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Luca Pocci
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MARCO BELPOLITI
L'OCCHIO DI CALVINO
Torino: Einaudi, 1996. 286 pp.
È caratteristica pressoché naturale dei titoli, si sa, quella di fungere da
estreme sintesi — distillati, verrebbe da dire — del progetto complessivo
dei testi a cui si accompagnano. Offrendosi di norma quali anticipazioni
essenziali, parafrasi minime del contenuto testuale che ad essi fa
seguito, i titoli si caricano di una importante funzione: mettono
sull'avviso il lettore, dispensandogli un grumo di informazione prolettica
che avvia ed orienta il processo della lettura. È quanto accade anche nel
caso del titolo scelto da Marco Belpoliti per la sua ultima fatica,
L'occhio di Calvino. Ciò che si legge in sopracoperta, infatti, è il
precipitato del progetto che ispira il libro: ricostruire e descrivere
l'ottica calviniana.
L'occhio, dunque, come pars pro toto dove per toto, occorre
precisare, Belpoliti intende non la persona fisica ma lo scrittore Calvino.
Di quest'ultimo si ricerca la specificità dello sguardo e del vedere nella
convinzione che la sua visione del mondo, nel senso figurato di
Weltanschauung, si affidi prima di tutto ad una fervida vocazione visiva,
ad una visione del mondo in senso letterale. Non a caso, nella
prefazione, si avverte il lettore che il libro ambisce — "in una certa
misura" — a tessere "la storia dell'occhio-mente di Calvino" (xii).
La tesi su cui Belpoliti costruisce e ordisce la propria storia è che
la cifra della scrittura calviniana consiste in una costante aspirazione a
tradurre l'immagine che si forma nell'"occhio-mente" in parola. Cosi
alla scrittura non è mai concesso di essere fine a se stessa, di essere
incausata ovvero titolare della propria origine e della propria causa
finale. Al contrario, essa è concepita come una sorta di secondo tempo
che sopravviene a codificare — a scrivere appunto — l'immagine pre-
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figurata e impressa sullo schermo dell'"occhio-mente."
Visione e scrittura, dunque, costituiscono le coordinate del modo
d'essere del Calvino ritratto da Belpoliti. Un Calvino, sia detto per
inciso, che pare aver fatto proprio ciò che Antonioni ebbe a dire in
particolare dei registi, coloro cioè che scelgono di guardare il mondo
attraverso l'occhio della macchina da presa. Per questi ultimi, secondo
Antonioni, vedere è sempre e comunque una necessità. E il tratto che
ne definisce la posizione nel mondo. Si può dire che anche per il
Calvino di Belpoliti vedere è una necessità poiché ciò che è visibile
all'"occhio-mente" rappresenta la matrice del possibile della scrittura,
dello scrivibile.
È proprio questa relazione fra visibile e scrivibile ad occupare
l'attenzione di Belpoliti nei quattro capitoli che compongono il suo
libro. Nel primo, "Storie del visibile" — rielaborazione di un precedente
volumetto uscito con lo stesso titolo nel '90 (Rimini, Luisè) — l'ottica
di Calvino è paragonata a quella del cartografo, intento a vedere il
mondo in termini di oggetto ricostituibile nella forma della mappa. Tale
vocazione cartografica, però, sarebbe tutt'altro che univoca dal momento
che essa, secondo Belpoliti, manifesterebbe la costante tendenza a
scindersi in due atteggiamenti divergenti.
Da una parte avremmo un "Calvino-cartografo" razionalista,
sintonizzato sul canale del proprio esprit de geometrie e impegnato a
tentare una scrittura-mappa astratta del visibile. Dall'altra, avremmo
invece un "Calvino-cartografo" della fisicità e del fenomenico e una
scrittura-mappa che aspira a verbalizzare l'evidenza di ciò che appare,
del dato che salta all'occhio. In sostanza, il primo atteggiamento "riporta
solo le traiettorie, i tragitti, le linee e le direzioni dei vettori" (48). Il
secondo, a sua volta, trascrive il mondo "cosi come appare, pieno di
forme e oggetti, come in una fotografia, seppur mentale" (48).
Statuita la continua compresenza dei due opposti atteggiamenti,
Belpoliti tiene poi a precisare che nel corpus della scrittura di Calvino
vi sono momenti in cui prevale il "cartografo razionalista" (Le città
invisibili. Il castello dei destini incrociati. Se una notte d'inverno un
viaggiatore) ed altri in cui spicca il trascrittore dell'evidenza del visibile
(Palomar). Al modello della mappa quale modalità per fare ordine nel
labirinto delle cose si giustappongono in un caso la figura della rete (Le
città invisibili), in un altro la prassi del gioco combinatorio (Il castello
dei destini incrociati). Ma ciò che rimane costante è la ricerca del
"punto di vista" capace di garantire una scrittura del visibile sotto il
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segno dell'esattezza.
