Proposta di politica attiva per il rilancio delle aree
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Proposta di politica attiva per il rilancio delle aree
Fulvio Coltorti Lino Mastromarino Proposta di politica attiva per il rilancio delle aree industrializzate Il piano strategico di distretto Proposta di politica attiva per il rilancio delle aree industrializzate A cura di Sommario Premessa pag. 6 Dinamiche, caratteristiche e ruolo delle medie imprese pag. 7 La classificazione dei distretti italiani in base alla performance pag. 12 Orientamenti di politica industriale pag. 17 1. L’organizzazione del distretto 2. Il finanziamento e l’accesso al credito 3. Il rilancio dell’occupazione pag. 17 pag. 19 pag. 19 Conclusioni pag. 21 Bibliografia pag. 27 3 Le medie imprese costituiscono la fascia più brillante del Quarto capitalismo che ha avuto una prevalente origine distrettuale. L’abbinamento con i Distretti consente alla manifattura italiana di mantenere una posizione di preminenza a livello internazionale. Questo è dimostrato specialmente dai saldi attivi della bilancia commerciale che nel 2013 hanno toccato un massimo storico. La crisi finanziaria, attraverso i suoi riflessi negativi sull’economia reale, ha tuttavia messo alla prova molti distretti, sicché è oggi necessario analizzare a fondo le loro performance con lo scopo di individuare da un lato i principali problemi, dall’altro le politiche più adatte a risolverli. In questo scritto vengono usati tre indicatori chiave (Valore Aggiunto, MOL, fatturato) la cui combinazione consente di evidenziare una prima selezione dei gradi di difficoltà. Le politiche di sostegno e rilancio vengono viste incentrate in un piano strategico che considera il Distretto come un’unica azienda. Il contratto di rete, il principale strumento organizzativo (anche se non è l’unico), così come il bond di rete viene adottato (anche se anch’esso non da solo) come mezzo per il finanziamento. Infine si sottolinea la necessità di un’Istituzione locale che si faccia carico dell’implementazione e monitoraggio del piano. Fulvio Coltorti e Lino Mastromarino 5 Premessa L’ultimo dopoguerra e, segnatamente, gli anni successivi al 1980 hanno visto un’evoluzione strutturale della manifattura italiana con una discontinuità sempre più marcata rispetto al modello principale negli anni del “miracolo economico” (’50 e ’60 del secolo scorso). L’aspetto prevalente ha riguardato il declino, e in alcuni casi la scomparsa, delle grandi imprese operanti sulle produzioni di massa (chimica, auto, siderurgia) a fronte dell’emergenza di un “capitalismo di mezzo”, ribattezzato Quarto capitalismo1, operante con dimensioni d’impresa intermedie. Il Quarto capitalismo ha avuto origine nelle aree distrettuali italiane (prevalenti nel Nord Est Centro) ed ha mantenuto un collegamento assai stretto con i luoghi di origine. La grande crisi finanziaria del 2007, trasferitasi sull’economia reale subito dopo, ha generato difficoltà sia di mercato che di finanziamento soprattutto per le aziende di minori dimensioni. In molti casi, ferma restando la elevata natalità delle imprese italiane (confermata dai dati più recenti di Infocamere, Movimprese), si sono verificate nel manifatturiero molte chiusure e liquidazioni di entità che non sempre meritavano di scomparire dal mercato. Questo contributo vuol proporre un’ottica positiva centrata su un possibile maggior ruolo delle medie imprese (la quota più brillante del Quarto capitalismo2) nel rivitalizzare o attivare ex-novo produzioni di filiera nei distretti industriali italiani. Esso si sviluppa in tre capitoli: il primo dà conto del ruolo delle medie imprese (d’ora in poi MI) e della loro diffusione, il secondo classifica 45 distretti dell’Osservatorio in base a: fatturato, MOL e valore aggiunto e poi articola alcune considerazioni sui possibili interventi per il loro sostegno, il terzo conclude con alcuni orientamenti di politica industriale. 1 Per i dettagli si rinvia al sito internet dell’Area Studi Mediobanca http://www.mbres.it/it/publications/fourth-capitalism. 2 Il Quarto capitalismo viene definito come l’insieme delle imprese operanti nella dimensione intermedia con un modello che punta alla specializzazione produttiva e alla politica commerciale incentrata su mercati di nicchia, mantenendo un assetto proprietario autonomo, il più delle volte familiare. A fini statistici, l’Area Studi Mediobanca ha fissato soglie di fatturato comprese tra 15 e 3.000 milioni di euro. La frazione costituita da “medie imprese” è quella che realizza vendite annue tra 15 e 330 milioni nella classe di 50-499 addetti (Mediobanca-Unioncamere 2013). Esistono concetti simili al Quarto capitalismo in alcuni paesi esteri. In Germania il cosiddetto Mittelstand viene definito come l’insieme delle piccole e medie imprese sino al limite di 500 addetti. In Francia una legge del 2008 ha creato le categorie delle imprese ETI (entreprises de taille intermediaire, 250-4999 addetti, 50-1500 milioni di fatturato) e delle PME (petites et moyennes entreprises, 10-249 addetti, 2-50 milioni di fatturato).Vi sono differenze strutturali che giustificano in parte queste disomogeneità definitorie, ma molte difficoltà sono dovute alla raccomandazione del 2003 (vigente dal 2005) da parte della Commissione europea che ha limitato il campo delle medie imprese alla classe 50-249 addetti. Confindustria, R&S e Unioncamere (ultima edizione nel 2013) rimediano procedendo a studi comparativi su basi omogenee. 