Il fantasma di Arlecchino
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Il fantasma di Arlecchino
Grandi Mostre Il fantasma di Arlecchino La celebre maschera protagonista della rassegna romana su Picasso. Centottanta opere fra le due guerre di un grande irrequieto. di Giovanni Salandra Città nuova • n.21 • 2008 n uomo in maschera, come Arlecchino. Mille volti, mille colori. Potremmo dire, mille stili, tanto l’eclettismo di Pablo spazia per tutti i novantadue anni della sua vita da un linguaggio ad un altro, sempre lasciando un segno. Non è perciò senza senso che la maschera bergamasca, astuta e variabile, sia un U 64 soggetto ricorrente nella produzione ciclopica del pittore catalano: personalità mobile e sfuggente, coglie uno stile, lo fa suo, e lo lascia per un altro, preso da chissà quali fantasmi. Nell’arte, come nella vita. Ritorna, nelle tele esposte a Roma, l’ossessione per Arlecchino, dopo gli anni giovanili, do- ve il personaggio posava tra il triste e l’accidioso, con i colori bagnati di malinconia. Nel 1917 il pittore visita la capitale, ne resta soggiogato, ritrova il fascino per la classicità. L’Italiana (Zurigo, Collezione Bürle) che dipinge mentre lavora alle scene del balletto Parade, è un omaggio al gusto del montaggio tipico dell’arte “cubista”. La figura frazionata in brani che egli si diverte a montare e smontare crea un effetto di vitalità squillante, di gioia esplosiva; nello stesso tempo, come fa sempre, Picasso compone l’Arlecchino di Barcellona (Museu Picasso): sembra un Bronzino, pallido e lunare come un fantasma, steso a strati sottili di colore. Non è l’amico Massine, come si credeva, ma un autoritratto. È il volto classico, introverso di Pablo, l’animo ingessato a guardare verso un nulla; l’altra faccia della sua solarità. ARTE E SPETTACOLO “Arlecchino”, autunno 1917, Barcellona, Museo Ricasso. A fronte: “Arlecchino musicista”, 1924, Washington, National Gallery of Art; “Testa d’Arlecchino”, 7 marzo 1927, Parigi, Collezione Privata. La quale ricompare nel rutilante Arlecchino musicista del ’24 (Washington, National Gallery). La figura viene ancora scomposta in forme curvilinee che paiono far ondeggiare un brano musicale: la chitarra al centro rappresenta il punto da dove tutto parte e dove tutto ritorna, circondata dalla sagoma nera della maschera, in una atmo- sfera combinata da cubismo e surrealismo. Ma Picasso non è né l’uno né l’altro: quasi sguaiatamente fugge da sé stesso, lasciando una scia di colori forti – verdi blu gialli –, a cercare qualcos’altro. È il suo lato selvaggio, quella irrequietezza che attira e sconvolge sempre in ogni suo lavoro. Certo, altra cosa dall’olio del 7 marzo 1927 (Col- lezione privata) ove Arlecchino è una larva tra il verde marcio e il grigio, che sembra dipinta a tempera, tanto è delicata. La maschera ora è una testa osservata da diverse angolazioni, accennata dalla linea morbida che riveste una forma vuota. C’è ancora l’uomo dopo che è stato spezzato e frantumato? Picasso lo vorrebbe ritrovare, se riveste di una luce tenue Arlecchino, che poi qui è il suo bambino Paulo, un innocente. Bastano poche ore o poche settimane: l’artista cambia ancora sentimento e pensiero, con una inquietudine per cui dalla tenerezza dell’olio del 7 marzo si passa all’Arlecchino di New York (Metropolitan Museum), sempre del ’27, che «ha l’aria di un ladro colto nel sacco». 65 Città nuova • n.21 • 2008 Il fantasma di Arlecchino “Due ragazze che leggono”, 28 marzo 1934, Ann Arbor, Michigan Museum of Art. Sotto, “Autoritratto”, di Jean-Michel Basquiat, 1983. Parigi, Collezione Ropac. La maschera della Commedia dell’arte ora ride a bocca aperta nel suo involucro, dove Picasso insinua un profilo classico, nostalgico e irridente al tempo stesso. Ma mancano gli occhi: la luce della tela è così gelida, le tinte si avvicinano al bianco-e-nero: Arlecchino ride, ma anche, nella sua sagoma di fantasma, si perde nel vuoto. La tela infatti, ben oltre l’apparente sberleffo, trasmette uno spaventoso senso del nulla. Picasso che si è divertito finora a mostrarsi in tante diverse forme, qui sembra scomparire in un appiattito non-essere. La maschera non c’è, e Pablo per una volta si ritrova con i suoi fantasmi. Contro cui combatte. Si lancia negli anni Trenta in un vitalismo sfrenato, ad “adorare” la terra, il colore, la donna. Regala attimi di poesia bellissima – La Donna addormentata del ’33, le Due ragazze che leggono del ’34 – per poi continuare la corsa alla ricerca di sé stesso, sempre cambiando per sentirsi vivo. Non avranno la sua fibra e la sua forza tanti artisti del secondo Novecento, suggestionati da lui, nel combattere i propri fantasmi. Jean-Michel Basquiat, per esempio. Affascinato dalla “negritudine” – un mondo primordiale, da cui anche Picasso aveva attinto – non ha però la maschera di Arlecchino, ma quella di una oscura divinità ancestrale, che gli sta davanti come uno spettro nero. L’esorcizza accumulando nelle tele i Città nuova • n.21 • 2008 detriti dell’anima: scritti, volti, corpi… Un microcosmo da ricomporre, sempre spasimando, senza quelle “tregue artistiche” (il ritorno al classico, ad esempio) con cui Picasso trovava respiro. Basquiat soccombe nella lotta, – muore a ventotto anni – perché egli è diventato tutt’uno con la maschera, prendendo su di sé la sua spettrale cupezza, che l’ha schiacciato. Ma, come Picasso, ha combattuto. Avranno entrambi, alla fine, trovato la libertà? Giovanni Salandra Picasso, l’Arlecchino dell’arte, 1917-37. Roma, Vittoriano. Fino all’8/2/09 (cat. Skira). Jean-Michel Basquiat, Fantasmi da scacciare. Roma, Fondazione Memmo, Palazzo Ruspoli. Fino al 1/2/09 (cat. Skira).