffusa. Occorrerebbe un serio chiarimento sui criteri della distribuzione delle
risorse esistenti, sulla responsabilità delle direzioni artistiche, sulla circuitazione della danza nei teatri.
Sostenere una compagnia di cinque persone è quasi impossibile, ma non è un discorso sul guadagno che
mi interessa sviluppare qui, il problema è che poi questa condizione di estremo disagio non deve avere
ripercussioni sulla determinazione e la qualità del nostro lavoro.
Habillé d’Eau è una compagnia creata dal danzatore butoh Masaki Iwana in Francia nel 1996 con
Yoko Muronoi e Silvia Rampelli in qualità di responsabile. Dopo un periodo di stasi, la compagnia
viene rifondata nel 2002 in Italia da Silvia Rampelli con Alessandra Cristiani, Andreana Notaro,
Elisabetta di Terlizzi e, inizialmente, Francesca Proia. Il gruppo così formato debutta nel luglio 2002
con Studio per Attis, vincitore del festival Enzimi 2002. Nel 2003 producono Refettorio. Atto unico
sull’obbedienza, che viene segnalato al Premio Scenario (motivazione: “In una partitura coreografica
che fa riferimento ad un linguaggio codificato ma aperto, la compagnia Habillé d’Eau di Roma colora
di chiaroscuri occidentali la danza butoh. Si svelano tensioni, emozioni ed un filo narrativo che supera
la forma in sospensione temporale e visionarietà, confermando le premesse di un progetto che si segnala
per originalità e coerenza”). Refettorio partecipa anche all’edizione 2004 dell’International Teatarfest
di Sarajevo, ed è vincitore del premio “per l’originalità delle tecniche e del linguaggio corporeo”. Nel
2005 creano Ragazzocane, presentato alla Biennale di Venezia dello stesso anno, diretta da Romeo
Castellucci. Nel 2006 Habillé d’Eau presenta al Festival di Santarcangelo il primo studio di un nuovo
progetto che debutterà al Festival Armunia di Castiglioncello nel luglio 2007.
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