Homo sapiens e homo demens. Dall`antinomia all`alleanza

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Homo sapiens e homo demens. Dall`antinomia all`alleanza
Homo sapiens e homo demens. Dall'antinomia all'alleanza
di Daniela Dato
Homo sapiens è anche homo demens – ha scritto Morin – ovvero l’uomo è una commistione, un
ibrido di ragione ed emozione, saggezza e follia, ordine e disordine, calma e irrequietezza, crisi
e progetto, rigore ed eccesso e, persino, santità e delirio. In lui vivono in modo interdipendente
elementi svincolati e caotici ed elementi ordinati e strutturati, Dioniso e Apollo. Non riuscendo e
non potendo concepire il sapiens senza il demens pedagogicamente non resta che costruire il
sentiero per una loro più efficace integrazione e per un loro più proficuo indirizzo, per il bene del
singolo e per il bene comune.
Morin wrote that “Homo sapiens is also Homo demens”. According to him, he is a mixture, a
hybrid of reason and emotion, wisdom and madness, order and caos, calm and restlessness,
project and crisis, even holiness and delirium, Dionysus and Apollo. Becouse of this, we cannot
think sapiens without demens. As pedagogists, we have to search the way to complement them
each other, and this for our personal and common good.
Bisogna avere dentro di sé il Caos per partorire una stella che danzi… (Friedrich W. Nietzsche)
1. Una condizione fragile
Elogiare la follia, si dirà, è “cosa” da artisti, teatranti, persino di scienziati visionari. Più difficile,
invece, immaginare che una tale apertura e disposizione possa essere propria anche delle
professionalità formative. Mal si vedono, infatti, formatori elogiare l’errore, la collera, il disordine,
la trasgressione delle regole, delle abitudini consolidate, dei programmi rigidi e dettati (sulla
falsa riga del famoso prof. John Keating del film Carpe Diem) Perché la formazione è rigore,
metodo, disciplina. E tuttavia oggi sappiamo che il cammino tras-formativo è anche, se non
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soprattutto, scommessa, rischio, disordine, fantasia, persino errore… sana, fresca, gioiosa
follia. Una follia, un disordine emotivo, creativo che, grazie a molti studi sull’intelligenza, tra i
quali quelli di Gardner, Bruner, Sternberg, Goleman ecc., non sono più antinomici alla ragione,
all’apprendimento, allo sviluppo, ma ad essi complementari; non sono più considerati elemento
di disturbo ma, al contrario, capisaldi, motori, risorse dello sviluppo, della conoscenza, delle
relazioni.
Già Gardner tra gli altri, infatti, ha messo in luce come ci siano molteplici modi di essere
intelligenti, considerazione che già da sola scalfisce profondamente la convinzione della specie
sapiens circa la monoliticità della ragione.
Prima ancora, Freud, Darwin, Taylor ci avevano prepotentemente messi di fronte alla
insostenibilità di particolari “-centrismi”, mentre Kuhn aveva descritto con rara efficacia il
processo per il quale si realizza l’irruzione creativa della “scienza straordinaria” nei paradigmi
della “scienza normale”. Movimento attraverso il quale si realizza quel gioco di prima
contrapposizione e successiva integrazione di schemi di ricerca resi in tal modo originali, inediti,
imprevedibili, spesso anche extrascientifici se considerati rispetto ai “vecchi” normali paradigmi.
Al fianco della teoria, poi, la prassi. La prassi quotidiana che ci ha dato prova della complessa
problematicità dell’esperienza (anche e soprattutto formativa), della presenza di ombre e luci in
ogni azione che si rivela solo relativamente programmabile quanto a esiti e risultati, delle “leggi
del giorno e della notte” (Cives, 1994), delle profonde contraddizioni che ciascun soggetto
conserva in sé e che connotano la irriducibile complessità di ogni livello interpretativo del reale.
Con ciò descrivendo una condizione che rende con evidenza conto del “carico di cifre di
azzardo, avventurosità, scacco, naufragio” (Frabboni, 1997, p.12) di ogni singolare esistenza.
