dispense di storia contemporanea - Università per Stranieri "Dante

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dispense di storia contemporanea - Università per Stranieri "Dante
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DISPENSE DI STORIA CONTEMPORANEA PER CORSO DI LAUREA MAGISTRALE
LM-94
QUESTO TESTO E’ TRATTO DA LIBRI E SAGGI, IN GRAN PARTE EDITI, DEL
DOCENTE PROF. PAOLO BUCHIGNANI
IL MITO DELLA RIVOLUZIONE DAL RISORGIMENTO AL FASCISMO
1. “L’ideologia italiana”
Sono in molti a pensare che i mali dell’Italia di oggi, la difficoltà di affrontare annosi problemi con
riforme coraggiose e necessarie, sia imputabile ad un deficit di liberalismo e di riformismo nella
cultura politica dell’attuale classe dirigente.
In effetti, se analizziamo la storia del nostro Paese negli ultimi due secoli, ci rendiamo conto di
quanto difficile, dopo l’Unità, sia stato il cammino delle democrazia liberale, di quanto fragile fosse
il nuovo Stato, minacciato sia dall’ostilità delle masse cattoliche e socialiste (forze antisistema
riluttanti a lasciarsi nazionalizzare), sia da quella delle élites intellettuali che contribuirono
fortemente a delegittimarlo e a spianare la strada, prima e dopo la Grande Guerra, alla dittatura
fascista; cui, non a caso, fornirono un ampio e significativo contributo.
Tali élites erano infatti composte, per lo più, da soggetti di formazione letteraria (anche scrittori
e artisti di rilievo) portatori di una cultura mitica, moralistica e astratta, che li induceva al rifiuto e al
disprezzo della democrazia liberale (e delle sue istituzioni), bollata come formale, borghese,
ingannevole.
Privi di qualsiasi esperienza di amministrazione e di governo, digiuni di questioni istituzionali e
degli elementi basilari necessari ad una realistica gestione della cosa pubblica (come la necessità del
compromesso, della mediazione, dell’equilibrio tra le compatibilità), essi, inoltre, trattavano la
politica con le categorie della religione e dell’estetica. Di conseguenza, partivano da una analisi
apocalittica della realtà presente, giudicata come assolutamente negativa e non riformabile, ed
attribuivano a se stessi una funzione salvifica. A loro, aristocrazia intellettuale mossa dagli ideali ed
estranea agli interessi, pensavano fosse riservato l’arduo ed esaltante compito di mobilitare il
popolo, al di fuori dei canali della rappresentanza istituzionale, per scatenare una rivoluzione
violenta e radicale capace di cancellare l’”abietto” Stato liberale e borghese e dar vita ad uno Stato
nuovo e ad una “nuova civiltà”.
E’ questo il modello giacobino (del tutto estraneo al liberalismo), incentrato sul rapporto tra
l’avanguardia rivoluzionaria (guidata da un capo carismatico: Robespierre o Lenin, D’Annunzio o
Mussolini) e il popolo; concepito, quest’ultimo, non come una pluralità di soggetti portatori di
esigenze e propositi diversi ed, eventualmente, divergenti, bensì, in un’ottica totalitaria
riconducibile a Rousseau, come una unità indifferenziata e monolitica esprimente una sola
indivisibile volontà.
Non democrazia liberale, dunque, ma democrazia plebiscitaria o “totalitaria”, per dirla con Jacob
Talmon1, quella espressa dalla cultura politica sopra descritta. Una cultura che è stata di volta in
volta definita “italianismo”, “radicalismo nazionale”, oppure (in una accezione forse più ampia e
con differenti sfumature di significato e di giudizio) “ideologia italiana” 2; come a volerne
1
JACOB L.TALMON, Le origini della democrazia totalitaria, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1967. Sulla questione si
veda anche GIOVANNI BELARDELLI, Il fantasma di Rousseau Il fascismo come democrazia totalitaria, in Id., Il
Ventennio degli intellettuali, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp.237-257.
2
Di “ideologia italiana” hanno parlato in particolare: Norberto Bobbio (NORBERTO BOBBIO, Profilo ideologico del
Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, pp.3-4), Dino Cofrancesco (DINO COFRANCESCO, Destra e sinistra,
Genova, 1984, pp.32-42; id., Eredi di Gobetti? Lasciamo perdere…, in “Nuova Storia Contemporanea”, anno III, n.6,
novembre-dicembre 1999, p.152), Marcello Veneziani (MARCELLO VENEZIANI, La rivoluzione conservatrice in
Italia Genesi e sviluppo della “ideologia italiana”, Milano, Sugarco, 1987), Ernesto Galli della Loggia (ERNESTO
2
sottolineare la specificità nazionale e, insieme, la fideistica convinzione di un primato dell’Italia e
di una sua missione nel mondo quale dispensatrice di civiltà, in virtù di una prestigiosa tradizione,
al confronto della quale ancor di più risalterebbe la “miseria” del presente: l’”Italietta” di Depretis e
di Giolitti; nei confronti della quale s’imporrebbe, dunque, la necessità di una rivoluzione
palingenetica (politica, morale, antropologica) capace di restaurare, nelle condizioni del mondo
moderno, l’antico primato3.
Primato e rivoluzione, dunque, due elementi inscindibili e complementari, i due cardini
dell’”ideologia italiana”, in virtù dei quali essa è declinabile a destra e a sinistra, si colora di rosso o
di nero, si evolve in sintonia coi tempi e le circostanze, s’inabissa e riemerge, cambia pelle, ma non
si snatura. Tutto ciò le garantisce lunga vita e ampia fortuna.
Secondo Ernesto Galli della Loggia, da essa
traggono origine le tre peculiari culture politiche che l’Italia ha dato al Novecento: il fascismo, il comunismo
gramsciano, l’azionismo gobettiano: con l’enfasi posta da tutti e tre sulle masse popolari ma insieme sulle avanguardie,
con la comune estraneità o avversione per i modi ed i valori, le mentalità del costituzionalismo liberale e le forme della
sua evoluzione storica; con la comune simpatia per l’azione, il comune disprezzo per gli interessi, ed anche – perché
no? – con il loro comune, profondo, sentimento dell’identità nazionale e della sua storia.
[…] i materiali, le categorie concettuali, di cui quell’ideologia era storicamente fatta possedevano di per sé un altissimo
tasso di ambiguità – a cominciare da quella di popolo a quella di avanguardia (non a caso due categorie affatto estranee
ad ogni possibile concezione liberale ed invece decisive per ciò di cui stiamo parlando) ed in forza di tale ambiguità
possedevano altresì un’ampia varietà di esiti pratici.4
L’idea del riscatto dell’Italia da secoli di servitù, di divisione, di degrado morale, è presente fin
dal Medioevo: dalle invettive appassionate, dagli accorati appelli di Dante e di Petrarca; e poi, nel
Rinascimento, in primis, nell’opera di Machiavelli, fino al ‘700 di Parini e di Alfieri, fino a Foscolo,
a Manzoni, a Leopardi: la nostra storia culturale e letteraria ne è profondamente segnata. Ma è a
partire soprattutto dal pensiero romantico e mistico di Mazzini, che questa idea comincia ad
assumere i connotati dell’“ideologia italiana” sopra descritta.
Profeta del Risorgimento e dell’Unità, il grande Genovese diviene fustigatore feroce del regno
formatosi nel 1861, che definisce “menzogna d’Italia”, “organismo inerte”, cui mancano “l’alito
fecondatore di Dio, l’anima della Nazione” 5. Esso sarebbe il frutto del moderatismo egoistico della
monarchia sabauda, delle astuzie diplomatiche di Cavour, che hanno impedito la presa di coscienza
del popolo e soffocato la sua iniziativa rivoluzionaria, dalla quale soltanto poteva nascere la “vera
Italia”, la “terza Roma del popolo”.
Con Mazzini nasce il mito del Risorgimento come rivoluzione tradita e/o incompiuta, un mito
vitalissimo e persistente, più vivo che mai non soltanto nei suoi eredi politici, in quelli di Garibaldi,
di Pisacane e, più in generale, della componente democratica del moto unitario uscita sconfitta dal
confronto coi moderati, ma anche in larga parte delle culture politiche del ‘900: in primis nel
GALLI DELLA LOGGIA, La conquista regia, in AA.VV., Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999,
p.25; id., Le lontane origini dell’ideologia italiana Alfredo Oriani e “La Rivolta Ideale”, in “Nuova Storia
Contemporanea”, anno III, n.6, novembre-dicembre 1999, pp.13-28). A Emilio Gentile sono dovute le espressioni
”italianismo” e “radicalismo nazionale”, per designare un ambito forse più circoscritto, ma non molto diverso: cfr.
