CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO
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CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO
CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO VIA STOPPANI 15 (QUART. SANT’ANNA dietro la p.zza princ.) - ITALIA - 21052 – BUSTO ARSIZIO – VA – e-mail: [email protected] ---------------------------------------------Rivolta dei neri a Los Angeles (nota redazionale) 11 agosto 1965 Nel quartiere di Watts, a Los Angeles, scoppia una delle più violente rivolte della storia americana. Gli scontri con la polizia sono violentissimi, vi prendono parte neri di tutte le età. Nell'incredulità dei commentatori liberal, gli scontri dureranno per alcuni giorni, durante i quali ci saranno 34 morti e migliaia di arresti. La rivolta mostra che una buona parte della popolazione nera si sente talmente sfruttata e alienata dalla società americana da voler distruggere l'ambiente che la circonda. E allora «burn, baby, burn», di Andrea Rocco, "Il Manifesto", 12 agosto 2005 Quaranta anni fa la rivolta di Watts, suburbio nero di Los Angeles, la più violenta mai vista, segnava uno spartiacque nelle relazioni razziali e nella coscienza dei neri americani All'inizio fu la reazione spontanea alla brutalità dei poliziotti bianchi. Poi, dopo i sei giorni di rivolta (34 morti, oltre mille feriti, 40 milioni di dollari di danni) le cose cambiano e diventano «politiche». Vengono coinvolte e assumono la leadership le vecchie gang nere di L.A., con l'aiuto delle radio locali, mentre nasce il gruppo del Black Panther. Il fallimento di Martin Luther King e le manovre del Fbi Quaranta anni fa, la sera dell'11 agosto 1965 l'agente, bianco, della California Highway Patrol (i non ancora famosi e televisivi CHIPs) Lee Minikus ferma il ventunenne nero Marquette Frye all'angolo di Avalon Boulevard e 116ma Strada, a Watts, il ghetto nero nel sud di Los Angeles. Il giovane è sospettato di guida in stato di ebbrezza. Fermare un ragazzo nero in auto è routine per la polizia di Los Angeles, ma questa volta Frye non si inginocchia sull'asfalto come da lui ci si aspetta. Resiste. In suo aiuto arriva il fratello, poi la madre. I tre vengono arrestati e presi a manganellate. Intorno ai Frye e all'agente si raduna una folla di persone. Appena la polizia se ne va con gli arrestati inizia la rivolta più sanguinosa tra quelle dei ghetti americani di quegli anni. Sei giorni di disordini, 34 morti di cui 25 neri, 1000 feriti, 40 milioni di dollari di danni. Una rivolta che sarà contenuta dalla polizia nel quartiere di Watts, un'area geografica relativamente limitata, caratterizzata da casette monopiano, ma anche dalla presenza di blocchi di case popolari costruite durante la guerra per alloggiare una popolazione nera in espansione (il numero dei neri a Los Angeles raddoppia tra il 1940 e il 1944 e nel 1965 è nove volte più grande): Hacienda Village, Imperial Courts, Jordan Downs, Nickerson Gardens sono i nomi dei progetti di edilizia pubblica che saranno i maggiori focolai della rivolta. All'esterno il quartiere è famoso per quello straordinario monumento di arte «naive» che sono le Watts Towers, create dall'immigrato italiano Simon Rodia. Le minoranze mediatizzate La rivolta di Watts, ben più di quelle che l'hanno preceduta, è una rivolta giovanile, scandita dalle radio nere, unica espressione mediatica aperta allora alle minoranze. Magnificent Montague, allora disc-jockey della stazione Kgfj ha raccontato in questi giorni al Los Angeles Times il senso di quei giorni e del suo rapporto con i giovani ascoltatori che fecero della frase preferita del dj, «Burn, baby, burn», la colonna sonora delle rivolta. «Era la frase che gridavo da due anni, a Chicago, a New York, in tutte le radio dove ho lavorato e quando un pezzo di Ray Charles, Wilson Pickett, Sam Cooke o Stevie Wonder catturava il mio entusiasmo. Prima i padroni della radio, dei bianchi, mi chiedono di smettere. Mi rifiuto: lo slogan appartiene ai miei ascoltatori. Poi venerdì 13 agosto, il giorno più violento della rivolta, mi chiama il Sindaco Sam Yorty e mi proibisce di usare quello slogan, perché tende ad incitare i rivoltosi, così dice. Gli rispondo che quello che li incita sono i loro problemi ed è ciò che voi bianchi avete fatto per anni e di non perder tempo con