“Siamo soliti ritenerci ragionevoli – ha precisato Galimberti – dimenticando che la ragione è una
piccolissima zattera su cui galleggiamo finché la furia delle onde non la travolge. E allora è la
follia e non la ragione il nostro habitat abituale, a cui l'umanità ha cercato di porre degli argini
prima con i riti, poi con le religioni, infine con regole di convivenza, leggi, istituzioni. Finché
queste strategie tengono” (Galimberti, 2009). Una condizione fragile e dinamicamente instabile
che può facilmente essere sospesa dalla tutto sommato semplice messa in discussione delle
fondamenta assiologiche su cui basiamo, per lo più inconsapevolmente, il nostro modo di agire,
la nostra interpretazione di cosa significhi uomo, cultura, società. Le tante istanze razionali e
non a cui non possiamo negare di possedere tale forza destrutturante di una ragione che
riconosciamo essere sempre locale nello spazio come nel tempo, pongono la questione di una
formazione al cammino in prossimità dell’abgrund, del “senza fondamento” che sembra
prospettare l’eros per il logos e viceversa il logos per l’eros.
Si tratta di una relazione sicuramente problematica ma, nello stesso tempo, aperta alla
manifestazione di una infinità di forme e prodotti utili a ricordarci la natura intimamente plurale
dell’essere umano, questa commistione continua tra follia e saggezza, amore e odio, violenza e
socievolezza: l’inscindibilità del nostro essere complessi, camaleontici, proteiformi,
caleidoscopici. Giacomo Cives ha sottolineato “il senso della problematicità polivalente
dell’esistere e del conoscere (dimensioni estetiche, emozionali, creative, intuitive ecc.)” e al
contempo teorizzato il concetto di educazione “come appunto positiva connessione (e per nulla
deteriore commistione e compromesso) tra soggetti, livelli, tipi di saperi diversi, tutti da
rispettare, ma insieme da collegare in un processo di arricchimento reciproco”. E ancora ha ben
descritto “il senso della complessità, come venir meno di precedenti sicurezze, come crisi
dell’onniscenza, come avanzante intrico multidimensionale e interdipendente dei problemi,
come incidenza accresciuta e difficilmente dominabile del contingente e dell’individuale, appare
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[…] come una dimensione consistente con cui si dovranno fare i conti per vario tempo” (Cives,
1994, pp. 221, 238, 240).
In particolare in Complessità ed educazione democratica, sempre Cives recupera il valore dei
caratteri proteiformi, e per certi versi “indefiniti”, della condizione postmoderna e la conseguente
necessità di “imparare a convivere con la complessità” foriera di immaginazione e creatività,
forza motrice verso il superamento sempre transitorio dell’incertezza, dei confini dell’ovvio, così
ampliando il già complesso orizzonte delle scelte razionalmente – antidogmaticamente,
problematicamente – possibili.
È questa “una sfida (come la si è chiamata, ‘sfida della complessità’) che chiede più finezza
metodologica, scienza più avanzata, maggiore duttilità critica, e una progettualità educativa di
maggior respiro, meno ristretta e più prospettica. Si tratta in sostanza di una aumentata
dimensione di problematicità, che richiede un più alto grado e impegno di intelligenza e
un’accresciuta elaborazione da parte di quella pedagogia e di quell’educazione che del resto
costitutivamente hanno a che fare con problemi complessi, in modo da adoprarsi con ancora
maggiore efficacia e attenzione alla promozione di personalità democratiche: ciò, considerato
che l’equilibrio e la polivalenza di queste si rivelano decisivi per affrontare le accresciute
difficoltà del nostro tempo” (Cives, 1994, pp. 241-242).
2. Dubbio ribelle
La dimensione della complessità si manifesta secondo un’ampia fenomenologia che,
sicuramente connotata emotivamente, ha però il senso di indicare sempre determinate
condizioni organizzative. Ne sono esempio le dimensioni del rischio, della provvisorietà, del
cambiamento, o ancora del dubbio. Tutte forme che incidono profondamente sulle stesse
attività cognitive ed emotive dell’uomo, sul suo modo di percepire e vivere la realtà, nonché sul
modello stesso di ragione – innervata delle singolari formae mentis – fino a costringerla a un
confronto serrato con “l’irrazionale, l’estetico, il non-chiarito-ancora, la polivalenza
predisciplinare, la pluralità dei punti di vista, il pluriculturale e il multidisciplinare […], la varietà
di vie evolutive, la moltitudine dei processi interattivi […], la multifattorialità, la prospettiva
probabilistica, il variarsi e moltiplicarsi di approcci metodologici, il differenziarsi irripetibile eppur
sempre incidente delle vicende storiche, e soprattutto l’irriducibile originalità della singolarità e
della particolarità” (Cives,1991, p. 30).