EMILIO GENTILE, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp.3-29.
3
Dino Cofrancesco evidenzia quelli che definisce gli “esiti catastrofici” della “ideologia italiana, con la sua perenne
insoddisfazione nei riguardi dell’esistente, col suo rifiuto della prosa postunitaria (per dirla col Croce), con le sue
istanze palingenetiche e le attese di rivoluzioni (in nome della Nazione o della Classe) che le avrebbero riservato status,
prestigio e potere.” (DINO COFRANCESCO, Eredi di Gobetti? …, cit., p.152).
4
5
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Le lontane origini dell’ideologia italiana, cit., p.18.
Cit. in GIOVANNI BELARDELLI, Una nazione senza anima: la critica democratica del Risorgimento, in Due
nazioni Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di Loreto Di Nucci e Ernesto
Galli della Loggia, Bologna, Il Mulino, 2003, p.43.
3
comunismo, nel fascismo, nell’azionismo, nel socialismo massimalista. Ognuna di queste
formazioni politiche ha attribuito a se stessa la missione di completare, attraverso una rivoluzione,
il processo risorgimentale interrotto, per dar vita a quell’”Italia grande e popolare” che era il sogno
del Profeta genovese e dell’Eroe dei due mondi.
Non soltanto: ognuna di esse, nelle sue componenti più radicali e millenaristiche, ha denunciato
come “incompiute” o “tradite” anche le rivoluzioni successive nella loro realizzazione storica.
“Tradito” il fascismo nella interpretazione che di esso danno i fascisti rivoluzionari; “tradita” la
Resistenza dall’establishement moderato facente capo alla Dc, secondo le forze della sinistra
antifascista.
Responsabile di tutti questi “tradimenti”, dal Risorgimento alla Resistenza, quella stessa
borghesia moderata che, sotto mutate spoglie, continua a dominare. La storia d’Italia, insomma, non
sarebbe altro che una storia di “rivoluzioni tradite”. L’ultima quella del ’68, nell’opinione dei suoi
protagonisti, la sinistra extraparlamentare; rei, questa volta, i dirigenti del partito comunista,
accusati (come già i gerarchi fascisti dai sovversivi in camicia nera) di involuzione moderata e
borghese.
D’altronde, per chi interpreta la politica con le categorie del radicalismo religioso, tutte le
rivoluzioni non possono essere che “tradite”, perché nessuna è in grado di realizzare quell’utopia
che sta di casa soltanto nei sogni astratti e totalitari di certi intellettuali, assai pericolosi qualora
riescano a impadronirsi del potere, come la storia del ‘900 ha drammaticamente insegnato.
Ma l’”ideologia italiana”, nel transitare da Mazzini al ‘900, investe ambienti intellettuali, culture
politiche, autori assolutamente significativi nell’Italia a cavallo tra i secoli XIX e XX. Dal Carducci
repubblicano (prima della conversione alla Monarchia) a D’Annunzio, da Verga a Pirandello, da
Alfredo Oriani al sovversivismo politico e culturale primonovecentesco di vociani e lacerbiani,
futuristi, sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti, fino ad arrivare a Gobetti, a Gramsci, a Mussolini
che sono i padri fondatori delle principali culture politiche del ‘900 italiano: i quali, pur nella loro
diversità, tutti e tre fanno propria la stessa interpretazione del Risorgimento come rivoluzione
tradita e incompiuta; tutti e tre attribuiscono alle formazioni politiche o culturali da loro promosse il
compito di portare a termine, attraverso una rivoluzione nazionale e popolare, il processo
risorgimentale interrotto; tutti e tre, per questi motivi, si dichiarano convinti estimatori di Alfredo
Oriani, il cui pensiero, come ha opportunamente osservato Galli della Loggia, costituisce, anche per
la sua magmaticità e ambiguità, uno snodo decisivo dell’”ideologia italiana”6.
Se Gobetti, profondo conoscitore di Oriani, non manca di confessare “tutto il mio debito” verso
di lui, se Antonio Gramsci considera il pensatore romagnolo “come il rappresentante più onesto e
appassionato della grandezza nazional-popolare italiana fra gli intellettuali della vecchia
generazione”7, Benito Mussolini lo definisce “astro luminoso”, “Poeta della Patria”, “anticipatore
del Fascismo”, al quale spetterebbe la missione di realizzare storicamente la profezia orianesca8.
In Oriani, sia il padre dell’azionismo sia il massimo teorico del comunismo italiano, sia il
fondatore del fascismo individuano non soltanto l’idea del Risorgimento “tradito” e della necessità
di completarlo, ma anche l’idea mazziniana di un primato italiano. Un primato estraneo al
nazionalismo corradiniano e avente, al contrario un respiro rivoluzionario e cosmopolita.
Se per Mazzini e per Oriani, infatti, spetta all’Italia del “popolo” la missione di guidare le altre
nazioni nella lotta contro l’assolutismo, per i “fascisti rivoluzionari”, per esempio, la Penisola,
tornata sede dell’Impero, deve diventare il centro di irradiazione della rivoluzione e della civiltà
“universale” del fascismo; analogamente, per Antonio Gramsci, recluso nelle carceri del regime
mussoliniano, “la ‘missione’ del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e
medievale, ma nella sua forma più moderna e avanzata” 9: in altre parole, spetta ai comunisti italiani,
6
E.GALLI DELLE LOGGIA, Le lontane origini dell’ideologia italiana, cit., p.18.
7
Le citazioni da Gobetti e da Gramsci sono contenute in ivi, p.16.
8
BENITO MUSSOLINI, Prefazione ad ALFREDO ORIANI, La rivolta ideale, Bologna, Cappelli, 1924, pp.IV-V.
9
4
eredi di quella stessa tradizione “cosmopolita” (e come tale superiore) diffondere il comunismo nel
mondo; ma perfino, aggiungerei, è possibile rintracciare elementi di questa visione, nel Pci degli
anni ’70, intenzionato a proporsi come il “laboratorio politico” (così s’intitolava una rivista diretta
in quel periodo da Alberto Asor Rosa) e il modello dell’”eurocomunismo”.
2. Sovversivismo antigiolittiano
Una tappa assai significativa nello sviluppo dell’”ideologia italiana” è costituita dal quindicennio
giolittiano che precede la Grande Guerra. In quegli anni, infatti, quella cultura politica, che si
manifesta principalmente nel sovversivismo piccolo-borghese delle élites intellettuali (futuristi,
vociani, sindacalisti rivoluzionari, nazionalist), si arricchisce e si potenzia con il contributo delle
correnti irrazionalistiche ed antidemocratiche provenienti dall’Europa: dal pensiero di Nietzsche a
L’Unico di Stirner, da Carlyle a Bergson, a James, da Péguy a Lagardelle, dalla Psicologia delle
folle di Le Bon alle Considerazioni sulla violenza di Sorel.
Di conseguenza essa assume un carattere sempre più aggressivo ed eversivo non soltanto nei
confronti della classe dirigente giolittiana, ma anche dello Stato liberale e delle sue istituzioni. Uno
Stato delegittimato e vilipeso, in quanto ritenuto anacronistico e corrotto (il Parlamento non sarebbe
il luogo della rappresentanza, ma un ricettacolo di corruttela e di inganni), gretto e rinunciatario,
fondato sugli interessi ed estraneo agli ideali: “borghese”, insomma, con un termine che vuole
essere il compendio negativo di tutto questo. Una rivoluzione dovrebbe abbattere quell’”organismo
inerte”, falsamente democratico, e sostituirlo con un mitico “Stato nuovo”, dai connotati assai vaghi
e mutevoli, in relazione all’eterogeneità dei soggetti che ne auspicano l’avvento, ma, comunque,
antiliberale e antidemocratico, di matrice giacobina, sostanzialmente autoritario o totalitario. Con
queste premesse, dopo la grande guerra, nascerà lo Stato fascista, come sarebbe potuta sorgere, di
fronte ad un diverso esito dello scontro tra socialisti e fascisti, una dittatura bolscevica.
Il carattere religioso e totalitario, oltre che utopistico e astratto, dello “Stato nuovo di cui futuristi,
anarco-sindacalisti e vociani si fanno banditori e profeti, viene precocemente colto da Filippo Turati
e Luigi Salvatorelli. Il primo definisce questi soggetti “mistici”, “messianici”, “perfetti esteti” 10. Il
secondo afferma che essi si battono per la realizzazione di “una società umana costretta ad agire e
soffrire eroicamente a vuoto: una specie di galera universale per la fabbrica del sublime11”.
