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RASSEGNA STAMPA Mercoledì 18 giugno 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO PUBBLICO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Vita.it del 17/06/2014 Arci, la neopresidente Francesca Chiavacci: "Ci faremo sentire di più" Intervista alla prima donna al vertice dell'associazione di promozione sociale più grande d'Italia: "Lavorerò in tandem con il vicepresidente Filippo Miraglia, con l'obiettivo di prenderci gli spazi politici che merita una realtà come la nostra". Eletto anche il Consiglio nazionale, composto da ben 185 membri di Daniele Biella Alla fine, l'impressione è molto di più di una pax romana: l'Arci, Associazione ricreative e culturale italiana, emerge dall'incontro di sabato 14 giugno con un nuovo presidente, Francesca Chiavacci, donna (è la prima volta, in concomitanza con la nomina della presidente onoraria Luciana Castellina), 52 anni e due figli, fiorentina. Al suo fianco, come vicepresidente con 'poteri' comunque ampi è l'altro candidato, Filippo Miraglia, 49 anni e tre figli. "Già da ieri, primo giorno vero di lavoro, ci siamo sentiti per concordare i primi passi del nuovo corso", spiega Chiavacci a Vita.it. A tre mesi dall'impasse del Congresso di marzo, dove è esplosa la tensione per le diversità di opinione sulla strada da intraprendere e sulla composizione del Consiglio nazionale (rinnovato anch'esso sabato scorso), e soprattutto a dieci anni dalla morte (era il 20 giugno 2004) del compianto presidente Tom Benetollo, l'Arci si ricompatta e rilancia la sua azione sociale. Come? Ecco le risposte della neopresidente. In che modo siete riusciti ad arrivare a una decisione condivisa da tutti? Siamo ripartiti dai contenuti, più che dalle persone. Il confronto di marzo è stato aspro e doloroso, ma l'essere arrivati a una soluzione che va al di là delle cariche formali e soprattutto non genera 'correnti' è un ottimo punto di partenza. Sabato scorso si è vista molta voglia di convergere: siamo caduti, ora ci si è rialzati, con più cura verso noi stessi e quello che rappresentiamo. Il nuovo corso vedrà un Arci più veloce a reagire e a farsi sentire dal punto di vista politico su tutti i temi a noi cari, partendo comunque da un radicamento sul territorio che è la nostra forza sociale. Si legge in questo senso il lavoro in tandem con il nuovo vicepresidente Miraglia? Sì. Siamo in una fase politica difficile a livello nazionale, in cui i corpi intermedi, ovvero il Terzo settore, la società civile, fatica ad avere gli spazi che gli competono e che merita, soprattutto quando c'è una relazione troppo diretta tra il leader di governo e il popolo. L'associazionismo in generale, e in particolare la nostra realtà di promozione sociale, non può stare a guardare: dobbiamo necessariamente farci vedere di più, e se non ci sono gli spazi bisogna prenderseli a tutti i costi. Finora siamo stati 'lenti' in questo senso, sulle questioni fondamentali dobbiamo agire più in fretta, essere più riconoscibili a livello mediatico. Quali sono le questioni fondamentali? Quelle che più di altre fanno parte della nostra storia e dei nostri valori: i diritti civili, la cultura, e ovviamente l'immigrazione, su cui comunque siamo già in prima linea da tempo: il diritto di cittadinanza, l'accoglienza dei rifugiati sono due dei temi urgenti da trattare. Poi c'è la riforma del Terzo settore: vogliamo dire a tutti che ci siamo anche noi. In tal senso abbiamo già inviato le nostre indicazioni alla piattaforma messa a disposizione dal governo, e naturalmente ci sentiamo rappresentati dal Forum del Terzo settore, di cui facciamo parte. E' chiaro che partiamo da un punto di vista diverso: come Aps, 2 Associazione di promozione sociale, siamo diversi dal volontariato vero e proprio, avendo realtà come i circoli che hanno una dimensione economica fondamentale per la loro esistenza. Ma proprio il valore sociale delle atività ricreative e culturali delle nostre strutture ci fa sentire in pieno parte integrante di questo mondo che oggi più che mai ha un ruolo centrale nello sviluppo della società. Con il nuovo corso, a livello interno cambierà qualcosa nella struttura organizzativa dell'Arci? Ci sarà senz'altro una riorganizzazione interna, per rendere più rapido ed efficiente proprio il nuovo modo di agire a livello nazionale. Non sarà semplice, perché stiamo parlando di strutture virtuosamente autonome a partire dal bilancio stesso, ma dovremo trovare una soluzione efficace per tutti. Un segno del cambiamento è già arrivato dalla soluzione al problema della rappresentatività in Consiglio nazionale: quello che è stato eletto sabato è composto da ben 185 membri, espressione non solo dei territori con più soci ma anche di tutti quelli che ne hanno di meno ma che svolgono un lavoro politico che deve essere assolutamente rappresentato. Quale sarà un punto fermo del suo mandato? Girare i circoli di tutta Italia. Lo sto già facendo da tempo, ma ora più che mai c'è bisogno di vedersi, confrontarsi, condivedere esperienze e battaglie. L'incontro è la parte più bella della nostra associazione, ed è anche la più utile. In questo senso, proporrò di realizzare veri e propri gemellaggi tra le varie realtà http://www.vita.it/non-profit/promozione-sociale/arci-chiavacci-nuova-presidente-ci-faremosentire-di-pi.html Dal Corriere fiorentino del 17/06/2014, pag. 4 Chiavacci, la superstite: così rivoluziono le Case del Popolo Dai movimenti studenteschi al Pd renziano (da dissidente): storia e progetti dei nuovo presidente nazionale Arci Di Marzio Fatucchi Un'Arci che rigeneri le Case del popolo, facendole diventare, nell'età dove il tempo libero della società scandita dai tempi tradizionali del lavoro è ormai scomparsa, un luogo di lotta alla povertà e di promozione dei diritti civili. E l'Arci che vorrebbe la neopresidente nazionale Francesca Chiavacci, eletta nel congresso a Bologna (dopo una spaccatura profonda, la prima nella vita della storica associazione di sinistra) sabato scorso. La neopresidente raccoglie il testimone da un altro fiorentino, Paolo Beni, oggi deputato Pd, che fu chiamato io anni fa d'emergenza alla guida dell'Arci dopo la prematura morte di Toni Benetollo, figura storica e carismatica del pacifismo e dell'Arci degli anni `90, del periodo del G8 di Genova e del Social Forum Europeo. Classe 1961, Chiavacci proviene del Pdup. Cresciuta nei movimenti studenteschi (è stata presidente della associazione universitaria Allosanfan, fucina di attivisti e primo luogo di «car pooling» in Italia) e in quelli pacifisti degli anni `8o e '9o, entra nella segreteria dell'Arci di Firenze nel `93, dopo il «collasso» finanziario dell'associazione fiorentina per scellerate scelte gestionali, una fase che la nuova dirigenza, anche se con fatica, riuscì brillantemente a superare nel giro di alcuni anni. Ma neanche dodici mesi dal suo arrivo nell'Arci di Firenze parte per il Parlamento: nel `94 viene eletta deputato, nel collegio di Sesto Nata politicamente nel Pdup, entra nell'associazione nel '93. L'anno successivo viene eletta deputato Ds Fiorentino per i Progressisti (e poi con l'Ulivo nel `96, fino al 2001), in quota Pds-Ds. Della 3 sua attività si ricorda soprattutto la legge di istituzione del Servizio civile nazionale ma provò anche a togliere l'obbligo di sposarsi «solo» negli uffici comunali, obbligo che è stato solo allentato col tempo istituendo altri luoghi «ufficializzati» per questo scopo. Dopo l'esperienza in Parlamento, ritorna a Firenze, prima all'Istituto degli Innocenti, poi assessore a Sesto, infine di nuovo all'arci di cui diventa presidente nel 2004. Nel 2009 viene scelta da Matteo Renzi come capolista Pd a Palazzo Vecchio, con cui nonostante la distanza politica ha avuto un rapporto conflittuale ma non di rottura. Da Palazzo Vecchio si è dimessa prima della scadenza del mandato proprio per lanciare la corsa alla presidenza nazionale dell'Arci. Una vittoria, per una delle poche politiche fiorentine ex Fgci sopravvissuta anche al renzismo, combattuta: al primo congresso, nel marzo scorso, si è trovata di fronte un avversario (la prima volta, per l'associazione di sinistra che vanta oltre un milione di soci in tutta Italia), Filippo Miraglia, anche lui radicato in Toscana. Dopo due mesi, la «sintesi»: lei diventa presidente, lui vice, e Luciana Castellina presidente onoraria dell'Arci. Che Arci sarà quella di Chiavacci (che ieri era già al lavoro per il passaggio di consegne con Beni)? «Una associazione nata 57 anni per occuparsi del tempo libero, ora che il tempo libero è molto diverso quando le persone ancora ce l'hanno, non deve perdere la sua rappresentanza sociale - spiega la neopresidente - Questo riguarda anche il rapporto con il leaderismo imperante oggi in Italia. Occorre che l'Arci invece avvicini e faccia partecipare i cittadini alla vita sociale e politica. Ovviamente, ci sono territori e territorv>. Insomma, un conto è la Toscana, che pullula di piccole e grandi associazioni (di una è ancora presidente, il Cam, centro attività musicali, all'ex Fila di Firenze), un conto la Sicilia con le iniziative antimafia. Se Chiavacci tiene dritta la barra sulle «battaglie per i Beni comuni e il pacifismo » ora si apre una fase nuova: «Oggi - spiega - c'è da affrontare una lotta fondamentale contro la povertà, da fare in maniera laica. E c'è da aprire una fase di campagne per i diritti civili, uno spazio grande che anche una associazione popolare e di massa come l'Arci deve coprire». Da Out of the boot, blog di Monica D’Ascenzo su ilsole24ore.com La prima volta. Speriamo di scordarcela in fretta E’ tempo di prime volte. La prima volta di un’italiana alla Nato. La prima volta di una francese nel senior committee di Deutsche Bank. La prima volta di una donna fra i vincitori del premio Ratzinger. La prima donna svedese a capo della chiesa luterana. La prima donna presidente dell’associazione culturale Arci. Solo nell’ultima settimana abbiamo letto diverse di queste notizie. Il vero cambiamento, però, arriverà quando una donna, in qualunque campo, non farà più notizia. Quando si dirà solo “il miglior diplomatico italiano siede alla Nato” oppure “la migliore esperta di ermeneutica ha vinto il premio Ratzinger”. Strada ancora lunga, temo. Intanto allora godiamoci queste prime volte. E che si scordino in fretta, seguite da una seconda e dai una terza nel giro di breve. Intanto auguriamo buon lavoro a Sylvie Matherat, 52 anni, che dal primo agosto siederà nel Global Head of Government & Regulatory Affairs, l’organo di consultazione del top management. Matherat arriva a Francoforte dalla Banque de France, la banca central francese. Insieme a lei arriverà anche un italiano Fabrizio Campelli, 41, capo delle strategie del gruppo. Naturalmente buon lavoro anche a Campelli, ma temiamo che per la manager francese sarà comunque un po’ più dura nonostante il curriculum! http://monicadascenzo.blog.ilsole24ore.com/2014/06/18/la-prima-volta-speriamo-discordarcela-in-fretta/ 4 Da Radio Articolo 1, Work in news Iniziativa “Da rifugiati a cittadini, cronache di ordinaria convivenza” Interviene Andreina Albano, ufficio stampa Arci http://www.radioarticolo1.it/audio/2014/06/18/20758/work-in-news Da Radio Città del Capo del 17/06/2014 Il parco della Montagnola in musica con Arci e Area51 Dal 19 giugno al 26 luglio torna la rassegna estiva di musica “Montagnola Music Club” al parco della Montagnola di Bologna. Promossa da Arci Bologna, Antoniano onlus e Comune di Bologna nell’ambito di bè bolognaestate quest’anno la programmazione musicale offre un cartellone piuttosto diversificato. Sotto la direzione artistica di Marco Coppi protagonisti saranno il jazz, la musica contemporanea, la musica popolare, la musica classica, la danza e il teatro. Per l’apertura giovedì 19 giugno ci sarà la rassegna “Area51 Sunset”, l’aperitivo con dj set a cura di Madesi, conduttore del programma radiofonico Area 51, che ospiterà dalle 19.00 una serie di concerti live tutti i giovedì di giugno e i primi due martedì di luglio. Verranno inoltre trasmesse le partite dell’Italia impegnata nei Mondiali in Brasile. Qui il programma completo della rassegna. Ci hanno parlato della rassegna il presidente dell’Arci Stefano Brugnara e Madesi di Area 51. http://www.radiocittadelcapo.it/archives/il-parco-della-montagnola-musica-142014/ 5 ESTERI Del 18/06/2014, pag. 9 Battaglia a Baqubah, jihadisti verso Baghdad Iraq. Obama invia 275 marine a difesa dell’ambasciata Usa, nel Golfo Persico 5 navi da guerra e la portaerei Bush. I turkmeni chiamano Ankara Chiara Cruciati IL governo iracheno è nell’occhio del ciclone, tra l’incessante offensiva islamista e gli attacchi dei vecchi alleati, Washington e Onu. L’amministrazione Obama e il Palazzo di Vetro si alternano nei suggerimenti: «Venga formato un governo di unità nazionale con sciiti, curdi e sunniti», stessa richiesta dell’Arabia saudita a cui Baghdad risponde accusando Riyadh di aver finanziato gli islamisti in Siria. Ma scagliano anche fulminanti critiche al premier sciita Nouri al-Maliki, colpevole di aver frammentato il paese relegando in un angolo le legittime istanze sunnite. Con