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Data e Ora: 22/01/07
00.51 - Pag: 13 - Pubb: 22/01/2007 - Composite
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MEDICINA E SALUTE
BRESCIA - Via Lattanzio Gambara, 55
Tel. 030.37401 - Fax 030.3772300
PAGINA 13
BRESCIA - Via Lattanzio Gambara, 55
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LUNEDÌ 22 GENNAIO 2007
TERZA ETA’ - IL DISTURBO CHE ALTERA LA NORMALE PROGRESSIONE DEL CIBO DAL CAVO ORALE ALLO STOMACO
Cosa fare quando non si riesce a mandar giù il boccone
Il termine disfagia indica un
disturbo che implica
un’alterazione della normale
progressione del cibo dal cavo
orale allo stomaco. È più
frequente nella popolazione
anziana, nei pazienti affetti da
malattia tumorale (soprattutto
del tratto gastrointestinale
superiore), nei soggetti con esiti
di trauma cranico e nei pazienti
con una malattia vascolare o
degenerativa del sistema nervoso
centrale come la demenza in fase
terminale.
Le cause della disfagia sono
numerose. I disordini
neurologici, quali l’ictus, il morbo
di Parkinson, la sclerosi laterale
amiotrofica, la sclerosi multipla, i
tumori cerebrali e la malattia di
Alzheimer determinano disfagia
interessando i movimenti del
faringe e della porzione
superiore dell’esofago. I disordini
muscolari, come la distrofia
muscolare, la miastenia gravis e
la dermatomiosite causano
disfagia inibendo la funzione
neuromuscolare. Anche le
alterazioni nel funzionamento
dello sfintere esofageo superiore
(muscolo che ha una funzione a
valvola e che regola il passaggio
del cibo in esofago, impedendo
l’aspirazione di questo nei
bronchi) determinano disfagia.
Infine tra le altre possibili cause
bisogna ricordare le alterazioni
anatomiche dell’esofago sia in
senso intrinseco (quali
restringimenti in conseguenza di
cicatrici) che da compressione
estrinseca per ingrossamento di
organi viciniori (di origine
vascolare e tumorale).
Nell’anziano infine si deve
sempre escludere la presenza di
corpi estranei in faringe e/o
esofago, dal momento che
diminuendo la capacità visiva è
più facile che corpi estranei o
semplicemente pezzi di dentiera
vengano ingoiati ed ostruiscano
il successivo passaggio degli
alimenti.
In genere i pazienti affetti da
disfagia lamentano tosse o senso
di soffocamento durante la
deglutizione, rigurgito
naso-faringeo, alterazioni del
linguaggio o inalazione
ricorrente. Si può verificare
anche una sensazione di globo,
riferita come sensazione
soggettiva di ripienezza a livello
del collo o di una «rigonfiamento
in gola».
La severità della disfagia può
variare da sporadici episodi in
concomitanza dell’assunzione di
cibo e/o liquidi, fino alle forme
molto gravi che non permettono
l’assunzione né di alimenti né di
liquidi dato l’alto rischio di
inalazione bronchiale e quindi di
sviluppare una polmonite
cosiddetta da aspirazione (di
difficile cura e particolarmente
resistente agli antibiotici).
Il trattamento della disfagia
richiede l’identificazione della
causa. Gli obbiettivi includono il
mantenimento di tecniche di
deglutizione in modo da evitare
l’inalazione e di riuscire ad
ottenere un adeguato supporto
nutrizionale. Nei pazienti in cui il
danno neuro-muscolare è
progressivo ed irreversibile, si
può inizialmente migliorare la
deglutizione modificando la
consistenza del cibo. La
valutazione da parte di un
logopedista può essere utile in
modo da migliorare la
coordinazione dell’atto
deglutitorio, nonché della
capacità di preparare il bolo
alimentare in bocca prima di
essere deglutito. Per i pazienti
con disfagia grave ed episodi di
inalazione ricorrente, va presa in
considerazione la necessità di
posizionare una sonda
nutrizionale percutanea a livello
gastrico.
Piera Ranieri
(Gruppo Ricerca Geriatrica)
Cellule staminali
dal liquido amniotico:
il «nodo» del prelievo
Parolini, direttrice del Centro di Ricerca della Poliambulanza:
«Le cellule della placenta sono una risorsa più accessibile»
La placenta quale risorsa alternativa di cellule staminali. Cellule
che possono essere recuperate senza alcuna procedura invasiva per il
donatore ed usate senza alcun problema etico perché derivanti da
materiale di scarto gettato dopo il
parto. A dimostrarlo, dopo anni di
ricerca ed una pubblicazione sulla
rivista scientifica «Transplantation» nel 2004 il gruppo della dott.
