Bronte: per un cinema della nostra storia
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Bronte: per un cinema della nostra storia
24 CULTURA Bronte: per un cinema della nostra storia Riproposto dopo trent’anni la versione restaurata del film di Florestano Vancini. Il presidente Musumeci intervenuto alla proiezione ha ricordato le varie iniziative che la Provincia, prima fra tutte la Scuola di cinematografia, ha finanziato per sostenere la decima arte rent’anni ci separano dall’apparizione di “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” (Italia-Jugoslavia, 1972), ora riproposto in edizione restaurata dalla Scuola nazionale di cinema e dalla Regione siciliana. Si è scritto e detto molto su questo film, anche per l’inconsueta T Una delle scene di massa del film di Vancini girato nei luoghi originari dei “fatti di Bronte” partecipazione al lavoro di sceneggiatura di Leonardo Sciascia, insieme con Fabio Carpi, Nicola Badalucco e il regista Florestano Vancini. Si trattò, innanzitutto, di un’operazione altamente ‘didattica’, promossa non a caso da un servizio pubblico come la RAI (che poi non se ne giovò, spianando così la strada alla distribuzione nel circuito cinematografico di una versione più breve): raccontare un momento importante del risorgimento in Sicilia recuperandone l’anima sommersa, il non detto o il sottaciuto, e comunque il contrasto, talvolta tragico (come a Bronte, dove il carbonaro Calogero Gasparazzo guidò, sull’onda delle presto deluse speranze garibaldine, la sommossa popolare contro borghesi e proprietari terrieri), tra prospettiva ‘nazionale’ ed esigenze sociali diffuse quali il possesso della terra e il riscatto civile di masse abbrutite dall’indigenza e dall’ignoranza. Dell’enorme ‘questione ottocentesca’ aveva dato un saggio premonitore Vincenzo Cuoco, reduce dalla generosa utopia giacobina della rivoluzione napoletana del 1799 e proteso a studiarne certa astrattezza ideologica; e se ne appassionò il mazzinianesimo radicale dell’Ottocento (Pisacane, Nievo), prima che nella sua sanguinosa versione siciliana alimentasse un capolavoro di narrativa breve come Libertà di Giovanni Verga, stranita epopea senza nomi tesa come una corda e potentemente mirata, mentre racconta con estrema concisione realistica la rivolta e la strage fino alla spietata repressione, a lumeggiare il contrasto tra un’idea ‘astratta’ di libertà e la concretissima interpretazione che ne dànno i rivoltosi: prendersi, dopo secoli di sopraffazioni e soprusi, quel che occorre per lavorare e per vivere. Si comprende benissimo perché Sciascia, da sempre attento alle storie e alle microstorie (la vetta resta forse “Morte dell’Inquisitore”), e autore del saggio “La Sicilia nel cinema” (si può leggere in “Le maschere e i sogni. Scritti di Leonardo Sciascia sul cinema”, a cura di S.Gesù, editore Maimone), trovasse in quel soggetto un’occasione propizia per un personale contributo al cinema, che dalla sua opera ha tratto molto: e sta ora per apparire un “Consiglio d’Egitto”, col suo vitalissimo Settecento siciliano, di uno dei nostri registi più colti e sensibili, Emidio Greco. Quanto a Vancini, che all’Ariston di Catania stracolmo di giovani raccontava di 25 aver pensato al film dai primi anni sessanta, il suo interesse per la storia d’Italia s’era manifestato sin dalla sua prima opera, cosceneggiata da Pasolini, “La lunga notte del ‘43” (1960), che resta per noi la migliore; e si sarebbe confermato con “La banda Casaroli” e i meno risolti “Le stagioni del nostro amore” e “Il delitto Matteotti”. “Bronte” è un film importante, se è vero che il cinema può svolgere una funzione, oltre che in senso lato artistica ed espressiva, storico-memoriale, di confronto civile e ideale. Ben vengano, dunque, tutte le operazioni di storia-controstoria, di documentazione e di rievocazione critica: soprattutto in una società che troppo spesso riassume drasticamente il passato per insistere su un presente-futuro totalitariamente imposto alle nostre coscienze. Questo sacrosanto apprezzamento non ci impedirà di rilevare certe smagliature di racconto e qualche carenza di filtraggio linguistico del materiale raccolto: né alla prosa un po’ ruvida del film, ambientato per esigenze produttive in lande jugoslave, giovano granché le aggiunte del restauro (una quindicina di minuti ricavati dall’edizione elevisiva). Vancini lavora troppo sul “tutto tondo”, in ciò servito da due ottimi attori come Ivo Garrani (già memorabile colonnello Pallavicino nel “Gattopardo” di Luchino Visconti), nella parte dell’avvocato liberale Nicola Lombardo, che cerca invano di controllare e guidare gli eventi e finisce fucilato coi rivoltosi in una scena tra le più compiute del film; e Mariano Rigillo, un Nino Bixio di sicura presa emotiva, una volta accettata la prospettiva dell’interpretazione: che tuttavia non ci