I Tutto cominciò una domenica a Rosario, provincia

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I Tutto cominciò una domenica a Rosario, provincia
I
Tutto cominciò una domenica a Rosario, provincia di
Santa Fe, Argentina.
Era stato Greg a mandarmi. Quando si trovava nei
guai mi avvisava. Diceva quello che voleva e pagava. Io
partivo, uccidevo e incassavo. Quella volta il bastardo
da eliminare era un mafioso che si era venduto ai piedipiatti. Dovevo chiudergli la bocca prima del suo arrivo
a New York.
Ore undici del mattino.
Fra dieci minuti il boss sarebbe uscito dalla tana. Di
solito sono tranquillo anche se rischio grosso. Non provo niente. Sono gelido più di un iceberg.
Quel giorno avevo i nervi a fior di pelle. Qualcosa
non mi convinceva. Ero irrequieto. Mi capita quando ho
un brutto presentimento. Avvertivo una vaga inquietudine che non riuscivo a sedare. Mi sentivo in croce come
se fossi a1 posto giusto nel momento sbagliato. Terribile. Fiutavo il pericolo come respiro l’aria.
Divenni diffidente. Più rimuginavo, peggio mi sentivo.
Quello che succedeva non aveva senso, era un’impressione sgradevole priva di logica; eppure non potevo farci
nulla. Cercai di reagire, di scrollarmi di dosso quell’assurda premonizione anche se fino ad allora non mi aveva
ingannato. Mi sforzai di non pensarci, di restare calmo non
lasciandomi sopraffare dai sentimenti e dalle emozioni.
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Lorenzo Tozzi
Avevo progettato l’agguato con puntiglio, setacciando la zona a palmo a palmo, perlustrando strade e vicoli, controllando il traffico e il percorso molte volte, calcolando tempi, rischi, alternative, vie di fuga. Nulla era
stato trascurato e niente era stato preso sottogamba.
Tutto era filato liscio. Soltanto in quel momento qualcosa nella testa non funzionava, era fuori posto, procedeva
a zig zag. Respirai profondamente una, due, tre volte.
Inquietarsi non serviva. Al contrario, era pericoloso.
Non potevo crearmi complicazioni. Giocavo pesante.
C’era di mezzo la pelle. Il cielo era plumbeo, la temperatura freddina, l’aria umida e pungente mi sferzava il
viso nonostante il passamontagna. Tra poco il giuda
sarebbe comparso. Doveva trovarmi pronto, perfettamente a mio agio e concentrato al massimo. C’era un
contratto da rispettare e una commissione da portare a
buon fine. Non potevo sbagliare.
Dal tetto dove mi ero appostato tenevo sotto controllo l’intero percorso. Puntando il binocolo da campo alla
mia destra nella direzione da cui sarebbe uscita l’automobile, inquadrai il muro di cinta con il filo spinato, il
cancello chiuso, il breve tratto di strada privata acciottolata che s’immetteva nella via principale. Al bivio sostai
un attimo perplesso; ripresi l’ispezione con cautela
attento ai particolari e ai minimi indizi. Nulla. Tutto era
tranquillo. Proseguii piano piano fino all’incrocio. Mi
bloccai. Era lì che avevo deciso d’intervenire. In quel
punto il bersaglio sarebbe stato allo scoperto e immobile, dunque facile da centrare. Mi sorse un dubbio: cosa
avrei fatto se l’auto non si fosse fermata allo stop? Era
una possibilità che non avevo preso in considerazione.
Ci pensai. Avrei aperto il fuoco prima. Per ultimo con10
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trollai la parte del viale che le jacaranda e i cartelloni
pubblicitari non nascondevano. Quel breve spazio si era
rivelato la mia bestia nera sin dal primo istante, una vera
spina nel fianco: ecco perché alla fine avevo deciso d’intervenire al crocevia. Controllai con attenzione, a lungo.
Anche lì niente da segnalare: nessuna persona sospetta.
Potevo attendere fiducioso. Eppure...
Eppure continuavo a fiutare il pericolo come il lupo
la preda. Di nuovo mi sforzai di non pensarci. Aggiustai
i guanti da chirurgo, controllai il kalashnikov, diedi
un’occhiata alle gemelle Beretta appese al cinturone, sistemai il giubbotto antiproiettile. Sono un maniaco della
precisione come molti lo sono della puntualità.
