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ROBERTO PAZZI
VANGELO DI GIUDA
I GRANDI TASCABILI
BOMPIANI
ISBN 978-88-452-7858-7
2002 © Roberto Pazzi
© 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano
I edizione Tascabili Bompiani gennaio 2015
Ai miei allievi
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Trasillo, l’astrologo di Tiberio, da qualche giorno
aveva avvertito il suo signore. La congiunzione nei
Pesci di Giove e Saturno non prometteva nulla di
buono; qualcosa per mare sarebbe giunto a turbare
la tranquillità dell’imperatore anche lì, a Capri, dove
pareva che il rumore dell’urbe fosse solo una reminiscenza dei messaggeri del senato.
“E che pensi che sia, Trasillo, un mostro marino,
una flotta di nuovi argonauti?” incalzava un mattino
il figlio di Livia insonne, l’occhio arrossato e la barba
incolta come dopo una notte passata a prolungare i
piaceri della tavola.
Da pochi mesi era stato giustiziato quel Sejano, il
prefetto del pretorio, che aveva garantito a Tiberio
anni interi di evasione dal suo odioso carcere del potere. Odioso prima di tutto a lui stesso, che non aveva
mai amato il suo destino di distruttore della libertà di Roma e di successore di Augusto, ruolo d’inevitabile confronto a suo danno che, nella memoria
dei posteri, l’avrebbe gettato nella stessa posizione
in cui l’incatenava da vivo la carica. La bellezza di
Capri, l’isola delle Sirene di Ulisse, l’aveva in quegli
estremi anni in vista della fine consolato come un
sogno erotico illanguidisce le carni verso l’alba e viene protratto il più a lungo possibile, per non perdere
una goccia della sua malia. S’era fatto costruire due
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ville nell’isola simili agli opposti lati del suo carattere legato al dualismo dello Scorpione: una, raramente visitata, vicina al mare, di fronte ai faraglioni, dove
la vista correva a spaziare verso il largo e, in alcune
giornate di trasparenza eccezionale, verso le forme
della Sardegna, della Corsica e della Sicilia, oltre le
quali si poteva immaginare l’Africa e tutto quel vasto
mondo che pareva soltanto ansioso di correre sotto la
frusta di un unico padrone. L’altra, villa Jovis, chiusa
e inaccessibile come un pauroso segreto, stava su un
alto monte a picco sul mare, e pochissimi romani v’erano stati ammessi. Così molte leggende erano sorte
sulla vita che vi si conduceva, soprattutto nei periodi
di depressione del suo padrone inquieto quando nessuno sembrava in grado di ridestarlo dai ricordi più
amari e struggenti: quello di Vipsania, la giovanissima moglie ripudiata per ordine di Augusto, quello
degli studi di filosofia a Rodi, allorché davvero era
stato libero dal potere e dalla famiglia di Augusto
e Livia. Tiberio aveva cercato a Capri di riprodurre
la magica sospensione di Rodi dove, nei primi anni
almeno, aveva persino sognato di poter diventare un
retore o un filosofo, ingelosendo Augusto.
“Noi non apparteniamo a noi stessi, ma a Roma,
ricordatelo sempre, Tiberio!” gli aveva gridato l’imperatore quando l’aveva fatto ritornare da Rodi soltanto dopo avergliela resa inospite come una prigione. E poco dopo, per colmare la misura del suo
dovere di non concedersi alcuna scelta solo per sé,
gli aveva imposto di ripudiare la moglie per sposare
Giulia, la sua disgraziata figlia. Alternando momenti
di serenità, sempre più brevi, a momenti di depressione nella villa vicina ai faraglioni e in quella sul
monte, a mezzogiorno, Tiberio aveva “scontato anni
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di pena”, come soleva dire. E quando passava vicino
a Niso, lo schiavetto ápulo che custodiva la sabbia
dorata delle clessidre e misurava sulla meridiana di
corniolo il cammino del sole, prendeva in mano bacchette e strumenti, ghermendoli con voluttà, come se
immergendo le dita adunche nella sabbia della clessidra potesse rompere l’imbuto del tempo e accelerare la corsa. Una notte Niso l’aveva udito mormorare
lasciando cadere la rena dorata tra le dita inerti: “Di
che cosa mai siamo fatti... Qualsiasi vento potrebbe
disperderci...”
A Roma s’era innamorato di Capri leggendo e
rileggendo il passo dell’Odissea in cui Ulisse, davanti alle Sirene, tura le orecchie dei compagni colla
cera e si fa legare all’albero della nave per udire il
canto senza pericolare sui faraglioni dell’isola. A
lui non rimaneva altra libertà che il capriccio e il
dispetto: Augusto aveva tessuto il disegno e la figura
d’un imperatore, lui poteva solo lacerare un dettaglio, variare qualche inflessione. E così con Omero.
Lui, l’imperatore romano, poteva soltanto giocare
con i divieti di Ulisse, correre dalle Sirene a Capri,
ascoltarle, perdersi nel loro canto. Giocare così con
un capriccio letterario il suo potere, come con una
variante al testo di Omero. Ci aveva scherzato una
serata intera, a Roma, con alcuni senatori. Disorientati dai suoi paradossi e dalla sua ironia, non avevano più saputo cosa dire, temendo di compiacerlo
in modo sbagliato se lo esortavano a correre a Capri
per cercare quelle divinità marine; e, impercettibile,
un superstite residuo senso del ridicolo li fermava,
sapevano che Tiberio voleva e non voleva i suoi cortigiani pronti a secondarlo. Ma nessuno aveva davvero creduto che desiderasse attuare quel capriccio. E
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perciò erano rimasti atterriti quando l’avevano udito
pronunciare quella frase, con la sua voce bassa e profonda, gli occhi rivolti a terra: “Allora domani mattina, all’alba, a Ostia. Verrete a Capri con me e non ve
ne andrete finché non avremo ascoltato le Sirene: ma
questa volta non a orecchie turate...”