Questo stretto legame tra visibilità ed esattezza — per Calvino,
com'è noto, valori da consegnare al prossimo millennio — testimonia di
un soggetto che vuole vederci chiaro, a cui sta a cuore la leggibilità del
labirinto mondo. E vederci chiaro, osserva Belpoliti, significa sempre
per il soggetto-Calvino frapporre una distanza fra sé e le cose poiché il
rischio che si vuole evitare è quello di venire assorbiti dalla seducente
ma fuggevole apparenza delle forme. Si tratta insomma di trovare un
soddisfacente ubi consistam, una posizione che faccia fronte al pericolo
di rimanere abbacinati dallo spettacolo del visibile.
Per comprendere e valutare la centralità della questione del "punto
di vista" il testo chiave è senz'altro Palomar, a cui Belpoliti dedica
opportunamente ampio spazio. In particolare nel secondo capitolo — "Il
foglio e il mondo" — dove le vicende dell'occhialuto "personaggio
eponimo" sono presentate come un incessante e irrisolto discorso sul
metodo. Viene sottolineata cioè la tensione epistemologica che, non v'è
dubbio, in Palomar è manifestamente più forte che in ogni altro testo
di Calvino. Discorso sul metodo, dunque, come indagine sul giusto
"punto di vista" da assumere per addivenire ad una conoscenza puntuale
del mondo.
Detto questo, occorre poi sottolineare che Belpoliti si mostra
propenso — e a ragione — a riconoscere nel personaggio di nome
Palomar i tratti di una finzione speciale. Al suo personaggio, infatti,
Calvino sembra delegare non solo la propria inquietudine epistemologica
ma anche, e forse soprattutto, la propria valorizzazione dell'esercizio
della descrizione. Un esercizio, questo, che si sostanzia nella
lettura/scrittura di pezzi di mondo definiti e delimitati: "Come il signor
Palomar, suo alter ego, Calvino invita a delimitare un pezzo di spazio
e a dire tutto ciò che si vede" (99). Va aggiunto che in precedenza era
stata messa in rilievo la qualità precipua dello spazio in cui si muove
la finzione Palomar: "Il mondo del signor Palomar non è infatti
composto di volumi ma di superfici e il suo sguardo si rivolge
inesorabilmente verso la tessitura del mondo" (51). Il personaggio in
questione, dunque, è trattato alla stregua di vera e propria proiezione
della vocazione cartografica del suo creatore.
C'è poi un'altra componente che conferma il rapporto di stretta
somiglianza fra creatura e creatore. È il desiderio, puntualmente
indagato da Belpoliti, di tenere a bada, per cosi dire, l'ingombrante
presenza della soggettività. L'"occhio-mente" di Palomar-Calvino aspira
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infatti al conseguimento di una visione esatta e, nel contempo, ad una
descrizione delle cose nel loro "partito preso." Ciò a cui si vuole
sfuggire è la tentazione di una scrittura come psicografia, come
precipitato esclusivo cioè del paesaggio interiore del soggetto scrivente.
Un programma del genere comporta inevitabilmente un delicato
esercizio di equilibrismo. Si tratta, in sostanza, di definire e prefigurare
la relazione soggetto/oggetto in maniera tale da ottenere,
simultaneamente, il decentramento del primo polo e l'assunzione di
centralità del secondo.
La domanda che sorge, a questo punto, è la seguente: che ne è di
tale programma? È possibile affermare che esso va in porto, che la
scrittura di Calvino ne costituisce il pieno adempimento? Ο non
dovremmo piuttosto concludere che esso finisce per rimanere allo stato
di lettera morta? La risposta di Belpoliti, qui, risulta duplice. Da una
parte il Calvino che egli ritrae appare come l'artefice di una scrittura
delle cose e del mondo; una scrittura cioè che riesce a configurarsi
quale traduzione del visibile cosi come si presenta all'"occhio-mente."
Dall'altra, il Calvino che stabilisce una linea diretta fra il mondo e
l'occhio-mente ottiene si il decentramento della propria soggettività ma
da tale decentramento, tuttavia, non pare ricavare il risultato di una
visione pienamente soddisfacente. Come dire, insomma, che per quanto
il programma di limitazione della soggettività e del carico di biografia
personale ad essa immanente può considerarsi rispettato e portato a
buon fine, la qualità della visione attingibile nella forma della scritturacartografia appare nondimeno inferiore all'ideale inseguito da Calvino.