Paolo Vita-Finzi rileverà più tardi che l’elaborazione teorica del loro maestro, Georges Sorel, è
“il sogno di un poeta, non la concezione di uno statista”12.
Nell’età giolittiana si creano condizioni particolarmente favorevoli allo sviluppo e alla
mobilitazione di questa intellighenzia piccolo-borghese, le cui pulsioni eversive sono il frutto non
soltanto della formazione culturale sopra descritta, ma anche dell’appartenenza ad un nuovo ceto
medio in forte espansione in seguito alla industrializzazione e alla modernizzazione in atto. Una
espansione, un accresciuto ruolo sociale ai quali non corrisponde una adeguata rappresentanza
politica. Né Giolitti, né il partito socialista avvertono tempestivamente questo problema, col
risultato di potenziare il sovversivismo antistatale, antiliberale ed antipartitico (potremmo dire
antipolitico) degli intellettuali “messianici” che di quel ceto sono espressione. Emarginati dal potere
(rimasto monopolio delle classi dirigenti tradizionali), non rappresentati dai partiti, essi, quello
Stato liberale giolittiano e quei partiti respingono con la più netta intransigenza, compreso il partito
ANTONIO GRAMSCI, Il Risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp.90-91.
10
FILIPPO TURATI, Le vie maestre del socialismo, a cura di R.Mondolfo, II edizione riveduta e ampliata da G. Arfè,
Napoli, 1966, pp.92-100; cit. in GIAN BIAGIO FURIOZZI, Sorel e l’Italia, Messina-Firenze, D’Anna, 1975, p.217.
11
“La Cultura”, giugno 1934; cit. in PAOLO VITA FINZI, Le delusioni della libertà, Milano, Pan Editrice, 1979, p.35.
12
Ivi, p.34.
5
socialista, accusato (specie nella sua componente riformista) di essere divenuto complice di quel
sistema che avrebbe dovuto sovvertire.
Ne consegue la scelta di questa avanguardia di scrittori e di artisti di esercitare un’azione politica
diretta non solo nei confronti del ceto cui appartengono, ma anche delle masse, attraverso strumenti
alternativi: giornali, riviste, movimenti, nuovi piccoli partiti.
Come i filosofi e i letterati illuministi nella Francia rivoluzionaria del XVIII secolo, così anche
vociani e lacerbiani, sindacalisti soreliani e futuristi, nuovi giacobini, assumono un atteggiamento
messianico e si autocandidano alla guida del paese.
Ecco allora che Prezzolini fonda “Il Leonardo” e “La Voce”; Papini e Soffici “Lacerba”;
Gaetano Salvemini (vociano e socialista fuoriuscito dal Psi) “L’Unità”; Filippo Tommaso Marinetti
il movimento futurista, che poi finisce per assumere importanti connotazioni politiche; il vociano
Benito Mussolini si serve, dapprima dell’”Avanti!” e, soprattutto, di “Utopia” per elaborare e
realizzare una linea alternativa a quella del suo partito, dal quale alla fine sarà espulso dopo aver
fondato “Il Popolo d’Italia” il 15 novembre 1914. (Su questa linea, nel dopoguerra, Marinetti
fonderà il Partito politico futurista, Mussolini i “Fasci”, da lui definiti “antipartito dei combattenti”).
3. La “Grande Guerra rivoluzionaria”
Se l’attivismo ed il peso politico di questa élite intellettuale si accrebbero con l’impresa libica
del 1911-12, fu lo scoppio della grande guerra a scatenare d’improvviso tutte le sue potenzialità
eversive. Interventisti accesi, questi soggetti interpretarono quell’evento come uno sconvolgimento
epocale che avrebbe seppellito per sempre la civiltà liberale e borghese con l’odiata “italietta
giolittiana”, e aperto la strada a quello “Stato nuovo” e a quella “nuova civiltà” coincidenti con la
loro millenaristica utopia. Una guerra, dunque, come palingenetica rivoluzione, dopo la quale nulla
sarebbe stato come prima e un nuovo mondo sarebbe sorto sulle ceneri di un Occidente al tramonto.
Per i sindacalisti rivoluzionari e per Benito Mussolini (leader interventista), dalla guerra nascerà
una rivoluzione nazionale e sociale; lo stesso per i futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso
Marinetti, il quale, come è noto, già nel Manifesto del futurismo del 1909 aveva definito la guerra
“la sola igiene del mondo”; analogamente, per Giuseppe Prezzolini (“La Voce”, 28 gennaio 1914),
“Una civiltà che minaccia di stancarsi ha bisogno d’una guerra o d’una rivolta per riprendere
vigore”. Per Gabriele D’Annunzio, dal quale molti di questi intellettuali vociani prendono le
distanze, ma di cui subiscono, anche inconsapevolmente, l’influenza e il fascino, la guerra è
“l’immensa fornace” che “il nostro genio” vuole resti accesa “sinché tutto il metallo si strugga,
sinché la colata sia pronta, sinché l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente della
resurrezione”13.
Sulla base del comune radicalismo irrazionalistico e attivistico, aristocratico e populista nello
stesso tempo, sindacalisti rivoluzionari, futuristi e vociani, si propongono, dunque, di mobilitare le
masse e guidarle ad una rivoluzione nazionale, sociale e antropologica. Una rivoluzione che,
sorelianamente, si configura come “guerra rivoluzionaria”, finalizzata alla cancellazione della
civiltà borghese sia nella sua dimensione interna (lo Stato liberale giolittiano, in primo luogo) che in
quella internazionale, ed alla realizzazione del Risorgimento prefigurato e auspicato da Mazzini e
da Oriani.
Come i fascisti rivoluzionari durante il Ventennio, già questi loro “padri” sovversivi, agli albori
del XX secolo, considerano la guerra come una preziosa occasione per un radicale rinnovamento,
per costruire una “nuova”, “grande” Italia, all’altezza del suo primato.
13
GABRIELE d’ANNUNZIO, Orazione per la Sagra dei Mille v maggio MDCCCLX-V maggio MCMXV, in Per la più
grande Italia. Orazioni e messaggi di Gabriele d’Annunzio, Milano, Treves, 1915, p.31; anche Id., Prose di ricerca, di
lotta..., 2 voll., Milano, Mondadori, 1947, vol.I.
6
La prima occasione che si presenta loro è, nel 1911-12, il conflitto italo-turco per la conquista
della Libia, al quale molti esponenti del sindacalismo, del futurismo e del vocianesimo
entusiasticamente aderiscono. Molti ma non tutti.
Totale e impetuosa, invece, sarà, di lì a poco, a partire dall’estate del 1914, l’adesione di questo
sovversivismo primonovecentesco alla Grande Guerra. Assai più della crisi tripolina, il nuovo
evento bellico, man mano che emergono la sua novità e le sue gigantesche proporzioni, mobilita e
potenzia il fronte intervista, di cui questa “aristocrazia nuova”, sempre più attiva ed aggressiva, si
rivela ben presto la punta di diamante.
A quel fronte, come è noto, appartengono anche i nazionalisti, che finiranno, nel corso della
partecipazione dell’Italia al conflitto, e, in particolare, a causa della disfatta di Caporetto e della
rivoluzione bolscevica, con l’egemonizzarlo (grazie anche al supporto decisivo del governo),
depotenziando e sterilizzando, alla fine, sul piano dell’azione politica, la carica rivoluzionaria dei
soggetti sopra descritti. I quali, tuttavia, conservano una loro identità culturale e ideologica che
continua a distinguerli dal movimento di Corradini e di Rocco, di Coppola e di Federzoni, paladini
della tradizione e dell’ordine costituito, addirittura, in un primo momento, fautori di un intervento a
fianco della Germania e dell’Impero Austro-Ungarico, fino a costituire, negli anni ’20, il nerbo del
fascismo reazionario e autoritario. Viceversa, sindacalisti, futuristi, vociani (e loro eredi), pure
ugualmente destinati ad approdare, in massima parte, al regime mussoliniano, ne costituiranno la
componente rivoluzionaria e totalitaria, non nazionalista, ma “universalista”, continueranno a
concepire la guerra come una rivoluzione e ad invocare nuove guerre per disincagliare il fascismo
dalle secche del moderatismo. In consonanza con queste posizioni, nel 1914-15, essi sono
irriducibilmente ostili alla Triplica Alleanza, sia perché molto sensibili alle ragioni
dell’irredentismo (sconfiggere l’Austria in una quarta guerra d’indipendenza per completare il
Risorgimento: e ciò li avvicina all’interventismo democratico), sia in quanto considerano gli Imperi
centrali (colpevoli, tra l’altro, di aver aggredito la Francia, culla delle rivoluzioni), come
l’incarnazione di un ordine ingiusto e “passatista”, di un’Europa conservatrice e senescente che il
conflitto mondiale dovrebbe seppellire per spianare la strada alla palingenesi sociale e nazionale,
futurista e sindacalista.