Ornella Parolini, direttore del centro di ricerca «Eugenia Menni» alla Poliambulanza. Un lavoro che sta proseguendo nell'approfondire le caratteristiche di staminalità di queste cellule.
Dati in fase di pubblicazione dimostrano che all'interno delle cellule isolate dalle membrane fetali ci sono delle cellule in
grado di differenziare in vitro verso
cellule del tessuto adiposo, cartilagineo e osseo.
Proprio con Ornella Parolini abbiamo commentato la notizia, che
ha avuto vasta eco anche sulla
stampa italiana, del lavoro scientifico pubblicato su una rivista americana in merito a cellule staminali
ottenute da prelievi dal liquido
amniotico. La scoperta sembrava
tale da poter mettere fine alle
polemiche legate alla ricerca sugli
embrioni. Ora si apre tuttavia un
altro scenario, relativo al prelievo e
alla conservazione del liquido am-
nitico. Uno scenario complessivamente aperto, del quale abbiamo
parlato con Ornella Parolini.
«L’articolo della scoperta italoamericana avvalora e conferma
l'idea di partenza del nostro Centro di Ricerca che in maniera pionieristica, al momento della sua
apertura, nel 2002, ha puntato tutte le forze per lo studio delle cellule
staminali derivate da tessuti placentari. Lo studio americano supporta appieno la
nostra idea di identificare, all'interno
dei tessuti fetali,
cellule che possano avere caratteristiche intermedie
di pluripotenzialità
tra le cellule totipotenti embrionali e
le cellule staminali
adulte multipotenti. È una chiara evidente dimostrazione che si possono ottenere cellule staminali pluripotenti senza danneggiare gli embrioni. Si tratta di cellule che si
trovano nel fluido amniotico e possono essere isolate da campioni di
amniocentesi, prelievo che viene
svolto durante la gravidanza tra la
16-18 settimana, per indagine di
aberrazioni cromosomiche e alterazioni genetiche del futuro nascituro - prosegue Parolini -. All'interno
del fluido amniotico ci sono cellule
che derivano dalla membrana amniotica della placenta (tessuto di
origine
extraembrionale)
e/o
dall'embrione stesso, ma, sempre
«La scoperta
finale è frutto
del lavoro
di molti»
per intenderci cellule di appartenenza fetale». Alla ricercatrice abbiamo chiesto se, alla luce di quanto sta emergendo, sia equivalente
recuperare cellule del fluido amniotico e cellule della placenta.
«Non proprio - risponde -, e qui
forse mi permetto di aggiungere
che le cellule della placenta a termine hanno un interesse più forte
perché ovviamente il loro recupero
è molto più accessibile, la placenta
viene gettata dopo il parto, e forse
varrebbe la pena notare che le
cellule isolate dal liquido amniotico prevedono un prelievo durante
l'amniocentesi, che rimane una procedura invasiva, rischiosa per il
bambino. Anche per l'amniocentesi coem per qualsiasi altra procedura occorre valutare il rapporto
benefici/rischio. Pertanto, se in casi particolari si prospetterà una
terapia prenatale in utero, il beneficio è evidente. Se il prelievo sarà
fatto invece a prescindere da uno
scopo diagnostico o terapeutico,
allora forse dovremo considerare
che altri tessuti, come invece la
placenta a termine sia delle risorse
più accessibili».
Ma le cellule prelevate dalle
membrana dell'amnion o quelle
del fluido amniotico hanno la stessa potenzialità nella rigenerazione
tessutale?
«Molto probabilmente si equivalgono, anzi così viene accennato
nella stessa pubblicazione del
gruppo americano. La novità di
tale studio sta nel fatto che da un
grande pool di cellule che hanno
potenziale staminale di grado diverso i ricercatori, sono riusciti ad
isolare, mediante un marcatore cellulare, il CD117, una popolazione
dalle caratteristiche di multipotenzialità e hanno dimostrato in modelli animali la loro funzionalità
facendo prevedere il possibile utilizzo clinico. La nostra scelta per il
momento è stata quella invece di
utilizzare la popolazione eterogenea derivata dalle membrane
dell'amnion e del corion, evitando
di manipolarle eccessivamente.