me. Nessuno dava voce a quei ragazzi che telefonavano alla mia radio, non la Naacp (l'organizzazione dei diritti civili), non i predicatori neri. Le chiese nere gli dicevano che bruciare era sbagliato. Io no. Sapevo quello che provavano. Si sentivano deboli. Sapevo che ribellarsi li faceva sentire forti per la prima volta in vita loro, rivolta contro debolezza. Forse non sapevano quello che volevano. Forse sapevano solo quello che non volevano. Ma era un inizio». Ma non sono solo le radio a dirigere i «riots». Se nelle commemorazioni dei 40 anni molti parlano ancora della spontaneità della rivolta, del suo essere non strutturata, senza direzione e senza programma, il ruolo delle gang nere angelene non è da sottovalutare. Nate già negli anni `40 come risposta a gang razziste bianche, come quella degli Spook Hunters, negli anni `50 e `60 si caratterizzano per le loro faide interne. Le gangs sono grossolanamente divise geograficamente tra «eastside» e «westside» i due lati del ghetto divisi dalla nuova autostrada urbana, la Imperial Freeway. Sono bande con il culto dell'automobile che si affrontano in duelli a mani nude, o con bastoni e coltelli, anche se qualche volta ci scappa il morto. Le gang più importanti sono i Gladiators (Westside) e gli Slausons (Eastside). Sono rivali feroci fino al 1965. Ma lo spirito degli anni `60, di Berkeley, e dei movimenti antisistema arriva anche qui. Poco prima della rivolta è in atto un movimento di tregua tra le gang, ispirato e guidato dai primi militanti politici neri, una nuova leadership che rompe con quella moderata delle chiese e delle organizzazioni per i diritti civili e che nella rivolta troverà nuova linfa. Sono le gangs a dirigere, di fatto, la rivolta. E dopo Watts, uno dei leader degli Slausons, Alprentice «Bunchy» Carter diventerà il responsabile della sezione di Los Angeles del neonato Black Panther Party, a cui aderiscono decine di giovani che hanno preso parte alla rivolta. Per cinque anni le attività e gli scontri tra le gang spariscono, mentre vengono create organizzazioni ed eventi che per la prima volta fanno di Watts un posto dove vale la pena vivere: il Watts Arts Festival, il Watts Writers Workshop diventano per un breve, glorioso periodo manifestazioni di assoluto livello. Ma nascono anche il gruppo Community Action Patrol, per il monitoraggio degli abusi della polizia, Us Organization, il gruppo nazionalista nero di Ron «Maulana» Karenga. Un fiorire di attività e di organizzazioni che si spegnerà all'inizio degli anni `70, distrutto dalle attività del Fbi attraverso il famigerato organo anti-insurrezionale Cointelpro, e dai contrasti tra Panthers e Us che si concluderanno con l'assassinio di Carter per mano dei nazionalisti neri. Ma torniamo ai giorni di Watts. La reazione della comunità bianca è di terrore, anche se la polizia riesce a contenere la rivolta, ci si rende conto che è stata solo quella «thin blue line» quella sottile linea blu, rappresentata dalle uniformi dei poliziotti del Los Angeles Police Department a evitare che la rivolta si allargasse a tutta la città. Quanto alla comunità nera, due giorni dopo la fine della rivolta, arriva in città Martin Luther King. Il sindaco di L.A. rifiuta di fargli visitare le carceri dove ci sono i rivoltosi arrestati, dicendo che King avrebbe incitato un'altra rivolta. King va allora a Watts, in un'atmosfera tesissima. Centinaia di persone lo circondano e lo fischiano. King aveva chiesto l'intervento della polizia per fermare la rivolta, ma ora i suoi fratelli neri gliene chiedono conto. «Che altro deve fare la gente, senza lavoro, senza prospettive?» gli chiedono. King parla, chiede un forte impegno del governo, fondi contro la povertà e per le scuole. «Dobbiamo unire le nostre mani» dice ecumenicamente il Premio Nobel per la Pace. «E appiccare il fuoco!», urla qualcuno dalla folla. «Ci saranno giorni migliori!» risponde King. «Quando?» gli chiedono e lo slogan «Burn, baby, burn» diventa di tutta la folla. King interrompe la visita a Watts. Il dopo-rivolta inizia con le dichiarazioni del Presidente Lyndon Johnson, che sui diritti civili si gioca gran parte della sua credibilità e che vede in Watts un pericolo mortale: «Un rivoltoso con una molotov in mano - dichiara - combatte una battaglia per i diritti civili, tanto quanto lo fa