Curzio Suckert-Malaparte, per esempio, rievocando la sua precocissima milizia interventista,
non manca di sottolinearne le motivazioni risorgimentali e rivoluzionarie e di mostrare come quella
giovanile esperienza costituisca un incunabolo della sua futura adesione al sovversivismo fascista.
Scrive Malaparte:
Nell'inverno del 1914, mentre l'Italia era ancora neutrale, io piantavo in asso il liceo Cicognini e, recatomi a
Ventimiglia, attraversavo la frontiera a piedi, di notte, per arruolarmi nella Legione Garibaldina che si organizzava ad
Avignone e a Montelimar, con la quale presi parte ai combattimenti delle Argonne. La Legione Garibaldina era
composta, in grandissima parte, di sindacalisti e di anarchici. Se dovessi giudicarla oggi, con l'esparienza storica e
politica di questi ultimi venticinque anni, direi che la Legione Garibaldina era composta di "fascisti": essa fu per me
l'anticamera del fascismo. Vi predominavano tutti quegli elementi politici e sociali che dovevo poi ritrovare nel
fascismo. Non si capirebbero le ragioni della mia adesione al fascismo se non si tenesse conto di quella mia esperienza
garibaldina14.
E ancora:
[...] gli uomini, anche in guerra, non combattono tanto per la vittoria sul nemico esterno, quanto per la vittoria sul
nemico interno: combattono per la propria libertà, per una migliore giustizia sociale. Fu per me, ragazzo di sedici anni,
una scuola incomparabile, quella Legione Garibaldina, composta quasi esclusivamente di operai, socialisti,
repubblicani, anarchici e sindacalisti rivoluzionari 15.
14
C.MALAPARTE, Biografia, in “Cronache Italiane”maggio-luglio 1954; citazione da G.PARDINI, Curzio Malaparte
Biografia politica, Milano, Luni, 1998, pp.28-29.
15
C.MALAPARTE, Biografia, cit., p.68; G.PARDINI, Curzio Malaparte, cit., p.30.
7
Eredi dei sindacalisti soreliani, discepoli di Malaparte, "garibaldini" si definiranno molti tra i
giovani fascisti rivoluzionari dei primi anni '30, specie in occasione dei cinquant'anni dalla morte
dell'Eroe dei due mondi. "Garibaldini", "mazziniani", fautori di una nuova guerra non solo per fare
"grande" l'Italia (in ossequio al mito mazziniano-giobertiano-orianesco del primato italiano), ma
anche per sconfiggere il "nemico interno": la borghesia capitalistica che ha "tradito" la rivoluzione e
ne ostacola il cammino.
Bisogna rilevare, inoltre, che, dopo l’attentato di Sarajevo, la “guerra rivoluzionaria” assume ben
presto, per i sindacalisti soreliani, il fascino e la forza di un nuovo mito mobilitante, in grado di
sostituire quello dello sciopero generale, di cui gli avvenimenti del 1907 e del 1908, culminati nella
loro espulsione dal Partito socialista al congresso di Firenze, ma, soprattutto, l’esito fallimentare
della Settimana rossa del giugno 1914, avevano dimostrato l’inefficacia.
Ancor prima di questo evento, tuttavia, alcuni sindacalisti già erano divenuti accesi interventisti,
perché convinti che l’antimilitarismo e il pacifismo costituissero le cause principali della crisi del
partito socialista, ed in particolare della sua componente rivoluzionaria, sempre più ridotta ad una
impotenza operativa dal rapido evolversi della situazione politica italiana ed europea.
Sergio Panunzio, per esempio, sulla mussoliniana “Utopia”, rimprovera i socialisti per non aver
compreso la necessità di "esaltare la guerra inter-europea come unica soluzione catastroficorivoluzionaria della società capitalistica". "Altro che gridare: 'Abbasso la guerra!; chi grida così, è il
più feroce conservatore. Da questo punto di vista sembra che nessuno sia più disperatamente
attaccato al regime attuale che il Partito Socialista" 16.
Non è un caso che questa posizione di un interventismo così estremo (anche se non estensibile in
quella fase a tutto il movimento sindacalista rivoluzionario) compaia sulla rivista di Mussolini, il
quale, nello stesso periodo, ospita su "L'Avanti!" articoli dello stesso Panunzio, di Arturo Labriola,
Agostino Lanzillo, di collaboratori de "La Voce" prezzoliniana e de "L'Unità" salveminiana i:
insomma di sindacalisti soreliani, di socialisti ed estremisti più o meno eretici, di intellettuali
antipositivisti e fautori di un profondo rinnovamento culturale; di soggetti quasi tutti interventisti od
in procinto di diventarlo.
Il futuro Duce, infatti, dal 1912 asceso ai vertici del Psi e alla direzione de "L'Avanti!",
accresciuti notevolmente la sua leadership ed il suo prestigio tra le masse ed in particolare tra i
giovani, che vedevano in lui "l'uomo nuovo" del socialismo, certamente intendeva servirsi, sia del
quotidiano del partito, sia, soprattutto, della meno ufficiale e più autonoma "Utopia" (uscita a
Milano tra il novembre 1913 e il dicembre 1914), per revisionare nel profondo la cultura politica e
la linea del suo partito.
Ma quel radicale “eretico” revisionismo, se avrà in futuro significative ricadute (anche su
autorevoli esponenti del comunismo italiano come Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci),
nell’immediato non consentirà al pur già prestigioso leader romagnolo, malgrado il fascino
esercitato dalla sua personalità volitiva e dalla sua pugnace intransigenza, di conquistare le masse;
le quali non intendono seguirlo nella scelta interventista. Una scelta estranea alla mentalità ed alla
tradizione antimilitarista del movimento operaio e del socialismo italiano, una scelta figlia di una
cultura "altra", elitaria e personalistica.
Una cultura riconducibile non solo al sindacalismo, con il quale pure Mussolini da tempo
intratteneva stretti rapporti (in particolare con Sergio Panunzio e Angelo Oliviero Olivetti), ma
anche, e forse soprattutto, alla "Voce" prezzoliniana (potente veicolo di filosofie antipositiviste,
neo-idealiste, irrazionaliste), di cui egli era stato appassionato lettore, divulgatore, collaboratore.
In "Utopia", fin dall’editoriale del direttore, Al largo, che apre il primo numero del novembre
1913, è possibile rintracciare quella polemica antiparlamentare, antiriformista, antipositivista,
quell'ansia di rinnovamento intrisa di pragmatismo e di bergsonismo, di sorelismo e di
16
Cit, in R.FE FELICE, L’interventismo rivoluzionario, in Il trauma dell’intervento: 1914/1019, Firenze, Vallecchi,
1968, p.280.
8
nietzschianesimo, che si era espressa dapprima in modo astratto e confuso nel "Leonardo", per
assumere successivamente, grazie all'apporto dell'idealismo crociano e gentiliano, un carattere più
organico ed incisivo ne "La Voce".
Prezzolini, infatti, nel salutare sulla sua rivista, il 4 dicembre 1913, la nascita di "Utopia", non
manca di esprimere un giudizio lusinghiero ed assai significativo sul fondatore e direttore della
nuova pubblicazione, del resto già suo amico e corrispondente:
Diretta ["Utopia"] da Benito Mussolini, perciò di giovani. Tenta un'impresa disperata: far rivivere la coscienza teorica
del socialismo. Un'impresa che ci sembra persino superiore alle forze di B.M. che pur son tante. Quest'uomo è un uomo
e risalta tanto più in un mondo di mezze figure e di coscienze sfilacciate come elastici che han troppo servito. Una fibra
intera che sa reggere obiettivamente il giornale del partito, ma ha tanto bisogno di esser se stesso completamente da
crearsi accanto un suo organo 17.
Ben si comprende, dunque, come “Utopia” costituisca la prima significativa espressione di quel
socialismo eretico che, di lì a poco, condurrà Mussolini nel fronte interventista e fuori del partito
socialista, da cui, com’è noto, sarà espulso nel novembre 1914 dopo aver fondato “Il Popolo
d’Italia”.
Ha scritto a questo proposito Francesco Perfetti:
La prospettiva culturale del futuro capo del fascismo affondava in certo esasperato e confuso idealismo di stampo
vociano, era intrisa di bergsonismo e di sorelismo, era, tutto sommato, assai eterodossa rispetto a linee e presupposti
culturali, politici, psicologici di certo socialismo nostrano. Sotto questo profilo il passaggio di Mussolini dalla
"neutralità assoluta" alla "neutralità attiva ed operante", qual è dato cogliere dalle pagine di "Utopia", non appare più
semplicemente schematizzabile come un voltafaccia 18.
