Siamo responsabili per quello che non facciamo o per

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Siamo responsabili per quello che non facciamo o per
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Presa Diretta
l’infermiere 3/2005
Intervista a Cinzia Caporale, presidente del Comitato intergovernativo di Bioetica dell’Unesco
e vice presidente del Comitato nazionale di Bioetica
Biotecnologie: “Siamo responsabili
per quello che non facciamo e per quello che facciamo”
Preoccuparsi delle conseguenze che le scelte di oggi possono avere sulle generazioni future rischia di far dimenticare
le responsabilità verso chi è qui, adesso. E i dubbi etici e morali sulle biotecnologie rallentano un processo che permetterebbe
anche di salvare le persone malate in questo momento. Di fronte a queste questioni, Caporale suggerisce un confronto
“senza pregiudizi” e invita le istituzioni a “smettere di considerare i cittadini come dei minus habens, incapaci di autogestirsi”
DI
STEFANO SIMONI
“Le biotecnologie vanno a toccare questioni estremamente personali e profonde quali il proprio corpo, la facoltà di riprodursi, i tempi e i modi di morire, ma anche altri
aspetti come la biosicurezza, la genetica, le banche dati per il controllo della criminalità fino ad arrivare al bioterrorismo. Sono questioni rilevanti che hanno la caratteristica di entrare in campi della vita intimi, profondi, significativi ma anche molto
nuovi. Siamo passati da un fase di analisi e osservazione dei meccanismi ad una fase
in cui l’osservazione e l’informazione si trasformano in manipolazione”. Cinzia Caporale sintetizza così le vaste problematiche poste ai ricercatori dallo sviluppo delle
biotecnologie, punto di partenza del nostro colloquio.
Dottoressa Caporale, la “manipolazione”, che contraddistingue la fase attuale delle biotecnologie, nel suo discorso non sembra avere una valenza negativa. È così?
Assolutamente. Vedo come tutto ciò sia diventato oggetto di dibattito ed è bene che
sia così. Quello che non condivido è il clima di sfiducia nei confronti di chi va avanti su questa strada. Io invito le persone, estremamente stimabili, che esagerano nei
toni, a rileggere i loro articoli e le loro dichiarazioni fra 20 o 30 anni. Non so se saranno contente di averle rilasciate. Vorrei ci fosse un atteggiamento di maggiore prudenza rispetto alle condanne indiscriminate e pregiudiziali. L’argomento è troppo importante: molte riviste di settore se ne occupano e ormai una certa terminologia è
entrata nel linguaggio comune, specie in quello dei giovani che usano con disinvoltura espressioni come transgenico, clonato o Dna.
Modernità, nuove frontiere delle biotecnologie e della bioetica: quali sono, secondo lei, gli elementi di criticità?
Sicuramente uno di questi è che le acquisizioni conoscitive che si accumulano nel
settore delle biotecnologie e le applicazioni che molto rapidamente entrano nel mercato e nell’uso comune sono in questa prima fase molto costose. Questo può creare
problemi sia nei Paesi occidentali, sia nei Paesi in via di sviluppo dove la sfida è portare i benefici di queste tecnologie.
Un secondo elemento di criticità è la difficoltà di comprensione che si traduce in iniquità di accesso. Oltre ad avere un costo materiale ed economico, infatti, queste tecnologie possono produrre una sorta di “darwinismo sociale” per cui chi sa sfrutta le
opportunità, mentre gli altri ne restano fuori.
Infine ci sono gli aspetti morali. Essendo un settore che riguarda questioni profonde nella vita delle persone, indubbiamente si possono creare dei conflitti morali, sia
tra persone diverse, sia nella coscienza stessa dell’individuo.
Come valuta le resistenze che suscitano queste ricerche?
Una certa resistenza al cambiamento è tipica di ogni attività cognitiva. Non va giudicate male. Fino ad un po’ di tempo fa tutte le nuove acquisizioni della medicina non
cambiavano l’orizzonte ontologico dell’uomo, le differenze erano quantitative e non
qualitative. Adesso il nostro corpo è diventato oggetto di scelte da parte di noi stessi: la vita, la morte, la riproduzione.