uno del Ku Klux Klan con un lenzuolo addosso e una maschera sulla faccia. Sono tutti e due quello che li definisce la legge: fuorilegge, distruttori dei diritti e delle libertà costituzionali e in ultima analisi, distruttori dell'America libera». Sul versante opposto, intellettuali come il situazionista Guy Debord vedono in Watts «una rivolta contro lo spettacolo che - anche limitata a un solo quartiere come Watts - rimette in questione tutto, perché è una protesta contro una vita disumanizzata, una protesta di individui reali contro la loro separazione da una comunità che appagherebbe la loro vera natura umana e sociale e che trascenderebbe lo spettacolo». Inchiesta sulle cause Una Commissione di Inchiesta sulle cause della rivolta, creata dal governatore della California Pat Brown (il padre di Jerry Brown) e diretta da John McCone analizza le cause della rivolta: disoccupazione due o tre volte più alta tra i neri che nella popolazione generale, due terzi degli studenti neri non finisce la scuola, la polizia, e il suo capo Parker sono oggetto di odio da parte di tutta la comunità nera. Ci sono raccomandazioni che verranno seguite come l'apertura dell'impiego pubblico ai neri, il coinvolgimento della leadership nera nel governo della città (nel 1973 viene eletto il primo nero sindaco di Los Angeles, Tom Bradley) l'apertura dei ranghi della polizia alle minoranze. Ma non basterà. Il 29 aprile 1992, in circostanze e in condizioni singolarmente simili a quelle della rivolta di Watts, tutta South Central Los Angeles esplode in 4 giorni di rivolta. Walter Mosley, lo scrittore nero di Los Angeles che l'anno scorso ha pubblicato «Little Scarlet», un giallo ambientato durante la rivolta di Watts, ha così ricordato i giorni di Watts, da lui vissuti come ragazzino di 12 anni: «Il risultato più immediato e quasi inconscio della rivolta è stato che qualcuno ha avuto una sensazione di amara soddisfazione, altri hanno imparato ad aver paura. La lezione, per neri e bianchi, è stata insegnata, ma non imparata. La gente in tutto il mondo, dal Darfur a Cleveland, da Parigi a Giakarta, soffre. Sono arrabbiati e disillusi, perduti davanti agli schermi tv e ai pulpiti dominati dai fanatici religiosi. C'è un pensiero da qualche parte nella loro incoscienza, una parola che attende di essere pronunciata. Questo è quello che mi ricordo di quella estate calda. Mi ricordo un futuro che sarà dimenticato prima che sappiamo che è accaduto». ------------------------------------------------------"Brucia ragazzo brucia": 40 anni fa saltò il ghetto, spuntarono le Pantere, di Massimo Cavallini, "Liberazione", 11 agosto 2005 Nell'estate del 1965 la drammatica rivolta dei neri a Watts: sei giorni di scontri, 34 morti Di quei giorni resta oggi il sapore, pungente ed acre. Anzi: denso e decisamente piccante, nonché si spera assai presto - garantito da un regolare brevetto commerciale. Poiché proprio questi - densa, decisamente piccante e regolarmente depositata presso l'USPTO (United States Patent and Trademark Office) - sono a quanto si dice i tratti caratterizzanti della salsa per barbecue "Burn Baby, Burn" che, lanciata ai primi d'agosto dalla Huey P. Newton Foundation, intende far da battistrada ad un'intera linea di prodotti, tutti destinati a commemorare, il prossimo anno, la fondazione del partito delle Pantere Nere. Momento centrale d'una campagna che gli organizzatori assicurano essere rigorosamente "non-profit": la presentazione - si presume agli inizi del 2006 - di "Spirit of ‘66", una "clothing line" che, apertamente ispirata al cupo abbigliamento delle Pantere, si propone di trasformare in un placido "trend" i piuttosto ruvidi gusti del movimento che, in quegli anni di fuoco, forse più d'ogni altro calamitò la paura (e la spietata vendetta) dell'America bianca. "Burn baby, burn" fu lo slogan che, esattamente 40 anni fa, per sei lunghi giorni, accompagnò la rivolta del ghetto di Watts, in quella parte di Los Angeles che va sotto il nome di South Central. E Huey P. Newton - morto assassinato nel 1989 - è forse il più importante tra i militanti neri che, nell'ottobre del 1966, ad Oakland, sul lato povero della baia di San Francisco, fondò il Black Panther Party (o Black Panther Party for Autodefense, come significativamente recitava il nome originale della formazione