Scoppiata la guerra, esauritasi l'esperienza de "La Voce", nel fuoco della battaglia interventista,
Prezzolini ed i suoi sodali identificano ne "Il Popolo d'Italia" l'erede della rivista fiorentina, lo
considerano, come ha scritto Emilio Gentile, "una 'Voce' per i tempi dell'azione" 19. Il suo direttore,
ai loro occhi (e a quelli di tutte le élites antigiolittiane, politiche e artistico-letterarie) è l'uomo
nuovo, è un vociano capace, grazie alla sua ferrea volontà ed al suo spirito realizzatore, di utilizzare
l'evento bellico per dare attuazione alle aspirazioni ed ai programmi del periodico prezzoliniano,
capace di seppellire definitivamente il giolittismo e di gettare le basi di uno "stato nuovo".
Prezzolini, nella sua biografia del Duce, pubblicata nel 1925, scriverà:
L'italia si trovava ad avere trent'anni di progetti di riforme, di proposte da attuare. Ma tutti cavillavano e nessuno osava.
Ci voleva un uomo che avesse il minimo numero di compromessi possibile nella politica, grande energia, fede in se
stesso, una specie di barbarie temperata, per giungere alla fine a realizzare gran parte di quei programmi. 20
Nasce, così, il mito di Mussolini, un mito che si sposa con quello dello "Stato nuovo",
incarnatosi, nel dopoguerra, nello stato fascista. Un mito che decolla specialmente col divampare
del conflitto e con la scelta interventista dell'uomo politico romagnolo, la cui uscita dal partito
socialista "La Voce" aveva sollecitato, forse sperando che potesse scaturirne anche una scissione nel
partito stesso.
Di conseguenza, quando, il 29 novembre '14, il direttore de "Il Popolo d'Italia" (il nuovo giornale
era stato da lui fondato il giorno 15 dello stesso mese) fu espulso dal Psi, Prezzolini e Lombardo
17
Cit. in E.GENTILE, Il mito dello Stato nuovo ..., cit., pp.119-120.
18
F.PERFETTI, Introduzione a A.O.OLIVETTI, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, Bonacci,
1984, p.51.
19
E.GENTILE, Il mito dello stato nuovo..., cit., p.127.
20
G. PREZZOLINI, Benito Mussolini, Roma, Formiggini, 1925; E. GENTILE, Il mito dello Stato nuovo..., cit., p.129.
9
Radice gli inviarono un telegramma dal contenuto assai eloquente: "Partito socialista ti espelle.
Italia ti accoglie"21.
Quell'espulsione indica una svolta fondamentale nella vicenda del futuro capo del fascismo: egli,
tra le masse che considera ancorate ad una concezione superata del socialismo e le élites politicointellettuali ("La Voce", i sindacalisti rivoluzionari), sceglie queste ultime, con le quali è in contatto
da tempo e dalle quali ha assorbito una cultura antidemocratica (dall'attualismo gentiliano
all'élitismo paretiano, dal pragmatismo a Nietzsche a Le Bon) che ritiene idonea ad offrire uno
sbocco rivoluzionario alla crisi della sinistra italiana. Un cultura tendente a considerare decisiva (in
sintonia con una visione giacobina che tornerà nel fascismo sovversivo del Ventennio) l'azione di
minoranze illuminate, capaci, in circostanze particolari, come lo sconvolgimento provocato da una
guerra mondiale, di guidare il proletariato alla rivoluzione. Quel proletariato che gli aveva voltato le
spalle al momento della sua uscita dal Psi, anche a causa di gravi errori da lui commessi (per
esempio la rinuncia a continuare la battaglia nel partito o la pubblicazione de "Il Popolo d'Italia"
quando ancora faceva parte di esso, attirandosi addosso l'accusa di "tradimento"); quel proletariato
Mussolini sperava, forse, di recuperarlo in una situazione radicalmente mutata dall'ingresso in
guerra dell'Italia. Un calcolo che si rivelò errato.
Di fatto, all'interventismo rivoluzionario rimasero estranee le masse socialiste e cattoliche;
mentre, all'interno delle numerose élites che vi aderirono, l'ex direttore de "L'Avanti!" conquistò
subito un ruolo egemone, una leadership indiscussa.
Il suo nuovo giornale, "Il Popolo d'Italia", divenne ben presto l'organo più importante del
movimento interventista, non solo di quello rivoluzionario, ma anche, in sostanza, di quello
democratico, mentre rimase profondamente ostile ai nazionalisti e, più in generale, agli interventisti
conservatori, monarchici e filo-governativi22 .
Socialisti eretici, socialisti riformisti legati a Bissolati, vociani, "unitari" (del gruppo facente
capo a "L'Unità" di Salvemini), futuristi, sindacalisti rivoluzionari, repubblicani intransigenti,
anarchici interventisti, aderenti ai Fasci d'azione rivoluzionaria (organizzazione particolarmente
vicina a Mussolini, sorta nel dicembre 1914 dal Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista,
fondato da Corridoni il 5 ottobre dello stesso anno): questi i soggetti del fronte interventista,
portatori di posizioni diverse, ma tutte indiscutibilmente "di sinistra", che guardano all'ex direttore
de "L'Avanti!" come ad un punto di riferimento fondamentale, ad un leader capace di diventare, con
"Il Popolo d'Italia", una efficace sintesi operativa delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Ha scritto a questo proposito Renzo De Felice:
Di tutta questa multiforme realtà dell'interventismo di sinistra "Il Popolo d'Italia" [...] era, in certo senso, il miglior
interprete. Esso, infatti, almeno durante la battaglia per l'intervento e nei primi anni della guerra, riassunse
ecletticamente tutte queste particolari realtà e interpretazioni dell'interventismo di sinistra, accogliendole tutte e nessuna
respingendone; cercando, anzi, di dar loro una certa unitarietà. Invece i giornali e le pubblicazioni dei vari gruppi
interventisti, pur non attaccandosi tra loro, sostenevano ognuno il proprio punto di vista. "Il Popolo d'Italia" non fu mai
l'organo ufficiale neppure dello stesso Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista [...], il movimento interventista
più vicino a Mussolini, e, pur sostenendone l'azione ed ospitandone e diffondendone i comunicati e i documenti più
importanti, non ne sposò mai in toto la posizione. Si spiega così come in un momento in cui, specie nei centri urbani
maggiori e soprattutto a Milano, l'interventismo di sinistra guadagnava terreno, esso finisse per diventare l'organo di
questo interventismo per antonomasia23 .
L'ideologia del giornale mussoliniano, in questa fase, pur confusa, contraddittoria, in quanto
tendente ad amalgamare istanze diverse (risorgimentaliste e anticapitaliste, democratiche e
marxiste, soreliane, proudhoniane, mazziniane), suscettibile di pericolose involuzioni, conserva,
tuttavia, un carattere senza dubbio rivoluzionario e connotati che non mancheranno di riemergere in
21
R.DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, p.283.
22
Sulla questione cfr. R.DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp.309-310.
23
Ivi, pp.295-296.
10
misura significativa, attraverso varie vicissitudini, nel fascismo sovversivo degli anni Venti e
Trenta.
Di quest'ultimo il variegato fronte interventista, del resto, contiene, germinalmente, elementi
ideologici ed istanze importanti, riconducibili, in larga misura, proprio al mito della guerra
rivoluzionaria sopra descritto.
4. Dall’interventismo al fascismo
La “prima grande rivolta populista contro le istituzioni liberali”: così Nicola Matteucci definisce
l’interventismo del 1914-15 in un illuminante saggio del 1967 su Benedetto Croce e la crisi
dell’Europa. Scrive Matteucci:
il Croce si scontrò con gli interventisti, in tutta la complessa e confusa gamma delle loro correnti: questo è un nodo
decisivo per comprendere la recente storia italiana, che non è stato sufficientemente approfondito. Nell’interventismo,
sia in quello di destra e cioè nazionalista, sia in quello di sinistra, cattolico-popolare, democratico e socialista
mussoliniano, si coagulava la prima grande rivolta populista contro le istituzioni liberali, quali si erano venute formando
e consolidando dal 1871 al 1915. Si poteva volere un’Italia armata e disciplinata e autoritaria, si poteva pensare di
portare a compimento – magari nella Repubblica – un Risorgimento tradito, si poteva voler cancellare una macchia
della nostra storia e purificarla da un suo peccato originale, ci si poteva differenziare in questi giudizi particolari, ma
tutti presupponevano l’avversione e l’odio per l’uomo che, di questa Italia, era il rappresentante: Giovanni Giolitti 24 .