una discriminazione che va avanti dal 2006, quando Maliki fu messo a sedere sulla poltrona di premier dalla Casa Bianca, che oggi finge di cascare dalle nuvole per nascondere le proprie responsabilità sotto il tappeto. Obama è tanto preoccupato da cercare riparo anche sotto il tappeto iraniano: Washington si è detta pronta a cooperare con il nemico di sempre, l’Iran, pur di fermare l’avanzata jihadista. Dall’incontro di lunedì a Vienna è uscito poco di concreto: il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha negato l’esistenza di «piani di coordinamento delle attività militari con Teheran». Nelle stesse ore, però, il presidente Obama annunciava al Congresso l’invio di 275 soldati statunitensi (equipaggiati per il combattimento) a difesa dell’ambasciata Usa a Baghdad, mentre cinque navi da guerra e la portaerei George W. Bush si posizionavano nel Golfo Persico. Sul campo, la battaglia prosegue. L’Isil (lo Stato ilsmaico dell’Iraq e del Levante) avanza a Nord di Baghdad: ieri la principale raffineria irachena, Baiji, che i miliziani islamisti avevano circondato martedì scorso, è stata chiusa e lo staff evacuato. A disposizione resta carburante per soddisfare i bisogni domestici per un solo mese. Offensiva qaedista, ieri, anche contro la città di Baqubah, provincia di Diyala, già parzialmente occupata dall’Isil. Secondo fonti sul posto, l’esercito ha respinto l’attacco. L’eventuale caduta nelle mani islamiste di Baqubah, a soli 60 km da Baghdad, aprirebbe la strada della capitale. L’aviazione irachena, intanto, continua per il secondo giorno a bombardare la città di Tal Afar, tra Mosul e il confine siriano, punto strategico caduto sotto il controllo dell’Isil ieri, facendo fermentare così i timori di Baghdad di una spartizione del Paese. Nel vortice settario finisce il precario equilibrio mediorientale. L’intervento iraniano e le preoccupazione turche, oltre al ruolo di protagonista della vicina guerra civile siriana, dimostrano che in gioco c’è ben più della divisione dell’Iraq. Travolte dall’avanzata islamista anche le politiche di aperto sostegno di Ankara ai gruppi estremisti attivi in Siria contro il regime di Bashar al-Assad: stipendiati dal Golfo e riforniti di armi, da due anni hanno trovato nella Turchia la migliore delle porte di ingresso nel cuore dell’inferno siriano, nonostante le autorità turche abbiano continuato a negare un loro diretto o indiretto coinvolgimento. Oggi quegli stessi gruppi – su cui l’amministrazione Obama strenuamente tace – minacciano l’intera regione. E gli affari di Ankara. A chiamare in causa la Turchia sono i turkmeni (l’11% della popolazione irachena), sotto attacco a nord a Tal Afar e nel villaggio di Basheer, vicino Kirkuk. Mentre il leader del Fronte Turkmeno Iracheno, Ershad Salihi, faceva appello ad Ankara perché proteggesse la popolazione, milizie locali e civili armati hanno respinto l’offensiva islamista a Basheer sostenuti anche da truppe governative. Per adesso, il governo turco ha risposto inviando aiuti umanitari. Ma a spingere 6 Ankara verso un potenziale intervento sono gli interessi interni: sicurezza e business. Un tandem che ha convinto la Turchia a cercare alleanze tra i curdi iracheni, lo stesso popolo le cui spinte separatiste in casa vengono represse con la violenza. Ankara punta al Kurdistan iracheno sia come zona cuscinetto per evitare un contagio settario, sia come piede di porco per garantire i propri interessi energetici (tanto da cercare un «alleato» anche nel nemico Iran: il presidente Rowhani è volato ad Ankara dopo anni di gelo, nonostante i fronti opposti occupati in Siria, Teheran con Assad e Ankara con i ribelli). La Turchia è oggi il secondo compratore del greggio iracheno, per lo più proveniente dal Kurdistan. Per cui, nessun intervento armato da parte turca, ma indiretto: l’acquisto di greggio curdo, scavalcando Baghdad, e il sostegno alla regione autonoma. Del 18/06/2014, pag. 16 Le notti insonni di Teheran tra l’incubo della guerra e la mano tesa dell’America BIJAN ZARMANDILI DURANTE quel pomeriggio brasiliano di lunedì, con la nazionale iraniana sul campo del Mineirao di Belo Horizonte, doveva essere l’amato bomber iraniano “Gucci” a far dimenticare ai suoi connazionali le minacce degli “uomini neri” dell’Isis, pronti a marciare sul suolo sacro di Karbala, teatro nel 680 del martirio dell’imam Hussein. Certo, non era soltanto la guerra alle loro porte a preoccuparli: pesavano — e pesano — le sanzioni, la galoppante crisi economica, le mancate promesse del presidente Rouhani e non ultima, la paura di un’altra tempesta di sabbia, come quella che il 2 giugno ha devastato la capitale. Ma la profanazione di Karbala e del Mausoleo dell’imam Ali a Najaf, anticipate dal portavoce dell’Isis, Abu Mohammaed al Shamsi, non sarebbero motivo di collera soltanto per gli ayatollah al potere, ma per centinaia di migliaia di pellegrini iraniani che ogni anno si recano nelle città sante irachene per compiere un loro dovere religioso. “Gucci” invece ha mancato il gol al 34’ quando la palla è piombata sulla sua testa. La partita è finita in pareggio e le preoccupazioni sono tornate. Le minacce dell’Isis forse sono più che altro un bluff. E la stessa cosa vale per l’eventuale conquista da parte dell’Isis dei territori a ridosso delle frontiere Iran-Iraq. I veri timori sono legati al perdurare del conflitto, con il rischio che si trasformi in una guerra regionale con delle prospettive strategicamente incerte per gli iraniani. Shamsolwaesin, uno dei massimi esperti iraniani della politica estera, dice: «Da qui a una settimana bisogna cacciare l’Isis da Mosul, altrimenti sarà troppo tardi». Poi aggiunge: «Certo, li possiamo cacciare noi in 24 ore, ma una nostra unilaterale operazione militare sarebbe un errore politico: bisogna quindi intervenire con una operazione concordata, con la Turchia, e perché no, con gli americani». Ecco, il motivo della fretta con cui nei palazzi di potere a Teheran si cerca di stabilire un piano concordato con gli americani. E questa volta non si tratta di contatti sottobanco, come nei casi precedenti in Afghanistan, oppure, in Iraq: è stato lo stesso Rouhani a chiedere la collaborazione Usa; è stato John Kerry a tendere la mano a Teheran, e i contatti si sono verificati alla luce del sole viennese in questi giorni. Ma Rouhani, a differenza dei giorni seguiti alla sua elezione, non gode ora di particolari simpatie tra gli iraniani. C’è stato un episodio significativo in questo senso, di nuovo legato alla partecipazione della nazionale iraniana alla Coppa mondiale in Brasile. Alla vigilia della sua partenza, i tifosi avevano organizzato una grande festa alla Stadio Azadi per salutarla, cui avrebbe dovuto partecipare anche il presidente. Lui invece non si è fatto 7 vedere, una assenza senza precedenti in occasione dei mondiali da parte del presidente. Rouhani ha giustificato la sua assenza con il cattivo tempo, ma la delusione è stata forte e persino i giornali sportivi, dove non si parla mai di politica, hanno criticato il poco affetto dimostrato da Rouhani per i “bacheha”, per i ragazzi della squadra nazionale. Poco dopo, è stato proibito ai cinema di proiettare la partita Iran-Nigeria e i luoghi pubblici, dove i giovani si sarebbero recati per seguire la partita, sono stati presidiati dai poliziotti. Ovviamente anche la televisione ha rigorosamente censurato le scene dello stadio brasiliano dove si vedevano le donne senza il velo. Insomma, una triste partenza per la squadra alla quale è stato proibito lo scambio della maglia con gli avversari alla fine della partita, mentre la stragrande maggioranza degli iraniani si aspettava dal regime un sostegno più caloroso e con meno proibizioni per i loro beniamini. L’apertura di Rouhani a Washington è motivo di malumori non trascurabili anche all’interno dello stesso regime. Sono alcune settimane che gli organi dei Pasdaran attaccano la politica nucleare del presidente, costringendo la Guida Ali Khamenei a intervenire, senza tuttavia difendere esplicitamente il presidente: un suo rappresentante ha genericamente detto che «è preferibile non parlare di tali argomenti». Alla vigilia dei colloqui tra Iran e Stati Uniti sull’Iraq, Ali Shamkhani, il segretario generale della sicurezza nazionale, ha comunque sostenuto che qualsiasi collaborazione con gli Usa «è irrealizzabile». Un percorso quindi non del tutto in discesa per Rouhani: è necessario vedere quale sarà alla fine la decisione di Khamenei. Lui, intanto, ha attivato in Iraq «il generale senza ombra», colui che non si vede, ma c’è, come viene definito il boss delle squadre speciali “Quds”, Ghasem Soleimani, recentemente segnalato nel sud dell’Iraq, nel Kurdistan iracheno e a Baghdad. Il primo ministro del Kurdistan iracheno, Nichirwan Barzani, l’altro giorno in visita a Teheran, ha detto: «La verità è che il dossier iracheno è nelle mani di Soleimani, se l’America vuole parlare con l’Iran dell’Iraq, a mio avviso, deve parlare con lui». Si sa però che il “generale senza ombra” è nella lista nera dei servizi segreti americani. Del 18/06/2014, pag. 17 Il capo dell’attacco a Bengasi preso con un blitz Usa in Libia FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK Dopo Osama Bin Laden, è il “colpo” più importante per Barack Obama. Il paragone non è eccessivo, almeno per le ricadute di politica interna. Con un’operazione «tecnicamente perfetta, senza spargimento di sangue », il Pentagono ha annunciato la cattura in Libia di Ahmed Abu Khattala, capo dei terroristi che uccisero l’ambasciatore americano. Un blitz compiuto da un commando dei reparti speciali, con l’aggiunta di una task force investigativa dell’Fbi. Khattala guidò le milizie che attaccarono la sede diplomatica Usa l’11 settembre 2012. Le teste di cuoio Usa lo hanno prelevato nella stessa Bengasi, prima che lo catturasse qualcun altro. In quella zona della Libia il nuovo “signore della guerra” è il generale Khalifa Haftar che sta facendo una sua “pulizia” feroce, con esecuzioni di centinaia di militanti islamici. Secondo le prime versioni gli americani si sarebbero appoggiati sullo stesso Haftar per catturare il loro obiettivo. Una ricostruzione diversa indica al contrario che Obama avrebbe accelerato i tempi perché il generale Haftar stava per far fuori il terrorista che l’America vuole vivo, davanti a un tribunale. 8 La svolta nell’ affaire Bengasi è notevole. «Da quando ci fu quell’attacco mortale – ha dichiarato ieri Obama all’annuncio della cattura – per me è stata una priorità portare davanti alla giustizia i colpevoli di cinque morti americani ». Nell’attacco dell’11 settembre 2012 – non a caso l’anniversario delle Torri gemelle – morirono oltre all’ambasciatore americano Christopher Stevens anche quattro altri diplomatici Usa. Obama ha lodato «l’incredibile coraggio e la precisione» del commando che ha catturato Khattala, operando in un territorio ad alto rischio, senza spargimenti di sangue. Ma l’impatto politico conta molto più degli aspetti militari. L’assalto alla sede diplomatica di Bengasi nel 2012 non fu certo uno degli attentati più gravi di cui l’America sia stata il bersaglio. Ma cadde meno di due mesi prima delle presidenziali. E avvenne in Libia, una delle nazioni che avrebbero dovuto essere liberate e pacificate dalle “primavere arabe”. I repubblicani colsero al volo l’occasione per sferrare un’offensiva contro il presidente e i suoi collaboratori. Per la destra Obama aveva ingenuamente creduto di “liberare” il mondo arabo e si era ritrovato delle nazioni più estremiste ed antiamericane che mai; l’assalto di Al Qaeda contro la diplomazia Usa in Libia era stato annunciato e previsto dall’intelligence, ma la sede di Bengasi non aveva ricevuto protezioni e rinforzi. Infine la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato vennero accusati di menzogne, per aver tentato di nascondere le proprie colpe su quella vicenda. Ancora oggi i repubblicani tentano di usare Bengasi contro Hillary Clinton, che all’epoca era segretario di Stato. Il blitz ordinato da Obama, con la cattura del responsabile, aiuta anche lei: lo “scandalo Bengasi” perde almeno una parte della sua pericolosità politica, ora che il presunto responsabile è nelle mani della giustizia americana. Del 18/06/2014, pag. 1-15 Il muro del Mediterraneo Super frontiere. Il ruolo delle nuove barriere dell'Europa. Già due «parzialità»: le fortificazioni di Ceuta e Melilla e il Muro israeliano contro i palestinesi Etienne Balibar UN avvenimento in Europa ha avuto un’eco simbolica considerevole e conseguenze spettacolari: si tratta dell’accelerazione della costruzione del muro del Mediterraneo. Per il momento è ancora una costruzione virtuale, o più esattamente riguarda un complesso di istituzioni e di dispositivi diversi, di leggi, di politiche preventive e repressive, di accordi internazionali formali e informali. Ma nell’insieme è ben chiaro lo scopo: si tratta di restringere la libertà di circolazione. Se non addirittura di annullarla del tutto per alcune categorie di individui e di certi gruppi sociali definiti in termini di categorie etniche (quindi, alla fine, razziali) e di nazionalità. Abbiamo