politica). Una fotografia divenuta celebre lo ritrae - fucile nella mano sinistra e lancia nella mano destra - seduto, come un antico re africano, su una sedia di vimini dall'enorme spalliera, una sorta di trono installato sopra un grande tappeto di pelle di zebra. Newton indossava, in quella storica immagine, un assai "guevariano" basco nero. E neri - con la sola eccezione della camicia, appena visibile sotto il giaccone di pelle erano anche tutti gli altri capi di vestiario. O, se si preferisce, tutti gli altri elementi d'una uniforme che, presumibilmente, anticipa oggi i tratti essenziali di "Spirit of ‘66". Ovvero: di quella che i due creatori della Fondazione - la vedova di Huey, Fredrika, e David Hilliard che di Huey fu compagno d'armi - sperano possa presto diventare una moda con appeal multirazziale. Ma il vero sapore, o meglio, il senso autentico della rivolta di Watts, contiene ovviamente in sé, molti più ingredienti della salsa di cui Hilliard rivendica l'invenzione, ed il cui lancio ha prevedibilmente - suscitato nei giorni scorsi una ridda di facili ironie. Perché la paura di quei giorni è, forse, lontana abbastanza per poter riproporre se stessa nell'assai conciliante forma di trovata culinaria, o di stilistica rielaborazione "color blind", senza razza e senza colore (a parte, naturalmente quello, apoliticamente rosso di "Burn Baby, Burn"). Ma le sue ragioni di fondo restano, comunque, vicinissime a noi,. Anzi, restano immanenti. Più ancora: sono parte essenziale d'una storia che continua. E che è, a sua volta, un elemento incancellabile, vitale e quotidiano, seppur ancora indefinito, della "nazione americana". Watts - oggi abitato prevalentemente da ispanici - non fu, in realtà, la prima delle ribellioni esplose in un ghetto nero. E molte altre, più sanguinose e prolungate - inclusa quella che, nell'estate del '92, infiammò di nuovo le strade di South Central - furono le sommosse che l'hanno poi, di fatto, seguita negli anni. Ma Watts ed il suo grido di battaglia - brucia, ragazzo, brucia - rimangono, per tutti, un fondamentale snodo storico, un punto d'arrivo e, insieme, di partenza, un incrocio per il quale, necessariamente, continua a passare ogni ricostruzione della vicenda delle relazioni razziali in America. Proviamo a vedere. I disordini scoppiarono la sera dell'11 agosto del 1965, per ragioni che ancor oggi, quattro decenni più tardi, appaiono al tempo stesso confuse e chiarissime. Confuse perché fumosi erano e rimangono, in termini di cronaca, i dettagli della violenza poliziesca che, quella notte, fece seguito all'arresto per guida in stato d'ubriachezza d'un giovane nero. E insieme chiarissime perché, quale che sia stata la vera scintilla della rivolta - probabilmente la diffusione della falsa notizia del pestaggio d'una ragazza incinta - inequivocabili furono (e restano) le sue cause profonde: una rabbia incontenibile ed incurabile, distruttiva perché alimentata da un senso di ineludibile, indistruttibile ingiustizia. Solo una settimana prima, a Washington, il presidente Lyndon Johnson aveva firmato il Voting Rights Act, storico punto d'arrivo d'una autentica rivoluzione legislativa (un anno prima era stato approvato il Civil Rights Act) che si proponeva di smantellare e che, di fatto, finalmente smantellava - il cosiddetto "Jim Crow legal system". Ossia: il complesso di leggi statali attraverso le quali, per un secolo, negli stati del Sud erano stati del tutto vanificati i principi solennemente sanciti - nel 13esimo, 14esimo e 15esimo emendamento della Costituzione dopo la fine della Guerra Civile e l'abolizione della schiavitù. Più esattamente: il complesso di leggi che aveva trasfigurato nella turpe realtà dell'apartheid quello che doveva essere un processo di liberazione. Il Voting Rights Act aveva d'un colpo abbattuto tutti gli ostacoli - perlopiù impossibili e talora persino irridenti test d'alfabetizzazione - che, nel sud, avevano di fatto negato ai neri non solo il diritto di voto, ma il diritto di sentirsi uomini ("I am a man", io sono un uomo, dicevano i cartelli inalberati dai seguaci di Martin Luther King durante la lunga campagna per i diritti civili negli Stati della vecchia Confederazione). E proprio questo era ciò che le fiamme di Watts avevano all'improvviso rivelato, mentre tutti gli occhi