Tre anni più tardi, nel 1970, lo studioso bolognese definisce “insorgenza populista” il movimento
del ’68, che mette in relazione alle due precedenti “insorgenze” o “rivolte”:
L’Italia ha già conosciuto nella sua recente storia altre due insorgenze populistiche: la prima si diede con
l’interventismo, che coagulò forze di diversa provenienza – nazionaliste, cattoliche, democratiche e socialiste – in una
comune condanna per l’Italia liberale, quale si era venuta formando dal 1871 al 1915, e le unì in un comune stato
d’animo irrazionalistico, volontaristico, attivistico, dominato dal primato del fare. Il secondo momento populista lo
possiamo ritrovare nel fascismo di sinistra o in quella eredità socialista che esso pur conservava, in quell’ideologia tutta
incentrata sull’esaltazione dell’Italia, la “nazione proletaria” in lotta contro ‘le oligarchie finanziarie e colonialiste’,
contro le potenze “demoplutocratiche” 25
Condanna dell’Italia liberale, irrazionalismo, attivismo, “idee semplici” e “passioni elementari,
in radicale protesta contro la tradizione e, quindi, contro quella cultura e quella classe politica che
ne è l’espressione ufficiale”. Con il populismo, sostiene Matteucci,
si coagula una nuova sintesi politica, che non può essere definita, secondo il comune linguaggio parlamentare,
conservatrice o progressista, perché supera e mantiene entrambe le posizioni, affermando da un lato una volontà
autoritaria, che nella fretta del fare è sempre più insofferente degli impacci e delle remore imposte dalle procedure
costituzionali di una democrazia moderna, e dall’altro, quando arriva al potere, manipola le masse con slogans
genericamente rivoluzionari.
Il populismo emergente da questa analisi può identificarsi, dunque, con il nerbo dell’”ideologia
italiana fin qui descritta (coi suoi radicalismi e le sue apocalittiche mitologie), da Oriani al secondo
24
N.MATTEUCCI, Benedetto Croce e la crisi dell’Europa, in “Il Mulino”, gennaio 1967. Su questo episodio
cfr.R.PERTICI, Introduzione a N.MATTEUCCI, Sul Sessantotto Crisi del riformismo e “insorgenza populistica”
nell’Italia degli anni Sessanta, Catanzaro, Rubbettino, 2008, pp.XXVIII-XXIX.
25
N.MATTEUCCI, La cultura politica italiana: fra l’insorgenza populista e l’età delle riforme, in “Il Mulino”, XIX
(1970), pp.5-23; poi in Id., Dal populismo a compromesso storico, Roma, Edizioni della Voce, 1976, pp.47-74; infine in
Id., Sul Sessantotto, cit., p.66.
11
dopoguerra, fino, per Matteucci, al ’68, ma, possiamo aggiungere, per molti aspetti, fino a
fomazioni politiche dei nostri giorni.
L’interventismo rivoluzionario, dunque, “prima rivolta populista”, si rivela un fenomeno di
estrema importanza come incunabolo di importanti eventi successivi, a partire dalla seconda
“rivolta populista” costituita dal fascismo delle origini, sansepolcrista e squadrista. Un fascismo,
non a caso, nato dalla guerra e intenzionato a trasformare il conflitto mondiale in guerra civile: i
nemici, nel periodo postbellico, non più gli austriaci ma, da un lato i socialisti
(giudicati“antipatriottici”, materialisti, ostili ai reduci dopo averli “pugnalati alle spalle” quando
erano al fronte e poi sordi alle loro esigenze del dopoguerra); dall’altro la grande borghesia dei
“pescecani” che si è “arricchita col loro sangue”.
Un fascismo, inoltre, è il caso di sottolinearlo, fondato e capeggiato dall’ex leader interventista
Benito Mussolini, il quale, nel marzo 1919, a Milano, in piazza San Sepolcro, dà vita ad un
“movimento”, proprio come quello interventista, non ad un partito. Un movimento la cui essenza
populista, giacobina e totalitaria è del tutto evidente. Un movimento costituito, infatti, da
un’avanguardia (l’“aristocrazia di Vittorio Veneto” come si definisce) che punta a stabilire un
rapporto diretto con le masse degli ex combattenti (alle quali si appella facendo leva su “idee
semplici” e “passioni elementari, su atteggiamenti demogogici ed antipolitici tipici dei movimenti
populisti) per guidarle alla conquista del potere, rivendicato in nome dei meriti acquisiti sul campo
di battaglia. Un potere, dunque, conseguito non attraverso i canali della democrazia rappresentativa,
ma con l’uso (già esaltato da futuristi e sindacalisti soreliani) della “violenza catartica”, da
esercitare contro i partiti e le istituzioni, fatti oggetto di feroci invettive.
Una violenza già evocata e invocata da tutto l’interventismo rivoluzionario e nazionalista, dal
futuro Duce a Gabriele D’Annunzio, da Filippo Tommaso Marinetti a Enrico Corradini. In questa
visione i neutralisti prima, gli antifascisti dopo, non sono avversari con cui discutere, ma nemici
spregevoli da annientare, in quanto bollati come vili, corrotti, traditori della patria, portatori di
meschini interessi ed estranei agli ideali; da isolare e annientare, secondo la logica della guerra e
della dittatura che ne è il frutto avvelenato.
L’11 maggio 1915, su “Il Popolo d’Italia”, Mussolini scrive:
Io condivido pienamente la vostra indignazione profonda per le notizie pervenute da Roma. Sembra che, complice
Giovanni Giolitti, si mercanteggi nel modo più abbietto l’avvenire d’Italia. Cittadini! Permetteremo noi che il turpe
mercato si compia? [...] Permetteremo che – secondo le notizie che giungono da Roma, - si riesca a rovesciare il
ministero Salandra ed evitare l’intervento, che solo può compiere i destini d’Italia? Cittadini! [...] Se l’Italia non avrà la
guerra alla frontiera, essa avrà fatamente, inevitabilmente la guerra interna! E la guerra civile vuol dire la rivoluzione.
Cittadini! Gridiamo ancora una volta qui: Viva la guerra liberatrice!
Ma è D’annunzio, ancor più dell’agitatore di Predappio, ad istigare, con la sua retorica
magniloquente, alla violenza squadristica, durante la campagna per l’intervento, di cui è acceso ed
eccentrico protagonista. In un discorso tenuto a Roma il 13 maggio 1915 egli afferma:
Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra
me solo. Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai risoluti, non esiterei; né mi parrebbe di averne rimordimento.
Ogni eccesso della forza è lecito, se vale a impedire che la Patria si perda. Voi dovete impedire che un pugno di ruffiani
e di frodatori riesca a imbrattare e a perdere l’Italia. Tutte le azioni necessarie assolve la legge di Roma. Ascoltatemi.
Intendetemi.
Il tradimento è oggi manifesto [...]
Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia labbrone
le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino. [...]
Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance! Stanotte su noi pesa il fato romano; stanotte su noi pesa la legge
romana. Accettiamo il fato, accettiamo la legge.
Imponiamo il fato, imponiamo la legge. Le nostre sorti non si misurano con la spanna del marciaio, ma con la spada
lunga. Perà col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i
leccazampe dell’ex cancelliere tedesco [...]
Codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo coprporale. Io ve li
raccomando. Vorrei poter dire: io ve li consegno. I più manesch di voi saranno della città e della salute pubblica
12
benemeritissimi. Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli,
per catturarli.
Non una folla urlante, ma siate una milizia vigilante. Questo vi chiedo. Questo è necessario [...] 26
I primi fascisti (che sono spesso contemporaneamente arditi, futuristi, sindacalisti, legionari
fiumani, che dall’interventismo, dal combattentismo, ma anche dal D’Annunzio, mutuano idee,
programmi, stili di vita, miti, liturgie di massa, parole d’ordine) si considerano rivoluzionari, in
quanto protagonisti e figli della guerra, un evento da loro ritenuto di portata epocale, una frattura
nella storia, dalla quale devono nascere un mondo nuovo ed una nuova Italia.
Rivoluzionari sono i loro discorsi, rivoluzionario e fondamentalmente di "sinistra" il loro
programma, contenente temi e suggestioni di matrice futurista (ripresi in larga misura dal
Manifesto-programma del Partito politico futurista del 191827) e sindacalista (attinti specialmente
dalla Uil, dovuti all'apporto di Alceste De Ambris e dello stesso Mussolini). E infatti l’attuazione
del programma di san Sepolcro del 1919 sarà invocata dai fascisti sovversivi degli anni '20 e '30 ed
auspicata persino, nel 1936, dal partito comunista italiano; il quale, nel tentativo di catturare il
consenso dei "fratelli in camicia nera", non esiterà a dichiarare di far proprio il programma
diciannovista dei Fasci di combattimento e di impegnarsi per realizzarlo, negando
contemporaneamente al regime (giudicato reazionario e non rivoluzionario) la volontà di
impegnarsi in tal senso.