però già sotto gli occhi due realizzazioni parziali di questo «muro» molto più concrete: la loro stessa visibilità cristallizza molte tensioni statutarie e degli aspetti spaziali del problema della mobilità nella geopolitica attuale. Queste prime realizzazioni concrete, situate alle due estremità dello spazio mediterraneo, hanno certo una storia diversa, origini e giustificazioni specifiche, ma la loro somiglianza materale colpisce chiunque le abbia osservate dal vero o ne abbia visto le immagini successive. Cosa che suggerisce di ricercare delle analogie più profonde. Si tratta, come avrete capito, del «muro» che lo stato di Israele costruisce nel territorio palestinese occupato e delle fortificazioni in corso di rafforzamento lungo le enclave spagnole di Ceuta e Melilla sulla costa marocchina, che ormai, oltre alla rete di barriere elettrificate e delle torri di controllo, si 9 accompagna a deforestazioni, livellamenti, costruzione di fossati e strade parallele ad uso militare. Lo scopo del muro israeliano è di bloccare le incursioni di terroristi palestinesi, in particolare gli attentati suicidi. Ma ha chiaramente anche altre funzioni: respingere fuori dal territorio israeliano i lavoratori e i palestinesi in cerca di occupazione, dividere lo spazio e la società palestinese, allontanare i contadini dalle loro terre, preparare l’imposizione unilaterale della «frontiera definitiva» di Israele di modo che incorpori nuove annessioni, e in particolare renda perenni le colonie illegali insediate nei territori occupati. La muraglia ispano-marocchina ha fatto irruzione nell’attualità per le tragiche violenze della fine del 2005, provocate da un nuovo disperato tentativo di oltrepassare la frontiera da parte di immigrati africani, che erano stati concentrati nei mesi e nelle settimane precedenti nelle zone limitrofe. Lo scopo era dissuadere dei gruppi di candidati all’immigrazione, che del resto non erano in maggioranza originari del Marocco o dell’Algeria ma dell’Africa trans-sahariana, e che si concentrano nei «punti di entrata» sul «territorio europeo» dove trovano diverse possibilità di lavoro precario, sotto-pagato e illegale. Questi due muri hanno come caratteristica comune di essere situati sulla riva meridionale del Mediterraneo, dove ci sono delle enclave europee (cioè delle enclave del «Nord» al «Sud») che prolungano a modo loro un lungo e complesso passato coloniale. Ma adesso la loro funzione si amplifica, e prendo il rischio di suggerire, in modo evidentemente iperbolico, che si tratta di due segmenti della «grande muraglia» d’Europa. La mia ipotesi ha qualcosa di mostruoso, ne sono cosciente. Permettetemi però di scavare ancora, con alcuni riferimenti e immagini. In primo luogo, dobbiamo ricordarci che nella storia abiamo potuto osservare l’erezione di frontiere o di super-frontiere fortificate di separazione di spazi geo-politici, al di là degli stati e delle nazioni, associate a conflitti rappresentati come guerre della civiltà assediata dai barbari, o come scontri tra sistemi politici incompatibili. A volte sotto forma di muraglie o di barriere fisiche, altre sotto forme più mobili e tecnicamente più complesse. Allora non pensiamo solo più alla Muraglia di Cina, ma al limesromano, o, in tutt’altro contesto, alla barriera elettrificata costruita dall’esercito francese durante la guerra d’Algeria alle due estremità del territorio algerino, o ancora alla «cortina di ferro», il «Muro di Berlino» (che, va sottolineato, venne costruito dai regimi della dittatura comunista, per proibire ai loro stessi cittadini di spostarsi, di esercitare il «diritto di fuga», secondo l’espressione di Sandro Mezzadra). La storia, quindi, con tutta la sua complessità, si ripete, ma su uno sfondo di nuove configurazioni economiche, politiche, ideologiche. Non si tratta di un fenomeno tipicamente europeo. Gli sviluppi più simili sono quelli in corso alla frontiera degli Stati uniti e del Messico, dove i primi hanno cominciato a costruire (anche se, questa volta, sul loro territorio) una muraglia materiale e virtuale il cui obiettivo è di bloccare i punti di entrata per i migranti di tutta l’America latina (in particolare dell’America centrale) che transitano dal Messico – non senza resistenze e contraddizioni negli Usa stessi, d’altronde, perché un blocco completo esaurirebbe la fonte di lavoro sotto-pagato e non protetto che è uno dei mezzi per preservare il livello di vita americano. Il muro esiste già lungo la frontiera californiana, e comporta una serie di conseguenze disastrose anche per l’ambiente. Il suo prolungamento per centinaia di miglia, a un costo di miliardi di dollari, è ancora oggetto di vivaci discussioni, ma la decisione di principio è stata presa dal Congresso. E’ interessante ricordare che una delle principali giustificazioni ideologiche di questo progetto è stata procurata in questi ultimi anni da Samuel Huntington, già autore di Clash of Civilization, e che in un’altra opera intitolata Who are we? (2004) sviluppa a lungo l’analogia tra la «minaccia arabo-islamica» sull’identità europea e la «minaccia ispanica» sull’identità statunitense «anglo-sassone» e «protestante». 10 Del 18/06/2014, pag. 6 Dilma si gioca il futuro nella Copa das Copas Brasile. Il test Mondiali e la politica dell’orgoglio in vista delle presidenziali. Si vota il 5 ottobre David Gallerano che i giornali e gli editorialisti generalmente ostili al Partido dos Trabalhadores devono ammetterlo: forse non sarà la «Copa das Copas» di cui parla la presidente Dilma Rousseff tutti i giorni, ma la ventesima edizione dei Campionati del Mondo Fifa iniziata giovedì scorso sta procedendo senza troppi intoppi. Dentro il campo, con 44 gol nelle prime 14 partite. Una media di 3,14 a incontro che è la migliore da quando, con Francia ’98, le nazionali partecipanti sono diventate 32. Il Brasile ha vinto, la Spagna ha perso. I craques che i tifosi e gli sponsor aspettavano si sono distinti sin dal primo giro: Neymar nel giorno dell’inaugurazione, Robben e Van Persie l’indomani, poi Pirlo e domenica scorsa Benzema e Messi. Fuori dal campo i vari governi locali delle dodici città sede sono riusciti a mettere una pezza ovunque ce ne fosse bisogno. La pur brutta tribuna provvisoria dell’Arena Corinthians di São Paulo che impatta la vista dei 4.000 sfollati della vicina occupazione abitativa Copa do Povo ha comunque consentito agli 8.000 tifosi a rischio di vedere la partita. Gli allagamenti di Natal, dove il 24 si giocherà Italia-Uruguay, hanno costretto 400 famiglie a lasciare di corsa le proprie case e a rifugiarsi nei locali di una scuola, ma il terreno di gioco di Usa-Ghana (2–1) ha retto bene. Al Maracana la scala di legno che portava dalla passerella della metro all’ingresso dello stadio ha cominciato a barcollare poco prima dell’inizio della partita (Argentina-Bosnia 2– 1), spaventando migliaia di argentini. È stata rinforzata. Dentro l’impianto, il cibo e le bibite sono finiti in 20 minuti: «Se l’Albiceleste tornerà qui per la finale voglio poter morire d’emozione, non di fame», dice una tifosa. La Fifa provvederà. Non tutto funziona alla tedesca, ma certo non è il disastro organizzativo che si temeva e per il quale i nemici di Dilma tifavano. Questo consente alla presidente di tirare dritto nella sua nuova linea politica dell’orgoglio che serve ad arginare la presunta rimonta dei suoi avversari nella corsa alle elezioni presidenziali del 5 ottobre. Dopo aver annunciato «la sconfitta dei pessimisti» e aver assicurato la sua base che non si sarebbe fatta «intimidire dai pochi fischi» di giovedì scorso, lunedì Dilma è tornata a elogiare il comportamento dei suoi concittadini, promuovendo su twitter la storia dei due tassisti che hanno restituito i carissimi e ricercatissimi biglietti della coppa ai legittimi proprietari. A quelli cui «piacciono le comparazioni», cioè per il rivale Aecio Neves del Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb) e i suoi sodali, che le rinfacciano l’inflazione galoppante cui il compagno di partito Fernando Henrique Cardoso aveva «posto rimedio negli anni 90», la presidente sbatte in faccia la tabella della miseria: 28 milioni di poverissimi nel 2000, 700.000 oggi. Secondo l’ex presidente Lula la linea dell’orgoglio doveva essere adottata sin dall’anno scorso, quando gli uomini della comunicazione avevano invece scelto di blandire i partecipanti alle gigantesche proteste di giugno — milioni di manifestanti, oggi quasi tutti scomparsi. L’ultimo sondaggio della Folha de Sao Paulo dà il Partido dos Trabalhadores in calo, dal 37% al 34%, ma rivela che gli avversari diretti, a destra il Partido da Social Democracia Brasileira di Neves (19%) e a sinistra il Partido Socialista Brasileiro (Psb) dell’ex petista Eduardo Campos (7%), non avanzano. Hanno provato, i due candidati, soprattutto il primo, a sfruttare la contestazione subita da Dilma giovedì scorso a São Paulo, ma si sono scontrati con la sorprendente epidermica reazione dei commentatori brasiliani mainstream, la tv O Globo in testa, che hanno definito gli insulti «ignobili e repellenti» in quanto rivolti, prima ancora che alla presidente del Brasile, a «una madre» e 11 «una nonna». A Neves non rimane che attaccare, stavolta in ricca compagnia, il decreto 8.243 con il quale il Pt intende rafforzare il ruolo dei movimenti e dei consigli popolari nelle deliberazioni della politica nazionale. Una legge pensata per rispondere alle proteste di giugno e per sbrogliare l’impasse di un governo composito. Per l’opposizione è «un attentato alla rappresentatività delle camere». Che nel frattempo sono paralizzate, svuotate dalla passione dei parlamentari per le partite della Coppa del mondo. Ieri al senato non si è raggiunto il quorum richiesto per aprire la sessione: servivano quattro senatori. Del 18/06/2014, pag. 8 Cristina Fernandez contro gli avvoltoi Argentina. Il paese rischia nuovamente il default per via di un grosso debito ereditato dalla grave crisi di 12 anni fa Geraldina Colotti Gli avvoltoi incombono sull’Argentina. A quasi 12 anni dalla crisi che, tra il 2001–2002, portò il paese in default, un nuovo pericolo grava sull’economia e sulle scelte della presidente Cristina Fernandez. Un’eredità di quel periodo, quando il paese decise di ristrutturare il proprio debito pubblico. Ora, una sentenza della Corte suprema degli Stati uniti ha respinto il ricorso di Buenos Aires in merito ad alcuni fondi speculativi (hedge fund) che avevano rifiutato di negoziare il rimborso. Tra questi, principalmente Aurelius Capital e Elliott Management. L’Alta corte Usa ha confermato la decisione dei tribunali minori che hanno imposto all’Argentina di corrispondere ai «fondi avvoltoi» 1,3 miliardi di dollari, interessi comprensi. La scadenza è a breve, Buenos Aires deve corrispondere una prima parte del dovuto (pari a 13 miliardi) ai possessori di bond che hanno a suo tempo accettato la trattativa (con scadenza 2033), entro fine giugno. E i creditori potrebbero richiedere il sequestro dei fondi che il paese deve trasferire a New York per onorare il suo debito già ristrutturato. Il caso torna dunque al tribunale precedente, ovvero nelle mani del giudice Thomas Griesa che ordinò di corrispondere i pagamenti agli «avvoltoi». Per il governo di Cristina Fernandez, si tratta di una decisione che viola la sovranità del paese, e i fondi avvoltoi – capitale investito in un paese che necessita di aiuto economico per poterlo in seguito recuperare nella sua totalità e con gli interessi attraverso contenziosi giuridici – rappresentano un’estorsione. «L’Argentina – ha dichiarato la presidente in un lungo discorso televisivo – onorerà il proprio debito ristrutturato, ma non accetterà estorsioni: non vogliamo essere complici di chi è disposto a fare affari sulla miseria della gente». Intanto, gli avvocati stanno cercando soluzioni alternative. Fernandez ha detto di aver già disposto il pagamento dei 930 milioni di dollari pattuiti, eventualmente in una destinaziona diversa da quella di New York, per evitare eventuali azioni da parte del giudice Griesa. Ha poi ripercorso le origini del debito estero, accumulato in modo esponenziale a partire dal colpo di stato militare del 1976. Una situazione – ha detto — «che ha messo le ganasce all’economia argentina», ha distrutto l’apparato produttivo e la coesione nazionale e ha esposto il paese alla povertà, alla miseria, alla disoccupazione e alla marginalità. E con il ritorno alla democrazia non è andata meglio: «durante i primi anni ’80 e poi nei ’90 — ha insistito la presidente — con il cosiddetto regime di convertibilità, con la finzione che un peso fosse uguale a un dollaro, il paese si indebitò in maniera terribile». Le due successive operazioni per rinegoziare il debito (nel 2000 e nel 2001) non furono — ha poi ironizzato — che magheggi fra il Fondo monetario internazionale e alcuni creditori, senza tornaconto per il paese. E così, mesi dopo, nell’Argentina schiacciata dai continui piani di aggiustamento strutturale imposti dall’Fmi, «scoppiò il default del debito sovrano più 12 grande della storia, con un debito pari al 160% del Pil, una disoccupazione del 25% e