erano puntati a mezzogiorno: l'altra faccia della questione nera, la realtà del ghetto urbano, i riflessi infuocati - lontano dai luoghi della schiavitù e del "Jim Crow System" - dell'ingiustizia che, come un'indelebile macchia, tormenta dai giorni della sua nascita la democrazia americana. Watts esplodeva in giorni che per i neri d'America dovevano essere - e che di fatto erano e restano, per molte e validissime ragioni - di gloriosa celebrazione. Ed esplodeva nel cuore d'una delle grandi metropoli, scoperchiando - in forma del tutto spontanea - la realtà di un apartheid che, figlia di un più profondo tipo di discriminazione, nessuna legge federale poteva, in effetti, cancellare all'istante. Dopo sei giorni di battaglia (34 morti) e molte settimane d'occupazione militare (garantiti dalla mobilitazione di oltre 14mila uomini della Guardia Nazionale) la situazione, a Watts, tornò, come si usa dire, alla normalità. Alla stessa "normalità" che, per quattro anni, nei bollori dell'estate, vide nei ghetti neri di tutte le grandi metropoli americane - da Detroit, a Chicago, da Harlem a Newark e, di nuovo, a Los Angeles - la sistematica e cruenta esplosione di rivolte razziali. Poco più di un anno più tardi, nel 1966 ad Oakland, sarebbero, per l'appunto, nate le Pantere Nere. E le parole di Malcom X e del separatismo nero si sarebbero presto sovrapposte - sullo sfondo della campagna contro la guerra in Vietnam - a quelle del sogno d'integrazione ("I have a dream") che Luther King aveva lanciato partendo dalla battaglia per i diritti civili nel Sud. Nel 1967, di fronte ad un fenomeno che, sempre più, assomigliava ad una strisciante guerra civile a bassa intensità, Lyndon Johnson aveva affidato ad una commissione speciale presieduta dal governatore dell'Illinois, Otto Kernel, il compito di indagare le cause del fenomeno. E tutt'altro che consolanti erano state le conclusioni dell'indagine: a dispetto dei successi del movimento per i diritti civili e della rivoluzione legislativa che Johnson aveva con coraggio lanciato nel Sud (fino ad allora una riserva di bianchissimi voti democratici), l'America appariva inesorabilmente avviata, in assenza di iniziative ancor più estese, a diventare "una nazione composta da due società separate, ineguali ed ostili…". Che cosa resta, oggi, di quegli anni tragici e straordinari? Tutto e nulla. Il nulla d'una salsa per barbecue e d'una linea d'abbigliamento. Ed il tutto d'una situazione nella quale, gattopardescamente, ogni cosa appare cambiata. Ogni cosa tranne, per l'appunto, quella incombente minaccia d'endemica separatezza che fa sì che tutto resti, in effetti, come prima. Due bei libri usciti nel corso degli anni '90 - "Two Nations" del sociologo Andrew Hacker e "America in Black and White" di Stephan ed Abigail Thernstrom - hanno con grande bravura descritto lo stato delle relazioni razziali negli Usa, giungendo a conclusioni (di analisi e di prospettiva) per molti aspetti contrapposte. Cupamente pessimistiche quelle del primo. Radianti ottimismo quelle dei secondi. Basate soprattutto sulla realtà della riproduzione del ghetto e sui dati sconfortanti della criminalità e della "disintegrazione", a causa della persistente disuguaglianza, del nucleo famigliare nero, quelle di Hacker. Fondate in particolare sulla realtà della progressiva espansione d'un "ceto medio nero" - oggi pari al 40 per cento del totale, contro il 6 per cento degli anni '60 e in prospettiva destinato a colmare il baratro tra le "due nazioni" - quelle dei coniugi Thernstrom. Ma su un punto i due libri non possono che coincidere. Watts e le rivolte nere degli anni '60 hanno visto l'inizio di un "controprocesso" che ha cambiato - e non in meglio - la geografia sociale e politica d'America. Più in dettaglio: l'onda d'urto del terremoto che a Watts ha avuto il suo epicentro, ha generato un'ondata di paura che ancora scuote l'anima bianca degli Stati Uniti. Ed è su questa onda che ha viaggiato, anzi, che continua a viaggiare, la cosiddetta "southern strategy" del Partito Repubblicano. Che cos'è (o è stata) la "southern strategy"? E' una sorta di nostalgica garanzia, un'implicita ma chiarissima riassicurazione alla "white America". E nulla l'illustra meglio delle cinque pesantissime parole che, nel lanciare la sua campagna presidenziale nel 1980 nel