La stessa dimensione della complessità, che abbiamo imparato a riconoscere come sottesa agli
avvenimenti sociali, economici, culturali che caratterizzano la società postmoderna, rende
immediatamente percepibile l’origine comune , la radice unica, da cui emergono saggezza e
follia. Una complessità che, necessariamente, invade anche gli spazi privati, influenzando le
scelte più intime, sollecitando ed esigendo l’esercizio di nuove e inedite forme di pensiero
orientate a “puntare su un nuovo concetto di ‘razionalità’ intesa quest’ultima come modo di
esprimersi della personalità umana nella sua interezza” (Volpi, 2001, p. 155). La sistematica
opera di destrutturazione-riorganizzazione che tale condizione rende normale mina la possibilità
stessa che saperi e competenze possano essere ritenuti acquisiti una volta per tutte quando si
raggiunga la così detta età della maturità. La complessità, diversamente, la commistione di
logos ed eros nell’ibrido umano portano la riflessione pedagogica ad affermare risolutamente un
nuovo concetto di età, incentrato sul corso della vita e, quindi, fondata sul cambiamento e,
dunque, che riconosce l’inestimabile valore delle caratteristiche neoteniche per affrontare e
superare le emergenze di una società liquida, del rischio.
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Le dimensioni dell’incertezza e del cambiamento che sembrano sempre più contraddistinguere
le nostre vite – ormai è chiaro – siano esse pubbliche o private, ci obbligano a esercitare e
verificare continuamente l’adeguatezza e l’efficacia delle nostre “mappe cognitive” cui si
richiede sempre più flessibilità, apertura strutturale, formae mentis in grado di cogliere la
positività dell’emozione e dell’affettività, con ciò consentendo di comprendere, sebbene a volte
con qualche difficoltà, che “quanto si è perso in stabilità lo si può guadagnare in creatività,
quanto si è perso in sicurezza lo si può guadagnare in inventiva” (Bocchi & Ceruti, 2004, p. 7).
Si tratta di formae mentis dinamiche, ricorsivamente costruite tra logica e fantasia, cognitività ed
emozione, mente e corpo, natura e cultura che sappiano “collegare solidamente […] lucidità
intellettuale, apertura emozionale e creatività” (Cives, 1991, p. 34), che siano in grado di
coniugare le già richiamate leggi “del giorno” con quelle “della notte”, che sappiano, ancora,
riconoscere il ruolo spesso nascosto e inconscio che ha il daimon proprio di ciascuno di noi.
Giovanni Maria Bertin in Educazione alla ragione sottolineava, a tal proposito, l’importanza del
“momento interiore di demonicità che costruisce l’individualità nel suo significato più profondo”
(Bertin, 1975), lì dove il termine “demonicità” sta a indicare l’inquietudine, la vitalità, le
potenzialità creative racchiuse in ognuno di noi, quando educano a essere “fedele alla ragione”
e “aderente alla realtà”.
L’individuo, il certosino artigiano della propria esistenza, deve impegnarsi in una costruzione
“più tollerante e radicata nella realtà” , aperta alla pluralità, alla critica costruttiva, “non per
perdere la propria spinta alla chiarificazione razionale ma per renderla più disponibile e meno
presuntuosa, più ‘democratica’ e attenta alla pesantezza delle cose, della singolarità delle
esperienze della varietà degli avvenimenti nel divenire storico, della concretezza degli scacchi,
dei fallimenti e del dolore” (Cives, 1991, p. 32).
Alla logica tradizionale, quella linearmente analitica per antonomasia, si affiancano, dunque, la
logica del comprendere, dello scoprire, del sentire, dell’immaginare, persino dell’inventare, del
rischiare, dell’“errare” in quanto possibilità “altre” della mente di spaziare nei labirinti
dell’esistenza umana.
