La complessità del verbo educare

Transcript

La complessità del verbo educare
direttore LUIGI CARICATO - [email protected]
società > cultura
La complessità del verbo educare
Non c’è un rapporto meccanico e automatico tra educazione e sviluppo economico. Chi ha fatto propria questa
semplificazione ha preso un abbaglio gigantesco. Impegnarsi, come si è fatto, facendo leva soprattutto sulle discipline
tecniche e scientifiche, non è stata una scelta azzeccata. Il progressivo ridimensionamento delle materie umanistiche nei
programmi scolastici è stata una svista enorme
Alfonso Pascale
L’educazione è un insieme stratificato e complesso; eterogeneo al suo interno (insegnanti, studenti, amministrazioni
ripartiti nei diversi ordini e tipi di scuole; programmi per disparate materie e curricoli educativi); connesso da legami diversi
con differenti società, culture, saperi, tradizioni nazionali; dipendente da orientamenti dei decisori politici, ma anche da
richieste e sollecitazioni, spesso contraddittorie, provenienti dall’ambiente in cui le scuole operano.
Questa complessità spiega perché, nei paesi bene ordinati, le politiche scolastiche non sono un particolare settore di
governo ma sono prese in mano direttamente da chi, conservatore o progressista che sia, ha le responsabilità massime e
complessive di governo, Thatcher o Chàvez, Sarkozy, Clinton, Bush o Obama. In Italia è stato così solo con Giolitti, ai
primi del Novecento. Vorrà Renzi rompere una tradizione di marginalità dei problemi educativi? Vedremo.
Una speciale attenzione alle politiche scolastiche è riservata da quegli statisti che sanno cogliere la complessità delle
connessioni che esistono tra istruzione e sviluppo, educazione e democrazia, culture e identità nazionali. Recentemente,
su committenza dell’Asian Development Bank, Robert J. Barrow e Jong Wha Lee hanno studiato le relazioni tra scuola e
sviluppo economico in riferimento all’evoluzione del Pil in 140 paesi del mondo, a intervalli di cinque anni, tra il 1950 e il
2010.
Dallo studio viene fuori l’immenso progresso della scolarizzazione di massa. Nel 1950 la popolazione mondiale aveva
un’istruzione media di 3,2 anni (il dato italiano del tempo); nel 1980 di 5,3 anni; nel 2010 di 7,8 anni. Un progresso
enorme. E dappertutto la scolarizzazione ha spinto in alto il reddito. Ma è rimasto forte il divario tra i paesi ad alto reddito,
dove l’indice medio è salito da 6,2 a 11 (che è l’indice italiano d’oggi), e i paesi a basso reddito, dove è aumentato da 2,1
a 7,1. Il ritorno sul reddito è alto nei paesi avanzati. L’Italia, ad esempio, con la scolarizzazione di massa ha saputo fare
un grande balzo dal sottosviluppo al pieno sviluppo.
Non così si può dire dei paesi poveri e in via di sviluppo: nell’Africa subsahariana e in America Latina il ritorno sul reddito
è meno della metà di quello registrato nei paesi ricchi. E questo dato ci indica che non di sola scuola vive lo sviluppo
economico, ma di più complicate politiche di investimento, strumenti e regole da adottare non solo nei singoli paesi ma
anche a livello globale. Migliorando le condizioni generali, anche le scuole agiscono più positivamente sullo sviluppo.
Non c’è, dunque, un rapporto meccanico e automatico tra educazione e sviluppo economico. Chi ha fatto propria questa
semplificazione ha preso un abbaglio gigantesco perché ha ragionato più o meno così: siccome alla competitività
economica tra paesi servono innovazioni tecnologiche, è sufficiente per accrescere lo sviluppo chiedere alle scuole di
impegnarsi soprattutto nelle discipline tecniche e scientifiche. Da qui il progressivo ridimensionamento delle materie
umanistiche nei programmi scolastici. Una svista enorme. Non solo perché non vi è una diretta correlazione tra sistema
scolastico e crescita del Pil, ma anche perché, pur volendo ammettere tale collegamento, un sistema educativo all’altezza
dei problemi posti dalla globalizzazione deve formare cittadini responsabili e non sudditi, capaci di conoscere e
comprendere soprattutto chi è lontano nello spazio e nel tempo. Da qui le ragioni generali di una formazione alla
conoscenza e al gusto della geostoria, di taglio antropologico e critico, e di un’educazione che attinge a quei classici greci
e latini che sono portatori eccellenti di visioni del mondo che hanno condizionato alle radici la nostra cultura.
In un lavoro di alcuni anni fa (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino,
2011), la filosofa Martha C. Nussbaum ha dedicato pagine molto dense contro la scelta anticlassica che molti paesi hanno
adottato. In particolare, la filosofa sostiene che se una nazione intende promuovere una democrazia “umana”, sensibile
verso l’altro, intesa a garantire ad ognuno le giuste opportunità di “vita, libertà e ricerca della felicità”, dovrebbe
innanzitutto sviluppare nei suoi concittadini la capacità di ragionare sui problemi che riguardano la collettività senza
delegare all’autorità e alla tradizione.
E a questo proposito, la studiosa dimostra come il metodo socratico, la tradizione filosofica occidentale di teoria
pedagogica da Rousseau a Dewey e la scuola di Tagore hanno ancora molto da dire nel formare alla cittadinanza
democratica.
Inoltre, mentre i paesi dove si parlano comunemente lingue derivanti dal greco e dal latino (compreso l’inglese!) hanno
pressoché eliminato lo studio di questi antichi idiomi, non così avviene in altre aree più dinamiche del mondo (Giappone,
Cina, Israele) dove il ruolo dello studio delle rispettive lingue antiche, che sono le loro radici classiche, il loro latino e
greco, continua ad essere fondante nell’organizzazione scolastica e culturale. E ciò dimostra la correlazione stretta tra
evoluzione delle società e valorizzazione delle tradizioni culturali. Ben venga, dunque, anche in Italia - così come pare
voglia fare il governo - una ripresa delle discipline umanistiche nelle nostre scuole.
La foto di apertura è di Luigi Caricato
Alfonso Pascale - 15-05-2015 - Tutti i diritti riservati
COMMENTI
Per poter commentare l'articolo è necessaria la registrazione.
Se sei già registrato devi effettuare l'accesso.
Osservatorio sul mondo dell'olio da olive e delle realtà affini
"Olio Officina Magazine" è una testata registrata
presso il Tribunale di Milano, n. 326 del 18 ottobre 2013
Direttore responsabile: Luigi Caricato
Direzione e redazione: Via Francesco Brioschi, 86 - 20141 Milano
Tutti i diritti sono riservati - Disclaimer - Privacy
Realizzato da Aerostato - Newsletter inviate con MailCom