Sud, Ronald Reagan pronunciò in un comizio a Philadelphia. No, non la Philadelphia della Pennsylvania, dove venne firmata la Costituzione, ma la Philadelphia della Noshoba County, in Mississipi. Quella stessa Philadelphia dove, nel 1964, il Ku Klux Klan aveva, con la complicità dell'intera comunità bianca, massacrato tre attivisti per i diritti civili, Andrew Goodman, Michael Schwerner e James Chaney. «I believe in states' rights», disse Reagan di fronte a quella qualificatissima platea. Io credo nei diritti degli Stati. Ossia: in quegli stessi diritti che le leggi di Johnson avevano messo in mora…Accanto a lui, plaudente, assentiva il congressista del Mississippi Trent Lott, in quei giorni rappresentante della brava gente della Noshoba County, e più tardi destinato a diventare capo della maggioranza repubblicana al Senato… Giorni fa, di fronte all'assemblea della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, una delle storiche organizzazioni della battaglia per i diritti civili) il segretario del Gran Old Party, Ken Mehlman, ha porto ai neri d'America le scuse ufficiali del partito per quella strategia. Nessun dettaglio, ovviamente, e nessun nome per un "pentimento" che non prevedeva, in realtà, né la piena confessione del peccato, né penitenza alcuna. Soltanto un accenno di contrizione che, nel quarantesimo anniversario del Voting Rights Act, è in effetti risuonato come un'ennesima, stridente testimonianza d'ipocrisia. O forse soltanto come l'ennesima riproposizione del peccato originale d'una rivoluzione che 230 anni or sono, nel dichiarare "creati eguali" tutti gli uomini, ha, nel contempo, preteso di salvare la macchina economica della schiavitù, dichiarando "non uomini" tutti coloro che avevano la pelle nera. Una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. Così come non hanno mai smesso di bruciare, in questi quaranta anni, le fiamme di Watts. "Burn Baby, Burn", resta, per l'America del 2005, molto più d'una salsa piccante. FORZA PROLETARI NEGRI D’AMERICA Forza proletari negri d’America! Noi siamo molto lontano e non possiamo darvi l’aiuto che[vogliamo] Disprezzate i Luther King. Smascherate i pacifisti. Rispondete alla violenza con la [violenza] Quel poco che facciamo è troppo poco, troppo poco ancora, lo sappiamo. Vorremmo spronare i proletari quelli d’Europa soprattutto e cingere d’assedio il capitale, a stringere le loro con le vostre [braccia], alimentano la stessa volontà e sono pronti a combattere, oggi; ancor più di oggi domani; un esercito strabocchevole che [diventerà] immenso. Non guardate al colore della pelle [ma al colletto]. Mirate giusto! Mirate giusto! Mirate alla testa del regime. Colpite le piovre di Wall Street che succhiano, con centomila tentacoli, il sangue vostro, il sangue di tutti i paria della terra. Forza proletari negri d’America! Dal campo non si esce senza morti E le lacrime non giovano ai vivi né consolano i morti. Popoli interi sanguinano sotto il [tallone Yankee] mentre all’urlo della morte, che strazia ovunque, si esalta bestiale il dollaro. Lottate! Lottate! La lotta è pane. Pane per voi e per [per i vostri figli]; vita per il mondo. Forza proletari negri d’America! Siete proprio chiamati ad essere tra i più insigni guerrieri della più[grande] Forza dunque proletari negri [d’America]! causa al mondo: IL COMUNISMO. e uniti insieme strangolare questo immane mostro mondiale. Invece i proletari dormono. Parte storditi; parte ingannati dall’infame colonna dei riconciliati al sistema. Ma non disperate! Noi siamo accanto a voi. Altri, molti innumeri nel mondo [intero] Tratto da RIVOLUZIONE COMUNISTA giornale anno 2° - Aprile, Dicembre 1966 - RIVOLUZIONE COMUNISTA SEDE CENTRALE: P.za Morselli, 3 - 20154 Milano- Edizione a cura di: e-mail: [email protected] http://digilander.libero.it/rivoluzionecom/ ----------------------------------------------------- "BLACK PANTHER FOR SELF DEFENSE" 40 ANNI DOPO di Silvia Baraldini Nell’ottobre 2006 si è celebrato il quarantesimo anniversario della fondazione del Black Panthers, originariamente chiamato il "Black Panther Party for Self-defense" (Partito delle pantere nere per l’autodifesa). Un anniversario celebrato in sordina, testimonianza che la distruzione del Partito da parte del potere negli Stati Uniti non ha soltanto annientato la struttura