Ed era stato Freire a sottolineare quanto sia importante coltivare, nei più e meno giovani, il
gusto della ribellione, “forza creatrice dell’apprendimento”, “dubbio ribelle” antidoto al
nozionismo e all’apprendimento passivo; così come “è sbagliata l’educazione che non
riconosce alla giusta collera [...] un ruolo altamente formativo” (Freire, 2004, p.35), perché sono
proprio “ribellione” e “giusta collera” a sollecitare la curiosità, la riflessione nell’azione,
sull’azione e per l’azione, potendo portare al cambiamento, al nuovo, alla trasformazione.
Perché, ha scritto Freire “siamo esseri trasformativi e non destinati ad accomodarci
all’esistente” (Freire, 2000, p. 36).
Il dubbio ribelle è, allora, accoglimento dell’istanza del disordine inteso come criterio generativo
e non distruttivo. Ordine e disordine si rivelano essere istanze che, pure antinomiche, restano
comunque e sempre in una relazione tensionale e dinamica che, al fine, rende impossibile
pensare l’una senza l’altra. Inseparabili, come scrive Morin, essendo il disordine “di genesi e
creazione” (Morin, 2001, p. 43).
Ordine e disordine, nella loro alternativa dominanza, nella loro morfogenetica sintesi,
restituiscono, allora, nuova dignità a ciò che solo contingentemente può essere considerato
“errare”, nel duplice significato dell’intrapresa di un viaggio e come esperienza dell’errore.
Possibilità interpretative, queste, che abitano il processo di un euristico nomadismo
epistemologico che, sul piano della concreta esistenza, si traduce in possibilità di progettare la
propria vita dialogando con l’incertezza; di «scegliere» punti di riferimento tanto efficaci quanto
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flessibili per vivere gestendo, e non controllando, non riducendo, non negando la complessità, il
cambiamento, la propria infinita tras-formazione.
È, dunque, proprio la possibilità di errare, di dubitare, di scegliere la ribellione a essere la
risorsa ibridativa per eccellenza. Risorsa che si ritrova sempre, anche quando negata,
nell’esperienza di vita (formativa, esistenziale, professionale) di ciascuno e che offre al soggetto
continue occasioni di trasformazione, di divenire-altro-da-sé, di aprirsi all’incontro con l’altro,
con l’ignoto e l’inedito.
Paura e angoscia di cambiare, resistenza al cambiamento e, al contempo, meraviglia e stupore
del poter-essere-ancora, del divenire: ogni processo di apprendimento si rivela essere il
risultato della motivazione a superare la discrepanza, il dubbio, il senso di disagio e
inadeguatezza che coglie il soggetto quando si trova di fronte a situazioni nuove, inedite ed
emergenti.
Sono proprio quelle spinte emotive, quel bisogno di superare il disagio, l’interesse e la curiosità
epistemica e relazionale per il «non-ancora» che favoriscono e promuovono la
sperimentazione dell’errore e del cambiamento, la negoziazione di nuovi significati e la
costruzione di nuove relazioni. È proprio quella dissonanza emotiva tra la dimensione interiore e
gli stimoli provenienti dal mondo circostante a spingere il soggetto verso una metamorfosi, a
dare l’«impulso alla creazione».
3. Ragione e (è) follia
Homo sapiens è anche homo demens – ha scritto Morin – ovvero l’uomo è un crogiuolo, la
crasi, un ibrido di ragione ed emozione, saggezza e follia, ordine e disordine, calma e
irrequietezza, crisi e progetto, rigore ed eccesso e persino santità e delirio. In lui vivono in modo
interdipendente elementi svincolati e caotici ed elementi ordinati e strutturati, l’uomo
incarnazione del limite che unisce-e-separa dionisiaco e apollineo. La natura composita
dell’essere umano ne fa “un animale isterico posseduto dai suoi sogni e tuttavia capace di
oggettività” (Morin, 2002, p. 125), commistione di tenerezza e violenza, socialità e asocialità,
amore e odio, guerra e pace, logica e fantasia, è un animale che corre sempre il rischio di
cadere negli agguati del delirio della ragione come in quello dell’immaginazione [1].