la povertà al 50%». Una difesa a spada tratta della sovranità e delle scelte economicofinanziarie decise prima dal governo di Nestor Kirchner e poi dal suo e già criticate a più riprese dall’Fmi: che accusa Fernandez di truccare le statistiche sul livello dell’inflazione e della crisi economica. «Non ci sarà default», ha assicurato la presidente che, già in Twitter aveva rispedito al mittente i giudizi dell’Fmi: «Vi siete arricchiti rovinando il mondo — aveva scritto — Dov’era il Fondo che non ha avvertito sulle crisi anche quando sono scoppiate, non bolle, ma palloni aerostatici finanziari?». E ancora: «In dieci anni, e senza finanziamenti Fmi, il Pil è cresciuto del 90%, oggi il paese ha il 6,9% di disoccupazione e porta avanti ll’inclusione sociale». Francia, Messico, Brasile e un gruppo di parlamentari britannici hanno cercato di perorare in precedenza la causa argentina, rilevando l’importanza del contenzioso a livello globale. E in molti speravano che, prima di chiudere la vertenza, si sarebbe richiesto un intervento di Obama. Invece l’Alta Corte ha deciso per conto suo: gettando in faccia al governo argentino l’assenza di sovranità giuridica accumulata nella decade degli anni ’80 in favore di paesi del centro in materia di emissione del debito. Un meccanismo messo in campo a metà degli anni ’70 in tutta l’America latina, alimentato dal riciclaggio dei petrodollari da parte delle grandi banche internazionali che hanno imposto ai paesi creditori una copertura giudiziaria straniera in cambio del rifinanziamento del debito. Ma oggi la situazione è cambiata. Un vento di sovranità spira in America latina. L’Argentina ha chiesto aiuto ai paesi riuniti in Bolivia per il vertice del G77 più Cina. Un lungo capitolo della dichiarazione finale riguarda proprio le contromisure da prendere, in modo concordato, per evitare le estorsioni degli avvoltoi. «I processi di ristrutturazione del debito — dice — devono avere come elemento centrale la definizione della capacità reale di pagamento, in modo che non si colpisca la crescita economica né la realizzazione degli Obiettivi di sviluppo del Millennio, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e l’agendaper il 2015. Ribadiamo la necessità urgente che la comunità internazionale esamini le diverse opzioni per stabilire un meccanismo internazionale di soluzione al problema del debito: che sia efficace, equo, duraturo, indipendente e orientato allo sviluppo». 13 INTERNI Del 18/06/2014, pag. 4 Pressing di Renzi sull’Europa Oggi incontra Van Rompuy Ieri vertice di premier e un gruppo di ministri con Napolitano L’obiettivo è ottenere flessibilità sul patto di stabilità Ue in cambio del voto per il rinnovo del presidente della Commissione Un vertice di routine per un appuntamento che non sarà affatto di routine. Matteo Renzi si è recato ieri al Quirinale con una nutrita «truppa» di ministri. Il colloquio con Giorgio Napolitano si è concentrato sul prossimo Consiglio europeo, fissato per il 26 e il 27 giugno. Comeda consuetudine. Anche se stavolta di abituale c’è molto poco. Quella scadenza infatti lascerà un segno nella politica europea. I capi di governo si ritroveranno a muovere diverse pedine sulla scacchiera dell’Unione: diverse nomine importanti,maanche diversi approcci di politica economica. La chiave sta qui: riuscire a cambiare le priorità, utilizzando il potere di pressione che si ha quando si deve votare un nome piuttosto che l’altro. È questa la carta italiana, che Renzi vuole giocare per orientare l’agenda verso la crescita e l’occupazione, e non più solo rigore. Soltanto sulla base di un mutamento copernicano si arriverà a un’intesa sui nomi. E in molti oggi danno l’intesa come obbligata già la prossima settimana. Nessuno crede in un rinvio, considerato troppo pericoloso per la tenuta delle istituzioni europee. Le voci si concentrano sulla nomina di Jean-Claude Juncker, che sarebbe ormai in discesa. Ma la partita è ancora tutta da giocare, e la palla stavolta è in campo italiano, anche se il pericolo inglese resta forte, come ha osservato ieri l’ex premier Enrico Letta. Il pressing dei socialisti europei è già iniziato ed ha preso la forma della richiesta di una nuova attuazione del patto di stabilità e crescita. La linea è stata indicata in modo esplicito dal socialdemocratico Sigmar Gabriel,e confermata dal capogruppo socialista a Strasburgo Hannes Swoboda: escludere alcuni investimenti dal computo del deficit o del debito. E anche ottenere più tempo per raggiungere il pareggio. Nulla di tutto questo costituisce un’infrazione alle regole volute ai tempi di Maastricht. Si tratterebbe solo di declinarle in modo diverso. Insomma, redini più lasche in cambio di un’intesa di ferro sul nome del prossimo presidente della Commissione, e magari anche su quello del Consiglio, in scadenza a ottobre. A queste caselle va aggiunta quella del responsabile Esteri, Catherine Ashton, anche lei in uscita. Insomma, le pedine sono tutte in circolo: è un’occasione da non perdere. Per l’Italia l’allentamento del Patto potrebbe valere diversi miliardi. Le opzioni in campo sono quelle di escludere dal deficit la spesa per il cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali (circa 40 miliardi in 7 anni), o quella per investimenti. Alternativamente si potrebbe definire un budget per la spesa del welfare e dell’avviamento al lavoro, altro capitolo importantissimo per l’Italia. Il piano Renzi è stato in parte rivelato dal Guardian. Il quotidiano inglese presenta il primo ministro italiano come la chiave di volta dei dibattiti e dei giochi di questi giorni. Parlando delle necessità dell'Italia (alla quale si unisce la Francia) di ottenere più tempo per ridurre il deficit di bilancio e di depennare alcune voci di spesa pubblica dal calcolo dello stesso, Swoboda, ha detto al Guardian: «Questa è la condizione di Renzi per un accordo su un qualsiasi candidato alla commissione. Herman Van Rompuy sa che deve dare a Renzi una risposta». Oggi il primo ministro italiano incontrerà Van Rompuy, il presidente del Consiglio europeo «che sta mediando sull'incendiaria questione Juncker», queste le parole usate dal quotidiano progressista britannico. Da qui, appunto, la preoccupazione dei britannici, che vedono ora in Renzi e in 14 Francois Hollande un forte limite alla campagna «anti-Juncker» di Cameron, scrive il Guardian. Insomma, si comincia a giocare a carte scoperte, e la manovra concentrica del fronte socialista è già in atto. Sia la Spd che i socialisti francesi sono impegnati sul fronte renziano, anche se i tedeschi devono vedersela anche con Angela Merkel, la quale non ha nascosto il suo disappunto su Juncker. Van Rompuy sta preparando il «documento politico» che dovrebbe sancire i nuovi contenuti della politica europea: si parlerà di semplificazione legislativa, di mercato unico dell'energia, di strategie per migliorare la competitività e creare posti di lavoro, si parlerà anche di interpretazioni flessibili delle regole di bilancio senza mettere però in discussione il quadro di riferimento politicogiuridico attuale. L'Italia vuole che ci siano impegni chiari anche per un'azione effettivamente condivisa per fronteggiare l'immigrazione. Quanto saranno precise le formulazioni dipenderà dal compromesso raggiungibile oggi su argomenti fondamentali delle politiche Ue che sono tutte altamente controverse a cominciare dalle regole di bilancio. Secondo molti osservatori è difficile che si assumano impegni politici dettagliati su materie nelle quali il dettaglio è tutto. Ma intanto la strategia italiana è stata «promossa» da Letta. Bene condizionare i contenuti ai nomi, ha detto l’ex premier che alcuni indicano come futuro successore di van Rompuy («Ma c’è già Draghi», si è schernito Letta). «Sulle nomine van Rompuy farà il miracolo - ha aggiunto l’ex premier - Non è da sottovalutare la reazione inglese». Del 18/06/2014, pag. 8 Il risiko delle correnti per le caselle in Europa Per la vicepresidenza del gruppo Pse in pole il giovane turco Gualtieri tallonato da Pittella Bonafè contende a Sassoli il ruolo di capogruppo Lavori in corso in casa democratica, con più fronti aperti sia qui, al Nazareno, sia a Bruxelles, perché le caselle da riempire sono ancora molte e gli appetiti anche. La segreteria è ancora da completare e il vice di Matteo Renzi, Lorenzo Guerini, è all’opera ma, come spiega in Transatlantico, «al momento non abbiamo nulla di fatto, affronteremo la questione nei prossimi giorni». In realtà la «questione» si è fatta più spinosa dopo l’elezione a presidente Pd di Matteo Orfini, giovane turco, su cui Area Riformista aveva posto il veto e in alternativa del quale aveva avanzato una rosa di nomi che lo stesso segretario alla fine ha depennato. E quindi, adesso, per entrare in segreteria non si accontentano di strapuntini. I nomi che hanno fatto arrivare al Nazareno sono sostanzialmente tre: Enzo Amendola (che vedrebbero bene agli esteri), Micaela Campana e Danilo Leva. I Giovani turchi dopo il colpo grosso tengono un profilo abbastanza basso, ma puntano in alto a Bruxelles, con Roberto Gualtieri, quale vice presidente del gruppo Pse. Il punto è quella è una casella che vede parecchio interessato anche Gianni Pittella, sostenuto dalla minoranza dem, e il braccio di ferro è già partito. La minoranza manda segnali piuttosto chiari: i Giovani turchi hanno ottenuto la presidenza del partito e quindi possono ritenersi soddisfatti, questo dicono i diretti interessati. Ma Gualtieri, ex direttore dell’Istituto Gramsci, è molto apprezzato dal segretario che non a caso lo ha voluto al suo fianco nei primi viaggi a Bruxelles. Sta di fatto che la riunione prevista oggi proprio a Bruxelles per affrontare la delicata pratica molto probabilmente slitterà per cercare di arrivare a un accordo entro martedì prossimo. Non è una casella di poco conto quella della vicepresidenza, perché se è vero che la presidenza va a Martin Schultz è anche vero che lo stesso potrebbe, in un secondo 15 momento, andare a fare il presidente del Parlamento lasciando libera la casella per il vice. Ed è chiaro che il Pd, essendo il primo partito all’interno della coalizione, oltre ad essere il partito più votato in assoluto in Europa, ha tutte le carte in regola per aggiudicarsi la postazione. E poi c’è l’altro tassello, quello di capodelegazione Pd in sede Ue, ruolo ricoperto nella passata legislatura da David Sassoli che anche in questa prima fase sta guidando i neoeletti. Sassoli vorrebbe mantenere il suo status, ma il nome che si fa con più insistenza, e molto gradito a Palazzo Chigi, è quello di Simona Bonafè, miss preferenze. Insomma, malgrado l’appello del segretario a superare le correnti, a smetterla di dividersi tra bersaniani, renziani, cuperliani e «iani» vari, la logica è ancora quella, dura a morire. Il bilancino, che ognuno vorrebbe far pendere dalla propria parte. Lo si è visto in Assemblea nazionale, quando una parte di Area Riformista, quando si è trattato di votare per la presidenza del partito, è uscita dalla sala dell’Ergife o semplicemente si è astenuta, come i civatiani. E intanto ieri mattina almento una frattura si è ricomposta: i 14 senatori che si erano autosospesi dal gruppo dopo la sostituzione di Corradino Mineo e Vannino Chiti in Commissione Affari costituzionali, hanno fatto rientrare la protesta. Restano senatori dem,ma annunciano che continueranno la loro battaglia a suon di emendamenti per cercare di correggere la riforma del Senato sul punto che riguarda la non eleggibilità diretta dei futuri senatori. «Nessuna resa» precisa infatti su twitter l’ex direttore di Rai News, spiegando: «Con Vannino Chiti una battaglia in difesa della Costituzione che continuerà nelle forme e con gli alleati disponibili». La scongiurata scissione viene salutata come un fatto molto positivo da Anna Finocchiaro, presidente della I Commissione: «È un’ottima notizia, che conferma la forza del gruppo». Proprio Finocchiaro, da relatrice del testo sulla riforma del Senato, dopo l’apertura del segretario leghista spiega che «noi siamo pronti, c’è una base di partenza molto compatta e delle forze politiche che si sono dimostrate interessate a questo lavoro presenteremo i nostri emendamenti. In tempi brevi potremo procedere al voto, ma prima faremo una ricognizione politica». Soddisfatto anche il neopresidente Orfini: «Quella della revoca dell’autosospensione dei 14 senatori del Pd è senz’altro una buona notizia che dimostra il senso di responsabilità di tutto il gruppo del Pd del Senato. Avevo auspicato che il confronto interno al nostro partito sul tema delle riforme costituzionali potesse proseguire in modo più sereno nel rispetto delle idee di ognuno e questa decisione va sicuramente in questa direzione». E il capogruppo dei senatori Luigi Zanda, promette: «Nelle prossime settimane il gruppo dibatterà sul peso e sul significato dell’indicazione costituzionale della libertà di mandato e approfondirà il valore che deve essere attribuito alle posizioni di una maggioranza democratica». Del 18/06/2014, pag. 2 Riforme, lo stallo autoritario Senato. Cambiano ancora le competenze della nuova camera alta e delle regioni, ma resta