Vittima Degli Eventi,U.N.O. - Urlo Nelle Orecchie,League of Legends

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Vittima Degli Eventi,U.N.O. - Urlo Nelle Orecchie,League of Legends
Vittima Degli Eventi
Credevano fosse uno scherzo. Mentre erano in procinto di girare Vittima Degli Eventi - il fan
movie no profit su Dylan Dog – Claudio Di Biagio e Luca Vecchi, rispettivamente regista e
sceneggiatore del film, cestinarono la mail ricevuta da Tiziano Sclavi, il poliedrico scrittore di
innumerevoli opere fra fumetti e romanzi gialli nonché creatore del noto investigatore dell’occulto, il
quale, avendo sentito parlare del loro ambizioso progetto, aveva accolto con curiosità la notizia
decidendo di contattarli.
Ma procediamo per gradi.
I due videomaker hanno ottenuto il loro primo
impatto con il pubblico della rete all’interno di
quell’incredibile fucina di idee e personaggi che
rappresenta il variegato mondo di Youtube, dal
quale proviene anche buona parte del team che
sviluppa il film: Di Biagio con le parodie del suo
canale NonApriteQuestoTubo e con le due stagioni
dell’acclamata webserie Freaks!; Vecchi con i ragazzi
dei The Pills e la loro sketch-comedy; Cane Secco (al
secolo Matteo Bruno) con i video varietà, qui nelle vesti di direttore della fotografia; Valerio Di
Benedetto, un attore che ha preso parte a diversi corti online e che un anno fa è stato primo attore
della pellicola rivelazione Spaghetti Story, interpreta il nostro protagonista bonelliano; ed infine i
The Jackal, i famosi youtuber partenopei autori di innumerevoli progetti degni di nota, dei quali
ricordiamo Lost in Google ed il recente Gli effetti di Gomorra- la serie sulla gente, coinvolti
nell’ambito della distribuzione.
Tale palcoscenico digitale ha permesso loro di sperimentare e prendere confidenza con le peculiarità
del mezzo cinematografico, sia da un lato che dall’altro della macchina da presa, creando al
contempo un numero nutrito di seguaci virtuali pronti a supportarli nelle loro iniziative. Ed è proprio
da qui che nasce il progetto di crowdfunding, una raccolta fondi organizzata presso il sito di
Indiegogo grazie alla quale è stato possibile raccogliere gli oltre 30 mila euro necessari a
determinare il budget.
Nel prologo vediamo Adele ed il fratello che, durante
una passeggiata notturna nei pressi di Castel
Sant’Angelo, s’imbattono in una misteriosa ed
inquietante donna dal volto tumefatto;
quest’ultima, staccatosi di netto il capo, lo consegna
nelle mani della giovane. Finiti entrambi in ospedale,
al fratello vengono diagnosticati degli attacchi
epilettici, mentre i referti medici di Adele tacciono
eventuali episodi allucinatori. Ma il macabro evento
paranormale sconvolge profondamente la ragazza, al
punto da continuare a tormentarla tramite dei ricorrenti incubi notturni. Parallelamente, un Dylan
fuori forma ed infiacchito da un’astinenza lavorativa che perdura oramai da sette lunghi mesi è
spinto finanche a dubitare circa il proseguo della sua attività investigativa. Ma la storia della
ragazza, che decide di rivolgersi all’indagatore dell’incubo, è così lugubre e misteriosa da
spingerlo ad entusiasmarsene e ad accettare così il caso.
L’adattamento cinematografico di un romanzo o di un fumetto implica sempre, da parte degli autori,
delle prese di posizione a livello di scrittura, forma e messinscena, scelte stilistiche ben precise che
possono scorrere più o meno parallele al prodotto originale oppure prenderne drasticamente le
distanze. In questa circostanza la grande differenza che si riscontra con il fumetto è individuabile nel
drastico cambio d’ambientazione: non vi è più, quindi, quella Londra grigia dal profilo gotico che
sul formato cartaceo ospitava i casi impossibili del nostro detective, residente presso il civico sette di
Craven Road (l’omaggio di Sclavi ad un certo regista di nome Wes). Quella proposta da Di Biagio e
Vecchi è invece una Roma notturna dai contorni sinuosi e suggestivi: i vicoli, gli scorci e i
dettagli degli angeli marmorei, illuminati dal candido pallore della luna piena dipinta sullo sfondo,
non fanno rimpiangere lo scenario anglosassone.
Le atmosfere capitoline non escludono tuttavia la
presenza di un altro grande personaggio legato a
Scotland Yard, ovvero l’ispettore Bloch,
interpretato da Alessandro Haber, il quale non
risparmia alla sua controparte cinematografica la
solita battuta sul povero Jenkins mandato a dirigere
il traffico. Restando ancora nell’ambito dei
comprimari, non poteva ovviamente mancare il
mitico Groucho, l’esilarante e bizzarro aiutante del
nostro Old Boy, portato in scena egregiamente dallo
stesso Vecchi su cui calzano alla perfezione i panni della spalla comica.
La cura maniacale della scenografia sorprende e cattura l’occhio più arguto: fra gli elementi
scenici più evidenti vi sono certamente il maggiolone bianco targato “DYD 666”, il clarinetto, il
modellino in legno del galeone, perennemente incompleto; ed ancora, il campanello urlante, la
storica pistola e gli interni del misterioso negozio d’oggettistica antica Safarà, gestito
dall’inquietante bottegaio Hamlin (Massimo Bonetti). I dettagli si fanno notare ed ammirare,
andando ad impreziosire ancor più il valore filmico: teschi, mappamondi, quadri, specchi, libri
antichi e polverosi, come anche i costumi curati da Federica Scipioni, immortalati da una fotografia
impeccabile che riesce a cogliere per ogni frangente l’essenza emozionale consona, convogliandone
le frastagliate sfaccettature verso la completezza del racconto filmico.