Ore undici e quattro minuti.
Sotto di me un grassone con il cappello e la sciarpa
uscì dal portone di legno chiaro della casa di fronte,
sbirciò l’orologio, buttò il mozzicone acceso, affondò le
mani nei calzoni e attraversò la via scomparendo.
Riapparve con una donna anziana vestita di nero, la
borsa di vernice appesa al braccio. L’uomo aprì la portiera della Fiat Uno bianca accostata al marciapiede,
l’aiutò a salire, mormorò qualcosa e si mise al volante.
Il motore prese a ronzare e la macchina si allontanò.
Le undici e sette.
Tutto calmo. Nulla da segnalare, eccetto un pallido
sole e un venticello fastidioso.
Ripensai al piano d’azione. Non sarei intervenuto
mentre l’automobile usciva dal recinto. La distanza era
notevole e la visuale scarsa. Conveniva attendere. Non
potevo permettermi di sbagliare. Greg aveva scelto me
per quel lavoro perché ero il migliore sulla piazza. Il
number one. Non sapevo fare altro. Dovevo farlo bene.
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Il conto alla rovescia sarebbe scattato a una settantina di
metri dal crocevia e terminato pochi secondi più tardi,
prima che l’auto fosse scomparsa lungo il viale che conduce all’aeroporto. Non era poco, ma neppure molto.
Undici e dodici.
Niente. La cosa migliore era pazientare. Girai la testa
nella direzione opposta e osservai un palazzo con la facciata bianca, le finestre ampie e i grandi balconi.
Undici e quattordici.
Mi venne voglia di una fumatina, ma rinunciai. La
vita di un killer non è mai rose e fiori. Passò un autocarro seguito da una Nissan blu vecchio modello con
una bionda alla guida. Arrivò un cane pelle e ossa, la
coda mozzata. Annusò il cassonetto addossato al muro,
sollevò la zampa, fece pipì e proseguì.
Undici e un quarto: calma totale.
Undici e diciotto: del bastardo nemmeno l’ombra.
Il sole scomparve dietro le nuvole e il vento aumentò d’intensità. Strinsi il kalashnikov e tornai a guardare
la strada.
Un minuto dopo la limousine metallizzata con i
vetri abbassati scivolò dal cancello a due battenti, percorse il passo carraio lastricato con sassi rotondi levigati, procedendo a bassa andatura. Al bivio sostò lampeggiando, riprese il cammino svoltando dalla mia
parte. Tutto procedeva come previsto, senza intoppi;
ma quando mi sfilò dinanzi, il fastidio salì alle stelle:
c’erano tre uomini a bordo, due davanti e uno dietro.
Ne mancava uno, forse il più importante. Brutta notizia. Entrai in fibrillazione mentre un campanello iniziò
a squillare nella mia testa. Per la prima volta sentii
puzza di bruciato.
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Lo sgarro
Improvvisamente la situazione peggiorò. Una Bmw
chiara, dopo aver superato il cancello, si accodò alla
limousine. Che cosa stava succedendo? Le auto proseguirono vicinissime. La Bmw a un tratto rallentò, distanziandosi. Mi sorse un dubbio. Forse il trucco stava lì:
piazzare il giuda sulla macchina di scorta e mandare gli
altri al macello. Mossa astuta. Furbissima. Io sapevo
soltanto che sarebbe uscito dal nascondiglio alle undici
e dieci con altri tre. Nient’altro. Stava a lui fottermi.
La limousine era prossima all’incrocio. Dovevo decidermi. Dove si trovava il bastardo da eliminare? Probabilmente non l’avrei mai saputo. Allo stop l’auto si
fermò e prese a lampeggiare. Imbracciai il mitra, tolsi la
sicura e puntai. Vaffanculo. Le avrei mandate in aria
entrambe. Non potevo rischiare. In quel preciso istante
spuntò l’elicottero. Non avrebbe dovuto esserci. Di male
in peggio. Quella comparsa prometteva complicazioni.