il nodo dell’elezione dei senatori. Renzi dirige i lavori del parlamento da palazzo Chigi, tornano i dissidenti ma c’è un altro rinvio. In attesa di Berlusconi, tornato presidenzialista Andrea Fabozzi Rientrano nel gruppo del Pd i 14 senatori «autosospesi», incidente chiuso salvo che resta valida la destituzione del senatore Mineo dalla commissione affari costituzionali. Col che una «riforma» può dirsi effettivamente compiuta: d’ora in avanti la rimozione da una commissione (e sue due piedi) di un parlamentare non in linea con la maggioranza del suo 16 gruppo sarà considerata accettabile, magari a seguito di richiesta diretta del presidente del Consiglio. Renzi del resto si muove più da relatore del disegno di legge di revisione costituzionale che da capo del potere esecutivo. Ieri sera ha convocato un ennesimo vertice direttamente a palazzo Chigi sul provvedimento che il governo ha firmato e sta imponendo al parlamento, con tanto di periodiche minacce di dimissioni. Tutto questo protagonismo e tanta energia contro i «dissidenti» produce però poco. Anche il terzo mese di vita del disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi si avvia alla conclusione e ancora in commissione non si vota. Gli emendamenti della relatrice Finocchiaro potrebbero vedere la luce tra la fine di questa settimana e l’inizio della prossima. Vengono definiti «di mediazione», ma significa che sono studiati per avere la maggioranza della commissione dopo che Renzi l’ha «ripulita» dai senatori orientati a votare contro. Negli emendamenti il Titolo V è stato riportato a una formulazione quasi «federalista», che è poi quella all’origine dei problemi di oggi, ma bisognava tener dentro la Lega. Le funzioni del senato sono invece cresciute, tornano i poteri di controllo sul governo e la competenza sulla legislazione europea, come chiedevano diversi costituzionalisti. La novità però fa risaltare ancor di più la stranezza di una camera con funzioni legislative non eletta direttamente dai cittadini. È il nodo che il governo non riesce a sciogliere, malgrado i tanti vertici, ultimo quello di ieri sera dal premier con lo stato maggiore del Pd e i ministri Boschi e Delrio. Aver aggiustato gli equilibri in commissione non garantisce affatto una strada in discesa in aula, visto che i senatori «dissidenti» hanno ottenuto almeno la garanzia che l’articolo 67 della Costituzione e la possibilità di votare secondo coscienza sulle riforme non sono stati aboliti. Il gruppo — «bindiani», «civatiani» e non allineati — ripresenterà i suoi emendamenti in aula, alcuni dei quali assai popolari tra i senatori. Innanzitutto la diminuzione anche del numero dei deputati, poi l’elezione diretta di tutti i senatori (o di tutti tranne che dei presidenti di regione, senatori di diritto) e infine l’obbligatorietà del referendum confermativo. Su questi punti Renzi non è affatto sicuro di avere una maggioranza senza l’appoggio di Forza Italia. «Sulla composizione del senato siamo fortemente in arretrato, c’è un nodo politico ancora irrisolto», ammette il sottosegretario alle riforme Pizzetti. Dunque tutto resta sospeso in attesa dell’incontro con l’ex Cavaliere, obbligato a restare nella partita eppure alleato sempre meno affidabile ogni giorno che passa. Oggi per esempio dovrebbe tenere una conferenza stampa per lanciare per l’ennesima volta il sistema semipresidenziale, l’eterno diversivo che già sul finire della scorsa legislatura (due anni fa) segnò la fine del tentativo di riformare la Costituzione. In che modo poi non è chiaro, se non con referendum propositivo, utile al più a dare uno scopo per l’estate a un’organizzazione alquanto depressa. Oltre che di riforme, Renzi e Berlusconi dovranno parlare della legge elettorale, visto che il sistema fatto approvare dalla camera, anche lì con il richiamo all’ordine del governo al gruppo Pd, è ormai superato. Nel percorso di riscrittura dell’Italicum l’incognita è adesso l’atteggiamento dei 5 stelle. L’apertura al confronto di Grillo servirà a poco se resterà confinata nel perimetro stretto della proposta di legge grillina, un proporzionale con alte soglie di sbarramento che Renzi non vuole prendere in considerazione. Discorso diverso se il premier potesse in qualche modo fare conto sul sostegno dei senatori a 5 stelle a un sistema alternativo, per trattare con più forza con Forza Italia. In fondo appena sei mesi fa Renzi aveva messo nella rosa dei sistemi elettorali apprezzabili anche lo spagnolo e il Mattarellum. 17 Del 18/06/2014, pag. 2 Berlusconi prende tempo con il presidenzialismo Forza Italia. E sull'ex cavaliere incombe il processo Ruby Andrea Colombo Per Forza Italia è il giorno del presidenzialismo. Oggi Silvio Berlusconi dovrebbe illustrare (ma c’è chi gli consiglia di non esporsi personalmente), con apposita conferenza stampa, l’avvio della raccolta delle firme per la proposta di legge popolare, ma già ieri, in commissione, gli azzurri hanno intensificato il fuoco. Minzolini e Gasparri confermano di non avere intenzione di ritirare i loro emendamenti sull’elezione diretta del capo del governo e Quagliariello, esponente Ncd in commissione Affari costituzionali del Senato, si schiera a favore: «La maggioranza deve tenere ferma la propria proposta, però dialogando poi con tutti. Si è affacciato il nuovo tema del presidenzialismo e anche noi siamo per questo sistema». Per Berlusconi l’offensiva presidenzialista è soprattutto un modo per trarsi d’impaccio. Sulla riforma del Senato (e sulla legge elettorale) ancora non ha deciso cosa fare. In più, al momento, ha tutt’altri pensieri per la testa: il processo Ruby, dove i magistrati vogliono procedere a tavoletta. Lo spettro di una nuova condanna lo terrorizza e lo fa infuriare. L’eventualità che per l’ennesima volta le vicissitudini giudiziarie del condannatissimo condizionino la politica non la si può certo escludere. E proprio l’imminente processo potrebbe spingerle Berlusconi a disertare la conferenza stampa di oggi. Infine i continui sommovimenti del quadro, il “dialogo” di Renzi con Grillo ma soprattutto quello, ben più concreto, con la Lega, potrebbero modificare radicalmente i rapporti di forza al Senato. In questa condizione, Berlusconi non può che stare alla finestra, insistere sulla richiesta di modificare la riforma del Senato per quanto riguarda la sua composizione, aspettare che la situazione si definisca e intanto “scartare” con una proposta che ha poche possibilità di concretizzarsi ma serve a dargli ruolo e visibilità. Ma nel caos che ormai circonda la partita delle riforme non si può mai dire. Ove gli emendamenti sul presidenzialismo venissero ritenuti accettabili, anche quello diventerebbe un possibile terreno propizio alle imboscate. Si spiega così il nervosismo palesato ieri dal sottosegretario alle riforme Pizzetti che, pur essendo lui stesso presidenzialista, del capitolo non vuol proprio sentir parlare: «E’ solo un modo di fare ostruzionismo». Altro motivo di nervosismo, tanto per il governo quanto per Berlusconi, è la convergenza a sorpresa della Lega sul modello elettorale proposto da Grillo. «E’ una legge ottima, a parte alcuni aspetti fantasiosi come il voto negativo», si allarga Calderoli e aggiunge che il nodo della composizione del Senato verrà sciolto per ultimo. In altri termini, la Lega deciderà se appoggiare il governo sulla presenza dei sindaci solo dopo aver incassato la resa sul Titolo V. Nella confusione generale, Berlusconi deve prendere tempo, tanto che l’incontro con Renzi, previsto per domani, potrebbe slittare. Ma una decisione immediata gli azzurri dovranno prenderla già oggi. Nella riunione della Giunta per il regolamento del Senato sul caso Mauro, i tre voti forzisti potrebbero essere determinanti. Se il ricorso contro l’estromissione dell’ex ministro dalla commissione Affari costituzionali fosse accolto, tutto tornerebbe in alto mare. I forzisti erano decisi ad appoggiare il ricorso, ma in serata hanno improvvisamente frenato. Perché se passa il ricorso di Mauro, confessa un forzista, «crollano le riforme e forse anche il governo». Conclusione: «Dobbiamo trattare». 18 Del 18/06/2014, pag. 6 Rush finale del premier “Serve il sì del Senato entro la fine di giugno” I dubbi di Berlusconi L’ex Cavaliere teme che il processo Ruby possa far saltare definitivamente il patto del Nazareno FRANCESCO BEI IN VISTA di quello che Renzi definisce «il rush finale» nella prima commissione di palazzo Madama. Ci sono tutti nello studio al primo piano: dal ministro Boschi ai capigruppo Zanda e Speranza, la presidente Finocchiaro, i sottosegretari Delrio, Lotti, Pizzetti, i vice di Renzi, Guerini e Serracchiani, oltre al presidente delle regioni Vasco Errani. Si passano al vaglio tutti gli emendamenti che (forse venerdì) i relatori presenteranno al testo base. Questioni tecniche ma anche politiche, visto che ogni virgola deve tenere conto dell’intesa con Forza Italia e con la Lega. Il problema «ancora aperto», come ammette una fonte al termine della riunione, è come eleggere i futuri senatori. Che debba essere un’elezione di secondo grado, ovvero non diretta, è un principio pacifico per tutti i contraenti del patto. Ma sul «come» esistono molte strade diverse. Renzi insiste perché i senatori siano scelti tra i consiglieri regionali, la Lega è contraria e teme una eccessiva rappresentanza del Pd. Ci sarebbe anche un problema legato agli attuali senatori, Calderoli e gli altri, che per rientrare a palazzo Madama non vorrebbero essere costretti a misurarsi in elezioni regionali. Durante il summit il ministro Boschi stupisce tutti presentandosi con delle slide che riguardano il voto europeo. Nelle simulazioni, sulla base dei risultati conseguiti il 25 maggio, si fanno i calcoli sul peso di ciascuna forza politica con le varie leggi elettorali: l’Italicum, il Consultellum, ma anche la legge dei 5Stelle. Segno che a palazzo Chigi «l’opzione zero», il ritorno alle urne, viene sempre presa in considerazione in caso di «impaludamento » sulle riforme. Per misurare la reale volontà di chiudere un accordo, nelle prossime ore Renzi consulterà anche Ncd e Scelta civica, poi si preparerà all’appuntamento più difficile, quello con i grillini. E la novità emersa dalla riunione è che, a differenza di quanto aveva commentato a caldo, il premier starebbe pensando di spiazzare tutti e presentarsi di persona al confronto in streaming. Proprio per chiedere ai “portavoce” 5stelle di impegnarsi intanto sulle riforme costituzionali. Quanto all’incontro con Berlusconi, ancora non è stato fissato. Oggi Forza Italia presenterà la sua proposta di referendum sul presidenzialismo, ma ieri sia Augusto Minzolini che Maurizio Gasparri hanno fatto sapere che non ritireranno i loro emendamenti “presidenzialisti” in commissione. Quindi il Pd dovrà bocciarli, a meno che la presidente Finocchiaro non li dovesse ritenere inammissibili per materia. Ma la realtà è che Berlusconi in questo momento a tutto pensa tranne che alle riforme. Sull’ex Cavaliere incombe infatti l’apertura del processo d’appello per Ruby e la sua angoscia cresce con l’approssimarsi di venerdì. In un corridoio di palazzo Madama ieri ne discutevano ad alta voce i senatori Mario Mauro (ex Pdl) con il forzista Minzolini e l’alfaniano Viceconte. Minzolini: «Venerdì è il giorno clou». Mauro: «È un processo sulle carte, potrebbe durare anche un giorno solo». Viceconte: «Nella migliore delle ipotesi entro luglio lo condannano». Intanto nel Pd si calmano le acque. I 14 dissidenti hanno deciso di rientrare nei ranghi dopo averne discusso con il capogruppo Zanda. Ma se la questione Mineo-Chiti ormai è superata, con l’accettazione della loro sostituzione in commissione, resta aperto il tema degli emendamenti non concordati. «Noi li ripresentiamo pari pari in aula», annuncia Paolo Corsini. L’altra questione calda è il caso Mauro. Oggi a palazzo Madama ci sarà la 19 riunione della giunta per il regolamento che dovrà esprimersi sul ricorso presentato dal senatore di Popolari per l’Italia. Sulla carta la giunta è spaccata a metà e potrebbe essere decisivo il voto del presidente Grasso. Un caso molto delicato, che potrebbe costituire un precedente discutibile. Per questo ieri sera si parlava di un rinvio della riunione. Del 18/06/2014, pag. 6 A Piacenza il Pd imbavaglia le critiche via web VALERIO VARESI PIACENZA Il fantasma di Zdanov, l’inflessibile custode dell’ortodossia staliniana, dev’essere balenato tra gli iscritti del Pd piacentino alla lettura del nuovo regolamento varato dalla direzione provinciale, che introduce il divieto di critica al partito e ai suoi rappresentanti tramite i social network e i mezzi di comunicazione. Vietato “cinguettare” e “postare”, ma anche rilasciare interviste, non importa se online o sui mezzi tradizionali, se prima non sarà stata chiesta «idonea convocazione del circolo di riferimento» per discutere «le tematiche che pongono in conflitto l’iscritto col partito». Un tentativo di lavare i panni sporchi in casa che si scontra con l’indominabile mondo della comunicazione di oggi e si trasforma in una battaglia donchisciottesca col nuovo universo mediatico dal quale, per ironia, arrivano gli attacchi corali di militanti e iscritti. Al punto che il segretario provinciale Gianluigi Molinari ora cerca di innestare la retromarcia rassicurando: «Nessun dogma, accettiamo la discussione — si affretta a dire — ma vorremmo invitare gli iscritti a riportare la dialettica in seno agli organi di partito». Tuttavia, l’onda d’indignazione, una volta partita, non si ferma. «È una norma che, di fatto, istituisce il reato di opinione» s’arrabbia il capogruppo in consiglio provinciale Marco Bergonzi. «Tra l’altro inapplicabile perché in conflitto col codice etico nazionale. Paradossalmente — aggiunge — si potrebbe attaccare il segretario nazionale, ma non quello di un circolo piacentino». La polemica rinvigorisce uno scontro interno nella città di Pierluigi Bersani e dell’ex sindaco, ora sottosegretario, Roberto Reggi, renziano della primissima ora. La contrapposizione deflagrò in autunno quando fu eletto Molinari dopo infinite accuse che approdarono persino di fronte ai probiviri, gli stessi che il nuovo regolamento vorrebbe chiamare in causa in caso di critiche al partito tramite i mezzi di comunicazione. Il segretario tenta di smorzare ciò che porterebbe il Pd piacentino ad assomigliare ai metodi grillini: «Non abbiamo nessun intento epurativo — si difende — . Noi accettiamo la critica e la discussione anche se ammetto che la forma scritta del regolamento è un po’ secca e perentoria ». Insomma, quel che nel testo appare netto e insindacabile, nell’interpretazione si tradurrebbe in un semplice invito a ricondurre la discussione all’interno del partito. «In ogni caso — promette Molinari — se la formulazione della norma fosse troppo rigida, potremmo anche cambiarla e in questo senso do la massima disponibilità ». 