La regia, fresca e dinamica, mescola
sapientemente i vari tasselli filmici finora elencati
con una sceneggiatura efficace che, proponendo una
perfetta alternanza di momenti ritmici serrati a
deliziosi siparietti umoristici, mantiene elevato e
costante il coinvolgimento emotivo dello spettatore.
Soggettive, carrellate, primi piani e prospettive
insolite palesano come osare e convincere, con
esempi quali la sequenza della seduta spiritica presso l’abitazione di Madame Trelkovski (Milena
Vukotic) – complici anche gli incredibili effetti visivi a cura di Luca Della Grotta – e quella di Dylan
sotto gli effetti allucinatori dell’Erba del Diavolo. Le composizioni a cura di Helio Di Nardo e
Francesco Catitti si avvalgono di musiche, suoni e rumori volti a scandire le sequenze, realizzando
una colonna sonora suggestiva da cui emerge il ricorrente motivo composto al pianoforte.
La pellicola, poi, abbonda di citazioni in
riferimento al fumetto: tanti piccoli omaggi, dalle
battute alle inquadrature, che faranno contenti i fan
di vecchia data; una fra tutte, il finale d’impatto che
richiama il volume 41, “Golconda!”. Chiudono in
bellezza gli splendidi titoli di coda realizzati da Mario
Baluci, in cui una delicata melodia firmata Velvet
edulcora la lenta successione dei freeze frame della
pellicola.
Vittima Degli Eventi eccelle, diverte e conquista, e rappresenta certamente una di quelle ventate
d’aria fresca che giungono al nostro cinema solo di rado, mentre al contempo rigira con amarezza il
coltello nella piaga di un sistema sbadato, quello filmico italiano, che continua a rovistare solo nel
suo polveroso ombelico scimmiottando i fasti di una commedia, quella tanto brillante quanto amara,
che oggi appare così irraggiungibile. E se solo dessero uno sguardo attorno, forse, proprio Dylan
Dog potrebbe aiutarli a scacciare, una volta per tutte, gli inquieti fantasmi del passato.
U.N.O. - Urlo Nelle Orecchie
Diffidate sempre della musica di un carillon. Croce e delizia di
quell’orrore cinematografico che (in troppe occasioni) sottrae
alla melodia l’innocenza della dolcezza per affiancare la
colonna sonora nell’importante ruolo di nutrice delle
spaventose atmosfere necessarie all’immedesimazione
filmica. E se al posto della classica ballerina di porcellana ci
fosse il faccione di un inquietante clown che strizza l’occhio al
Pennywise di It – Il pagliaccio assassino, ecco, il viaggio fra le
paure dell’animo umano sarebbe assicurato.
Su tali note aggraziate, premonitrici d’un imminente pericolo, inizia U.N.O. – Urlo Nelle Orecchie,
cortometraggio dalle atmosfere anguste scritto da Francesco Patella e G. William Lombardo,
diretto da quest’ultimo e prodotto da Neverland Productions. Il protagonista è Nenè, un ragazzo
timido e introverso, il quale aiuta la madre lavorando come barista tuttofare presso il locale di
famiglia. Oppresso dallo strabordante istinto protettivo della stessa, egli sembra non riuscire a
sfuggire ad un torbido passato dalle fattezze incerte, che saltuariamente ritorna con prepotenza
nella sua vita tormentandolo al calar delle tenebre. Le problematiche puerili vengono pertanto
individuate quali focolai di angosce e perturbazioni, provocando la repressione di rabbia e
frustrazioni che conducono il ragazzo verso il baratro dell’alcolismo e della depressione.
Nel complesso, la regia assicura una moltitudine di stimoli
visivi volti a mescolare le poche informazioni a disposizione in
un posticcio collage di sequenze, spingendo il pubblico ed il
suo protagonista alla volta di una dimensione sospesa fra
l’onirico e il reale, senza mai optare per una realtà
definitiva: vicoli bui e stanze deserte, deformate dalla luce di
filtri colorati, si prestano alla causa alternando brevi momenti
in cui dei flashback disseminano i piccoli tasselli di una memoria danneggiata dai traumi
dell’infanzia. Menzioni particolari vanno poi a Cetty Lo Cascio e Salvo Bartolone, che si occupano del
make-up, ed a Mario Bajardi, autore delle splendide musiche.
Il finale non convenzionale sfugge al comodo espediente dell’happy ending, appellandosi
pertanto ad una libera interpretazione dello spettatore il quale, introdotto al macabro gioco delle
parti, diviene artefice di una pericolosa quanto affascinante danza fra la vita e la morte allestita
attorno alla fredda lama d’un coltello, costretto ad indossare le vesti della vittima oppure quelle del
carnefice.
League of Legends - the Short Movie
Che i mezzi di comunicazione siano profondamente cambiati nel corso degli ultimi decenni non è
certo una novità: le nuove tecnologie sono gli agenti coadiuvanti il concetto di convergenza dei mass
media e le rispettive modalità di relazione con l’utente – prosumer, quest’ultimo più che mai
protagonista nella fruizione ed al contempo creazione dei contenuti multimediali.
Parola d’ordine il web e le sue risorse, una fra tutte YouTube: il noto portale, inizialmente concepito
per permettere la condivisione su scala mondiale di video amatoriali, negli ultimi anni ha visto la
nascita e la diffusione esponenziale di fenomeni quali webserie, vlog e canali tematici, divenuti in
diversi casi vere e proprie rampe di lancio per emergenti artisti, cantanti e filmmaker.
Ivan Sorgente, conosciuto anche con il nickname di
Dagan Mind, appartiene proprio a quest’ultima categoria:
youtuber dal 2009, possiede un canale da 3.132 iscritti
con decine di video da 435.876 visualizzazioni totali. La
sua ultima fatica porta il titolo di “League of Legends –
the short movie”, un breve girato che s’ispira al
popolare videogioco online sviluppato da Riot Games nel
2009.