Sul carattere di questa visione ideale, Belpoliti si sofferma con la
dovuta attenzione nel terzo capitolo, "Occhio all'opera," dove offre, ci
sembra di poter affermare, il meglio di sé. A rendere questa zona del
testo particolarmente cattivante è il progetto, ampiamente riuscito, di far
luce su aspetti della produzione calviniana solitamente relegati in
secondo piano. Articoli, brevi interventi, scritti d'occasione il cui
comune denominatore è l'interesse per i linguaggi iconici, specie quelli
che contraddistinguono mezzi espressivi quali la pittura e la fotografia.
Al rapporto di Calvino con queste ultime sono dedicate due delle tre
sezioni che costituiscono l'articolazione interna del capitolo. La terza
indaga, invece, l'attrazione per il modello della collezione facendo il
punto sulla rilevanza concettuale che esso assume in relazione
all'istanza di definitezza, magari anche solo effimera, che anima lo
scrittore ligure.
Sono proprio queste incursioni nei territori dell'iconico a illuminare
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il tipo di visione verso cui Calvino, a detta di Belpoliti, sarebbe
idealmente proteso. Un esempio è lo scritto che inaugura Idem, il
volume del pittore Giulio Paolini pubblicato nel 1975. Il fascino che
l'"occhio-mente" dello scrittore scopre nelle opere di Paolini, artista
appartenente all'area del "concettuale," è, nella sintesi di Belpoliti, il
fascino di "un mondo fatto solo di 'enunciati affermativi'" (160). Un
mondo entro il quale la dicotomia soggetto/oggetto appare non tanto
risolta a favore del secondo quanto piuttosto completamente superata ed
eliminata. Che cos'è dunque che l'opera di Paolini enuncia
affermativamente? È la qualità di una visione pura che depositandosi
sulla superficie del quadro produce una figuratività uguale a se stessa,
ineffabilmente intransitiva. Agli occhi di Calvino, osserva Belpoliti,
questa fredda e imperturbata ottica concettuale non ha né "un dentro da
esprimere" né "un fuori da comunicare" (160). Il meccanismo mentale
che essa evoca è la tautologia che intriga lo scrittore per la conchiusa
autosufficienza di cui è espressione.
In virtù di tale attrazione, ci aspetteremmo dunque un Calvino
decisamente orientato a far si che la propria ottica sia governata dal
meccanismo mentale del pensiero, totalmente estraneo ai mondi di
"enunciati affermativi" del pittore Paolini. Si tratta dell'anfibologia, da
intendersi qui quale termine designante un processo del pensiero che
riconosce nella figura dell'ambiguità un modello di espressione e
comunicazione. Per quanto il meccanismo della tautologia e la visione
ad essa coessenziale intrighino lo scrittore, egli rimane tuttavia ben
consapevole che fare letteratura significa necessariamente adottare
un'ottica anfibologica. Tentare, cioè, di realizzare una visione chiara
attraverso il filtro della figura dell'ambiguità. "La letteratura è sempre
ambigua, anfibologica" (165), conclude Belpoliti interpretando il
pensiero di Calvino. In quanto tale, la letteratura deve rinunciare in
partenza all'ideale tautologico che informa ed esaurisce gli "enunciati
affermativi" del pittore Paolini.
A differenza dell'occhio di quest'ultimo — astratto al cento per
cento — quello di Calvino preserva una forte attenzione per il dato
sensibile cosicché l'esprit de geometrie dello scrittore è costantemente
controbilanciato dal desiderio di trasferire nel linguaggio verbale la
materia del visibile. A tal riguardo, Belpoliti usa una bella ed efficace
sinestesia. Scrive, sulla scorta di Greimas, che talvolta in Calvino "è
come se l'occhio volesse toccare, fare l'esperienza propria del tatto"
(166). Va aggiunto che di quest'occhio che sa essere tattile e geometrico
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a seconda delle circostanze, sono rivisitate le numerose altre incursioni
nei territori dell'iconico: gli scritti su Saul Steinberg, Donald Evans,
Shusaku Arakawa, Domenico Gnoli, tanto per menzionarne solo alcune.
