Dobbiamo credere nella politica come vocazione

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Dobbiamo credere nella politica come vocazione
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Dobbiamo credere
nella politica come vocazione
 Mary Ann
Glendon
Nonostante le molte disillusioni e i pessimi modelli che ogni
giorno ci assediano, la politica resta fondamentale per la costruzione della vita collettiva. Gli esempi di Cicerone, Burke, Havel
provano che si può tentare la via della coerenza e dell’impegno.
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La politica come vocazione è il titolo della
Mary Ann Glendon è Learned
Hand Professor of Law alla
Harvard Law School, Cambridge
(MA) e presidente della Pontiicia
Accademia delle Scienze sociali.
È, tra l’altro, autrice di Traditions
in Turmoil: Essays on Law, Culture
and Human Rights (2006) e The
Forum and the Tower (2011), e
curatrice di Intergenerational
Solidarity, Welfare, and Human
Ecology (2004).
famosa conferenza di Max Weber del 1918,
nella quale egli discusse dei cambiamenti che
stavano trasformando la politica nei Paesi occidentali. Weber sottolineava che nei moderni Stati costituzionali quasi ognuno di noi è
un politico, perlomeno a tempo perso, solo
per il fatto di votare e di discutere di questioni politiche con gli amici.
Nel clima che si è venuto a creare oggi, tuttavia, l’associazione della parola “politica” con l’idea di “vocazione” probabilmente suona
all’orecchio di molti come naïf – o persino ridicola – specialmente se
si accetta la visione corrente della politica come qualcosa che riguarda
solo il raggiungimento e il mantenimento del potere.
Ma se si pensa alla politica nella maniera intesa da Aristotele – così
come l’hanno intesa tante persone coraggiose del nostro tempo –
l’idea di politica come vocazione diventa più plausibile. Aristotele ci ha
insegnato che la politica è l’arte di deliberare su come sia opportuno
ordinare la vita della comunità. E ha sostenuto che la politica, assieme
alla ilosoia, è una delle due occupazioni che valgono la pena di essere
intraprese da coloro che hanno un’idea elevata della virtù.
Si dovrebbe assumere una visione più ampia su quale sia il modo
di vivere migliore per quelle persone che aspirano a essere virtuose. Il
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cristianesimo, dopotutto, ci insegna che riceviamo nel battesimo una
vocazione alla sacralità e a essere una presenza trasformativa nel mondo. Alcuni sono chiamati a una vocazione religiosa. Altri metterebbero l’essere genitori in cima alla lista d’onore delle vocazioni più nobili.
Ciononostante, l’idea di politica come vocazione, o come un’occupazione degna di essere intrapresa, è estremamente viva nella dottrina sociale della Chiesa. Specialmente a partire dal Concilio Vaticano
II, la Chiesa ci ricorda con urgenza crescente che la nostra chiamata
battesimale alla trasformazione del mondo ha una dimensione politica ben deinita. Persino i nostri monaci di clausura, contemplativi
per vocazione, non stanno lì a meditare semplicemente sul mistero
dell’universo: essi pregano attivamente per il mondo. Come chiarisce
bene il Catechismo della Chiesa Cattolica, la prima responsabilità riguardo alla dimensione politica della vocazione cristiana appartiene ai
laici, con una forma precisa che deve essere delineata a seconda delle
capacità della singola persona e della sua situazione concreta.
Un’altra sede in cui l’idea di politica come vocazione è ancora viva
e vegeta è fra le migliaia di giovani uomini e donne che ogni anno presentano domanda di ammissione alle Facoltà di legge. Molti di questi giovani dichiarano di voler intraprendere gli studi in legge perché
ritengono che essi preparino adeguatamente a impegnarsi in prima
persona nel dibattito civile, e dicono che si sentono pronti a mettersi
in gioco in tutto ciò perché vogliono “fare la differenza”.