Una voce femminile annuncia l’arrivo delle prime creature del film, i Minions, cavalieri dotati di
lancia e scudo dal fare assai minaccioso, mentre un giocatore li scruta nascosto fra la boscaglia;
altrove, lo stesso Sorgente sta affrontando un gigantesco Golem quando riceve una richiesta d’aiuto
da parte di WeirdWoodMan, il ragazzo apparso in precedenza, in difficoltà contro un mostro Tower :
lui e l’alleato PaulBrook accorrono sul luogo dello scontro, imbattendosi nel personaggio di KickOne,
il quale provvederà ad eliminare bruscamente l’attore/regista; i due gamer rimanenti, allora, si
coalizzeranno per sconfiggere entrambe le minacce.
Una sinossi semplice ma efficace strizza l’occhio
alle meccaniche del gioco di ruolo, dove la
fondazione di gruppi di giocatori (le gilde), le
alleanze temporanee e gli scontri all’ultimo sangue
sono gli elementi preponderanti questo genere. La
realizzazione tecnica evidenzia l’ottima fotografia
realizzata da Francesco Termini, il montaggio
serrato ed una musica tribale incalzante che
scandisce la dinamicità degli scontri; inoltre la regia,
divincolandosi fra primi piani, dettagli e piani medi, alterna un taglio cinematografico ad
inquadrature simili alle schermate bidimensionali dei videogame di lotta. L’opera pullula di
effetti speciali: da evidenziare un’ottima integrazione fra le riprese live action e le varie immagini
computerizzate, dove le realizzazioni in CGI sono curate dallo stesso autore mentre i modelli
poligonali delle creature appartengono a Marco Mulè e Gabriele Dini.
In un panorama dove i corti online abbondano ed i video maker si sprecano, il trovare dei lavori
validi e ben realizzati diviene operazione sempre più complessa: la nostra ricerca mira a palesare il
vero potenziale che può esprimere il fandom ed il lavoro amatoriale di giovani appassionati della
settima arte.
Dune 6012 – Odissea nello Stagno
Il documentario Dune 6012 – Odissea nello stagno, realizzato da Pietro Di Bello che ne cura la
produzione unitamente a Dea Lofino, ostenta il merito di aver vinto nel 2012 il primo premio per
la sezione fotografica ed audiovisiva del concorso istituito dal Parco Naturale Regionale “Dune
Costiere da Torre canne a Torre San Leonardo”. Da subito l’opera ci immerge nelle vaste ed aride
campagne pugliesi, con lo scopo di cogliere ed immortalare le varie sfaccettature della flora e della
fauna caratterizzanti il territorio.
Le lunghe traversate attraverso le immense distese
di terreno vengono raccontate mediante i movimenti
della macchina da presa, alternati fra frenesia ed
accuratezza; le potenti immagini palesano il
viaggio compiuto da una volpe nel tentativo di
abbeverarsi presso il più vicino acquitrino, mentre
tutt’attorno un brulicante micromondo è in continuo
fermento: ai numerosi campi lunghi si alternano,
infatti, altrettanti piani ravvicinati e splendidi
dettagli di api, fiori ed insetti di ogni tipo e
dimensione, il tutto accompagnato dalla placida serenata dei grilli.
Le formiche laboriose fuoriescono dalle falle del terreno arido in cerca di provviste, muovendosi
repentinamente fra ciottoli e sterpaglia; le cavità scavate nel legno, i rami possenti come braccia e le
numerose scanalature scorrono come fiumi fra i tronchi imponenti dei mastodontici ulivi che si
stagliano dallo schermo: guardie secolari di un equilibrio naturale messo in pericolo dai
numerosi interventi umani. Un improvviso incendio interrompe la quiete della nostra esplorazione:
doloso o naturale che sia, questo drammatico evento rimane pur sempre una pericolosa minaccia per
l’ecosistema locale.
L’esplorazione continua all’ombra di ruderi rocciosi e
grandi casolari abbandonati, vecchie abitazioni dove i
secchi d’acqua, i pozzi artesiani ed i frantoi rimasti intatti
testimoniano le vite passate ed il loro esodo compiuto
verso la città. La soggettiva della camera richiama il
camminare dell’animale, il quale si fa strada fra sentieri,
rovi e colture fino ad arrivare al fatidico specchio
d’acqua, piccolo e talmente limpido da farci intravedere
il fondale ed i suoi abitanti. L’inquadratura s’allarga e,
nel mostrarci la palude tramite ampie vedute, rivela
d’essere in un anfratto posto vicino al mare, dove la nostra avventura giungerà al termine.
Un Buco Nel Cielo
L’occidente non è mai stato così lontano come in Somalia. Si respira aria di cambiamento, nel
villaggio della giovane Alifa, la narratrice del documentario intitolato Un buco del cielo, diretto da
Alex Lora ed Antonio Tibaldi e prodotto in collaborazione con No Permits Produktions ed Inicia
Films.
La cultura locale, intrisa di tradizioni e credenze
popolari, viene raccontata attraverso le parole della
protagonista, una pastorella rimasta orfana di madre; in
soli dieci minuti la pellicola è in grado di fornire allo
spettatore un’ampia gamma d’informazioni
riguardanti la cultura somala, esaminando una
moltitudine di aspetti che vanno dall’organizzazione
sociale basata sul sistema delle tribù fino all’allevamento
nomade e la produzione agricola, ovvero le basi
dell’economia locale.
Le carrellate alternano il racconto d’un territorio arido – modellato in prevalenza
su altopiani e pianure, eroso da periodici venti monsonici e piogge improvvise – a quello delle città,
dove le innumerevoli baracche ospitanti i mercati agroalimentari compongono come tasselli il
caotico quadro degli agglomerati urbani.