Puzzava d’imbroglio. I conti non quadravano. Ero in pericolo. Su quello non ci pioveva.
Chi mi aveva venduto? Avrei cercato di scoprirlo più
tardi, ammesso che fossi riuscito a cavarmela.
Le auto ripresero la marcia a bassa velocità. La prima
svoltò dirigendosi verso l’aeroporto, la Bmw si appressò al crocevia pronta a seguirla. Il tempo era ridotto
all’osso: poco più di un paio di secondi. Un’eternità.
Inaspettatamente, il figlio di puttana perse la tramontana. Udii il motore salire di giri. Assomigliava al rombo del
tuono. Un istante e la Bmw partì a tutta birra sgommando,
disegnando una doppia striscia nera sull’asfalto liscio.
“Ci siamo” pensai.
Feci in un baleno. Inspirai profondamente, presi la
mira trattenendo il respiro e sparai una raffica a venta13
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glio. L’automobile sbandò, fece un testacoda, si cappottò
due volte, proseguì come un siluro centrando un eucalipto che si spezzò. Ci fu un impatto violento, uno schianto assordante, l’auto si accartocciò ed esplose provocando una fumata gialla, blu e rossastra insieme con un pennacchio di fumo nero molto denso.
Una decina di uomini armati sbucarono da un cantiere edile, altri cinque scesero da una berlina chiara in
sosta nel piazzale alla mia sinistra e iniziarono a sparare
all’impazzata.
La situazione mi era sfuggita di mano. Ero messo
male. Rischiavo il collo. La mia vita era appesa a un filo. Chiaro come il sole. Quella gente non scherzava.
Voleva uccidermi. Altri uomini spuntarono come funghi e da un momento all’altro sarebbe tornato l’elicottero. Ero in pericolo. Via, via. Subito e in fretta. Non
c’era un istante da perdere. Dovevo squagliarmela o sarebbe state la fine. Non si può avere la botte piena e la
moglie ubriaca.
Pochi secondi e l’elicottero arrivò vomitando centinaia di pallottole. Troppo tardi. Stavo calandomi con la
fune dell’altra parte della casa mentre le tegole spaccate
schizzavano in aria sbriciolandosi al suolo.
Percorsi velocemente il cortile rovesciando il bidone
della spazzatura, scavalcai il muro di pietre, attraversai
al galoppo il praticello dove una vacca pezzata pascolava sbattendo la coda, superai di volata lo steccato, saltai
a pie’ pari la siepe di ligustri e corsi verso il cortile dell’edificio a cinque piani con le imposte verdi e la facciata arancione dove sostava l’automobile. Aprii la portiera, mi misi al volante, avviai il motore e filai a tutta
velocità.
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Lo sgarro
Una manciata di secondi e l’elicottero giunse ronzando come un grosso moscone nella tela del ragno.
Alzai gli occhi. Girava in tondo a bassa quota con le pale
del rotore che sollevavano nuvole di polvere, piegando
le fronde degli alberi ai lati della via.
Assomigliava a un gigantesco pipistrello impazzito.
Puntò dritto su di me virando bruscamente, inclinandosi, pronto ad attaccare. Ma ancora una volta arrivò in ritardo, mentre ero al sicuro sotto gli eucalipti.
A metà dei viale bloccai la macchina, scesi di corsa,
aprii il bagagliaio e tirai fuori la bicicletta. Presi il sacco
di iuta, c’infilai il mitra, il passamontagna, il cinturone
con le pistole, il giubbotto e il binocolo, me lo caricai in
spalla, balzai in sella e iniziai a pedalare fischiettando.
Di fronte al distributore della Esso con la tettoia sporgente di lamiera svoltai e proseguii. Dopo il cavalcavia
imboccai una via laterale a senso unico. Cinquanta metri
appena e mi fermai dietro il furgoncino di mobili usati.
Smontai e caricai la bici. Presi il sacco e lo nascosi dentro un ripiano dell’armadio, spalancai lo sportello del
guidatore, indossai velocemente la tuta blu da lavoro
tirando su la chiusura lampo, agguantai il berretto bianco con la visiera scura e lo calcai in testa, saltai in cabina, misi in moto e partii augurandomi un felice viaggio.