6 Dinamiche, caratteristiche e ruolo delle medie imprese L’ultimo censimento realizzato dai centri studi di Mediobanca e Unioncamere (Mediobanca Unioncamere 2013) ha contato 3666 MI a controllo italiano nel 2011 (3594 escludendo i rapporti di gruppo). Di queste, 920 hanno natura “distrettuale” avendo sede all’interno di distretti industriali e condividendone la specializzazione. Mantenendo lo stesso criterio della specializzazione, 537 MI risultano localizzate in altri sistemi produttivi locali per un totale di 1.457 ovvero il 40% del totale3. Questa percentuale non è tuttavia rappresentativa della natura distrettuale delle medie imprese. Ove si abbandoni il vincolo della specializzazione, le società localizzate in aree aventi natura distrettuale4 risultano costituire i due terzi di tutte le MI italiane (percentuale calcolata su tutti i censimenti del periodo 2004-2011; si veda Coltorti-Venanzi, 2014). Il fenomeno MI è dunque un tipico fenomeno distrettuale che origina dallo sviluppo che queste aree hanno realizzato nel dopoguerra e, in particolare, dalle nuove esigenze messe in luce soprattutto alla fine del secolo scorso dalla globalizzazione dei mercati. Le MI costituiscono pertanto il risultato di un’evoluzione dei distretti. In altre parole, esse vengono “dopo” la nascita di questi ultimi che, come è noto, sono popolati prevalentemente da imprese di piccola dimensione, spesso artigianali, organizzate in filiere che inizialmente erano in massima parte interne ai luoghi distrettuali. La qualificazione delle medie imprese quale “derivato” dei distretti può essere vista anche attraverso la loro distribuzione sul territorio. Esiste una relazione 3 L’indagine Mediobanca-Unioncamere si basa su una classificazione originale dei sistemi produttivi locali italiani che tiene conto delle ricerche sui distretti e delle legislazioni regionali. Si veda Mediobanca-Unioncamere, 2013, pp. XXV-XXXIII. 4 La classificazione delle aree è quella indicata in Becattini-Coltorti (2004) con i successivi adattamenti. In particolare, le aree provinciali vengono individuate sulla base della natura prevalente della loro organizzazione industriale: aree distrettuali, di grande impresa, urbane (province con più di 2 milioni di residenti) e residuali. Le aree distrettuali e di grande impresa popolose sono quelle con più di 500 mila residenti. 7 significativa tra il loro addensamento provinciale e la consistenza complessiva delle imprese, come si vede dalla Figura 1. Non accade altrettanto nei luoghi di grande impresa dove la presenza della media dimensione è inizialmente giustificata dai rapporti di subfornitura verso i grandi complessi. Nelle aree residuali, che raccolgono soprattutto i territori terziari e quelli del Mezzogiorno, la diffusione delle MI segue quella della popolazione complessiva anche se con un fitting più debole rispetto a quello distrettuale. Le MI aventi sede nelle aree distrettuali rappresentano nel 2011 il 66,5% del totale; le restanti sono così distribuite: il 13,1% nelle quattro aree urbane (Milano, Torino, Roma e Napoli), il 9% in aree di grande impresa e l’11,4% in aree residue. Figura 1 - Distribuzione delle imprese nelle aree distrettuali (% nel 2011) Il ruolo delle MI nei territori che le hanno viste evolvere è collegato direttamente ai cambiamenti dell’industria manifatturiera dopo gli anni ’80 del secolo scorso e alla globalizzazione dei mercati iniziata poco dopo. La necessità di innovazioni sempre più rapide, l’opportunità di istituire reti estere di supporto alla produzione (che resta prevalentemente nazionale e legata ai beni dello “stile italiano”) e l’adozione di soluzioni organizzative flessibili (confermando l’originale filosofia lean) hanno favorito l’assunzione da parte di queste imprese di ruoli pivot. Per i territori ciò non significa la perdita della fisionomia distrettuale, ma certamente una sua evoluzione in chiave più competitiva. É possibile notare nella manifattura italiana una separazione 8 relativamente definita dei ruoli: le produzioni di massa (chimica, metallurgia, apparecchiature elettriche ed elettroniche, mezzi di trasporto) spettano al ristretto numero di gruppi maggiori, i beni per la persona e la casa e la meccanica leggera ai distretti. Il procedere dei processi evolutivi accennati ha condotto in parte ad un rimescolamento di carte, nel senso che le produzioni a maggior contenuto tecnologico sono divenute terreno di conquista anche per imprese di dimensione piccola e intermedia, tenuto conto che oggi le economie di scala non vengono più viste prevalentemente all’interno della stessa impresa, ma nelle filiere che essa attiva e nelle reti a cui essa partecipa. La Tabella 1 dà conto dell’evoluzione produttiva così come è stata riflessa sui conti delle MI indagate da Mediobanca e Unioncamere. L’originale predominio dei beni per la persona e la casa è stato sostituito dalla presenza massiccia nella metalmeccanica e nell’elettronica nonché nella chimica specializzata. Tabella 1 - Valore aggiunto prodotto dalla manifattura italiana 2000 2009 2012^ 2000 Milioni di Euro a prezzi correnti Coke e raffinazione petrolifera 2009 2012^ in % 3.548 1.900 2.273 1,7 0,9 1,1 24.638 23.600 24.029 11,9 11,4 11,5 8.328 6.209 7.617 4,0 3,0 3,6 Mezzi di trasporto 14.241 12.733 12.209 6,9 6,2 5,8 Altri beni 27.548 28.454 29.797 13,3 13,8 14,2 Totale beni delle grandi imprese 78.303 72.896 75.925 37,8 35,3 36,2 Alimentari e bevande 22.271 24.921 26.075 10,8 12,1 12,4 Tessili, abbigliamento, pelli 27.272 22.183 22.194 13,2 10,7 10,6 Lavorazione minerali non metalliferi 12.286 12.444 10.411 5,9 6,0 5,0 Prodotti in metallo 24.489 29.279 28.400 11,8 14,2 13,5 Macchinari 25.090 27.570 30.707 12,1 13,3 14,7 Legno, mobili e altro 17.439 17.350 15.883 8,4 8,4 7,6 Totale beni dei distretti e del Quarto capitalismo 128.847 133.747 133.670 62,2 64,7 63,8 Totale manifattura italiana* 207.150 206.643 209.595 100,0 100,0 100,0 Chimica e farmaceutica Metallurgia ^ Dati parzialmente stimati in mancanza di dettagli ISTAT. * Escluse attività di riparazione e installazione di macchine e attrezzature. Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT. Nel contesto accennato i mercati esteri ricoprono un ruolo fondamentale. Non solo a causa della congiuntura negativa che attanaglia l’eurozona dallo scoppio della grande crisi finanziaria, ma anche perché il puntare mag9 giormente su nicchie specializzate comporta la possibilità di espansione soprattutto nei paesi emergenti. Nello stesso tempo, il frazionamento delle fasi produttive e l’estensione, in molti casi, delle filiere oltre i confini nazionali richiede una valutazione non solo, e non tanto, dei flussi esportativi in sé, ma soprattutto dei saldi tra export e import poiché la vendita riguarda spesso beni che incorporano componenti di fabbricazione estera. Sotto questo profilo è possibile pertanto valutare distintamente gli apporti dei territori sulla base della rispettiva “vocazione” industriale. La Tabella 2 mette chiaramente in evidenza: • La manifattura italiana produce un saldo commerciale fortemente positivo, salito da 38 miliardi di Euro nel 2000 a 46 miliardi di Euro nel 2009 (anno di crisi) a 98 nel 2013; • Il saldo commerciale positivo è attribuibile essenzialmente alle aree distrettuali e ai sistemi del Quarto capitalismo che hanno presentato un avanzo costante nel periodo (Figura 2). Le partite più consistenti sono originate dalle vendite di macchinari (saldo attivo salito da 20 miliardi di Euro nel 2000 a 49 miliardi di Euro nel 2013) e di articoli tessili, di abbigliamento e di pelli; l’attivo di questi ultimi è diminuito da 21 miliardi di Euro a 18 miliardi di Euro, ma il calo è stato più che compensato dai citati macchinari; resta da dire che si tratta ancora della seconda partita attiva della bilancia commerciale, realizzata con la vendita di beni più qualificati rispetto a 13 anni prima; notevole anche il saldo dei prodotti in metallo (raddoppiato tra il 2000 e il 2013) e incoraggiante il ridimensionamento del saldo negativo dei prodotti alimentari e bevande, anche qui per l’effetto di miglioramenti continui di qualità; • I beni prodotti dalle imprese di dimensione maggiore hanno comportato saldi negativi della bilancia commerciale sino al 2011. A seguito del forte indebolimento della domanda interna, le importazioni di questo tipo di beni ha subito un rallentamento e ciò ha prodotto un’inversione nel segno del saldo che da negativo è divenuto positivo negli ultimi due anni. Singolare il caso degli autoveicoli: l’importazione ha subìto una flessione di circa il 30% tra il 2011 e il 2013; nello stesso tempo, le aziende produttrici di componenti e accessori hanno promosso le vendite all’estero migliorando il loro attivo commerciale del 12%. Si tratta di una categoria di imprese tipica del Quarto capitalismo, la cui produzione viene ricompresa nella categoria dei mezzi di trasporto; similmente accade per le navi e le imbarcazioni i cui produttori evidenziano anch’essi saldi commerciali positivi (circa 6 miliardi di euro/anno nell’ultimo triennio). 10 Tabella 2 - Saldi export-import della manifattura italiana 2000 2009 2013^ Milioni di Euro a prezzi correnti Coke e raffinazione petrolifera -204 3.460 4.122 -4.588 -7.879 -4.700 -10.096 -1.733 -1.214 Mezzi di trasporto -4.651 -5.963 7.764 Altri beni -3.901 -4.486 -2.622 -23.440 -16.601 3.350 Alimentari e bevande -4.079 -2.622 -564 Tessili, abbigliamento, pelli 21.296 11.251 18.439 Lavorazione minerali non metalliferi 6.390 4.735 6.151 Prodotti in metallo 6.541 9.302 11.525 Macchinari 20.023 34.019 49.320 legno, mobili e altro 11.528 5.995 10.040 Totale beni dei distretti e del 4° capitalismo 61.699 62.680 94.911 Totale manifattura italiana* 38.259 46.079 98.261 Chimica e farmaceutica Metallurgia Totale beni delle grandi imprese ^ Dati parzialmente stimati in mancanza di dettagli ISTAT. * Escluse attività di riparazione e installazione di macchine e attrezzature. Fonte: elaborazioni su dati ISTAT. Figura 2 - Saldi export-import dell’Italia 11 La classificazione dei distretti italiani in base alla performance É noto che a tutt’oggi i distretti industriali (d’ora in poi DI) costituiscono una parte essenziale del sistema produttivo nazionale ed un loro rilancio contribuirebbe a dare un impulso importante alla ripresa dell’economia del nostro paese. Il rilancio richiede in primo luogo la comprensione dei problemi da risolvere e delle connesse politiche da adottare. Nell’ottica di rappresentare empiricamente le differenze tra i DI italiani, in questo paragrafo riportiamo i risultati della classificazione degli stessi sulla base delle performance registrate tra il 2010 ed il 2012. In particolare, la mappatura è stata realizzata su 45 Distretti presenti nell’Osservatorio (d’ora in poi OND), ciascuno dei quali, nel 2012, ha fatto registrare un giro d’affari complessivo superiore al miliardo di Euro (vedi Tabella 3). La classificazione del campione si basa sul calcolo e successiva analisi di tre Key Performance Indicator (KPI): • Il valore aggiunto. In base alla definizione dell’ISTAT il valore aggiunto è l’aggregato che consente di apprezzare la crescita del sistema economico in termini di nuovi beni e servizi messi a disposizione della comunità per impieghi finali. Nella sostanza è una grandezza che ci consente una comparazione oggettiva dei diversi agglomerati industriali, evidenziando quali di essi sono più rilevanti per l’assetto socio-economico dei territori nei quali insistono. • Il rapporto MOL/Fatturato % medio di distretto nel triennio 2010-2012. Tale indice può rappresentare una buona approssimazione della marginalità media del settore a cui appartengono le aziende di uno specifico distretto. Questo dato non ha la presunzione di rappresentare in modo puntuale quelle produzioni che si dimostrano più competitive, ma di dare una buona indicazione di quali distretti riescono oggi a presentarsi sul mercato con successo; esso è stato calcolato come media semplice dei 45 distretti. • La variazione % del fatturato di distretto5 nel triennio 2010-2012. Questo parametro consente di valutare le performance dei 45 distretti; esso è stato calcolato attraverso la formula dell’interesse composto (CAGR). Evidenzia le dinamiche di crescita o recessione registrate dai diversi distretti nel periodo in esame. 5 Per una questione legata alla disponibilità dei dati di bilancio, i KPI sono stati calcolati per le sole società di capitale. La fonte è la base dati dei bilanci elaborata da Unioncamere. 