Le numerose scene di lavoro quotidiano, caratterizzate dalle attività di raccolto e di pastorizia,
trasmettono bruscamente la dura realtà della sopravvivenza giornaliera che, come dimostra
l’operato di Alifa, entra precocemente a far parte della vita dei membri della comunità.
La narrazione, scandita dall’alta qualità delle
immagini, si dedica inoltre all’approfondimento
delle leggende tramandate dai nativi, soffermandosi
in particolare nella descrizione del mito del “Godka
Cirka”, lo squarcio celeste creato all’inizio dei tempi
da Allah per dare origine alla vita sulla terra,
creando così il portale conduttore verso la
dimensione ultraterrena.
L’intenso viaggio proposto dal documentario si concluderà allora all’interno di una buia capanna di
paglia dove la piccola interprete, conscia della sua forte spiritualità e del volere divino, si dirigerà
inesorabilmente verso il triste destino che attende, come lei, migliaia di adolescenti sue
conterranee: l’atroce dramma dell’infibulazione.
L'esposizione del lenzuolo
L’esposizione del lenzuolo, cortometraggio nato dal sodalizio fra l’artista Maria Angela
Capossela e la filmmaker Liviana Davì, riguarda l’incrocio e la mescolanza di un progetto sociale
di action painting con una vecchia tradizione popolare.
La pellicola ci porta nel cuore di Calitri, un piccolo comune di cinquemila abitanti situato alle porte
di Avellino: intervistando le anziane donne cittadine, le autrici pongono a confronto le loro
esperienze con quella che era una pratica sociale molto diffusa anni or sono nel meridione, ovvero
l’atto di esporre sul terrazzo, sul balcone oppure fuori la finestra della propria abitazione le
lenzuola utilizzate dai coniugi novelli durante la prima notte di nozze, dove la presenza delle
macchie di sangue sul tessuto determinava la virtù della sposa.
Dalle interviste veniamo a conoscenza di ricordi, memorie ed
emozioni che le divertono ed, allo stesso tempo, imbarazzano
le protagoniste: la ricognizione in camera degli sposi, le scuse
e gli stratagemmi utilizzati, i pettegolezzi che animavano le
discussioni; particolari, questi, confessati a fatica alle
telecamere, complici l’imbarazzo e la vergogna ma anche
paletti e confini ideologici posti da un’arcaica società
maschilista che plasmava l’identità della donna attorno a
proibizioni di vario genere e a veri e propri tabù.
Dalla voglia di riscatto della figura femminile prende forma allora il proponimento artistico in
questione: l’evento, realizzato nel mese di agosto del 2013 in occasione del festival del
matrimonio Sponzfest e svoltosi nella piazza centrale del paese, ha visto la collaborazione
dell’intera cittadinanza nella raccolta e nella successiva colorazione di quattrocento lenzuoli bianchi,
richiamando la valenza storica della famigerata macchia sanguinea ma fornendole tuttavia una
dimensione artistica tutta nuova; inoltre, le due autrici hanno conquistato il premio Public Art
Award 2013 per la sezione urban screen, a conferma delle potenzialità che quest’iniziativa, in
quanto arte pubblica, ha potuto mettere in pratica nell’investire e coinvolgere fortemente il contesto
sociale ed urbano di una piccola località dell’Alta Irpinia.
Per concludere, si può notare come il linguaggio documentaristico delle riprese, con l’ausilio delle
intense musiche curate da Enza Pagliara, affianchi le numerose testimonianze nel tentativo di
catturare attimi e frammenti di vita passata estrapolati dalla memoria delle signore, portando così
alla creazione di un suggestivo ponte fra il ricordo del folklore popolare e la cultura odierna.
Vox Populi
L’arte di strada, i graffiti ed i murales appartengono a quella controversa categoria di contenuti che,
miscelati fra bellezza ed illegalità, attirano il consenso e l’ammirazione del pubblico tanto quanto le
sue denigrazioni e condanne al vandalismo; la diatriba vede i cosiddetti writer farsi largo tra casolari
e parchi cittadini per mezzo di rappresentazioni grafiche dei più svariati generi nell’intenzione di
veicolare significati, emozioni ed esperienze attraverso la propria creatività. Ma, a volte,
quando uno spazio fisico non basta, per fornire a questi messaggi una risonanza che sia più ampia
possibile e che arrivi a scuotere le menti e le anime delle persone occorrono gesti eclatanti, da cui
poi scaturiscono delle storie incredibili. Storie come questa.
Siamo nell’hinterland bolognese, in un tranquillo comune
disperso fra le campagne della provincia. Su alcuni dei
muri di periferia vi sono ritratti degli angeli, scarni e
sofferenti, simboleggianti delle inquietanti “morti
mediatiche”; il graffitaro fa parte di un gruppo di ragazzi
noto come “Vox Populi”, che nel gennaio del 2013 ha
intercettato e manomesso il segnale dell’emittente
televisivo cittadino, trasmettendo per oltre
ventiquattr’ore programmi e video messaggi di propria fattura: un gesto tanto impensabile quanto
sbalorditivo, che non trova precedenti nella storia della televisione.
Il cortometraggio in questione, che riporta il loro nome nel titolo, è diretto da Gian Marco Pezzoli,
che ne ha curato la sceneggiatura insieme a Marco Raccagna e Matteo Moschini; le cupe
musiche di Pietro Chiesa forniscono un’inquietante suspense alla narrazione che, affidata al
giornalista Carlo Lucarelli, delinea la vicenda proponendo le riprese originali della banda all’opera
intervallandole alle interviste di politici e giornalisti, i quali commentano l’accaduto: alcuni di loro lo
hanno classificato come un mera bravata compiuta da un gruppo di viziati e annoiati figli di papà che
volevano dare una scossa alla monotonia ammorbante le loro giornate; altri, invece, sostengono che
questa falsificazione della programmazione televisiva non è stata mai compiuta.