Queste le istanze che fanno dell’uomo un Giano irriducibile e che, con ciò, orientano l’agire e il
pensare pedagogico verso forme evolute di problematizzazione e risoluzione integrata e
consapevolmente transitoria delle emergenze culturali, sociali, personali in riferimento agli ampi
spazi e ai lunghi tempi della formazione. Non riuscendo e non potendo concepire il sapiens
senza il demens a noi non resta che ricercare il sentiero di una loro più efficace integrazione e
di un loro più proficuo indirizzo per il bene del singolo e per il bene comune, riconoscendo,
proprio nelle esperienze di maggior compromissione con il lato più dis-integrante del sapiens,
occasione per nutrire gli aspetti maggiormente integranti del demens.
Ciò significa riconoscere il potere dell’uomo, di qualunque uomo, di interpretare la misura e
l’eccesso, condizione che, nella misura in cui sia riconosciuta come “di fatto” impone
all’attenzione pedagogica la cura per la costruzione di un habitat educativo che promuova la
consapevolezza dei legami che, pur sperimentati localmente, possono facilmente aprire al
riconoscimento della dimensione cosmica dell’uomo, dell’asino, del filo d’erba, del quarzo.
Condizione, questa, che aprirebbe a una tonalità emotiva improntata al senso e-statico della
comprensione del vincolo interpersonale e transculturale (una semplice analisi delle evoluzioni
delle mode giovanili sarebbe già più che sufficiente) (cfr. Morin, 2002).
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I due processi, quello freddo della ragione calcolante e quello caldo dell’emozione vincolante,
come è chiaro, non segnano un limite netto. Ma questo non significa abbandonare l’ideale di
una educazione alla ragione che sappia gestire la razionalità della follia e, viceversa,
l’irrazionalità della ragione. Si tratta, dunque, di affermare ed esplicitare un bisogno di ragione,
la necessità che ognuno di noi ha di coltivare quello strumento meraviglioso che è la ragione
problematica, aperta, critica, antidogmatica, storica. E, questo, pur nella consapevolezza che “ci
sono cose che superano la mente umana [e che per questo] dovremmo imparare a giocare, in
senso ludico, per così dire, con la parte irrazionale della nostra vita e saperla accettare” (Morin,
1999, pp. 30, 62).
La dimensione della ludicità diventa, allora, clinamen che può innervare l’intera vita di un
soggetto, tempo e spazio in cui cercare l’espressione più completa della propria corporeità,
della propria emotività, immaginazione e sensorialità, governato dal piacere, dal desiderio,
dall’ironia, dalla leggerezza, come dalla serietà, dalla ragione, dall’impegno, dalla puntualità.
Una tale disposizione al ludico significa, dunque, apertura e disponibilità al cambiamento, al
desiderio di avventura, apertura all’incertezza, al rischio, al disordine, alla reversibilità delle
cose configurandosi anche come momento generativo, costruttivo e significativo per
l’esperienza e per la crescita del soggetto-persona.
Nel mentre sapiens e demens si incontrano, si incontrano anche le dimensioni del serio e del
lieve. “Memoria poetica”, alchimia suggestiva tra sensibilità e immaginazione, “comunicazione
creativa” o, ancora, “desiderio del volo”, “attività del riso, della danza, del gioco” (Bertin, 1975).
Una “leggerezza” che mantiene “seriamente” viva la consapevolezza della problematicità
dell’esperienza, della pluralità che contraddistingue oggi soggetto.
In tal modo, come già accennato, il paradosso, la ribellione, il pericolo, l’imprevedibilità, persino
l’errore ritrovano senso nell’economia globale della vita del soggetto. La fantasia, l’emotività,
l’invenzione, la creatività hanno la possibilità di rivendicare un proprio posto in un modello di vita
che oggi è evidentemente per lo più sovraordinato e uniformante, spersonalizzante e reificante.
L’insufficienza delle ragioni di un pensiero monologico, l’inefficacia sociale e (anche) produttiva
dell’uniformità di pensiero, la crescente richiesta sociale, economica, politica, vitale di capacità
di mettere in discussione un modello di interpretazione e gestione del reale che si incardini
meccanicamente su una logica univoca del mondo, aprono allora alla possibilità di ripensare un
possibile incontro tra istanze creative e razionali, logiche e immaginative, possibile proprio
attraverso il dispositivo dell’ibridazione a livello di pensiero personale, di cultura e di società, di
mondo e cosmo.