Quel programma, infatti, sul piano politico prevede l'abbassamento del limite di età a diciotto
anni per l'elettorato passivo, l'abolizione del Senato e la "istituzione di un Consiglio nazionale
tecnico del lavoro intellettuale e manuale, dell'industria, del commercio e dell'agricoltura"; nonché
una politica estera "intesa a valorizzare la volontà e l'efficienza dell'Italia contro ogni imperialismo
straniero, una politica dinamica cioè, in contrasto a quella che tende a stabilizzare l'egemonia delle
attuali potenze plutocratiche"; sul piano sociale esso rivendica "la giornata legale di otto ore
effettive di lavoro", i "minimi di paga", la "partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al
funzionamento tecnico dell'industria", l'"affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne
siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici", l'"Obbligo ai
proprietari di coltivare le terre, con la sanzione che le terre non coltivate sieno date a cooperative di
contadini, con speciale riguardo a quelli reduci dalla trincea"; la valorizzazione "di tutte le forze
idrauliche" e lo "sfruttamento delle ricchezze del suolo", l'incremento della marina mercantile, lo
sviluppo della navigazione fluviale e dell'industria della pesca, l'"Obbligo dello Stato di dare e
mantenere alla scuola carattere precipuamente e saldamente formativo di coscienze nazionali e
carattere imparzialmente, ma rigidamente laico, la riforma della burocrazia; sul piano militare la
"Istituzione della Nazione armata con brevi periodi di istruzione intesa al preciso scopo della sola
difesa dei suoi diritti ed interessi"; sul piano finanziario "Una imposta straordinaria sul capitale a
carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze", "il
sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l'abolizione di tutte le mense Vescovili", la
"revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell'85% dei profitti di guerra.
Un programma assai radicale, dunque, in sintonia con le aspirazioni e le esigenze delle élites ex
combattenti, ma libero da stretti vincoli ideologici e dottrinari: sociale e nazionale nello stesso
tempo, aperto alla possibilità di privilegiare il primo aspetto o il secondo sulla base delle circostanze
e delle convenienze politiche; un programma che Mussolini considera soprattutto uno strumento di
azione per far breccia nel composito e disorientato universo del reducismo; un universo che egli
tende ad abbracciare nel suo complesso al di là delle distinzioni di classe e di partito, presentando il
movimento fascista come l'erede e l'interprete dell'Italia migliore, quella che ha voluto la guerra,
26
Questo discorso di D’Annunzio è contenuto in G.D’ANNUNZIO, Per la più grande Italia. Orazioni e discorsi di
Gabriele D’Annunzio, Milano, Treves, 1915.
27
Il Manifesto del Partito politico futurista, firmato da Marinetti, comparve sul primo numero della rivista romana “Roma
futurista” il 20 settembre 1918. Il documento è stato riprodotto in R.DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit.,
pp.738-741.
13
che ha combattuto e sofferto nelle trincee, dell'Italia degli ideali contrapposta a quella degli
interessi, contrapposta al neutralismo “gretto” e “materialistico” della borghesia e del socialismo
bollati come "reazionari".
Ha scritto a questo proposito Adrian Lyttelton:
Esiste una certa continuità tra il disprezzo del rivoluzionario per il comune operaio sindacalizzato - mero "piccolo
borghese che non obbedisce che alla voce degli interessi. Ogni richiamo ideale lo trova sordo" - e la contrapposizione
fascista tra lo spirito di sacrificio mostrato in trincea e il materialismo egoistico degli operai di fabbrica. Il nesso tra le
due posizioni stava nel concetto della guerra rivoluzionaria, nella quale l'autentico "popolo" mostrava il suo valore
contro il falso proletariato dei socialisti e la codarda borghesia. Tra il 1915 e il 1919 questo concetto subì una
metamorfosi: dall'idea della rivoluzione attraverso la guerra si passò all'idea della rivoluzione come guerra28.
Il mito delle due Italie, l'idea della rivoluzione come prosecuzione della guerra contro i neutralisti
reazionari e per la conquista del potere da parte dei "veri rivoluzionari" ("l'aristocrazia di Vittorio
Veneto"), erano largamente presenti nell'interventismo e nel combattentismo (negli arditi, nei
futuristi, nei fiumani, nei sindacalisti). Mussolini riuscì a farsi interprete di questi motivi, di queste
inquietudini e renderli politicamente efficaci.
La scarsa coesione ideologica dei Fasci, l'antidogmatismo, il relativismo, il pragmatismo, il
carattere provvisorio e non vincolante del loro programma, si rivelarono alla fine le armi vincenti
per mietere consensi nel composito e magmatico mondo degli sradicati e degli spostati
sopravvissuti alla vicenda bellica.
Il fondatore del fascismo, nel quale fiuto politico e spregiudicatezza si sposavano efficacemente
con una concezione antistoricistica e paretiana, scettica e relativistica, era ben consapevole di
strumentalizzare idee e programmi per imporre la sua leadership su di una realtà fluida e
contraddittoria.
Nel marzo 1921, del resto, egli non mancò di dichiarare:
Il fascismo non è una chiesa; è piuttosto una palestra. Non è un partito; è un movimento [...] Noi non crediamo ai
programmi dogmatici [...] Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici; conservatori e progressisti;
reazionari e rivoluzionari [...] a seconda delle circostanze di tempo, di luogo, di ambiente, in una parola "di storia" 29.
E su quella base i consensi riuscì a raccoglierli: dapprima lentamente, faticosamente, nell'ambito
delle élites combattentistiche; poi tra le masse.
I consensi non solo di uomini della vecchia generazione, appartenenti ad un piccola borghesia
intellettuale sovversiva ostile al liberalismo e al giolittismo (e di conseguenza al parlamentarismo e
ai partiti), per i quali già nell'anteguerra e nel periodo dell'interventismo il leader romagnolo era
divenuto un importante punto di riferimento; ma anche, e soprattutto, i consensi di quella massa di
giovani, nati tra il 1890 e il 1900, molti dei quali diverranno i capi più rappresentativi del fascismo.
Uno di loro, Camillo Pellizzi, coglie efficacemente le ragioni essenziali che condussero la
gioventù intellettuale della sua generazione a raccogliersi attorno a Mussolini: innanzitutto la
lezione dei "padri" vociani, futuristi, sindacalisti, l'appartenenza a quella cultura radical-nazionale
suscitatrice di aspettative che non potevano trovare rispondenza nella concreta realtà italiana,
provocando in chi ne era portatore frustrazioni, rancori, disprezzo per la classe dirigente liberale,
considerata incapace e moralmente indegna; e, di conseguenza, disprezzo per la democrazia, per il
parlamento, per i partiti, in definitiva per la politica.
Scrive Pellizzi:
Quella generazione [la sua], dunque, tendeva a ipostatizzare nella propria mente un'Italia ideale, fatta di grandi
tradizioni, grandi figure e alti affetti, supponendo quella essere la vera e valida Italia, sulla quale credeva o giudicava
28
A.LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari, Laterza, 1974, p.68.
29
Ivi, p.71.
14
che brulicassero, come un vasto sciame di parassiti dannosi o ripugnanti, i piccoli uomini della politica e della pubblica
amministrazione del tempo30.
I giovani che nell'anteguerra frequentavano i licei e le università non avevano fatto esperienza
politica, o per ragioni anagrafiche o perché avevano della politica e dei partiti un'idea negativa:
vuote e ingannevoli chiacchiere, meschini strumenti per procurarsi vantaggi personali, per difendere
interessi inconfessabili ed affossare gli ideali, l'ingegno, la laboriosità.
La guerra da loro è accolta come l'evento purificatore, capace di spazzare via l'Italietta di Giolitti
e di creare la "grande Italia" cui aspirano. Per questo vi partecipano entusiasti e questa esperienza,
fatta di sofferenze, di sacrifici, di eroismo, di cameratismo, contribuisce ad accrescere il loro rifiuto
della politica e delle istituzioni democratiche (un governo lontano e sentito come ostile, un partito
socialista neutralista e antipatriottico) e, per contro, a valorizzare l'azione, l'atto risolutivo, la
violenza: mentre i politici chiacchierano, i combattenti si battono sul campo, muoiono, conquistano
la vittoria; dunque a loro spetta spodestare la vecchia classe dirigente e sostituirla nella guida del
paese.