Di certo c’è che l’opera in questione, oltre ad essere ben realizzata e molto coinvolgente, non tende
a sprecarsi in inutili qualunquismi e schieramenti faziosi, rivolgendo subito l’attenzione al più
grande dei quesiti inerenti la faccenda, ovvero come mai una notizia tanto eclatante sia stata
così clamorosamente snobbata dai mass media nazionali: tralasciando ciò che in evidenza
appare come una poco ortodossa modalità di comunicazione utilizzata dai ragazzi, si nota pur
sempre in controluce un forte messaggio veicolante la voglia di riscatto nei confronti di una
nazione – e più in generale di una società – assopita, che si ritrova cerebralmente alla mercé di mass
media manipolatori di contenuti ed informazioni che dovrebbero essere divulgati senza alcun filtro,
che arriva a giustificare l’entità stessa della provocazione in nome della rivalsa di importanti e
delicate questioni contenenti sfaccettature ideologiche, sociali e culturali che per troppo tempo
hanno trovato così poche risposte.
Missione Natura
“Missione Natura” pone in primo piano l’importante questione ambientale della lotta
all’inquinamento, affrontandola in maniera efficace tramite l’impiego di un linguaggio visivo
semplice ma non banale, ovvero l’utilizzo di personaggi e scenari creati interamente con la
plastilina ed animati per mezzo della tecnica dello stop-motion; i registi Guglielmo Bianchi e
Luana Mastria si sono avvalorati della collaborazione dei bambini del campo estivo “Pensa Verde
2013” per la realizzazione delle varie scene e per la narrazione, composta da filastrocche scandite
dalle voci fuori campo dei piccoli ecologisti.
Il risultato ottenuto è un cortometraggio che, in soli cinque minuti, riesce a condensare e
trasmettere agli spettatori di tutte le età valori e nozioni in maniera simpatica e gradevole, dove il
ricorso allo stile della clay animation e la conseguente intricata realizzazione tecnica indicano la
presenza, alla base del progetto, di una forte passione per gli aspetti pedagogici e ludici che l’arte
cinematografica ha da offrire.
Muro Basso - se la decrescita è anche uno
spazio
“Wind of Change”, gridavano al mondo gli Scorpions dalla Germania degli anni Novanta. Oggi, nel
nostro Paese, qualcuno avverte il crescendo d’una forza capace di spazzare via non solo i luoghi
comuni e gli stereotipi che hanno marchiato a fuoco l’identità di ogni italiano, ma anche la
presunzione di chi, ghigno beffardo, dice e crede che non cambierà mai niente. Dietro alle torbide
figure criminali, all’orrore in primo piano, infatti, c’è l’altra faccia della medaglia, magari meno
esposta ai riflettori ma viva e composta da centinaia, fra uomini e donne di tutte le età, che in
tutt’Italia ogni giorno dedicano la propria vita alla lotta contro la prepotenza e le tirannie locali.
Sono i “figli di una cultura dell’antimafia degli eroi”, come li definisce Michele Gagliardo del Gruppo
Abele. Questa è la loro storia.
Il documentario Muro Basso – se la decrescita è anche uno spazio dei registi Enrico Masi e
Stefano Migliore è stato prodotto da Caucaso con la collaborazione ed il sostegno del Gruppo
Abele, di Libera e del dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna; in
particolare proprio da quest’ultimo ambito era scaturito il progetto per la legalità nelle scuole che
successivamente è stato convertito in pellicola, rimanendo in linea con la concezione di cinemastrumento adottata dalla casa di produzione.
La cinepresa ci accompagna in un viaggio per la
penisola, da nord a sud, con l’intento di sviscerare le
realtà che la legge di iniziativa popolare 109/96
ha reso possibili, ovvero le iniziative di riqualifica di
beni e proprietà confiscati alle mafie nel corso
degli anni. Partendo dalla Cascina Caccia nei pressi
di Torino, passando per i casolari dell’Emilia
Romagna per giungere a Villa Santa Barbara nel
brindisino, il film colpisce lo spettatore nel
mostrargli quelle che per decenni sono state fortezze ed emblemi di un veleno che fluiva nelle
venature del paese, rendendolo testimone della rinascita culturale e sociale di questi spazi passante
attraverso la realizzazione di uffici, musei e strutture di recupero, senza tralasciare l’opera di
recupero dei terreni coltivabili.
L’impronta stilistica utilizzata ripudia i canoni estetici classici: le riprese non convenzionali pertanto
rispecchiano la propensione dei protagonisti alla sperimentazione di nuove modalità
d’interpretazione di un luogo, lo sporcarsi le mani nella messa in atto di un modello di decrescita
ricercante il raggiungimento di una sostenibilità ecologica compatibile con il territorio e con l’idea di
equità collettiva. La colonna sonora curata da Zende Music, formazione musicale vincitrice nel
2012 del premio come migliore colonna sonora per il precedente lavoro di Caucaso, “The Golden
Temple”, presso il festival Sulmona Cinema, lega fra loro i diversi ambiti tematici trattati
conducendo lo spettatore attraverso le fasi più delicate e drammatiche, come la testimonianza di
Daniela Marcone, il cui padre Francesco fu assassinato dalla malavita nell’ingresso del condominio
ove risiedeva a Foggia nel 1995.
Un’opera che, accanto agli appelli di pentimento e
conversione dei malavitosi predicati da Wojtyla,
trova nell’intervista di Enzo Biagi a Luciano Leggio
l’insolenza e la spavalderia orticante del boss di Cosa
Nostra, ostentante viscidi sorrisi e battute di sfida
sonanti come schiaffi al sistema ed alla sua legalità,
in una giostra che vorticosamente trascina da una
parte all’altra della barricata rimanendo in bilico
fra le due realtà. Sopralluoghi ed interviste fanno emergere dalla penombra l’affresco di un’Italia
che ha grinta da vendere, tenace e speranzosa, ritratta con la consapevolezza di chi sa che il vento
del cambiamento parte della presa di coscienza degli (o)errori del passato e passa dai contributi del
presente per portare con sé le speranze del futuro.