Colpiscono in modo particolare le ricognizioni sull'interesse di
Calvino per due eccentrici quali Evans e Gnoli. Dell'attrazione per il
primo, documentata dal breve scritto che appare in Collezione di sabbia
con il titolo "I francobolli degli stati d'animo," Belpoliti evidenzia
l'aspetto di genuina curiositas. Il pittore americano, morto
prematuramente nel 1977 all'età di soli trentadue anni, attira l'occhio
vispo di Calvino sulla fissazione filatelica che alimenta la sua attività
artistica. Nel breve corso di essa, infatti, Evans non ha fatto altro che
disegnare e dipingere francobolli. Francobolli possibili, però, questo è
il punto! Oggetti d'invenzione e fantasia nati da una visione del
possibile piuttosto che da una visione/riproduzione dell'esistente. Nel
caso di Gnoli che dipinge camicie, bottoni, valigie, mobili e altri umili
congegni, Calvino mostra invece di apprezzare, soprattutto, l'esattezza
dello sguardo. Un'esattezza, commenta Belpoliti, che allo scrittore ligure
si presenta "come dilatata, resa in modo maniacale mediante particolari
il cui realismo e nitore è straniante" (189). Dell'attrazione per l'opera
di Gnoli testimonia l'esercizio di stile "Still-life alla maniera di
Domenico Gnoli" pubblicato sulla rivista FMR nel 1983.
Merita, a questo punto, una menzione a parte la serie di paralleli fra
Calvino e altri scrittori che Belpoliti intreccia proprio all'interno della
sezione dal titolo "Pittura." L'elenco dei nomi è vario e assortito:
Montale, Ponge, Perec, Queneau, Gadda, l'immancabile Borges e molti
altri. Fra tanta abbondanza, il parallelo più intrigante e stimolante è
quello con Gadda. L'enciclopedismo e la concezione della realtà come
sistema da decifrare sono gli aspetti che avvicinano i due scrittori. I
quali, precisa Belpoliti, risultano tuttavia diametralmente distanti
riguardo al modo di trasporre in scrittura il sistema-mondo. Se Gadda
opta per una incessante eruzione e combustione verbale nel tentativo di
inseguire un visibile che gli appare dominato dal caso e dal disordine,
Calvino, da parte sua, persegue invece una prosa votata alla misura e al
risparmio. In quest'ultimo non viene mai meno la fiducia nella capacità
del linguaggio di far presa sul visibile, di restituire il disegno di un
ordine possibile. Cosi mentre la lingua del primo è tutta proliferazione
e moltiplicazione, quella del secondo procede, per contro, "verso la
precisione terminologica, verso l'esattezza che consiste nell'estrarre dal
gran vortice delle parole quelle che restituiscono l'immagine di un
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ordine" (176-7). Per Gadda, il sistema-mondo è un groviglio, una
"disarmonia prestabilita." Per lo scrittore ligure, invece, è una trama e
la parola, se esatta, può disegnarne l'ordine.
Rimane da riferire su un altro importante aspetto del Calvino visto
e ritratto da Belpoliti. Riprendendo un'intuizione di Manganelli, si
avanza l'ipotesi che esista un manierismo calviniano. Ipotesi, peraltro,
che Belpoliti aveva già sviluppato in un breve saggio pubblicato nel
1991 sulla rivista Riga (nel numero 9 curato dalla stesso Belpoliti e
interamente dedicato a Calvino). Più specificamente, si tratterebbe di un
manierismo scaturente da un "[...] particolare modo di coniugare
insieme invenzione e immaginazione, di cui Le Cosmicomiche sono una
delle prove più alte e meglio riuscite" (194). A saldare insieme
invenzione e immaginazione sarebbe la prassi dell'ars combinatoria,
vera e propria cifra della logica creativa che informa, oltre a Le
Cosmicomiche, Le città invisibili e, aggiungiamo noi, Il castello dei
destini incrociati. In definitiva, ci pare di poter dire che il manierismo
calviniano descritto da Belpoliti è un manierismo dell'inventio piuttosto
che dell'elocutio a cui corrisponde una scrittura intesa come "gaia
scienza" del visibile e dello scrivibile.
Di questa "gaia scienza" e dell'ottica che sovrintende ad essa, il
libro di Belpoliti offre un convincente ed esauriente studio. Per
l'originalità della prospettiva scelta, per l'agio e la sicurezza di cui
l'autore dà prova nello scandagliare l'opera di Calvino, possiamo
concludere che il lavoro di Belpoliti rappresenta un prezioso contributo
al già considerevole corpo della letteratura critica sullo scrittore ligure.
Il libro, insomma, mantiene la promessa espressa nel titolo, poiché a
lettura completata, dell'occhio di Calvino ne sappiamo senz'altro di più.
LUCA POCCI
University of Toronto,
Toronto, Ontario