12 Al fine di confrontare le performance dei distretti, i tre KPI sono stati riportati all’interno di un grafico a “bolle” (Figura 3). Nello specifico, la variazione percentuale di fatturato è stata riportata sull’asse delle ascisse in ordine decrescente verso destra, mentre il MOL/Fatturato % è stato riportato sull’asse delle ordinate in ordine crescente verso l’alto. L’origine degli assi è rappresentativa dei valori medi di ambedue le grandezze: variazione del fatturato pari a +2,3%, rapporto MOL/Fatturato pari al 7,4%. Il valore aggiunto (espresso in milioni di euro) è rappresentato dalla dimensione delle “bolle” e permette di individuare rapidamente i distretti più rilevanti. Tale rappresentazione consente di identificare quattro principali gruppi di distretti, racchiusi all’interno dei relativi quadranti della figura. Riportiamo di seguito la descrizione delle peculiarità dei singoli quadranti. Primo Quadrante (Q1) Nel primo quadrante sono presenti quei distretti caratterizzati da un MOL/ Fatturato % piuttosto elevato (superiori al 7,4%), sintomo di produzioni ad alta marginalità, ma che tuttavia hanno registrato una limitata crescita del fatturato, o addirittura una diminuzione dello stesso, nel triennio 2010-2012 (variazioni del fatturato inferiori al 2,3%). Questi distretti (es. Distretto meccanica Pugliese) hanno spesso prodotti vincenti, ma dovrebbero rivedere la propria catena del valore per recuperare efficienza. Le azioni di ristrutturazione necessarie dovrebbero essere agevolate da incentivi mirati, utilizzando in modo efficace gli strumenti che saranno proposti nel capitolo successivo. Secondo Quadrante (Q2) Nel secondo quadrante ricadono quei distretti che hanno avuto una variazione del fatturato molto bassa oppure negativa; essi presentano inoltre marginalità modeste, con tutta probabilità a causa di produzioni che nel tempo hanno subito sempre di più la pressione competitiva internazionale. Rientrano ad esempio in questo quadrante i distretti della calzetteria femminile di Castelgoffredo e della Meccanica ed elettrodomestici di Fabriano. Questi distretti dovrebbero necessariamente rivedere le loro strategie in merito a quelle produzioni sulle quali ormai i margini sono troppo esigui, focalizzandosi al contrario sulle linee di prodotto che assicurano ancora un vantaggio competitivo e conseguentemente un premium price. Terzo Quadrante (Q3) Nel terzo quadrante, in basso a sinistra, sono presenti i distretti che hanno bassi margini, ma che nel triennio in esame sono comunque riusciti a registrare una 13 crescita del fatturato superiore alla media (di fatto tra il 2,3% e l’8,0%). Questi (ad es. il Distretto del ferro delle valli bresciane) per mantenere e migliorare il vantaggio competitivo acquisito negli anni, dovrebbero essere incentivati ad investire in innovazione, sia di prodotto che di processo produttivo. Quarto Quadrante (Q4) Nell’ultimo quadrante, in alto a sinistra, sono presenti i distretti con i migliori risultati, avendo accresciuto in misura sensibile il proprio fatturato, riuscendo al contempo a mantenere margini di redditività elevati. Essi realizzano prodotti apprezzati dal mercato, che si è dimostrato disposto a riconoscere un premio all’eccellenza anche in tempi di crisi. Tra i distretti di questo quadrante ritroviamo ad esempio quello della Meccatronica. Queste aziende non avrebbero bisogno di aiuti, ma dovrebbero piuttosto essere incentivate a re-investire i propri utili in Italia. Al pari delle aziende di tutti i distretti, dovrebbero essere liberate dai troppi adempimenti dettati dalla burocrazia. Come evidenziato nella Figura 3 i distretti industriali il cui valore aggiunto è particolarmente rilevante sono concentrati all’interno del quadrante 1 (margini elevati, ma crescita bassa) e del quadrante 2 (margini bassi e crescita bassa). Esiste dunque un problema di crescita del fatturato per i distretti più importanti. A conclusione dell’analisi proposta è importante considerare come, solo ragionando su tre KPI di un insieme formato da 45 distretti, sia possibile individuare quattro macro-categorie sulle quali articolare considerazioni di merito che possono tramutarsi, in una fase successiva, in ipotesi d’interventi mirati. Figura 3 - La classificazione dei distretti italiani in base alla performance (KPI) Fonte: elaborazioni degli autori. 14 Tabella 3 - Distretti italiani con fatturato superiore ad 1 miliardo di Euro (periodo 2010-2012) Distretto Varizione Fatturato MOL / Fatturato % medio Valore aggiunto (€mln) Fatturato (€mln) 1 Distretto Veneto dei Sistemi per l’Illuminazione 1,4% 8,3% 5.347 22.094 2 Distretto Veneto del Condizionamento e della Refrigerazione Industriale 1,6% 8,1% 4.756 19.283 3 Distretto della Metalmeccanica ed Elettronica del Canavese 1,7% 7,4% 4.077 15.067 4 Distretto del Ferro delle Valli Bresciane (Lumezzane) 2,7% 6,2% 2.362 13.154 5 Metadistretto Alimentare Veneto 5,5% 7,3% 1.618 10.502 6 Distretto Produttivo della meccanica Pugliese 0,7% 8,7% 2.376 8.136 7 Distretto Industriale della Componentistica e della Meccanica (Co.Mec.) 1,4% 7,1% 1.491 6.432 8 Distretto Vicentino della Concia 4,5% 6,9% 1.063 5.510 9 Distretto dei prodotti in pelle e cuoio di Santa Croce sull’Arno /Castelfiorentino 7,9% 7,0% 981 5.207 10 Metadistretto Veneto della filiera del Legno Arredo-Mobile (Veneto e Friuli Venezia Giulia) -0,6% 5,8% 1.146 5.027 11 Distretto della Meccatronica 3,9% 9,3% 1.335 4.992 12 Distretto del Tessile-Abbigliamento di Prato 2,3% 4,7% 812 4.941 13 Distretto veneto dell’abbigliamento-Verona Pronto Moda 2,0% 8,2% 1.060 4.636 14 Distretto dell’Occhiale 2,2% 10,5% 1.247 3.935 15 Distretto delle Piastrelle di Sassuolo 1,0% 8,9% 1.188 3.840 -0,7% 6,4% 874 3.808 17 Distretto Cartario di Capannori 3,1% 7,4% 684 3.659 18 Distretto delle Pelli, Cuoio e Calzature del Valdarno Superiore 8,0% 7,5% 718 3.602 19 Distretto della gomma e guarnizioni in plastica del Sebino 1,8% 7,6% 773 3.359 20 Distretto Lecchese dei Metalli 3,4% 8,6% 756 3.172 21 Distretto Veneto della Termomeccanica VenetoClima 0,1% 7,8% 745 2.852 16 Distretto Tessile, Confezioni e Accessori per l’abbigliamento della Valseriana/Bergamasca-Valcavallina-Oglio 15 22 Distretto aerospaziale pugliese 1,9% 8,6% 709 2.809 23 Distretto Tessile-Abbigliamento di Biella e Vercelli (Tollegno/Trivero/Biella/Cossato/ Crevacuore) 5,8% 8,7% 715 2.634 24 Distretto Industriale del Coltello 1,7% 7,2% 607 2.436 25 Distretto Tessile-Abbigliamento di Empoli 6,6% 6,1% 424 2.416 -0,5% 8,6% 433 2.329 27 Distretto Tessile Lecchese 2,4% 7,0% 638 2.311 28 Distretto Agro-Alimentare di Nocera Inferiore-Gragnano 4,8% 6,0% 283 2.073 29 Distretto della Rubinetteria e del valvolame di S.Maurizio D’Opaglio/Armena 2,1% 10,4% 595 2.038 -3,1% 4,8% 498 2.005 2,7% 7,1% 535 1.938 -2,6% 5,3% 344 1.864 33 Distretto Orafo di Arezzo 3,8% 13,1% 337 1.764 34 Distretto Orafo-Argentiero di Vicenza 3,4% 6,9% 321 1.604 35 Distretto del mobile della provincia di Pordenone 0,3% 5,4% 338 1.536 36 Distretto Agro-alimentare di ParmaLanghirano 2,2% 6,9% 212 1.455 37 Distretto del Prosecco Superiore - Conegliano Valdobbiadene 4,7% 7,1% 242 1.351 38 Distretto Calzaturiero di Fermo (Fermo/ Montegranaro/Montegiorgio/Montefiore dell’Aso/Offida) 3,7% 7,8% 321 1.348 39 Distretto del Mobile della Brianza 0,3% 4,5% 316 1.324 40 Distretto Calzaturiero Veronese 0,4% 6,9% 269 1.250 41 Distretto della nautica da diporto di Viareggio 0,7% 6,1% 243 1.167 42 Distretto Moda Puglia 1,2% 5,9% 288 1.144 -0,2% 6,9% 245 1.119 44 Distretto delle Bevande Alcoliche di Canelli-Alba 3,2% 8,5% 195 1.082 45 Distretto delle Pelli, Cuoio e Calzature di Civitanova Marche/Tolentino/Monte San Giusto/Porto S. Elpidio/Monte 3,9% 8,0% 267 1.059 Totale / medie 2,3% 7,4% 44.784 195.261 26 Distretto dello Sportsystem di Montebelluna 30 Distretto della Meccanica ed elettrodomestici di Fabriano 31 Distretto Tessile e Abbigliamento di Como 32 Distretto della calzetteria femminile di Castelgoffredo 43 Distretto industriale della Sedia Fonte: nostra selezione su dati Unioncamere dei 100 distretti dell’OND. 16 Orientamenti di politica industriale Le azioni messe in campo dalla politica fino ad ora (si veda OND 2014), si sono dimostrate inadeguate: incentivi distribuiti a pioggia, politiche del lavoro vincolanti, ammortizzatori sociali inefficaci, investimenti sempre più esigui per istruzione ed innovazione, politiche fiscali oppressive. Il mix di queste misure ha frenato le imprese più virtuose, mantenendo, a volte, in vita soggetti economici non più competitivi. Occorre dunque ripensare le politiche. Relativamente agli interventi per il rilancio delle aree in difficoltà, così come messe in evidenza dalla precedente analisi, la nostra convinzione è che si debba concepire una sorta di “piano strategico distrettuale” in grado di definire linee di sviluppo comuni e coerenti con le esigenze dei singoli distretti. I punti determinanti di tale piano dovrebbero riguardare: • l’organizzazione del distretto • il finanziamento degli investimenti • il rilancio dell’occupazione. 1. L’organizzazione del distretto I DI sono nati e hanno prosperato grazie ad un modello di relazioni di tipo “orizzontale”: tante piccole imprese, ciascuna delle quali specializzata in una singola fase (o in poche fasi) di un processo produttivo, legate tra loro grazie alla conoscenza diretta tra imprenditori e, soprattutto grazie anche a quella “atmosfera” socio-culturale che si creava nel territorio di appartenenza, capace di generare un forte impulso alle attività industriali del distretto nel suo complesso. Oggi questo modello sta lasciando il passo ad un’impostazione più “verticale”, in cui le imprese del Distretto si riorganizzano appoggiandosi ad una sorta di pivot. Le imprese pivot (quasi sempre di media dimensione) necessitano, però, di regolare in maniera più efficiente le proprie relazioni di business, all’interno ed all’esterno dell’area distrettuale di loro pertinenza. Per farlo servono più specifiche e qualificate competenze manageriali, strumenti informativi e tecnologici più orientati all’agevolazione delle comunicazioni, ma anche nuovi strumenti giuridici e nuove forme contrattuali di collaborazione. In quest’ottica i contratti di rete possono, se opportunamente utilizzati, costituire un ottimo riferimento oltre che una vera e propria leva 17 organizzativa. Sono, questi ultimi, sottoscritti da imprese che si impegnano reciprocamente, in attuazione di un programma comune, a collaborare, ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica. Da alcuni anni ormai, questo strumento sta riscuotendo un notevole apprezzamento tra i vari soggetti industriali appartenenti a DI e non. Secondo le più recenti rilevazioni di Infocamere (Unioncamere 2014) al 1° dicembre 2013 erano in essere circa 1300 contratti di rete, che coinvolgevano 6.400 imprese, per un terzo attive nell’industria in senso stretto. Molte aziende scelgono questo nuovo istituto giuridico per mettere a fattor comune risorse, know-how, informazioni, mantenendo, al contempo, l’autonomia gestionale che tanto cara è ai piccoli imprenditori del nostro Paese. La diffusione, per cosi dire, spontanea dei contratti di rete non è, a nostro avviso, sufficiente per sfruttare appieno il potenziale di tale strumento, soprattutto nel comparto manifatturiero. Sarebbe necessaria una riflessione di carattere più istituzionale su quali potrebbero essere le modalità per renderlo sempre più rispondente alle esigenze delle imprese. Definendo, per esempio, il ruolo che dovrebbe avere il sistema delle Camere di Commercio in collaborazione con altri attori del territorio, quali le associazioni di categoria, per promuovere in maniera più sistematica e consapevole lo strumento. La loro diffusione non è tuttavia sufficiente a stimolare la crescita: potrebbe essere, a nostro avviso, utile creare una sorta di agenzia per il controllo della “qualità” del contratto di rete e potrebbe essere in capo a Unioncamere. Nella fattispecie un ente terzo che, attraverso il monitoraggio continuo del successo/fallimento di tali iniziative, sia in grado di disegnare, proporre ed implementare i correttivi necessari alla politica industriale dei territori ai quali detti contratti di rete fanno riferimento. In quest’ottica, questi ultimi che oggi massimamente vengono stipulati per mettere a fattor comune servizi ai processi produttivi, offering commerciali e portafogli clienti, potrebbero essere estesi alla condivisione delle attività di ricerca e sviluppo, marketing, alle strategie di internazionalizzazione e di delocalizzazione di capacità produttiva e/o di processi operativi di back-office. In buona sostanza, potrebbero diventare un vero e proprio strumento per lo sviluppo, al servizio del citato piano strategico distrettuale. Attuare questo approccio significherebbe incidere sull’organizzazione delle aree territoriali industrializzate, innescando più consapevolmente i processi legati all’innovazione attraverso un rapporto più sistematico tra imprese e università. Significherebbe, infine, considerare l’area territoriale come un’unica azienda che abbia un’unica vision evitando di frammentare interventi sui diversi soggetti che compongono il sistema. Un approccio di questo tipo può, a nostro avviso, garantire risultati win-win per tutti gli stakeholders. 