Puntai verso est, ma feci poco cammino. Due automobili ferme di traverso in mezzo alla strada bloccavano il passaggio impedendo la marcia. Cos’era quello
stop? Qualcuno era già sulle mie tracce? M’incazzai, ma
rallentai e mi fermai.
Pensai. “Non ti arrabbiare, Paul. La collera è una
pessima consigliera e porta sfiga.” Accesi la sigaretta e
mi rilassai contro lo schienale, le mani bene in vista sul
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volante. “Bravo, devi comportarti come se te ne fottessi. Dimostra che non hai fretta e che sei disposto a
pazientare tutto il giorno.”
Avevo già vissuto esperienze del genere molte volte,
in situazioni peggiori. Anni prima in Cambogia una
banda di guerriglieri con armi pesanti mi aveva circondato. Quella volta me l’ero vista brutta, ma con una
buona dose di fortuna e tanto sangue freddo ne ero uscito intero.
Dalla Toyota rossa scese un ciccione calvo, pantaloni larghi di fustagno, maglione di lana a girocollo, giaccone lungo in finto montone. Cercai d’ignorarlo.
Vedendo che lo snobbavo si avvicinò saltellando. Aveva
la faccia e il comportamento da scemo. Meglio così. I
due della Peugeot, armati di fucili a pompa, stavano in
posizione di tiro al riparo delle portiere spalancate. Ero
consapevole del pericolo e dei rischi che correvo, tuttavia non mi preoccupai: tanto non potevo farci niente.
Momentaneamente, s’intende. Più tardi, be’ più tardi
chissà.
Rimasi al mio posto immobile, buono e zitto. Bastava una mossa e sarei finito dentro una cassa di pino
stagionato o cremato nel forno. Aspettai con la sigaretta in bocca rimpiangendo di non avere a portata di
mano le due Beretta. Il gioco si era fatto pesante. Con il
casino che avevo combinato non potevo pretendere di
essere accolto a braccia aperte. Mi conveniva ingoiare
e fare il tonto; così ricacciai in gola la rabbia e continuai
a non fiatare. Qualche volta il silenzio è d’oro. Il sacco
di lardo mi passò di lato e si portò dietro il furgone.
Inquadrandolo nello specchietto notai che fissava il
carico.
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Lo sgarro
– Paul – mormorai – questa volta sei spacciato. – Mi
tenni pronto a mettere in moto e a filare a mille all’ora.
Prima di dire addio al pianeta Terra avrei combinato
qualcosa di grosso.
Avevo immaginato tante cose: certamente non di trovarmi impedito da un posto di blocco. Magnifico. Mi
sentivo come un pollo nella stia. Avevo appena rimpianto le gemelle Beretta. Un corno. Avrei voluto in mano il
kalashnikov. Altroché. Me la sarei spassata un mondo.
Pazienza. Se era giunto il mio momento, ero pronto.
Prontissimo.
Il sacco di merda sollevò la bicicletta, spostò un comodino, rimosse il tavolo di formica, sbirciò sotto le sedie di
paglia, guardò nella valigia piena di vecchi libri. Alla fine
si portò dall’altra parte del camioncino e picchiò contro il
vetro del finestrino. Nel chinarmi per aprire mi accorsi
d’indossare i guanti. Strinsi i pugni per nasconderli.
Il grassone non era interessato a me. Cercava le armi.
Ficcò il naso sotto i sedili, aprì il vano portaoggetti fulminandomi con uno sguardo al curaro. Lo lasciai fare.
Accettavo tutto. Continuai a fumare muto come un
pesce, paziente più di una tartaruga.
Mi ordinò di scendere. Non feci storie. Perché avrei
dovuto? Aveva il coltello dalla parte del manico. Io, oh
io... Scossi il capo e smontai. I suoi amici non mi perdevano di vista. Brutti figli di puttana.
Salutai con un sorriso. – Che c’è amico? Vuoi il carico? Prendilo. È tuo, ma ti avverto: non ricaverai molti
soldi. È roba che vale poco. Il mobilio è vecchio e
malandato. – Sapevo di essere ridicolo, ma avevo deciso di comportarmi stupidamente. Campando avevo
imparato che non bisogna dare vantaggi all’avversario.
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