È questione di strategie, l'importante è che convergiamo nel dimostrarne l'applicazione clinica e come dicono gli autori della recente
pubblicazione su Nature Biotechnology la strada da percorrere è
molto lunga, ma le indicazioni sono molto promettenti. Inoltre è da
sottolineare che il gruppo americano dimostra la rigenerazione ossea
impiantando le cellule del fluido
amniotico in modelli animali immunocompromessi, senza approfondire l'aspetto immunologico di
queste cellule, soprattutto riguardo alla possibilità che vengano
rigettate quando trapiantate in organismi immunologicamente competenti».
«Ritengo fondamentale - continuna la dott. Parolini - non solo
valutare l'aspetto del potenziale
differenziativo, ma anche le caratteristiche immunologiche in visioPagina a cura di:
ANNA DELLA MORETTA
Il ritratto dei coniugi Arnolfini dipinto dal pittore fiammingo Jan Van Eyck
ne dell'utilizzo in trapianti allogenici, nei quali il fenomeno del rigetto
da incompatibilità deve essere
sempre considerato. E questa è
una consistente parte della nostra
linea di ricerca riguardante il possibile impiego di cellule staminali in
clinica».
Gli scienziati americani hanno
sottolineato che «la strada da percorrere è molto lunga, anche se le
indicazioni sono promettenti». Negli ultimi anni, spesso vengono
messe in risalto attraverso i mezzi
di comunicazione informazioni fornite da scienziati e ricercatori che
«svelano» di aver individuato la
possibilità di utilizzare cellule staminali per guarire dalel più svariate patologie. Notizie errate? No,
solo molto in anticipo rispetto ai
tempi perché, se è vero che il
lavoro prosegue, è altrettanto vero
che l’applicazione clinica di tale
lavoro richiede ancora molto studio e tempi lunghi.
«La ricerca è un mondo fatto di
paziente lavoro, frutto di anni, (il
laboratorio americano dice che
stanno lavorando da 7 anni e per
passare all'uomo ne prevedono altrettanti), lavoro che passa dalla
prova e riprova, dalla fatica dei
tanti insuccessi alla gioia del risultato importante, che però non può
mai essere fine a sé stesso, ma
deve avere davanti il bene dell'uomo», spiega Ornella Parolini. Che
aggiunge: «Se faccio ricerca è perché voglio aiutare i malati che oggi
non possono essere curati, questa
ritengo sia l'unica molla seria del
ricercatore. Questa è la mia opinione, forse non condivisa da tutti i
ricercatori…, ma questo è lo spirito con il quale cerco di far crescere
il CREM: l'obiettivo del nostro lavoro sia la nostra vera motivazione!
Nella ricerca tutti i ricercatori a
qualsiasi livello partecipano a costruire conoscenza, si partecipa a
creare e spianare la strada, alcune
ricerche fanno clamore alcune meno, ma il vero ricercatore sa che
solo grazie al lavoro di tanti si
arriva alla scoperta finale, che spesso c'è già, non è una invenzione,
ma solo quasi uno «svelare» un
frammento di realtà, di natura….»
E conclude: «La ricerca biomedica scientifica deve suscitare speranza, a volte quando poi si fa
tanto clamore esterno si passa
dalla speranza all’illusione, che
confonde e crea false aspettative
alle persone, spesso a quelle più
fragili quali sono appunto gli ammalati che si appigliano a qualsiai
spiraglio per trovare un percorso
di cura. Per questo, credo, serve
molta prudenza. E noi siamo i
primi ad avere il dovere di lavorare
ed essere prudenti».
NETTA CONTRARIETA’ DELLA FEDERAZIONE ITALIANA MEDICI PEDIATRI
Se i bambini americani sono obesi, hanno un brutto voto in pagella
Nove milioni di ragazzi e il 67 per
cento di tutta la popolazione. Questi
gli impressionanti numeri delle persone colpite da obesità negli Stati
Uniti, che hanno portato le autorità
a promuovere in alcuni Stati l'inserimento nelle pagelle di valutazione
scolastica dei bambini anche del
voto relativo al grado di soprappeso.
Una iniziativa che ha creato proteste nei genitori e scalpore nell'opinione pubblica sia in America sia in
Italia dove, come oltreoceano, il numero dei bambini obesi è in costante
aumento, a tutte le età: secondo i
dati messi a disposizione dall'Osservatorio Grana Padano, risulta che il
23% dei bambini è sovrappeso e il
14,2 per cento è proprio obeso.
Iniziativa bocciata, dunque, con
fermezza, in particolare, dai pediatri
italiani della FIMP che la definiscono semplicemente «inapplicabile»
per il nostro Paese e con risultati
«discutibili» se l'obiettivo che si vuole raggiungere è un buon livello di
prevenzione primaria.