18 2. Il finanziamento e l’accesso al credito Il tema delle politiche finanziarie è trattato in un altro saggio in questo stesso Rapporto (v. Alessandrini e Cucculelli). Qui è sufficiente ricordare che la crisi economica che sta attanagliando l’Italia, nasce come crisi finanziaria. Le banche, con problemi di liquidità prima, e, dopo l’intervento della BCE, costrette a far fronte alla crescita delle sofferenze, hanno ridotto di molto la propensione al credito. Ovviamente i primi soggetti a farne le spese sono, spesso, le piccole medie imprese (PMI), ovvero il cuore del tessuto produttivo italiano e dei DI in particolare. Esse costituiscono il tessuto connettivo del Quarto capitalismo essendo legate in filiera alle aziende di dimensione intermedia, quelle aventi ruoli di pivot. Poiché i problemi affrontati dalle nostre aziende sono derivati in buona misura dal razionamento del credito, occorre trovare soluzioni che consentano di gestire anche questo problema a livello di piano strategico di distretto. Come evidenziato da un’indagine della Banca Centrale Europea (BCE), l’accesso al credito è al secondo posto tra le problematiche di maggior rilievo per le PMI europee, preceduta soltanto “dall’individuazione di nuovi clienti”. Il livello di qualità creditizia è, da sempre, correlato allo sviluppo economico del territorio, ed è per questa ragione che il cosiddetto “Made in Italy” e le aree distrettuali necessitano, in questo particolare momento storico, di un sistema creditizio, per cosi dire, tagliato su misura, che sia in grado di comprendere le esigenze, fornendo strumenti finanziari adeguati. A tale proposito il bond delle reti può essere un ottimo mezzo per finanziare quelle imprese che hanno deciso di aggregarsi, permettendo loro di ottenere un miglioramento del rating creditizio a tutto vantaggio degli investimenti in innovazione. Appare comunque chiaro che il ruolo del territorio non sia affatto esaurito, ma che anzi può essere rivalutato. Laddove, quest’ultimo è stato capace di offrire conoscenza, capitali, risorse umane, ricerca applicata, le imprese hanno trovato terreno fertile per rafforzarsi. Le forti disomogeneità che vediamo nei distretti e nelle aree industrializzate più in generale, spingono a nostro avviso, a fare ancor più sistema. Riteniamo che le banche debbano tornare a ricoprire un ruolo centrale, in forme da concordare sempre a livello di piano strategico, rinunciando invece a sviluppare le improponibili operazioni dello shadow banking. 3. Il rilancio dell’occupazione Gli argomenti trattati sinora per il rilancio delle aree territoriali industrializzate/distretti, rappresentano di per sé azioni utili, ovviamente anche per l’incremento dell’occupazione. A tale riguardo i tradizionali modelli ed i relativi ammortizzatori sociali non sempre si sono dimostrati all’altezza nell’af19 frontare efficacemente le sfide poste dalla crisi economica. Il vero rilancio dell’occupazione dovrebbe passare, secondo noi, attraverso un ripensamento radicale del tema lavoro, il tutto inserito, anche per questa fattispecie, nel più volte citato piano strategico distrettuale. Andrebbero recuperati i valori tradizionali del distretto, la proattività, lo spirito d’iniziativa, la cooperazione, il coinvolgimento dei lavoratori sulla base dei quali progettare nuove e più efficienti filiere all’interno del distretto. Nello specifico in un’ottica più complessiva e, soprattutto, più organica eventuali esuberi su alcune attività razionalizzate di una filiera potrebbero costituire nuova capacità produttiva e quindi nuova forza lavoro per quelle filiere che, invece, sono bisognose di professionalità. Nell’ambito del contratto di “Rete territoriale” potrebbe essere utile avere un organismo che, in maniera centralizzata, segua tutte le tematiche legate alla gestione delle risorse umane, oggi a carico di ogni singola azienda. Tale nuova unità organizzativa con la sponsorship dei principali attori interessati (sindacati e associazioni di categoria) potrebbe gestire la politica del personale dell’intera area territoriale, in definitiva una sorta di Human Resources department di rete distrettuale. Tale organismo potrebbe, altresì, occuparsi di incentivare, organizzare e supportare la realizzazione di nuove forme imprenditoriali all’interno del territorio/distretto, ridando vigore a quella forma di “imprenditorialità diffusa” che, facendo leva sui valori caratterizzanti il territorio, faccia tornare a crescere il germoglio dello sviluppo. Al riguardo alcune iniziative, ancora abbastanza isolate, di workers buy-out ci fanno capire che forse i tempi sono maturi per considerare anche questa pratica come una delle possibili azioni da implementare nell’ambito del piano strategico distrettuale. É ormai noto, anche grazie alle recenti esperienze tedesche, che un coinvolgimento specifico dei lavoratori su alcune scelte gestionali dell’azienda, crei maggiore commitment da parte di quest’ultimi a tutto vantaggio della produttività e conseguentemente della competitività. In tale ottica l’obiettivo di rendere efficienti parti o intere filiere produttive all’interno di un territorio che comporti l’eventuale esternalizzazione di alcune attività operative, potrebbe essere perseguito dagli stessi lavoratori (esuberi e non) organizzati, per esempio, in cooperative. Un bond di rete territoriale a fronte di un numero congruo di contratti garantiti dalle imprese della filiera, ne consentirebbero lo start-up. Un approccio di questo genere avrebbe effetti positivi sulla competitività dell’intero territorio in quanto: • Le attività esternalizzate, organizzate all’insegna dell’efficienza e gravate da minori costi di funzionamento, costerebbero meno all’impresa esternalizzante (più competitività sul fronte dei prezzi dei prodotti venduti); 20 • I lavoratori organizzati in cooperative