La vera storia dell'uomo Plasmon
Ci sono uomini che non si accontentano: i soldi, la fama, le donne, il gioco, non sono mai abbastanza.
La loro smania di successo trascende il possedimento di beni di lusso e la stessa ricchezza
monetaria, per guardare con frenesia alla conquista della celebrità e della grandezza. Molto spesso,
il voler ottenere la popolarità ad ogni costo si rivela essere fattore responsabile dello spingersi oltre
quelli che sono i limiti legali invalicabili.
Uno di questi uomini è Fioravante Palestini.
Anni 50, Giulianova, Abruzzo. Il nome lo prende dal nonno, ed anche il soprannome è lo stesso,
Gabriele, con l’aggiunta del vezzeggiativo “ino” per sottolinearne la gracilità e l’innocenza.
Quest’ultimi particolari saranno ben presto dimenticati.
Cresce a vista d’occhio il piccolo Gabriellino, che ad ogni alba
esce in barca col papà pescatore per vogare sino all’ora di scuola,
dove studia controvoglia poiché non sente sua quella strada.
Raggiunta la maggiore età, il suo fisico scultoreo gli frutta lauti
guadagni procurandogli un ingaggio come attore per lo spot della
Plasmon: mentre scolpisce la marca nella colonna, la fama incide
indelebilmente la sua vita.
Successivamente, l’ostinazione per il successo lo porta in Germania: l’impiego come addetto alla
sicurezza nei night, i piedi calpestati ai boss locali, le facili risse e le bische clandestine: questa
nuova vita lo appaga, ma forse non abbastanza. Poi, negli anni 80 l’incontro con il boss Gaspare
Mutolo rappresenta la svolta: cospicui profitti promessi in cambio del trasporto di un grosso
carico di droga dalla Thailandia fino alla Sicilia. La posta in gioco è alta, ma d’altronde il rischio e
l’azzardo sono sempre stati parte di lui.
Il 24 maggio 1983, nei pressi del canale di Suez, arriva l’arresto
mentre si trova ancora a bordo della nave ”Alexandros G”, stipata
di 250 kg di eroina: i vent’anni successivi li trascorre nella dura
prigione di Abu Zaabal, dove riesce a rimanere in vita grazie alla
sua inesauribile tenacia; fra i vari episodi caratterizzanti la sua
permanenza in galera, forte rilevanza assume senz’altro il dialogo
avuto con Giovanni Falcone, recatosi al Cairo per proporre al
governo egiziano la sua estradizione. “Sei di un’altra pasta”, gli dice. Palestini non scorderà mai
quell’incontro.
La vera storia dell’uomo Plasmon è un documentario avvincente ed appassionante, scritto da
Simone Del Grosso, che ne cura anche la regia, e Albert Pepe; prodotta da Logic film,
Fabulafilm e RaiEdu, la pellicola appare curata sotto ogni aspetto: tecnicamente eccellente, dalla
fotografia alle musiche per passare alla regia, che mescola sapientemente diversi approcci stilistici
quali splendide sequenze animate, interviste, esterne e riprese d’epoca; la sceneggiatura coinvolge
lo spettatore sin dalla prima scena, tenendolo incollato allo schermo fino ai titoli di coda. Quale
ottimo esempio di infotainment, il film riesce a raccontare una storia, approfondendone ambiti e
sfaccettature, allo stesso tempo intrattenendo e divertendo lo spettatore.
Pomodoro nero
Mediterraneo: culla di culture e tradizioni secolari; l’azzurro delle onde separa le coste frastagliate
dell’Italia da quelle del Nord Africa, ma anche le rispettive realtà e problematiche. Mentre nei vari
Paesi dell’UE si discute di debiti, crisi finanziarie, titoli di stato ed investimenti, oltremare c’è chi di
preoccupazioni ne ha già tante, drammaticamente legate alla sopravvivenza quotidiana, e che
pertanto l’Europa la guarda col binocolo, sognante di potersi ritagliare, un giorno, il proprio piccolo
angolo di benessere. Riuscire a compiere la traversata è solo l’inizio
dell’odissea che attende molti degli immigrati irregolari: la cattiveria umana,
infatti, non conosce frontiere.
Pomodoro nero, breve ma intenso documentario firmato da Antonio Laforgia, Rossella Anitori e
Raffaele Petralla, pone in primo piano la dura realtà dello sfruttamento degli immigrati irregolari
nei campi del foggiano, costretti ogni giorno a lavorare a ritmi incessanti per sradicare con le mani
sanguinanti quegli ortaggi che divengono merci, esattamente come chi li raccoglie.
Le riprese ci mostrano la disumanità in cui riversano le
condizioni dei lavoratori, i quali si trovano a dover (soprav)vivere
all’interno di baraccopoli costruite da loro stessi con lamiere e
altri oggetti di scarto per poter riposare la notte, o perlomeno
provare a farlo, data la frequente impossibilità nel dormire a causa
della fatica e dei molteplici dolori fisici, come alcuni di loro
confessano alla telecamera. La regia schiva eventuali virtuosismi di macchina dedicandosi alla
cruda trasposizione del degrado e della sofferenza, principalmente tramite interviste che
costituiscono una valvola di sfogo per chi, colmo di rabbia e dolore, ha deciso di rinunciare alla
propria famiglia, ai propri usi e costumi in cambio del massacro giustificato da pochi, miseri
spiccioli. I dettagli catturano sguardi, oggetti e particolari degli interni dei capanni, supportando
così l’essenza del cortometraggio nel constatare la drammaticità di una storia di sfruttamento.