20 Del 18/06/2014, pag. 9 Grillo in vacanza, Casaleggio assente, il Movimento in mano a un gruppo capitanato dal vicepresidente della Camera Di Maio e dal figlio del guru: da qui è nata la svolta sulle riforme. Malumore nei gruppi parlamentari: “Non c’è discussione” Caos M5S, c’è un nuovo cerchio magico TOMMASO CIRIACO ROMA Senza una bussola, nel caos. E soprattutto ostaggio di un vuoto di potere che ha fatto emergere un nuovo cerchio magico. È il Movimento cinque stelle, allo sbando dopo la batosta delle Europee. Nessun summit, zero discussioni sulla linea politica e una giravolta strategica che ha disorientato un po’ tutti. Grillo in vacanza, Casaleggio assente. I due “fondatori” che fanno sentire meno la loro voce. Così, dietro la polvere, già si intravede la figura di Luigi Di Maio. Di fatto, è il reggente del nuovo corso. Gradito a molti e combattuto da altri, la sua ascesa ha scatenato un vespaio nei gruppi parlamentari. I segnali non sono incoraggianti. Il leader, per dire, è scomparso dai radar. Sfinito da un lunghissimo tour e demoralizzato dal voto, ha staccato clamorosamente la spina. Il “guru”, convalescente, ha rallentato il ritmo. «Manca una guida», sussurrano in molti. Da quando le urne si sono chiuse, in effetti, il comico ha evitato di mettere piede a Roma. Trascurati e un po’ abbattuti, deputati e senatori hanno appreso dal blog l’improvviso cambio di linea. E anche chi aveva spinto per il dialogo con le altre forze politiche è rimasto spiazzato: «Prendo atto che non ne abbiamo discusso assieme - rileva Walter Rizzetto - la decisione è stata presa da parte di alcuni che la considerano digeribile». Con il Movimento alla deriva, allora, è toccato a un gruppo di fedelissimi della Casaleggio associati prendere in mano il timone del grillismo. In cima alla piramide, come detto, c’è il vicepresidente della Camera. Si muove con pieni poteri. È lui a condurre le danze nel corso della conferenza stampa della svolta e a gestire il delicato nodo dello streaming. E sarà sempre lui a guidare la delegazione del M5S che si recherà a palazzo Chigi per trattare sulla legge elettorale. «È molto preparato sostiene Tancredi Turco - e per i responsabili della comunicazione è fra i migliori in tv». I mugugni, però, stentano a restare negli argini. Si lamentano alcuni falchi e qualche colomba. Nel corso di una riunione di senatori, Elena Bulgarelli ed Elena Fattori hanno chiesto conto del “doppio ruolo“ di Di Maio: «La base degli attivisti ci fa notare che critichiamo la Boldrini perché non super partes, ma mandiamo il nostro vicepresidente della Camera a guidare la nostra delegazione politica a Palazzo Chigi. Vi sembra il caso?». Da qualche mese Casaleggio preferisce limitare gli spostamenti e governa il Movimento dal quartier generale di via Manzoni, nel cuore di Milano. Lavora lì, nel suo studio razionalista senza tv, alle spalle uno sfavillante poster di Tex Willer. Tra le pareti bianco-verdi della Casaleggio associati, comunque, il vicepresidente è considerato il più affidabile. «Per me - sostiene la senatrice Serenella Fucksia - Luigi è una figura che mette tutti d’accordo. È equilibrato, garbato e - scherza sbaglia meno lui di Grillo...». A comporre l’inner circle c’è naturalmente anche Davide Casaleggio, figlio del guru e socio dell’azienda paterna. Lavora fianco a fianco con una ventina di giovanissimi dipendenti, incollato come loro ai quattro maxi schermi al plasma che monitorano il flusso di “Beppegrillo.it”. È una squadra affiatata: nelle pause restano tutti a pranzare in un cucinotto interno alla sede, dove c’è spazio solo per la differenziata. Non è tutto, perché a supportare il Fondatore ci sono Claudio Messora, Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi, new entry della comunicazione di Montecitorio. Senza dimenticare Silvia 21 Virgulti, tv coach ascoltatissima dal guru. Decisiva nel cambio di strategia, allena i parlamentari ad andare in tv. Sono i “prescelti” che hanno potuto calcare il logoro parquet della Casaleggio associati, accolti dall’imponente parete che celebra l’ascesa grillina con copie incorniciate dei quotidiani nazionali. Del 18/06/2014, pag. 11 E il Colle scrive al Csm sul duello BrutiRobledo LIANA MILELLA UNA lettera di Giorgio Napolitano potrebbe cambiare il destino del caso Bruti-Robledo al Csm. Da venerdì la missiva è sul tavolo del vice presidente Michele Vietti. L’hanno letta in pochissimi a palazzo dei Marescialli. QUANTO basta per sapere che contiene un messaggio strategico, perché si sofferma sul ruolo, fortemente gerarchico, che deve avere un procuratore della Repubblica in Italia secondo la riforma Castelli- Mastella del 2006. Egli è il primo e pieno titolare dell’azione penale e a lui spetta, come lo stesso Napolitano ha più volte avuto modo di ricordare in questi anni, una funzione di coordinamento del suo ufficio e ovviamente delle inchieste. Un procuratore che sceglie cosa, quando e come fare, anche a dispetto dei suoi pm che possono pensarla diversamente (vedi caso Sallusti). È lo stesso messaggio che Vietti aveva dato il 29 maggio in un’intervista alla Stampa in cui si soffermava proprio sui compiti del procuratore e ricordava le parole di Napolitano del 2009 e una delibera del Csm del 21 settembre 2011, in cui è scritto che «il procuratore può non essere titolare di tutti i procedimenti, ma mantiene la competenza a intervenire nelle determinazioni sull’esercizio dell’azione penale». Un passo, quello di Vietti, interpretato al Consiglio, anche con qualche malumore e mentre la prima e settima commissione stavano per decidere sui due contendenti, in chiave decisamente favorevole al procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e alla sua linea “decisionista” e decisamente interventista. Vedi i casi Ruby, San Raffaele, Expo, Sea, Sallusti. Al Csm, ieri sera, c’era massimo riserbo sulla lettera, che oggi — quando alle 16 e 30 si aprirà la discussione in plenum sul caso Milano — Vietti potrebbe anche non leggere, proprio per evitare gli attacchi di chi vorrebbe “la testa” di Bruti, come il gruppo di Magistratura indipendente. Tant’è, la lettera è lì con il suo contenuto indirettamente favorevole a Bruti. E non può essere un caso se giusto ieri due consiglieri di opposta tendenza — Nicolò Zanon, costituzionalista conservatore, laico portato al Csm dal Pdl, ma estimatore di Bruti, e Nello Nappi, toga di sinistra però da tempo in polemica con Md e Movimento giustizia — abbiano presentato una risoluzione che va giusto nella linea Napolitano-Vietti. Nappi e Zanon delineano un procuratore “potente”, che decide, soprattutto quando ciò è giustificato «dall’efficienza ed economicità dell’indagine». Per questo l’insolita coppia propone una soluzione tutta diversa da quella delle due commissioni: innanzitutto nessun invio delle carte alla commissione sugli incarichi direttivi che dovrà decidere sulla riconferma di Bruti in scadenza alla procura. Ma soprattutto Nappi e Zanon chiedono il trasferimento d’ufficio di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto autore dell’esposto contro Bruti. Egli avrebbe agito «per un risentimento personale a lungo coltivato », rovesciando sul tavolo del Csm «presunte irregolarità» non rivelate «di volta in volta», ma «accumulate e rivelate tutte insieme con un intento delegittimante e di contrapposizione personalistica». Quindi Robledo non può più lavorare a Milano, mentre Bruti può ben rimanere al suo posto, visti anche i risultati investigativi raggiunti. Come andrà a finire? Per certo si può prevedere che il dibattito sarà 22 molto teso. Non è detto che si chiuda stasera, perché in un consiglio ormai alle viste (si vota per il nuovo Csm il 6 e 7 luglio) e con il caso più importante in 4 anni, tutti vorranno parlare. Di carne al fuoco ce n’è tanta. Lettera di Napolitano e documento di Nappi-Zanon a parte, di nuovo c’è il lungo documento di Antonello Racanelli, che ha chiesto al Guardasigilli Andrea Orlando di mandare gli ispettori a Milano, spaccando perfino Magistratura indipendente. Lui vuole che si riapra il caso in prima commissione e rimprovera a Bruti «evidenti e immotivate violazioni dei criteri organizzativi». Unicost e la sinistra di Area hanno trattato tutto il pomeriggio per eliminare passaggi sgraditi contro Bruti nella relazione finale come le censure per il caso Ruby (il procuratore non motivò l’affidamento a Boccassini). La partita potrebbe chiudersi con l’archiviazione dell’esposto di Robledo, ma l’inevitabile invio alla disciplinare di vicende come il fascicolo Sea dimenticato in cassaforte e il doppio pedinamento per Expo. Trattativa tesa sulle carte alla commissione incarichi direttivi, e lì sarà determinante la lettera di Napolitano. A Milano intanto Bruti va avanti, e discute in assemblea il piano organizzativo della procura. C’è anche Robledo. Che fa solo alcuni rilievi. 23 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 18/06/2014, pag. 5 Centro storico in pasto alla cricca Post terremoto. Presunte tangenti sul recupero di chiese e beni culturali. Cinque arresti e 17 indagati. Ai domiciliari anche Luciano Marchetti, ex vice commissario per il post terremoto e ex direttore regionale del Mibact nel Lazio. Il suo nome spuntò nella «lista Anemone» Serena Giannico Sacre…mazzette. A L’Aquila spuntano le tangenti per la ristrutturazione delle chiese. E lo scandalo, l’ennesimo di post sisma costellato da una miriade di casi di mazzette, tocca il ministero per i Beni culturali e il turismo (Mibact), dove sono state effettuate anche perquisizioni. La nuova inchiesta della Procura conta, al momento, cinque arresti e 17 indagati che costituivano un “comitato d’affari” che aveva messo su, per l’occasione, anche un ufficio preposto. E’ un intreccio, quello stanato, di funzionari della Direzione regionale dei Beni culturali, professionisti, tecnici e costruttori. In carcere sono finiti Nunzio Massimo Vinci, 52 anni, imprenditore, residente a Carlentini (Siracusa), e Alessandra Mancinelli, 56 anni, residente ad Avezzano, funzionaria del Mibact che è stata immediatamente sospesa dal servizio. L’ufficio nel quale la donna lavorava si è occupato di un progetto che ha portato al recupero di 116 chiese nell’Aquilano. Ai domiciliari gli imprenditori Patrizio Cricchi, 37 anni, nato a Roma e che vive a Rieti e Graziano Rosone, 49 anni, dell’Aquila; e Luciano Marchetti, 71 anni, nato a Camerino (Macerata) e residente a Roma, ex vice commissario alla Ricostruzione a cui viene contestato di avere firmato interventi da progettista quando era ancora in carica. Lui era, dunque, secondo l’accusa, ai vertici della struttura commissariale creata per portare avanti la ricostruzione, prima coadiuvata dall’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso e poi dall’ex presidente della Regione, Gianni Chiodi. I reati contestati, a vario titolo, sono corruzione aggravata, falsità ideologica in atti pubblici, distruzione e occultamento di atti veri, turbativa d’asta, millantato credito, emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Nel corso dell’operazione sono state effettuate 25 perquisizioni che hanno coinvolto ditte, uffici di aziende, architetti, ingegneri, faccendieri per conto della Curia, ma anche avvocati laziali ed emiliani. Perquisizioni eseguite tra L’Aquila, Avezzano, Roma, Bologna, Pescara, Rieti e Chieti. Le verifiche da parte della magistratura, di polizia e finanza, sono partite nel 2012. La cricca