Dove, ormai è chiaro, parlare di istanze irrazionali, evidentemente, non significa fare riferimento
ad una involuzione della stessa ragione umana. Significa, con Huizinga, evidenziare gli
elementi extra-razionali dell’evoluzione umana e riconoscere “come le forze motrici della storia
[sono] contenute per la massima parte nella stoltezza [...] del genere umano” (Huizinga, 2004,
p. 6). Questo perché, costruttivamente e pedagogicamente, è necessario riconoscere e
accettare la contraddizione umana della sua connaturata commistione e ibridazione tra serio e
lieve, natura e cultura, logos ed eros ecc.
Ibridata e ibridante non è solo l’esperienza dell’essere umano come specie ma nel suo stesso
cammino storico, l’uomo stesso diventa, a seconda delle cornici di vita, homo faber,
oeconomicus, ludens, demens, communicans, game e via dicendo. Un essere uomo che
spesso si confonde tra i margini di tali profili, mai del tutto definiti, sempre commisti e integrati.
Per questo la parola chiave, ha ragione a nostro parere Morin, non può che essere reliance, il
legame e l’alleanza insieme, la “simbiosofia, la saggezza di vivere insieme” (Morin, 2001, p. 79).
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Una reliance che si gioca nelle relazioni tra cervello-mente-cultura,
ragione-immaginazione-legge, individuo-società-cosmo, per citare solo le più pedagogicamente
rilevanti. Relazioni sempre aperte e, a loro volta, ibridate nella misura in cui, a solo titolo di
esempio, è impossibile non pensare il cervello senza tener presente i vincoli che con esso
intrattiene ciascun elemento della triade individuo-società-cosmo e così anche per ogni singolo
elemento, per una infinità di relazioni. Ecco l’esplosione del com-plexus dell’umano. Ecco
l’elemento intorno al quale devono ruotare i dispositivi formativi tesi alla promozione
dell’autonomia nell’interdipendenza dell’uomo, alla realizzazione della singolarità nella
promozione dei beni comuni e del bene comune. E questo perché compito dell’educare è “fare
in modo che l’idea di unità della specie umana non cancelli l’idea della sua diversità e che l’idea
della sua diversità non cancelli l’idea della sua unità. Vi è unità umana. Vi è diversità umana”
(Morin, 2001, p. 56) [2].
Note
[1] “La nostra mente produce a un tempo l’errore e la correzione dell’errore, l’accecamento e la
chiarificazione, il delirio e l’immaginazione creatrice, la ragione e la sragione. Più
profondamente, dobbiamo sapere che ‘homo’ è ad un tempo ‘sapiens’ e ‘demens’, che la
relazione tra questi due termini non è soltanto di opposizione ma anche di indissociabilità, di
complementarietà e di ambiguità […]. Ed effettivamente è nel suo stesso principio che la
conoscenza è forte e debole, sana e inferma, vigorosa e fragile, audace e timida, irrispettosa e
rispettosa, lucida e cieca. È nel suo principio che essa racchiude il vero e il falso […]. Non si ha
conoscenza assoluta e […] l’inconcepibile è all’orizzonte di ogni conoscenza” (Morin E. (1993).
La conoscenza della conoscenza. Milano: Feltrinelli, p. 257).
[2] Morin scrive nel suo lavoro sull’etica “Il diavolo (diabolus) è il separatore. Il diavolo è
necessariamente in ognuno di noi poiché siamo individui separati gli uni dagli altri. Ma siamo
connessi. La disgiunzione o separazione senza relianza permette il male; il bene è relianza
nella separazione. L’eccesso di separazione si verifica quando non c’è più relianza. L’eccesso
di separazione è perverso nella scienza poiché rende incapaci di legare le conoscenze. Per
conoscere si deve nello stesso tempo separare e legare. L’eccesso di separazione è perverso
tra gli umani quando non è compensato dalla comunità e dalla solidarietà, dall’amicizia e
dall’amore” (Morin, 2005, p. 96).
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Bibliografia
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Cives, G. (1994). Pedagogia del cuore e della ragion. Bari: Giuseppe Laterza.
Frabboni, F. (1997). L’epistemologia pedagogica del personalismo e del problematicismo. Linee
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