«Non è con il pubblico giudizio
che si risolve un problema come
l'eccesso di peso che dipende da
diversi fattori legati al comportamento e alla psicologia - sottolinea
Giuseppe Mele, presidente della
FIMP -. Ma proprio le scuole, assieme ai pediatri di famiglia, potrebbero fare molto per intervenire
nell'educazione delle nuove generazioni ed evitare l'espandersi del fenomeno».
«Il problema obesità è molto più
complesso di quanto si pensi - conti-
Critiche dai pediatri italiani all’idea americana di dare un voto in pagella al sovrappeso dei bambini
nua Mele - oltre a quello che si
mangia vanno considerati altri fattori tra cui l'attività fisica e/o la sedentarietà. Aumenta, infatti, in maniera
difficilmente controllabile il tempo
che i nostri bambini passano seduti
o sdraiati di fronte non più solo alla
tv ma anche a internet e videogiochi».
«Dare un voto all'obesità può sembrare quantomeno discutibile», aggiunge Claudio Maffeis, docente di
Pediatria all’Università degli Studi
di Verona.
«Del resto l'obesità è una malattia
polifattoriale e per gestirla è necessario intervenire contemporaneamente su più fattori di rischio noti quali:
composizione della dieta, porzioni
di alimenti, ripartizione dei pasti
nelle 24 ore, riduzione della sedentarietà, aumento del livello di attività
fisica e così via. In particolare, va
sottolineato che tutti questi fattori
di rischio possono essere controllati
solamente con una responsabilizzazione ed un coinvolgimento diretto
della famiglia oltre che del bambino».
«Un secondo aspetto molto importante - continua Maffeis - è la precocità di intervento: prima si interviene più efficace è l'azione preventiva
così pure la terapia. È fondamentale
pertanto promuovere abitudini alimentari e motorie corrette sin nelle
prime età. Uno strumento utile a
questo scopo può essere il questionario delle abitudini alimentari proposto dall'Osservatorio Grana Padano
e fornito ai pediatri che hanno aderito all'iniziativa che consente di ottenere una valutazione qualitativa
dell'alimentazione del piccolo, come
pure offre la possibilità di evidenziare carenze o eccessi nutrizionali».
Da 2 anni i pediatri di famiglia
italiani somministrano questionari
ai bambini (mamme) per mettere in
evidenza non solo il BMI (Body
Mass Index, indice di massa corporea, cioè il numero che esprime
quanto si è grassi, magri o normopeso), ma il ben più importante quadro nutrizionale.
Il pediatra, in tal modo, è agevolato nell'educare mamme e bambini
mettendo in evidenza non solo il
loro eventuale stato di soprappeso o
obesità, ma anche quali sono gli
errori nutrizionali principali sui quali poter intervenire. Da 2007 l'Osservatorio Grana Padano utilizzerà un
nuovo software che prevede anche il
monitoraggio dell'attività fisica e dei
momenti di sedentarietà come ad
esempio il tempo che i bambini dedicano ai videogiochi, tv e computer.
L'Osservatorio Grana Padano nasce grazie all'impegno del Consorzio
tutela Grana Padano in collaborazione con FIMP (Federazione Italiana
Medici Pediatri) e SIMG (Società
Italiana di Medicina Generale) e
dall'inizio del 2005 sta fotografando
gli stili alimentari della popolazione
italiana attraverso il contributo attivo dei Medici di Medicina Generale
e i Pediatri di famiglia.
In Italia sono 134 i pediatri che
fanno anamnesi alimentari ed educazione con il software dell’Osservatorio e lo hanno somministrato a circa
4.000 bambini.
A-B-C DELLA MEDICINA
SANITA’
Ticket: la
Lombardia
pensa a
riduzioni
In Lombardia non si
parla di togliere i dieci
euro di ticket sulla
diagnostica introdotti
con la finanziaria
nazionale, come invece
ha deciso di fare ieri la
Provincia di Trento, però
«si sta ragionando per
ridurlo».
Così ha spiegato il
coordinatore regionale di
Forza Italia Maria Stella
Gelmini. «So - ha
spiegato Gelmini - che
l’assessore Cè e il
governatore Roberto
Formigoni stanno
ragionando almeno per
ridurlo. Però bisogna far
quadrare i conti e la
Lombardia non ha le
stesse risorse del
Trentino». In realtà resta
molta cautela in vista
anche del testo definitivo
di modifica alla
Finanziaria che
presenterà il ministro
Turco e che finora non
ha convinto la Regione,
pronta a ricorrere alla
Corte costituzionale.
Il problema principale,
secondo la coordinatrice
regionale, è proprio
quello dei fondi che
penalizzano la
Lombardia.