dell’organizzazione e i suoi militanti, ma ha anche lavorato per cancellare la loro memoria e il loro contributo storico, negando alle generazioni future la possibilità di giudicare da sé stesse cosa in realtà abbiano rappresentato. Il Partito nacque a Oakland, in California, frutto dell’intuito di due studenti del Merritt College, una piccola università pubblica i cui iscritti erano in maggioranza afroamericani. Huey Newton e Bobby Seale, insieme al loro amico d’infanzia David Hilliard, sono stati i primi tre iscritti del Partito. Erano figli di famiglie provenienti dal profondo Sud degli Stati Uniti, immigrate in California nel tentativo di migliorare la loro situazione economica. Tutti e tre avevano conosciuto in prima persona il regno del terrore che opprimeva gli afroamericani in quella parte del Paese. Le speranze che avevano spinto le loro famiglie a emigrare erano rimaste inappagate; le riforme – l’integrazione delle scuole, il diritto al voto e a frequentare i luoghi pubblici – ottenute dal movimento di protesta per i diritti civili non avevano fondamentalmente cambiato la vita degli afroamericani. Ironicamente questa condizione era sentita maggiormente nel Nord e nell’Ovest degli Stati Uniti, dove i soprusi erano meno visibili che nel Sud. Inoltre la guerra in Vietnam, in via di espansione, chiedeva alla comunità afroamericana di sacrificare i propri figli per combattere in una guerra da loro non voluta. La frustrazione e la rabbia dei giovani era esplosa durante l’estate del 1965 quando, in seguito all’omicidio di un afroamericano da parte della polizia di Los Angeles, la popolazione di Watts, il quartiere nero, si era ribellata per cinque giorni e ne aveva distrutto gran parte. Il malessere era palpabile e secondo Huey, Bobby e David era arrivata l’ora di intervenire. L’idea fondante del Partito era semplice quanto geniale: la priorità in Oakland era quella di proteggere la comunità dalla brutalità delle forze dell’ordine locali. Per questo le prime azioni pubbliche dei Black Panthers furono di seguire a distanza ravvicinata le auto della polizia, di osservare e, a volte, di intervenire quando un afroamericano veniva fermato. Inizialmente le uniche armi utilizzate erano una copia della Costituzione e una copia del codice penale dello stato della California, in seguito i membri di queste ‘pattuglie’, così come permette il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, iniziarono a portare armi con sé. La convinzione del Partito che gli afroamericani avevano il diritto di difendersi contro il regime di terrore imposto dalla polizia, necessario per sopprimere il loro desiderio di liberazione e per difendere lo status quo, era l’espressione pubblica e politica della rabbia accumulata nei 400 anni della presenza africana negli Stati Uniti. Diritto riassunto nelle parole del settimo punto del loro manifesto: "We want an immediate end to police brutality and murder of black people, other people of color, all oppressed people in the United States" ("Vogliamo che cessino la brutalità della polizia e gli omicidi dei neri, di altra gente di colore e di tutti gli oppressi all’interno degli Stati Uniti.") Recentemente Angela Davis, ha definito le azioni dei Black Panthers, Costituzione alla mano, apertamente e legalmente armati, di essere state un “atto eroico che ha risvegliato l’immaginazione di tutti e un’espressione di solidarietà” con la loro gente. Solidarietà praticata anche nello sviluppare un programma che cambiasse le condizioni di assoluta povertà in cui vivevano la maggior parte degli afroamericani. Infatti il secondo punto del programma dichiarava: "We want full employment for our people" ("Vogliamo lavoro per tutta la nostra gente). E non solo, perché il quarto punto chiedeva abitazioni decenti, mentre il quinto reclamava un’istruzione adeguata, che insegnasse la vera storia degli afroamericani e il loro ruolo nella società americana, senza trascurare la necessità di una sanità pubblica e gratuita (sesto punto). I Black Panthers non si sono limitati a diffondere i dieci punti del loro manifesto ma li hanno messi in pratica servendo la prima colazione ai bambini delle loro comunità, aprendo scuole e cliniche alternative. I Black Panthers, dall’anno della loro fondazione a metà anni ’70, hanno rappresentato nell’immaginario