Io considero il settore biotecnologico un progresso. È curioso come le obiezioni che
vengono fatte normalmente sono sempre due e sollevate contemporaneamente: da
una parte si tende a criticare l’innovazione tecnologica, dall’altra ci si lamenta che
quest’innovazione non presenti elementi di equità, cioè che ci sono delle esclusioni. Ma o si tratta di un progresso e dobbiamo preoccuparci che qualcuno ne resti
escluso, oppure non si tratta di un progresso e quindi non c’è alcuno motivo per cui
dovremmo preoccuparci delle esclusioni. C’è un difetto logico in questo di atteggiamento. La pianificazione esasperata certamente potrebbe evitare una non perfetta applicazione delle biotecnologie, però al tempo stesso un eccesso di pianificazione rallenta molto il processo ponendo un problema morale diverso: noi siamo
responsabili moralmente non solo di quello che facciamo, ma anche di quello che
non facciamo.
Si riferisce alle potenzialità che possono avere le applicazioni biotecnologiche?
Il tempo è un fattore critico. Rallentare il processo in modo eccessivo con una pianificazione pervasiva implica assumersi la responsabilità di coloro che sono qui e
adesso. Non vorrei passare da una situazione in cui non si tiene alcun conto delle
conseguenze sulle generazioni future, ad una situazione in cui si agisce, oggi, solo in
funzione di chi verrà dopo di noi, non assumendosi la responsabilità morale e umana nei confronti delle generazioni attuali.
La prima responsabilità è verso noi stessi, le persone che abbiamo intorno e per estensione, in senso sincronico, dell’umanità di oggi. Finanziare, incentivare, perlustrare
una nuova strada che porta al farmaco biotecnologico e metterlo in commercio prima o dopo fa una differenza enorme per le persone che sono malate. C’è un’altra pretesa che non condivido, e lo dico da presidente del Comitato Intergovernativo di Bioetica dell’Unesco: voler necessariamente identificare una posizione bioetica condivisa. Credo che ci sia un pluralismo strutturale – dovuto alla storia individuale di ognuno, alle differenze di ordine culturale, religioso, storico tradizionale – che vada mantenuto. La bioetica condivisa può nascere su alcuni principi fondamentali, importanti, questo è lo scopo ad esempio della Dichiarazione Universale di Bioetica, ma
non necessariamente dobbiamo essere d’accordo sul valore dell’embrione per regolare la procreazione medicalmente assistita, non necessariamente dobbiamo avere la
stessa filosofia per fare ricerca e trovare applicazioni nel campo delle terapie cellulari, o sulle fonti di cellule staminali da utilizzare.
Esiste un rischio eugenetico?
Chiunque abbia una cultura, non solo scientifica, ma che abbia letto narrativa e abbia studiato un po’ di storia, sa benissimo che l’uomo non ha avuto bisogno delle biotecnologie per fare le mostruosità. Le mostruosità vere l’uomo le ha prodotte sempre,
ma sono cosa ben diversa. Qui si parla di progresso.
Quali sono le sue proposte?
Innanzitutto abbassare i toni dei dibattiti, così da avviare un confronto che renda
possibile capire se su determinate applicazioni possono essere trovati principi comuni, avanzando attraverso il dialogo inteso come capacità di opporsi all’altro senza
pregiudizio, interloquendo da dialoganti e non da sordi. Inoltre, le istituzioni devono smettere di considerare i cittadini come dei minus habens incapaci di autogestirsi
e, semmai, contribuire a far crescere le capacità di ciascuno ad autodeterminarsi attraverso l’offerta di formazione. Una risorsa in questo senso è l’aumento di consapevolezza, l’empowerment delle persone: più conosci, più capisci le sfumature, più ti assumi responsabilità e da qui nasce una società pacifica.
E lo strumento normativo?
Che venga usato con più prudenza, non come una sciabola. Si lascino le normative
aperte, secondo il modello anglosassone, da sottoporre a revisione automatica ogni
tot di anni. Io non sono tra coloro che credono che la scienza sia libera, non può esserlo, ma la regolamentazione deve essere in itinere, sottoponibile a revisioni. Se il
paziente non è in grado di decidere se tagliarsi il piede, non si capisce per quale motivo dovrebbe decidere per chi votare o chi sposare. Se io non sono padrone di decidere sulla mia salute, perché dovrei essere lasciato libero di decidere su altro? Il
paternalismo di Stato è pericoloso e rischia di essere eccessivamente invasivo. Quello che è veramente nuovo, non sono le biotecnologie, ma il fatto che nel 2005 la gente decida sulla propria salute, cosa mangiare, come vivere. Chi parte dall’idea che arriveremo a delle mostruosità, deve spiegare come questo sia possibile, considerato
che sono le persone singole a decidere. La genetica moderna non è un programma
sociale ma è una scelta individuale, è un processo dove si ha sempre il controllo individuale e anche democratico. Cos’è questa sfiducia nei confronti degli scienziati,
dei cittadini, dei medici?