aveva trovato il sistema per affondare gli artigli soprattutto negli appalti per il recupero del ricchissimo patrimonio storico-artistico. Al centro della vicenda, in particolare, la risistemazione di due chiese distrutte il 6 aprile 2009: le Anime Sante nella centralissima piazza Duomo, all’interno del quale gli operai sono ancora all’opera, e Santa Maria a Paganica, che, danneggiata e rinata dopo il terremoto del 1703, figura tra i monumenti da salvare. Ci sono intercettazioni telefoniche e ambientali ad incastrare gli inquisiti, ma anche testimonianze. E un filmato del 7 giugno 2013, di 22 secondi: è stato girato a Carsoli (Aq) e racconta lo scambio di denaro. «La dazione di una tangente dell’1%, cioè 190 mila euro, — spiega il capo della Mobile dell’Aquila, Maurilio Grasso — sui 19 milioni necessari per la ricostruzione di Santa Maria a Paganica». Una prima tranche è stata consegnata in strada, poi la sosta in un ristorante. Ripreso il passaggio dei contanti tra imprenditori e Marchetti: a riporre, poi, il tutto in borsa la Mancinelli che giorni prima si era lamentata di «non aver visto ancora una lira, mai». Il personaggio per antonomasia è Mar24 chetti. E’ stato lui a decidere di puntellare gran parte dei beni artistici, per poterli salvare. In passato era stato alto dirigente del ministero dei Beni culturali e commissario per la Domus Aurea. Mentre lavorava all’Aquila era spuntato il suo nome tra i 450 di clienti della cosiddetta «lista Anemone» che avrebbero beneficiato dei lavori dell’imprenditore finito nella maxi inchiesta dei grandi appalti. Ha ricoperto incarichi anche nella gestione del postterremoto di Marche e Umbria. È stato anche direttore regionale dei Beni culturali nel Lazio. «Non esiste un sistema L’Aquila del malaffare — assicurano il questore Vittorio Rizzi e il procuratore Fausto Cardella -, ma esistono soggetti interessati alla ricostruzione e disposti ad aggiudicarsi gli appalti attraverso le bustarelle. Pagando…». «Dalle indagini — aggiunge il sostituto procuratore Antonietta Picardi e il particolare è riportato pure nell’ordinanza del gip — è emerso persino un tentativo di cambiare il Dpcm per i beni ecclesiastici, chiedendo “ritocchi” alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ma la modifica non è avvenuta. Comune e Governo sono riusciti a resistere, ad andare dritti e a non fare correzioni, malgrado pressioni continue e costanti». Le lettere che sollecitavano modifiche sarebbero dovute essere consegnate dalla Mancinelli all’ex premier Enrico Letta e a suo zio Gianni, già sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri. Del 18/06/2014, pag. 5 La connection tra Expo e Mose Nord Est. Con l’arresto di Maltauro emergono gli intrecci tra le cricche venete e milanesi Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi Dal 20 al 22 settembre si farà ancora la «gran festa universale» all’ombra di Palladio e Monte Berico? Era stata annunciata in pompa magna dal sindaco democratico Achille Variati, giusto alla vigilia di Pasqua: «Vicenza è stata scelta dall’Anci come città testimonial di Expo 2015 per il Veneto. Abbiamo il compito di trasformarla in un’opportunità per Vicenza, le sue bellezze e le sue aziende». Imbarazzante proclama dopo l’arresto di Enrico Maltauro, che ha ammesso tangenti milionarie nella “cupola” degli appalti milanesi. Tanto più che il grumo sussidiario di affari & politica, nella piccola patria bianca del Nord Est, è storia lunga un quarto di secolo. Proprio Maltauro ne rappresenta la sindrome. Ben al di là della cena elettorale pagata ad Alessandra Moretti, già vice sindaco e portavoce di Bersani, eletta eurodeputato a furor di preferenze. Procura della Repubblica, 1992: il quarantenne ingegner Giuseppe Maltauro (titolare dell’impresa edile Cosma) si presenta spontaneamente e confessa una mazzetta da mezzo miliardo di lire. Tre mesi di carcere per concorso in corruzione. Nel 2001 si getterà dalla finestra. Da allora, il “sistema” si è riciclato insieme agli assetti istituzionali. Berluscones, leghisti o democrats hanno sempre dovuto fare i conti con i signori del cemento armato, i professionisti della «valorizzazione immobiliare», la finanza cattolica, gli amerikani della nuova base Dal Molin. Con la Maltauro che rispunta puntuale. E’ un gruppo che nasce con il fascismo a Recoaro Terme e sbarca in città alla vigilia del boom. Oggi Maltauro ha una struttura da holding : sei società che dal “cuore” edilizio spaziano fino all’energia e al global service. Presidente Gianfranco Simonetto, amministratore delegato Enrico Maltauro finché non scattano le manette. Patrimonio dichiarato superiore ai 70 milioni con 1.400 dipendenti. Nella sede di Viale dell’Industria 42, sono settimane convulse per i dirigenti: ci si affanna a separare il destino aziendale dagli atti giudiziari. Un po’ come era successo alla Mantovani Spa con le manette a Piergiorgio Baita, protagoni25 sta della “vecchia” Tangentopoli veneta e ora nell’inchiesta sul Mose. Proprio Maltauro & Mantovani “connettono” le inchieste di Venezia e Milano. I megaappalti dell’Expo 2015 (dalla “piastra” alle vie d’acqua) si intrecciano con il “modello” del Consorzio Venezia Nuova. Ma l’associazione d’impresa con le sigle della Legacoop o le aziende edili della Compagnia delle Opere si conferma nell’asse lombardo-veneto. E’ la “concertazione” del Duemila, con il “buongoverno” del Celeste e il Formigoni del Veneto. Ma anche il mutuo soccorso… confindustriale: due mesi fa Serenissima Holding della famiglia padovana Chiarotto (che controlla Mantovani, Fip e Palomar) ha affittato il ramo hi tech di Consta che da mesi è in pre-concordato fallimentare. Si tratta del consorzio ciellino (che risponde a Solfin di Graziano Debellini, Ezechiele Citton e Igino Gatti) collassato a causa del progetto ferroviario Gibuti-Etiopia con 30 milioni di buco. Intanto il 10 giugno la cronaca registra la conferma della detenzione per Enrico Maltauro, nonostante si sia prodigato a collaborare con gli inquirenti. Il gip di Milano Fabio Antezza ha respinto la richiesta di arresti domiciliari: «Non sarebbero stati indicati eventuali familiari in grado di provvedere alle sue necessità domestiche». Un uomo senza più amici? Fin dall’arresto un imbarazzato coro “garantista”. Con un’unica stonatura: Enrico Cappelletti, senatore del M5S, che non esitava a sfidare il procuratore Antonino Cappelleri. E non solo: «A che punto sta la commissione di indagine dei consiglieri regionali sull’affare Mantovani? E rispetto alla quiete celestiale il procuratore generale del Veneto, il dottor Pietro Calogero, che dice?». Sulla Maltauro, per altro, non mancano “evidenze” di dominio pubblico. Dalla presenza nella Libia di Gheddafi agli interessi in Croazia, fino alla nuova frontiera in Qatar. E il 21 aprile 2013 cerimonia della posa della prima pietra nella diga a Batroum (35 chilometri a nord di Beirut). Ma in città l’«impasto» è ancora più facile da verificare. A Maltauro in Ati con Gemmo sono affidati da Fiera di Vicenza Spa 35 milioni di cantieri. Nella penisola fra Bacchiglione e Retrone, sorge invece il “mostro” (definizione dell’allora consigliere regionale Variati…) di Borgo Berga: 47 mila metri quadri di “riqualificazione” al posto dello storico stabilimento Lanerossi. Operazione che coinvolge all’inizio Finvi, società della galassia Berlusconi, e poi Maltauro con la piemontese Codelfa del gruppo di Marcellino Gavio. Nel 2009 la giunta Variati approverà le stesse volumetrie nel nuovo progetto firmato dai portoghesi Gonçalo Byrne e Joao Nuñes: 180 appartamenti, 20 negozi e 90 uffici più supermarket Interspar, filiale della Banca Popolare e mega-garage a pelo d’acqua. Il Borgo ospita il Tribunale, che avrebbe dovuto preoccuparsene alla luce della catastrofica alluvione del novembre 2010. A proposito di giustizia, è di sei mesi fa la sentenza che condanna l’ex presidente della multiutility Aim Beppe Rossi e l’affarista Carlo Valle: due anni per truffa aggravata. Assolto il commercialista Gianni Giglioli, ex assessore tuttora impegnato a dar battaglia alla vera “cupola” vicentina. Si tratta della piattaforma di smaltimento rifiuti a Marghera, un’operazione costata non meno di 12 milioni ai cittadini. Nel 2003 apparteneva alla società Servizi Costieri, che compare in diverse inchieste sulla criminalità organizzata. A giugno la piattaforma di Marghera viene affittata da Bruno Lombardi, amministratore di Ecoveneta (gruppo Maltauro). Il 25 novembre 2003 nasce Aimeco: 50% Ecoveneta, 45% Aim. E’ così che l’azienda municipale subentra nel contratto d’affitto (7 milioni) alla società di Maltauro. Peccato che il cambio datato 9 marzo 2004 scatti il giorno dopo il sequestro della struttura di Marghera nell’ambito dell’«operazione Houdini» dei carabinieri del Noe. 26 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Da Asca del 18/06/2014 Rifugiati: Unar, ridare dignita' a migranti con corretta informazione Roma, 18 giu 2014 - ''Il contest sui rifugiati che viene lanciato nella conferenza stampa di oggi, serve a sviluppare un'immagine pubblica di difficili esperienze di vita, legate alla richiesta di asilo nel nostro Paese, che dobbiamo far emergere, attraverso modalita' di comunicazione attente a restituire ai migranti quella dignita' che hanno visto calpestata a causa della violenza e del razzismo''. Cosi', in una nota, Marco De Giorgi, direttore dell'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), della Presidenza del Consiglio dei ministri, spiega il significato dell'iniziativa promossa da Unar e Servizio centrale dello Spar che sara' presentata oggi, in una conferenza stampa a Roma. ''Qualcosa - spiega De Giorgi - e' cambiato rispetto al passato: in questi anni, i nostri media, anche per merito della riflessione che ha portato alla Carta di Roma, hanno avuto la capacita' di dare una spinta propulsiva ad una migliore e piu' corretta immagine dell'immigrazione e della mobilita' per motivi umanitari. E' stato avviato un processo importante sul versante culturale per combattere quei pregiudizi che - sottolinea il direttore dell'Unar - sono la prima causa della discriminazione e del razzismo, come ci dicono i dati raccolti dal nostro Ufficio, ma occorre ancora lavorare per una narrazione diversa dei fatti e delle storie reali legate al tema dei rifugiati e richiedenti asilo per destrutturare stereotipi e luoghi comuni'', conclude il funzionario dell'unar. Del 18/06/2014, pag. 19 Il giovane Darius prelevato in una baraccopoli dal branco Pestato con bastoni di ferro. Valls: “Un crimine indicibile” Linciato dopo un furto sedicenne rom in coma Hollande: “Barbarie” ANAIS GINORI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Darius, 16 anni, è stato ritrovato con la testa fracassata di botte in un carrello della spesa, abbandonato vicino a un’autostrada che attraversa la Cité des Poétes. Forse servirebbe davvero un poeta per smuovere le coscienze e descrivere l’orrore «indicibile» (parole di François Hollande) di un pomeriggio come tanti in banlieue. Una banda di uomini incappucciati è andata a prelevare Darius in una baraccopoli rom venerdì sera. Il ragazzo è stato portato in qualche posto chiuso, forse la cantina di una delle case popolari del quartiere. Poi sequestrato per ore e pestato fino a quasi morire. La foto del corpo inerme gettato come un rifiuto sul ciglio di una strada ha fatto ieri il giro delle redazioni. Immagini raccapriccianti, non pubblicabili. «La sua testa era così, così» cerca di spiegare a gesti il garagista che ha avvistato il carrello della spesa con dentro Darius. E’ stato lui a chiamare i soccorsi. Il ragazzo era ancora vivo. Ora è ricoverato in coma, con prognosi riservata. I media hanno subito ricordato che nella Cité des Poètes erano stati denunciati furti nelle ultime settimane, dopo che alcune famiglie rom si erano accampate in un terrapieno tra la linea del tram e l’autostrada. Darius era stato fermato più volte dalla 27 polizia per questo tipo di reato. Quel giorno, hanno raccontato gli abitanti ai giornalisti, qualcuno lo avrebbe riconosciuto mentre fuggiva da un appartamento. Sono solo supposizioni, la procura di Bobigny ha sottolineato che non c’è alcuna prova che il ragazzo fosse coinvolto in un nuovo furto venerdì. «Darius è una vittima, non è il caso di guardare la sua fedina penale » ha commentato la procuratrice di Bobigny, Sylvie Moisson, che ha parlato di «barbarie ». Poche ore prima, il sindaco socialista di Pierrefitte-sur-Seine, Michel Fourcade, dove si trova la Cité des Poètes, aveva invece chiesto rinforzi di polizia, citando «l’esasperazione degli abitanti» per il clima di insicurezza, salvo poi rettificare: «Questo non vuol dire che bisogna farsi giustizia da sé». Un commento quasi identico a quello di Louis Alliot, vicepresidente del Front National. «I cittadini hanno l’impressione di non essere difesi e purtroppo prendono da soli provvedimenti ». Il linciaggio di Darius è avvolto nelle contraddizioni del mondo politico francese. E’ un crimine «indicibile e ingiustificabile » che «viola i principi della Repubblica», ha sottolineato Hollande. E’ un atto «inaccettabile» gli ha fatto eco il premier Manuel Valls che, da ministro dell’Interno, ha aumentato le espulsioni di rom e ha parlato di una presunta impossibilità di integrarli nel paese. Da Bucarest, il ministero degli Esteri della Romania ha diramato una nota in cui chiede a Parigi di «identificare e portare di fronte alla giustizia i responsabili delle atrocità perpetrate nei confronti di un presunto minore di origini rumene. Un tale atto non può trovare giustificazioni». Secondo le prime ricostruzioni, dodici individui armati di barre di ferro si sono presentati alle 20.30 in quella che era diventata la casa di Darius, un edificio abbandonato e insalubre. Lo hanno preso e obbligato a salire su una Clio portandolo via, davanti a donne e bambini. La nonna del ragazzo, che ha provato a reagire, è stata picchiata. Verso le 22.30 la madre ha chiamato la polizia per dare l’allarme. La donna ha raccontato che qualcuno l’aveva chiamata poco prima dal cellulare di Darius chiedendo 15 mila euro di riscatto. Il giovane è stato ritrovato un’ora dopo. La bidonville accanto alla Cité des Poètes è ormai svuotata. Una distesa di bambole, scatole e coperte. I rom sono scappati, in cerca di un nuovo riparo che non troveranno. «E’ la terrificante conseguenza di anni di politiche pubbliche inefficaci, di dichiarazioni di rappresentanti dello Stato e di numerosi media che alimentano un clima malsano», denuncia l’associazione Romeuropa. Per Amnesty International il crimine si verifica «in un contesto di espulsioni forzate che lascia per strada i rom e li espone maggiormente alla violenza». I dati della Commissione nazionale dei diritti umani indicano che l’85% dei francesi pensa che i rom sfruttino i bambini e il 78% che vivano di furti e traffici. Le aggressioni ai rom sono aumentate negli ultimi mesi, anche se non ci sono dati ufficiali. Qualche settimana fa, un uomo è stato fermato a Parigi. Aveva lanciato acido sul volto di alcuni rom accampati vicino a place de la République. 