diventati, quindi, imprenditori, per quanto prima spiegato aumenterebbero la produttività e quindi anche i loro guadagni; • A fronte della ulteriore crescita di valore all’interno del territorio aumenterebbero /migliorerebbero i servizi a tutto vantaggio del clima sociale. Il piano strategico distrettuale, redatto in un’ottica di condivisione dei rischi e delle opportunità, renderebbe centrale la figura di lavoratore/imprenditore che, unitamente ai concetti di reinvestimento dei profitti all’attenzione alla formazione e allo sviluppo di nuove competenze e all’innovazione, costituiscono gli ingredienti necessari per riattivare lo sviluppo laddove il vecchio modello di impresa non riesce ad intervenire a causa delle pressioni competitive e dei vincoli finanziari. Lo strumento dell’imprenditorialità diffusa sarebbe, altresì, molto utile per creare le cosiddette “filiere a Km0”, cioè l’organizzazione sul territorio di attività di fornitura e/o subfornitura di beni e servizi a favore di una o più imprese pivot (v. anche il saggio di Fontana, Pozzi e Taranzano in questo stesso Rapporto). Molto interessante a tale riguardo sarebbe utilizzare il piano strategico distrettuale corredato di tutte le iniziative, testè, illustrate per accedere ai finanziamenti del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) che, com’è noto, attraverso l’approccio, denominato “concentrazione tematica”, destina fondi per: innovazione e ricerca; agenda digitale; sostegno alle piccole-medie imprese; economia a basse emissioni di carbonio. Analogamente il Fondo sociale Europeo che investe sulle persone, riservando speciale attenzione al miglioramento delle opportunità di formazione e occupazione, potrebbe essere sfruttato per sostenere finanziariamente le attività a piano dell’HR department di territorio/distretto. Conclusioni Molte delle iniziative proposte hanno già oggi un riscontro concreto: parliamo, ad esempio, dell’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa che agisce su mandato del Governo in particolare nel Mezzogiorno, di varie agenzie per lo sviluppo di diverse province italiane (l’Aquila, Milano, ecc.) o come il Fondo Italiano d’Investimento, di recente costituzione, che ha l’obiettivo di creare nel medio termine una fascia più ampia di aziende di medie dimensioni incentivando i processi di aggregazione tra imprese minori al fine di favorirne l’internazionalizzazione. Sono tutte iniziative lodevoli, ma che ci fanno arguire che non sono il frutto di un disegno organico che, invece, sarebbe auspicabile nell’ottica di una politica industriale più di sistema. A conclusione del presente contributo vogliamo sintetizzare, da un lato i concetti descritti attraverso la proposizione di un approccio metodologico che, 21 secondo noi, può essere utile, in primis al legislatore ed in seconda battuta a tutti gli stakeholders; dall’altro lato articolare una serie d’interventi adeguati alle categorie di distretti individuate con la classificazione illustrata nel capitolo precedente. Approccio metodologico fasi principali (Tabella 5) • “Mappatura” puntuale dei Distretti/aree territoriali industrializzate italiane. Una politica industriale efficace non può prescindere dalle peculiarità dei singoli sistemi produttivi e dalle esigenze dei mercati in cui questi ultimi operano. Pertanto una classificazione delle sopracitate realtà rispetto a valore aggiunto, fatturato aggregato, MOL consentirebbe di fare riflessioni di merito rispetto alle priorità di intervento. É un’attività, questa, che potrebbe essere condotta dal Ministero per lo Sviluppo economico (MISE) con il supporto operativo di Unioncamere. • “Fotografia” dettagliata della situazione attuale del Distretto da rilanciare. Quest’attività può essere effettuata misurando concretamente le performance attraverso la progettazione di un set di indicatori “ad hoc” (Key Performance Indicators). Tali indicatori devono far emergere i fenomeni più rilevanti della catena del valore, con particolare riferimento ai colli di bottiglia e alle inefficienze. Su tali basi oggettive e confrontabili sarà possibile formulare ipotesi alternative miranti alla creazione del valore. Un tavolo presso il MISE che coinvolga: Amministratori locali e le aziende PIVOT del Distretto/area industriale in questione potrebbe essere lo strumento per il lancio ed esecuzione di quest’attività. • “Piano di azione” organico per il rilancio del Distretto. Il piano dovrebbe considerare il sistema produttivo in modo unitario cercando di razionalizzare e non frammentare gli interventi. Il Distretto andrebbe inteso come un’unica impresa da rilanciare e, a seconda delle esigenze, il piano d’azione potrà includere attività del tipo: ▷ Miglioramento della catena del valore (es. finanziamento di iniziative di ristrutturazione, incentivazione di workers buy-out attraverso i fondi recuperati dalla CIG, contratti di solidarietà espansivi); ▷ Riconversione di parte o di intere filiere (es. corsi di formazione tecnica dei lavoratori attraverso fondi FSE europei, sostegno agli investimenti in nuove attrezzature produttive finanziati con bond di rete/filiera ad hoc); ▷ Incentivazione della ricerca e sviluppo (es. defiscalizzazione degli utili reinvestiti in R&S, supporto all’internazionalizzazione, sistematizzazione attraverso joint venture dei rapporti con il mondo accademico); 22 ▷ Semplificazione (es. sportello unico per gli investimenti esteri sul ter- ritorio in questione, facilitazioni burocratiche per nuovi insediamenti produttivi e/o espansione degli stessi. L’esecuzione dell’action plan è un’attività che dovrebbe vedere coinvolti i principali stakeholders del Distretto/area industriale: le aziende pivot, amministratori locali/regionali, organizzazioni sindacali, organizzazioni di categoria. Lo strumento che potrebbe essere utilizzato resta quello della stipula di un contratto di rete di Distretto sotto la supervisione di una Agenzia per lo sviluppo dello stesso. Ipotesi di intervento distretti Q1 Q2 Q3 Q4 (tabella 4) I distretti del primo quadrante, pur avendo prodotti competitivi, hanno risentito della crisi. Necessiterebbero di interventi mirati che li aiutino a recuperare efficienza. La parola d’ordine dovrebbe