The American Wall
Oramai si sente ovunque. Alla radio, su Internet, per non parlare della tv, senza tralasciare politici,
opinionisti o giornalisti. Il termine “America” è spesso, troppo spesso utilizzato come sinonimo di
Stati Uniti. Ora, ovviamente c’è chi del qualunquismo ne ha fatto un’arte, ma qualcuno spieghi
all’esperto di turno che si presenta davanti alle telecamere del palinsesto che c’è una differenza
abissale fra le due locuzioni. Qui si parla di un continente tanto vasto quanto lacerato dalla
disuguaglianza sociale ed economica, di una superficie che vede nella contrapposizione fra
grattacieli e favelas esempi d’allegorie che separano la ricchezza dalla povertà più assoluta.
La differenza l’ha ben chiara il popolo messicano, posto in primo piano in questa vicenda, che da
molti anni si ritrova a combattere il demone della miseria e quella sua fame di vite umane che
sembra non placarsi mai.
Una storia di migranti ma non solo, quella raccontata in The American Wall, realizzato dal duo
Francesco Conversano – Nene Grignaffini e prodotto dalla Movie Movie con la quale
precedentemente avevano firmato, fra i tanti lavori, Il bravo gatto prende i topi, vincitore nel 2006 di
un David di Donatello. Il documentario è ambientato al confine fra Usa e Messico, un’arida ed
inospitale terra che vede estendersi per oltre un terzo della frontiera un lungo muro divisorio:
sulle pareti le croci appese, le scritte commemorative; ai piedi della grande barriera, gli abiti
lacerati ed il ciarpame consumato dal tempo, appartenuti ad alcune delle migliaia di individui che
ora sono solo polvere nel caldo vento desertico.
I pericoli dell’immigrazione non si limitano certo a
quest’ostacolo, come dimostrano le testimonianze
delle decine di donne e uomini intervistati, che ci
parlano anche dello sfruttamento messo in atto dalla
criminalità organizzata; dei “coyote” che, dietro
lauto compenso, dovrebbero garantirgli la via per
una vita migliore, invece di utilizzarli come pedine
sacrificabili nella partita contro il governo
statunitense per l’importazione della droga.
E le poche fortunate persone che sono sopravvissute alle insidie interne al loro Paese si ritrovano a
dover fare i conti con lo sterminato deserto che li attende oltre il divisorio, così distante dalla civiltà
da costringerli a camminare per giorni sotto il sole cocente; per molti di loro, la scelta se diventare
cibo per avvoltoi o farsi catturare dall’Immigrazione vede maggiormente plausibile la seconda
alternativa. Fazioni d’angeli e demoni si buttano nella mischia: i primi, camuffandosi dietro il nome
di “Los Samaritanos”, supportano i migranti collocando scorte d’acqua e viveri lungo i sentieri
maggiormente battuti. I secondi nascondono le corna sotto il cappello da cowboy, camicia e stivali in
pelle che premono sull’acceleratore del pick-up: metallo lucido e pallottole sono le loro soluzioni
efficaci nella guerra per respingere gli invasori e garantire così la mancata contaminazione della
razza.
Il comparto tecnico regge bene il peso della tematica della pellicola, ed anche le musiche, curate da
Paolo Fresu, infondono la giusta drammaticità alle scene. Parola chiave di questo eccellente lavoro
è umanità: gli autori infatti non si fossilizzano sul decretare sentenze e condanne nei confronti dei
soggetti presenti nel film, ma conducono lo spettatore alla riflessione sulle tragedie che determinati
popoli e classi sociali si trovano costretti, ancora oggi, ad affrontare; sottolineano inoltre come
fattori quali provenienza geografica e status sociale possano far scaturire in base alla sensibilità ed
all’intelligenza delle persone, reazioni fortemente discordanti fra loro, rendendo evidente come le
frontiere ergano muri ideologici, e non solo di cemento e mattoni.
Banda Riciclante
Nastri che penzolano, caschi scintillanti e tute
colorate: eccoli entrare in classe, con i ragazzi che li
guardano stupiti, incuriositi ed ignari delle loro
identità. Allora il gruppo esordisce proponendo ai
loro giovani interlocutori una grandiosa ricompensa:
lo strano quartetto, che si fa chiamare Banda
Riciclante, in cambio della piena collaborazione di
tutta la classe promette loro l’acquisizione di
straordinari super poteri, indispensabili non per
salvare la classica donzella in pericolo bensì il pianeta intero! Di cosa si parla? Della capacità di
riciclare, di non sprecare e quindi riutilizzare quello che avanza nelle nostre case ogni giorno per
metterlo a disposizione della quotidianità del domani.
Questo meraviglioso documentario, che ha per titolo proprio il nome della compagnia, è scritto da
Mirco Alboresi e diretto da Davide Rizzo e racconta il lungo viaggio per la penisola compiuto dal
Teatro dei Mignoli durante la realizzazione del proprio progetto di formazione nelle scuole medie:
l’intento è la sensibilizzazione sui temi del riuso e della riqualifica dei materiali ed anche sulle
potenzialità delle energie rinnovabili.
Coinvolgere gli adulti del domani, già, perché quelli
di oggi sembrano essere, perlomeno in parte,
indolenti alla causa ecologista, come testimonia
l’imbarazzo dei giovani protagonisti intervistati ai
quali mancano le parole nel rispondere a domande
del tipo “che cos’è l’ecologia?” oppure “ in casa
praticate la raccolta differenziata?”. In molti
tacciono, alcuni tergiversano ed altri affermano
apertamente di non essersi mai neanche posti il
problema, relegando il ruolo dell’ambiente a semplice e grazioso contorno della loro realtà;
quest’iniziativa risulta ancora più valida ed apprezzabile, allora, poiché appare chiaro come le figure
genitoriali, scolastiche ed in generale quelle educative di riferimento per i bambini non sempre
riescano nel tentativo di trasmettere loro determinati valori.
Il programma messo in atto si basa sul differente supporto che ogni membro del team riesce a
fornire alla causa tramite le proprie competenze ed esperienze, ed è così che viene messa a
disposizione degli studenti una ricca gamma nozionistica che si esprime in giochi creativi legati alla
pittura, al teatro, alla musica ed alla realizzazione di oggettistica riciclata.