Mussolini, che aveva ben compreso questa mentalità, evita accuratamente dogmatismi e
dottrinarismi, fonda nel '19 non un partito, ma un movimento e soprattutto lancia lo slogan del
fascismo come antipartito, aperto a tutti i reduci dalle trincee.
Non a caso "Il Popolo d'Italia" offre uno spazio alla rubrica Voce dei trinceristi, in cui nel gennaio
del '19 si legge:
Noi vogliamo che la nazione si rinnovi, che tutti gli elementi torbidi e infettivi siano spazzati via. La nazione deve
rinnovarsi in tutto, politicamente, moralmente, giuridicamente. Vogliamo che a Montecitorio ci vadano elementi nuovi
e giovani. Via il vecchiume politico e corrotto!"31
E, ancora sul giornale mussoliniano, Mario Gioda sostiene esplicitamente la necessità
dell'antipartito:
L'antipartito segnerebbe la fine delle cricche, delle clientele, d'ogni interesse obliquo e d'ogni scopo politico
inconfessabile, di tutto insomma ciò che costituisce il bagaglio materiale e morale dei vari partiti e loro succedanei che
infestano la vita italiana. L'antipartito - cioè l'idea dell'antipartito è nata evidentemente col fallimento delle idee
programmatiche e dei partiti nell'ambiente guerresco [...]. Oggi occorrono uomini non di partito ma adatti al fronte
dell'economia e del lavoro. Non degli oratori ma dei tecnici. Non dei paraboloni ma dei produttori e dei suscitatori di
nuove energie [...], i cantastorie dei partiti - medagliettati o non medagliettati - appartengono ad un'altra età 32.
Lo stesso Mussolini, del resto, nel 1932, rievocando le origini del fascismo, non mancherà di
affermare (in linea, peraltro, con le precoci interpretazioni del fenomeno da parte degli antifascisti
Luigi Salvatorelli e Giovanni Amendola) che esso "nacque da un bisogno di azione e fu azione; non
fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento"33.
Il movimento fascista si presenta, dunque, come “antipartito dei combattenti”, desiderosi, dopo
aver sconfitto il nemico esterno, di proseguire la guerra per sconfiggere quello interno (la classe
dirigente liberale, la borghesia affaristica, il partito socialista negatore della patria) e di costruire
una "terza via" capace di contemperare le esigenze sociali con quelle nazionali.
30
C.PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, Milano, Longanesi, 1949, p.18.
31
“Il Popolo d’Italia”, 7 gennaio 1919.
32
M.GIODA, L’antipartito, in “Il Popolo d’Italia”, 10 febbraio 1919. Cfr. anche E.GENTILE, Le origini dell’ideologia
fascista, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp.73-74.
33
B.MUSSOLINI, Fascismo-Dottrina, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto Treccani, vol.XIV, giugno 1932, p.848;
anche Id., Opera Omnia, 36 voll., a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Firenze-Roma, La Fenice, 1951-1963,
vol.XXXIV, p.122.
15
L'uso della violenza, il ricorso allo squadrismo si giustificano, in questo contesto, come il
completamento ed il proseguimento dell'esperienza bellica, come azioni rivoluzionarie capaci di
fondare un'Italia nuova.
E' sulla base di questa mentalità "rivoluzionaria" e "totalitaria", figlia della trincea, che gli
avversari politici diventano nemici e "traditori" da annientare; è sulla base di questa mentalità,
propria dell'interventismo oltranzista e sorretta dalla logica dalla guerra, che i fascisti,
autoproclamatisi i soli "veri italiani", si ritengono autorizzati, o, addirittura, investiti della
"missione" di imporre a tutti le loro idee ed il loro potere: in altre parole, di instaurare un regime
totalitario.
I Fasci di combattimento, tuttavia, sconfitti alle elezioni del novembre 1919, acquistano una
dimensione di massa soltanto a partire dalla seconda metà del 1920, in coincidenza con l'affermarsi
del fascismo agrario e con la svolta a destra del movimento, ossia con la scelta del loro capo di
cercare un supporto nella borghesia e nelle forze tradizionali34.
Cosa accade, a questo punto, all'elemento "rivoluzionario" in essi presente?
Alcuni esponenti delle élites più radicali (non pochi futuristi compreso lo stesso Marinetti,
elementi di punta dell'arditismo, del fiumanesimo, del sindacalismo) polemizzano duramente con il
fascismo e se ne allontanano, accusandolo di essere divenuto una forza reazionaria (salvo, poi, quasi
tutti, esserne risucchiati dopo la “marcia su Roma”). Molti altri, viceversa, pur professando un
sovversivismo intransigente, antiborghese, talvolta estremo ed anarchico, rimangono al fianco di
Mussolini ed offrono allo squadrismo un contributo fondamentale, identificandolo con l'antipartito,
con l'essenza del fascismo e continuando ad attribuire ad esso un valore rivoluzionario.
La sostanza reazionaria delle squadre, il loro configurarsi, di fatto, come braccio armato della
borghesia contro le organizzazioni autonome del proletariato, in questo contesto, non viene colta, da
quadri e gregari, nelle sue reali dimensioni, anche perché i finanziamenti del mondo imprenditoriale
vengono percepiti personalmente da Mussolini ed affluiscono alle casse de "Il Popolo d'Italia", che
sono formalmente separate da quelle dei Fasci
Scrive a questo proposito Lyttelton:
Sia la realtà che il "mito" dello squadrismo esercitarono sul fascismo un'influenza potente e tenace. Gli squadristi
sentirono, non senza fondamento, che i veri fascisti erano loro; e i picchiatori, gli uomini del manganello, erano
diffidenti nei confronti dei politici, dei "chiacchieroni". Lo squallido retroscena dello squadrismo - la dipendenza dalla
connivenza delle autorità di polizia e dai fondi forniti dagli industriali e dagli agrari - fu dimenticato; e i capi delle
squadre, spesso provenienti dalla più umile piccola borghesia o di origini addirittura sottoproletarie, si considerarono,
con maggiore o minore buona fede, l'incarnazione di un fascismo populista, vicino alle aspirazioni originarie del tempo
di guerra e libero da ogni manipolazione di borghesi o politici "parassiti" .
Gli squadristi, piccolo-borghesi o sottoproletari frustrati, incattiviti dalle loro reali condizioni di
vita ritenute inadeguate rispetto ai sacrifici sopportati al fronte, schiacciati tra la grande borghesia
dei "pescecani" ed un partito socialista ostile alla guerra, ai valori nazionali ed insensibile ai loro
bisogni, più che interrogarsi sulle fonti di finanziamento dello squadrismo, utilizzano il manganello
per "farsi giustizia", che significa, secondo questa ottica, fare giustizia al popolo combattente, di cui
essi si considerano la più autentica incarnazione. Un popolo “sano e forte”, laborioso, ardimentoso,
generoso, estraneo alla logica degli interessi, un popolo fascisticamente concepito come antitetico
rispetto alla borghesia: gretta, pacifista, parlamentarista, materialista; ma anche al socialismo, a cui
(sulle orme del futurismo e del sindacalismo rivoluzionario) sono attribuiti analoghi vizi, oltre al
disfattismo, all'antipatriottismo, ad un rivendicazionismo puramente economico oppure ad un falso
rivoluzionarismo, fatto di demagogia verbale ed incapace di iniziative concrete.
Come i futuristi e i sindacalisti durante la campagna interventista, molti squadristi attaccano il
partito socialista "da sinistra", considerandolo organico al sistema e all'etica borghesi. In questo
contesto, paradossalmente, i veri rivoluzionari sono loro, gli uomini delle squadre, "uomini di fatti"
34
Al II Congresso dei Fasci di Milano del 24-25 maggio 1920, infatti, il programma del 1919 viene radicalmente
modificato: vengono abbandonati sia l’anticapitalismo sia le pregiudiziali antimonarchica ed anticlericale.
16
e non "di parole", uomini d'azione e maneschi “raddrizzatori di torti” come il Lemmonio Boreo di
Soffici o il Pisto di Bilenchi35.
Uomini decisi a realizzare con la forza un fascismo intransigente e integrale, uno Stato nuovo,
incarnazione delle ragioni e dei valori della guerra: decisi ora a combattere il pericolo più
immediato costituito dal bolscevismo, ma pronti, domani, ad esercitare la stessa violenza contro la
borghesia, anche se ciò, con rammarico di molti di loro, non avverrà mai.
35
A.SOFFICI, Lemmonio Boreo, Firenze, Libreria de “La Voce”, 1912; R.BILENCHI, Vita di Pisto, Torino, Il
Selvaggio, 1931.
i