convince appieno, perché sostituisce alla retorica celebrativa e Il monumento realizzato a Bronte in memoria dei martiri di quelle giornate rivoluzionarie apologetica (si pensi a “Viva l’Italia”, 1960, nientemeno che di Roberto Rossellini) quella, non meno schematica nella sua unilateralità, della facile demolizione di un mito, con un Bixio visto solo come repressore spietato e inflessibile fucilatore. E invece la storia, e in specie la storia filmica, è fatta, proprio perché racconto, di nuda ‘cronaca’ e di epica ‘distanza’ memoriale: modello assoluto resta il “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi, che contamina un’immediatezza quasi documentaristica con un’ardita rielaborazione formale. Non vorremmo apparire irriverenti, ma si provi ad accostare la robusta esplicitezza delle stragi brontesi, raccontate da Vancini con effettismo quasi espressionistico, alla memorabile sequenza, stranita nei suoi innaturali silenzi, di Portella della Ginestra nel capolavoro di Rosi. Infine, di là dal contributo prezioso che “Bronte” apporta a una memorializzazione più completa o meno reticente, continueremo a pensare che alla storia del nostro risorgimento, e soprattutto del nostro cinema, gioverà sempre, con quella viscontiana di “Senso” e del “Gattopardo”, la lezione così diversa di “1860”, il film del 1934 di Alessandro Blasetti che, nello spirito dell’epopea garibaldina e di un ‘nazionalpopolare’ non estraneo al fascismo d’epoca ma con significative aperture al cinema sovietico, ci offriva una ‘storia siciliana’ di semplice e grande rigore stilistico. Ma ora valorizziamo questo pregevole ritorno di “Bronte”: che si veda nelle scuole e ovunque possibile. E che sia anche un’occasione per riflettere su quanto occorrerebbe oggi una sala dove mettere a confronto i più giovani, e noi stessi, col cinema della nostra storia (e della nostra vita: cioè col grande cinema di sempre). Nello Musumeci annunciava, in quella significativa serata all’Ariston, un Museo siciliano del cinema alle “Ciminiere”: potrebbe essere importante anche in questa prospettiva. Fernando Gioviale 26 CULTURA Inaugurata alle Ciminiere una vasta esposizione di sete, colori e ricordi delle donne del Vate D’annunzio intimo ottabiti di velo che basta un soffio ad agitare, camicie da notte in georgette che rivaleggiano con gli abiti da sera, mutande in seta incrostata di pizzo, deshabillé trasparenti, scialli preziosi ed impalpabili, collane “ombelicali”, lunghi bocchini da maliarda: questo ed altro l’armamentario indispensabile alle notti erotiche dell’invecchiante D’Annunzio, ormai definitivamente rinchiuso nel mausoleo del Vittoriale. Qui la fedele Aelis, che presiede alle lunghe notti “per non dormire” abbiglia, trucca, profuma ed istruisce secondo i dettami ricevuti le “visitatrici amorose” dell’inesausto Vate. Che, dal canto suo, impone il travestimento, sceglie sete, suggerisce colori, ordina a dozzine quelle spudoratezze leggere come nuvole che la sarta Biki inventa per lo stupore e il piacere delle donne milanesi. Abiti voluttuosi rimasti a lungo chiusi negli armadi del Vittoriale S e adesso tirati fuori, insieme a mille altri oggetti d’uso, per la curiosità e lo stupore del visitatore. La mostra alle Ciminiere, intitolata “Eleganze notturne al Vittoriale” e inaugurata il 1 febbraio ( fino all’8 marzo ) dalla sfilata di giovani modelle che hanno fatto rivivere i languori peccaminosi di un’epoca ormai lontana, ha offerto alla città la possibilità - un po’ voyeristica, ammettiamolo – di frugare dentro quegli ideali armadi da cui sono uscite meraviglie di seta e pizzo che furono indossate da donne celebri come la danzatrice russa Ida Rubinstein, la grande Duse, l’acclamata pittrice Tamara de Lempicka e, infine, anche da donne prezzolate. Ma non solo pizzi e merletti evocatori di notturne lussurie propone la mostra: perché si possono ammirare le vesti da notte del Vate, gli sparati inamidati di finissime camicie, le vestaglie a chimono in seta damascata o in velluto trapunto in cui amava racchiudersi, le raffinatissime scarpe a bottoncini laterali del più morbido capretto, le soffici pantofole, i completi da viaggio in cuoio di Russia, i molti preziosi oggetti da toeletta, gli abiti da sera completi di cilindro, e inoltre bracciali e collane destinati a completare i travestimenti femminili, autografi inediti, lettere alle donne concupite, istruzioni alla fida Aelis sulle messe in scena desiderate, indicazioni alla sarta Biki intorno ai colori e fogge preferiti. E ancora foto della divina Duse e un capo di vestiario che le appartenne; e calchi di Michetti, quadri di Mancini e una collezione privata di bronzi cesellati da Renato Brozzi. Tutto il necessario per indietreggiare nel tempo e curiosare, fra esagerazioni ed esibizioni, in quello che fu definito “il vivere inimitabile”. Finetta Guerrera