L’oculata regia e fotografia fungono da cornice ad un lavoro che sa essere divertente, con
quell’umorismo scaturito dalla genuina sincerità che solo degli adolescenti possono mettere in atto,
ma che diventa a tratti anche molto serio e profondo, conferendo all’insieme una valenza
educativa notevole e facile da assimilare.
Un’opera che senza dubbio andrebbe trasmessa in tutte le scuole al fine di supportare, con il
sostegno delle istituzioni, un processo di sensibilizzazione ambientale e civica che non sempre
ottiene il palcoscenico che merita.
Il Principe
Titolo; dissolvenza. Il piccolo principe si presenta barcollante,
angosciato; cade per terra, annaspa, si divincola esasperatamente
e la sua rosa, cara e pretenziosa amica indigente di cure ed
attenzioni, si trova lì da qualche parte sull’asteroide, mentre
entrambi appaiono perduti in un profondo buio che trascende lo
spazio.
Tratto dal racconto Le Petit Prince di Antoine de Saint-Exupéry, il cortometraggio Il Principe
rappresenta un’interessante opera sperimentale realizzata, con il patrocinio dall’Assessorato alla
cultura del Comune di Parma, da Stefano Grilli, che ne cura la regia, e da Alessandro Canu che,
oltre ad occuparsi della scrittura e della direzione di scena, interpreta anche il protagonista e le
voci dei vari personaggi.
Con questa pellicola i due autori si assumono l’arduo compito di portare in scena il concetto
d’ibridazione fra pièce teatrale e rappresentazione cinematografica, realizzando un prodotto
che prende le distanze da quello che era il racconto originale con modifiche su contenuti e modalità
d’espressione. Niente pilota precipitato nel deserto, dunque: l’autore scompare, e con esso anche la
sua funzione narrativa.
Il favoloso viaggio del bambino gremito di curiosità, che esplorava il cosmo con l’intento di acquisire
nuove conoscenze, assume qui una connotazione metafisica, dove tutte le personalità che egli
incontrava sui vari pianeti risultano invece essere prive di un qualsiasi contesto spazio-temporale,
imprigionate nel lugubre vuoto che il protagonista errante attraversa caoticamente.
Le varie scene consistono in un susseguirsi di performance attoriali esasperate e grottesche,
oltre ad un evidente quanto efficace risalto della potenza vocale che, divenendo a tratti asincrona,
rivendica la propria indipendenza dalle tempistiche recitative; le musiche del Verdi cadenzano
emozioni e sensazioni scaturite dai vari incontri, mescolando la curiosità e la malinconia del principe
con l’insania e la profonda solitudine in cui ristagnano i suoi interlocutori.
La sperimentazione del connubio fra differenti ambiti artistici risulta essere ben riuscita nel film, ed
una messinscena tanto passionale, che stupisce ed intriga lo spettatore, porta con sé quella
ventata d’innovazione e di creatività che si rende piacevole da constatare.
L'altro Fellini
Il legame che unisce due fratelli è certamente qualcosa di indissolubile, può dare vita ad un ottimo
rapporto di cooperazione e complicità ma anche condurre ad una serie di contrasti ed ostilità
reciproche.
Il documentario L’altro Fellini, diretto dai registi Stefano Bisulli e Roberto Naccari e prodotto
da EiE Film e POPCult, affronta la complicata relazione che accompagna i fratelli Fellini sin
dalla loro infanzia a Rimini. Due ragazzi caratterialmente diversi: Federico, il primogenito,
bambino tranquillo ed introverso, che ama disegnare e
scrivere, e Riccardo, più giovane di un anno, goliardico e
vivace con la passione per il canto e per l’attività fisica;
partendo dalla provincia si ritrovano a condividere il
medesimo scenario, Roma, dove poter realizzare sogni ed
aspirazioni. Successivamente, i due prenderanno strade
differenti a seguito del brusco arresto che le loro carriere
subiranno a causa dello scoppio della guerra. Percorsi esistenziali che tuttavia il destino intreccerà
nuovamente nell’universo mitico cinematografico: I Vitelloni, infatti, è il lungometraggio che li vedrà
lavorare assieme, rispettivamente nei ruoli di regista ed attore. Ma se per Federico la fama
internazionale raggiunta con questa pellicola segna l’inizio della sua ascesa verso l’Olimpo dei
registi, per Riccardo la carriera filmica, caratterizzata da una serie di ruoli secondari, è costellata da
progetti mancati e profonde delusioni lavorative e personali, ed il cono d’ombra in cui egli si
ritrova è tale da inghiottirlo completamente, creando un inasprimento dei rapporti fra loro ed
una lontananza sempre maggiore.
Nonostante questa distanza fisica, nel corso degli anni il
minore farà la sua comparsa più volte negli incubi notturni di
Federico, e verrà trasfigurato nel Libro dei Sogni in un atleta
irrorato di energia aurea, applaudito ed apprezzato dal padre
e disdegnato dal fratello maggiore, piccolo sgorbio annerito
posto ai margini del disegno: neanche i fratelli Fellini possono
redimersi dal dover fare i conti con il loro vincolo affettivo.
Le emozioni che emergono dall’opera vengono dipinte su di uno sfondo ricco di fotografie, filmati e
testimonianze creato dagli splendidi materiali di repertorio che i registi offrono allo spettatore; da
sottolineare anche l’assenza delle musiche di Dino Risi, scelta stilistica coerente con la presa di
posizione super partes degli autori. In sostanza, il film alterna inflessioni drammatiche a toni più
ironici e scanzonati senza elevare mai una figura vittoriosa a discapito dell’altra perdente, ma
stringendosi empaticamente attorno a due individui congiunti da un legame di sangue e
logorati dal rancore reciproco.