degli afroamericani la possibilità di resistere, d’intaccare il potere dell’unica istituzione – le forze dell’ordine - con cui tutti gli afroamericani venivano a contatto, e che spesso terminava con la detenzione e con i pestaggi, per i più fortunati, se non con la morte. Questo potente richiamo alla ribellione ha fatto sì che in pochi anni i Black Panthers si trasformassero in un partito con sedi in quarantotto stati, capace di vendere 400.000 copie alla settimana del loro giornale, e in cui militavano circa 30.000 persone con un’età media di 17 anni. L’irrompere sullo scenario nazionale dei Black Panthers è stato determinante anche per i bianchi, che militavano nel movimento contro la guerra in Vietnam, la maggior parte dei quali non aveva legami politici con gli afroamericani o con le loro organizzazioni. Fin dall’inizio il Partito aveva espresso la sua opposizione alla guerra in modo netto e incisivo - punto 8 del manifesto: "We want an immediate end to all wars of aggression" ("Vogliamo la fine di tutte le guerre di aggressione") e la sua opposizione aveva contribuito a massificare la resistenza alla leva tra gli afroamericani. E non solo, perché il punto di partenza del loro rifiuto di combattere in Vietnam era la necessità di combattere a casa propria. Questo ha fatto sì che il movimento contro la guerra si aprisse alle rivendicazioni degli afroamericani, e che il concetto di solidarietà, sui cui era stato costruito, includesse azioni concrete di supporto per le loro lotte. Ad esempio, l’occupazione della Columbia University di New York da parte degli "Students for a Democratic Society", la più grande organizzazione contro la guerra, che non solo chiedeva la cessazione immediata delle ostilità, ma voleva, e in parte ha ottenuto, che l’Università non costruisse una palestra che avrebbe cambiato in modo significativo l’urbanistica di Harlem, a scapito dei suoi residenti storici. Questa occupazione avvenne con il coinvolgimento dei "Black Panthers e degli Young Lords", l’organizzazione radicale dei giovani portoricani. Ed è proprio la presenza degli Young Lords in questa occupazione a segnalare un altro contributo del Partito: la possibilità, non immaginabile fino a quel momento, per le altre nazionalità all’interno degli Stati Uniti di costruire movimenti capaci di analizzare e di lottare contro la propria oppressione. Risale a quel periodo la formazione dell’American Indian Movement, del Gay Liberation Front, dei Brown Berets (organizzazione radicale per la liberazione dei chicanos) e, infine, dei Grey Panthers, movimento radicale degli anziani. In quegli anni (1968-1971) la crescita del movimento contro la guerra non si è limitata al livello della partecipazione. Nella sua ala radicale si è sviluppata un’analisi del potere degli Stati Uniti che includeva una discussione sul ruolo delle forze dell’ordine come esercito di occupazione interna al Paese, sul ruolo dell’Fbi nella repressione dei movimenti (Cointelpro), sulla centralità della questione afroamericana e della lotta contro la supremazia dei bianchi, sulla possibilità di costruire relazioni di solidarietà con le nazionalità presenti all’interno degli Stati Uniti e sulla necessità di trasformare un movimento di protesta in un movimento rivoluzionario. I Black Panthers hanno dato un contributo fondamentale a questa evoluzione, come indispensabile è stata la loro leadership ideologica nelle oltre 100 rivolte che sono avvenute nelle carceri americane nello stesso periodo. Inoltre l’assassinio del giovane leader dei Black Panthers, Fred Hampton, insieme a Mark Clark, da parte della polizia di Chicago e dell’Fbi mentre dormiva nel suo appartamento, il 4 dicembre 1969, ha confermato a tutta una generazione che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato o permesso alcun cambiamento politico, sociale, economico. Questa nozione è stata rafforzata nei mesi seguenti quando, nell’inverno del 1970, l’ala cattolica del movimento ha rilasciato ai media documenti segreti dell’Fbi che illustravano il piano di J. Edgar Hoover di “neutralizzare” i Black Panthers e ogni organizzazione che potenzialmente rappresentava una minaccia per il potere degli Stati Uniti. da LATINOAMERICA 97/2006 --------------------------------------------------------------------------------------------------