essere ristrutturazione. Bisognerebbe analizzare l’intera filiera produttiva per individuare i processi e le fasi su cui è necessario intervenire per garantire la riduzione dei costi. Gli strumenti che si potrebbero utilizzare, tra quelli visti nel presente scritto sono: • Contratti di rete/distretto • Bond di rete/distretto per finanziare le iniziative di ristrutturazione • Workers buy-out. I distretti del secondo quadrante oltre ad essere stati colpiti dalla crisi, sono caratterizzati da produzioni che hanno perso competitività. In questi casi la ristrutturazione potrebbe essere insufficiente. Per questo gruppo di distretti la parola d’ordine dovrebbe essere riconversione e gli strumenti da attivare, in questo caso, sarebbero: • Formazione tecnica ai lavoratori • Investimenti in nuovi impianti produttivi • Investimenti nello sviluppo e ingegnerizzazione di nuovi prodotti • Bond di rete per finanziare gli investimenti. Nel terzo quadrante abbiamo visto che i DI hanno resistito bene alla crisi, ma stentano ad imporsi sul mercato con prodotti ad elevata marginalità. Per questi DI forse non ci sarebbe bisogno né di ristrutturazioni, né di riconversioni profonde; per essi la parola d’ordine dovrebbe essere innovazione e gli strumenti da attivare sarebbero: • Adeguate politiche di defiscalizzazione degli utili reinvestiti in R&S 23 • Joint venture con il sistema universitario • Supporto all’internazionalizzazione. Nell’ultimo quadrante (4°) ci sono i DI che hanno reagito positivamente alla crisi. Oltre a prevedere degli incentivi mirati, per queste realtà produttive sarebbe opportuno liberarle dai lacci burocratici: in questo caso la parola d’ordine sarebbe semplificazione e gli istrumenti da utilizzare: • Defiscalizzazione degli utili reinvestiti in Italia • Incentivi per gli investimenti esteri sul territorio. Ciò detto, è importante considerare, in conclusione, come le tematiche trattate in questo scritto (organizzazione, finanziamento, lavoro), in realtà siano strettamente legate tra loro; formare reti di distretto permette di accedere a condizioni più agevolate di credito e al contempo a forme di occupazione che facilitino “l’impreditorialità diffusa” con il conseguente recupero di efficienza lungo la catena del valore, lo sviluppo di nuove competenze e la loro condivisione con le altre imprese della rete, in una sorta di ciclo virtuoso. Tabella 4 Quadrante Tipo di intervento Tipo di strumento Q1 Ristrutturazione Contratto di rete distretto • Bond di Distretto per Workers buy-out Riconversione Contratto di rete distretto • Formazione dei lavoratori (fondi FSE) • Bond di Distretto per: ▷ Nuove attrezzature produttive ▷ Sviluppo e ingegnerizzazione di nuovi prodotti Innovazione Contratto di rete distretto • Defiscalizzazione utili reinvestiti in R&D • Joint Venture con Università • Bond di Distretto per Internazionalizzazione Semplificazione Contratto di rete distretto • Incentivi reinvestimento utili in Italia • Incentivi per investimenti di aziende estere nel territorio • Semplificazione di procedure per la costruzione di nuovi siti produttivi Q2 Q3 Q4 24 Tabella 5 Attività Competenze 1. Mappature distretti Unioncamere 2. Classificazione dei distretti (Fatturato/MOL/VA) MiSE/Unioncamere 3. Creazione agenzia per distretti rilevanti MiSE 4. Avvio redazione piano strategico distrettuale (PSD) Agenzia/Pivot 5. Approvazione PSD Agenzia/Pivot/Sindacato/Ass. di categoria/Amministrazione locale 6. Avvio attività e loro monitoraggio Agenzia/MiSE 25 26 Bibliografia Becattini G., Coltorti F. (2004). “Aree di grande impresa ed aree distrettuali nello sviluppo post-bellico dell’Italia: un’esplorazione preliminare”, in Rivista Italiana degli Economisti, n. 1 Supplemento, pp. 61-101. Coltorti F. (2006). Le medie imprese italiane: una risorsa cruciale per lo sviluppo, in Fortis M. e Quadrio Curzio A. (a cura di), Industria e distretti. Un paradigma di perdurante competitività italiana. Il Mulino, Bologna, pp. 315-361. Coltorti F. (2012). “Italian industry, decline or transformation? A framework”; in iFirst, October 2012, pp. 1-41; European Planning Studies, Vol. 21, issue 12, December 2013, pp. 2037-2077. Coltorti F., Venanzi D. (2014). Produttività, competitività e territori delle medie imprese italiane; in corso di pubblicazione (parziale anticipazione al convegno Incontri di Artimino sullo Sviluppo Locale, 7 ottobre 2013). Confindustria, R&S e Unioncamere (2013). Medium-Sized Enterprises in Europe (2013). Confindustria, R&S e Unioncamere, Milano. Mastromarino L. (2012). Italia, è tempo di ripartire. Gruppo 24Ore, Milano. Mediobanca e Unioncamere (2013). Le medie imprese industriali italiane (2002-2011). Mediobanca e Unioncamere, Milano. Osservatorio Nazionale Distretti Italiani (2014). Idea, esperienza e progetti per rafforzare o riscostruire la competitività dei terrori; Unioncamere, Roma. Unioncamere (2014). I contratti di rete. Rassegna dei principali risultati quantitativi; Unioncamere, Roma. 27 Fulvio Coltorti Nato a Jesi l’8 gennaio 1947 si è laureato alla facoltà di economia di Ancona seguendo l’insegnamento di Giorgio Fuà. Come responsabile dell’Area Studi di Mediobanca, dove è entrato nel 1972, ha promosso numerose ricerche sulle imprese italiane e sui mercati finanziari. Nel 1976 ha avviato lo storico annuario R&S. Ha associato il lavoro in Mediobanca, a stretto contatto con Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi, con l’attività di docente in varie Università. Nell’ateneo di Firenze tiene da molti anni un seminario sulle grandi imprese pubbliche e private nello sviluppo industriale postbellico dell’Italia, integrativo al corso sull’economia italiana avviato negli anni ’90 da Giacomo Becattini. Dal febbraio 2012 è Direttore emerito e Consigliere economico dell’Area Studi Mediobanca. È inoltre responsabile dell’Archivio Storico dell’istituto. Lino Mastromarino È Presidente di PricewaterhousCoopers Advisory SpA. Ha una trentennale esperienza nel settore del Management Consulting. Ha esercitato la sua attività in svariati settori: manufacturing, government, retail & consumer, healthcare, food & drink, focalizzandosi prevalentemente su progetti di corporate transformation.