Tutti avevano colto l’annuncio sinistro di morte di
quella frase e quella notte avevano salutato le mogli
e i figli, che piangevano, come essi andassero all’esecuzione capitale. Nemmeno Livia, la madre Augusta
dalla volontà di ferro che gli aveva spianato la via al
potere, era riuscita a farlo desistere.
E il giorno dopo Tiberio era davvero partito per
Capri, con la sua corte. Di furia come inseguito da
un nemico implacabile: il tempo. Perché qualcuno l’aveva sentito ripetere più volte, in lettiga verso
Ostia, che occorreva procedere più presto, più presto, che non aveva molto tempo, che troppo tardi
aveva capito, troppo tardi. Era cominciato così il suo
esilio a Capri. Mai però lui aveva usato quella parola, esilio; piuttosto era parso a tutti che si considerasse in vacanza su quell’isola così bella.
“Del resto ogni mortale è un’isola”, aveva concluso
in una lunga lettera dettata per la madre dalla villa
prospiciente i faraglioni, da quel luogo dove la leggenda sosteneva che le Sirene, figlie d’una Musa e di
Forco, avessero la loro sede.
Tiberio aveva per la prima volta usato contro la
madre il potere imperiale, ingiungendole di non toccare più l’argomento, di non tentare più di richiamarlo a Roma, se non voleva lei sì davvero l’esilio.
Quando poi, due anni dopo, era morta, Tiberio non
s’era mosso da Capri che a funerali avvenuti, autorizzando i peggiori sospetti su quella morte che non
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pareva avergli fatto versare una lacrima. Avvicinandosi ai settant’anni, Tiberio, sempre più lontano dal
potere delegato ormai a Lucio Elio Sejano, il cavaliere di origine etrusca che aveva persino associato
al consolato, non s’era mostrato più pago di stravaganze letterarie. Come se le Sirene lo avessero persuaso a cercare ancora più in là, oltre il loro canto,
oltre la poesia e la sua forza, s’era volto a interessarsi
della potenza degli astri. Era allora iniziato il regno
di Trasillo, come dicevano a Roma i senatori, l’astrologo favorito che aveva imparato come dominare
l’inquietudine dell’imperatore volgendo al mistero e
allo studio astrologico la sua divorante sete di assoluto. Trasillo vedeva i conti d’un’intera esistenza,
ormai da tempo logoranti l’animo di Tiberio, volgere a un bilancio disastroso: niente figli, nessun amico, nessun affetto per i componenti della famiglia,
dappertutto solo la devastante solitudine che pareva
averlo nutrito insieme al latte materno; che rimaneva al vecchio ormai se non piegare la sua curiosità
al mondo dei morti nell’Ade? E, con una nuova follia che nessuno sapeva se fosse davvero di Tiberio o
ispirata dal suo astrologo, s’era proposto di aiutare
i più antichi fra i suoi intimi a raggiungere in fretta la morte per poterlo precedere in quella dimora
e preparargli una sede che avrebbe ripetuto la sua
corte di Roma, quella dei primi anni, quando ancora era stato amato da chi aveva sperato in lui. “Così
mi accoglierete presto fra voi, io non sarò solo nella
morte, vi riconoscerò subito e saprete insegnarmi,
appena mi rivedrete, che cosa accada laggiù, come si
possa governare l’eternità...”
Perché per Tiberio non esisteva ormai altro nemico da vincere che l’eternità. Era quella la conquista
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ancora da completare, la provincia da aggiogare alle
altre, la terra di nessuno che gli si spalancava di fronte. Trasillo l’aveva scorto varie volte intento a scrivere, nel colmo della notte, quando la tirannia dell’insonnia vinceva anche il tiranno del mondo e occorreva vegliare perché il furore della solitudine non
facesse altre vittime dopo quelle che in quei giorni
cadevano per popolare l’eternità: e l’aveva sorpreso a
scrivere i nomi dei morti, con una pedantesca minuziosità, come se invece dei ranghi semivuoti del senato, dovesse riempire quelli più vasti e assoluti di una
nuova provincia, con ruoli di amministrazione, giuridici, militari e religiosi. Osato chiedere quale assillo
lo spingesse a quelle fatiche di scrittura, s’era sentito rispondere che solo un imperatore poteva sapere
su quali forze contare nell’Erebo, che lo lasciasse
studiare con quali volti popolarlo, con quali opere
bonificarlo, per non cadere nella noia di Achille, che
nell’Ade aveva invidiato la vita dell’ultimo guardiano
di porci sulla terra. Erano iniziati in quei giorni i terribili processi di lesa maestà, ispirati anche da Sejano e Trasillo, coinvolgendo la famiglia di Germanico, i senatori più in vista, alcuni autorevoli membri
dell’ordine equestre. Poi le due vipere, Sejano e Trasillo, avevano ognuno pensato di riuscire a governare senza il complice di scelleratezze cominciando a
prendere le distanze per macchinare la rovina uno
dell’altro.
Era stato allora che l’anziana Antonia, madre di
Germanico e nonna di Caligola, s’era precipitata nottetempo a Capri, su una vecchia barca di pescatori
di Baia, riuscendo con un coraggio da vera figlia di
Antonio a giungere fino al cospetto di Tiberio. Aveva puntato tutto sull’intuizione che quel gran solita12