28 SOCIETA’ Del 18/06/2014, pag. 4 Hai bisogno di curarti? In Italia devi pagare Salute di classe. Gli italiani sono costretti a scegliere le prestazioni sanitarie da fare subito a pagamento e quelle da rinviare oppure non fare. Ormai il 41,3% dei cittadini paga di tasca propria per intero le visite specialistiche a causa dell'aumento dei ticket che ha sfiorato i 3 miliardi di euro nel 2013 Roberto Ciccarelli <<Non mi curo perché non ho soldi». Accade in Italia dove per il Censis sono sempre di più gli italiani che pagano di tasca propria i servizi sanitari che il pubblico non garantisce più. Secondo la ricerca Rbm Salute-Censis, presentata ieri a Roma inoccasione del quarto «Welfare Day», il caso più clamoroso è quello del dentista. Tra il 2005 e il 2012 gli studi privati hanno visto crollare il numero delle cure a pagamento. Una realtà già emersa alcuni mesi fa quando da Palermo è arrivata la notizia secondo la quale una ragazza di 18 anni sarebbe morta a causa di un ascesso non curato che le ha causato uno choc settico polmonare. La mancata prevenzione, e il rifiuto delle cure, è una realtà sempre più conosciuta in Italia da quando la crisi ha eroso i redditi e ha moltiplicato la disoccupazione di massa. Secondo il Codacons, il 23% degli italiani, anche perchè nella sanità pubblica le liste d’attesa sono lunghe mesi. Ormai il 41,3% dei cittadini paga di tasca propria, e per intero, le visite specialistiche. Per il Censis la spesa per il ticket ha sfiorato nel 2013 i 3 miliardi di euro, +10% in termini reali nel periodo 2011–2013. Hai bisogno di una visita oculistica in una struttura pubblica? Paga 30 euro di ticket e aspetta 74 giorni per la visita. Se invece hai premura, puoi rivolgerti ad un oculista privato. Allora paghi 98 euro e dopo sette giorni ottiene una prescrizione. Veniamo a urgenze più complesse: le visite cardiologiche. Nella sanità pubblica pagherai un ticket da 40 euro, mentre la lista di attesa è di 51 giorni. Nel privato paghi invece 107 euro e aspetterai solo una settimana. Ti sei fratturato un piede? Hai bisogno di una visita ortopedica. Se ti rivolgi al pubblico paghi 31 euro di ticket e aspetti quasi un mese. Pagando invece un privato avrai un servizio quasi immediato: con 100 euro aspetti solo 5 giorni. Per effettuare una colonscopia in una struttura pubblica il ticket costa 49 euro e si aspetta mediamente 84 giorni . Nel privato con 213 euro si aspettano 8 giorni. Per effettuare una risonanza magnetica del ginocchio il ticket è di 49 euro e l’appuntamento è dopo 68 giorni, nel privato pagando 149 euro si aspettano 5 giorni. Non sembra esserci scampo: in Italia «il privato bello perché funziona». A condizione, però, di essere in grado di pagare. Se non ci sono soldi, allora bisogna affrontare un lungo viaggio che può anche non avere fine. La salute è una questione di classe. Il Censis segnala l’alternativa che scandisce i tempi della nostra vita sociale. Nel pubblico, ci sono tempi biblici, che producono un sentimen[to di impotenza. L alternativa è la «fuga nel privato». Oppure l’emigrazione. Nella sanità non c’è solo quella «classica» dal Sud al Nord, ma anche dal Nord-Ovest verso il Nord-Est, ad esempio. Secondo il rapporto Rbm Salute-Censis ogni area geografica ha una tariffa diversa. Per le visite specialistiche (oculistica, cardiologica, ortopedica o ginecologico) nel Nord-Est si paga 20 euro, mentre al Sud più del doppio: 45 euro in media. Una mammografia costa un minimo di 36 euro al Nord-Est. Nel Nord-Ovest un massimo di 48 euro. 29 La sanità pubblica è peggiorata. Questa è la constatazione del 38,5% degli italiani. Erano il 28,5% nel 2011. E crolla dal 57,3% del 2011 al 44,4% del 2014 la quota di chi giudica positivamente la competenza delle regioni sulla sanità. Nella percezione comune esiste un rapporto diretto tra i tagli alla sanità imposti dai piani di rientro, e quindi dal rigore di bilancio e dall’austerità, e l’abbattimento della qualità dei servizi. La dismissione del pubblico a favore della privatizzazione della sanità ha provocato un esodo in Europa. Sono 1,2 milioni gli italiani che in sette anni hanno varcato le alpi per curarsi. «Ormai si cura solo chi può. Sono stati cancellati ospedali e servizi territoriali, mentre la cosiddetta riforma della P.A., che il Governo Renzi si appresta a varare, continuerà nell’opera di smantellamento – afferma Licia Pera (Usb) – cosa che si ripeterà a breve con il Patto per la Salute [presentato dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin che in questa settimana si sta confrontando con la conferenza delle Regioni, ndr e i suoi 10 miliardi di tagli previsti». Di diverso avviso la Cgil secondo la quale «il patto della salute deve mettere in sicurezza il nostro servizio sanitario, come un patrimonio pubblico irrinunciabile – afferma il responsabile politiche della salute della Cgil Nazionale, Stefano Cecconi — deve ricostruire un finanziamento adeguato dopo la stagione dei tagli lineari e mantenere i risparmi della spending review nel sistema sanitario, per restituirli ai cittadini con più servizi e meno ticket. Serve e conviene abolire i ticket, con una vera e propria “exit strategy”». 30 INFORMAZIONE Del 18/06/2014, pag. 4 Ordine del giorno Pd Impegna il governo sulla riforma della Rai «L’approvazione dell’ordine del giorno presentato oggi alla Camera dal Partito Democratico, e fatto proprio dal governo, è il primo tassello della riforma del servizio pubblico annunciata nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio Matteo Renzi». Lo ha detto Vinicio Peluffo,capogruppo Pd in Commissione Vigilanza Rai. Nel decreto Irpef approvato ieri c’è anche il taglio die 150 milioni per la Rai (tramite la vendita di quote di RaiWay),ma non la richiesta di altri risparmi. E l’ordine del giorno del Pd, spiega Peluffo, «impegna il governo su tre punti per noi cardinali: aprire da subito una grande consultazione su funzione e missione del servizio pubblico, coinvolgendo cittadini e opinione pubblica; una volta conclusa - entro l’anno - tale consultazione dovrà iniziare la discussione parlamentare per anticipare il rinnovo della concessione Stato-Rai alla primavera del 2015; infine presentare, entro il 31 dicembre 2014, una proposta di riforma organica del canone». Insomma, è un impegno formale perché il governo compia «i primi passi» per avviare la «svolta» di cui la Rai ha bisogno per superare «i tempi bui della legge Gasparri e tornare a svolgere il suo ruolo di grande industria culturale», conclude il deputato dem. Il governo, con il sottosegretario allo Sviluppo Giacomelli, avvierà nelle prossime settimane la consultazione aperta sul ruolo del servizio pubblico, da chiudere entro l’estate. Il governo pensa di varare un decreto a fine anno, anche con le modifiche dei criteri di nomina della governance Rai, perché siano meno legati alla politica come sono quelli previsti dalla Gasparri.Masi tratterà anche di ridefinire il «perimetro» della Rai, rivedendo il numero dei canali (se non delle reti). In autunno invece ci sarà la riforma del canone, forse da pagare nella bolletta elettrica,comunque adattato alle capacità di spesa delle famiglie. ECONOMIA E LAVORO Del 18/06/2014, pag. 13 Il Fondo: Italia, bene le riforme ma il livello dei senzalavoro ormai è diventato inaccettabile Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: dal FMI non voti pieni ma voti buoni per noi «La realizzazione di un vero cambiamento è essenziale» avverte il Fondo monetario internazionale, che al termine della sua missione in Italia finalizzata a valutare lo stato 31 dell’economia del Paese, ha reso note le sue conclusioni preliminari. I responsabili della delegazione nel loro documento si rivolgono direttamente al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, protagonista di «un programma ambizioso» per riformare la legge elettorale, il mercato del lavoro, il sistema giudiziario e il settore pubblico nonché per migliorare, semplificare e alleggerire il fisco. Si tratta di passi importanti per sostenere la ripresa, rilevano. Ma «sono necessari interventi di politica economica rapidi e coraggiosi e cambiamenti strutturali profondi» aggiungono, spiegando che, pur in presenza dei primi segnali di crescita, la ripresa ancora è «fragile» e la disoccupazione «a livelli inaccettabili». Il Fondo chiede quindi all’Italia di avviare la riduzione del debito pubblico «senza far deragliare la fragile ripresa» e di sostenere la crescita con meno tasse e più spesa produttiva. Quanto alle riforme, gli economisti di Washington sollecitano il governo a tradurre le proposte del «Jobs act» in misure concrete, in particolare quella sul contratto a tutele crescenti. Nel suo documento il Fmi propone, assieme a una maggiore flessibilità dei contratti collettivi nazionali, anche la differenziazione dei salari pubblici a livello nazionale. Una sorta di «gabbia salariale» che però il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, traduce in un’esortazione alla maggiore efficienza, sulla linea di quanto già previsto nella riforma della Pubblica amministrazione. Il Fmi assegna all’Italia «non voti pieni ma voti buoni», ha commentato comunque Padoan, affermando di «condividere con il Fondo monetario la raccomandazione di continuare nel consolidamento dei conti pubblici e di favorire, per quanto possibile, la discesa del debito rispetto al Pil». L’organismo di Washington, ha aggiunto il ministro, «riconosce il ruolo fondamentale che le riforme avviate dal governo Renzi hanno nel riportare la crescita su un sentiero di crescita più robusto». Quanto alle previsioni economiche, «si intravedono segnali importanti di ripresa che si rafforzeranno in futuro», ha affermato il ministro, raccogliendo anche l’esortazione a proseguire sulla strada delle privatizzazioni. «Andiamo avanti: il piano è e resta importante e ambizioso» ha detto. Le analisi del Fmi si soffermano quindi sul problema del difficile accesso al credito da parte delle imprese. Le aziende piccole e medie sono troppo indebitate e poco innovative, dice il Fondo, che suggerisce «il riorientamento del sostegno pubblico verso le start up » e la definizione «di criteri standard di valutazione dei prestiti e di linee guida per la ristrutturazione di imprese solventi ma in difficoltà». Quanto alle banche, «i crediti in sofferenza continuano a crescere» e serve una «maggiore pressione al loro smaltimento dei crediti al fine di liberare risorse e favorire nuovi prestiti durante la ripresa». Per l’organismo guidato da Christine Lagarde sarebbe anche opportuno prevedere misure a sostegno delle bad bank . «Per aiutare le banche a istituire società di gestione dei crediti in sofferenza, si potrebbero valutare misure regolatorie o incentivi fiscali, garantendo che gli attivi deteriorati siano trasferiti a valore di mercato». Sono, quelle sul sistema bancario, valutazioni che Padoan ha detto di «condividere», rilevando come da una parte le misure annunciate dalla Bce per assicurare alle banche liquidità finalizzata ai prestiti all’economia «agiscano per una maggiore protezione delle banche per il credito» e dall’altra, quelle del governo invece «agiscano per favorire l’accesso al credito da parte delle imprese». 32