Molti laureati in legge, infatti, proseguono davvero nelle loro ambizioni politiche. Ma ciò che mi ha sempre tormentato è il pensiero
che ci siano tanti altri giovani uomini e donne – inclusi alcuni dei più
intelligenti, dotati di solidi principi morali e di spirito di servizio nei
confronti della società – i quali arrivano nelle Facoltà di legge con
quell’idea, ma poi cambiano opinione quando si laureano. Quello che
essi dicono spesso è che si sono orientati diversamente dopo aver lottato con interrogativi come i seguenti: 1) La politica è un affare davvero
così sporco che inirebbe per corrompermi nel caso in cui “ci andassi
a braccetto per andarci d’accordo”, o inirei per essere emarginato se
ciò non accadesse? 2) Riuscirei ad avere una vita familiare accettabile? Io e la mia famiglia riusciremmo a opporci alla prassi politica che
porta alla distruzione personale? 3) Dovrei mettere in discussione i
miei principi per riuscire a ottenere una posizione che mi permettesse
di agire eficacemente ino al punto da perdere di vista i reali obiettivi
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per cui sono entrato nella vita politica? 4) Le condizioni della mia
città, del mio Paese, del mondo, sono così tremende o così complicate
da non permettermi di riuscire a cambiare qualcosa?
Queste sono questioni molto serie. Ecco perché, durante le ricerche biograiche che ho svolto per il mio ultimo libro The Forum and
the Tower, ho deciso di indagare su come alcuni dei più grandi pensatori e protagonisti della politica nella storia abbiano trattato lo stesso
tipo di preoccupazioni che tormentano le persone che con coscienza
aspirano a ricoprire un ruolo attivo nella vita pubblica attuale.
Prendiamo, ad esempio, l’idea che la politica sia di per sé corrotta e
votata a sua volta alla corruzione. La convinzione che una persona alla
ricerca di una vita giusta debba rimanere in disparte rispetto al campo
minato della politica circola da parecchio tempo.
Ci si potrebbe chiedere cosa ci sia di male in questo. Bene, ecco
cosa disse Giovanni Paolo II nella sua enciclica Christiideles Laici
del 1988, indirizzandosi alle persone votate alla politica: «Le accuse
di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo e di corruzione che
non infrequentemente vengono rivolte agli uomini del Governo, del
Parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure
l’opinione non poco diffusa che la politica sia un luogo di necessario
pericolo morale, non giustiicano minimamente né lo scetticismo né
l’assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica» (42). Parole forti! La
prima reazione potrebbe essere quella di ribattere che quella «opinione diffusa» non esiste senza motivo, che la vita politica è piena di
pericoli per la moralità. A cosa sta pensando il Papa?
Forse, come Cicerone, pensava che i buoni non devono lasciare
il campo ai cattivi. Nessuno può dire che Giovanni Paolo II ignorasse i rischi morali della politica. Ma come sacerdote egli era anche consapevole che nessuno può evitare tali rischi semplicemente
chiamandosi fuori dalla politica. È vero, molti di noi, chiamandosi
fuori, non rischiano di vedere i propri scivoloni e i propri errori
sbattuti in prima pagina. Ma il fatto è che nessuno riesce a percorrere il proprio viaggio nella vita scampando da tutti i pericoli in cui
può incorrere la moralità. Questo era il nocciolo di opere un tempo
popolari come il Pilgrim’s progress di John Bunyan, o della sua controparte cattolica, quella che io preferisco: Pinocchio. Il mio intento
qui è di dimostrare che nessuno di noi può sfuggire a «Vanity Fair»
o alle cattive compagnie come il Gatto e la Volpe semplicemen32
te chiamandosi fuori dalla politica. Come ha detto Benedetto XVI
rivolgendosi al Bundestag tedesco: «Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità
dell’azione politica effettiva», ma «il successo può essere anche una
seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto,
alla distruzione della giustizia».
Fortunatamente non c’è bisogno di tornare indietro ino all’antichità per trovare uomini e donne che abbiano superato questi ostacoli.
Penso a Vaclav Havel e a tutti gli altri che hanno favorito la caduta degli apparentemente indistruttibili regimi comunisti nell’Europa
Orientale. In una sorta di testamento politico, Havel scrisse: «Non è
vero che una persona di solidi principi non debba darsi alla politica;
basta che questi principi siano animati dalla pazienza, dalla capacità
decisionale, dalla misura delle cose e dalla comprensione per gli altri.
Non è vero che solo i cinici senza cuore, le persone vane, volgari e
arroganti possano avere successo in politica. È vero che persone del
genere sono portate ad andare verso la politica, ma la mia esperienza e
ciò che ho potuto vedere mi dicono che la politica come pratica della
moralità è una realtà possibile».
Egli aggiunse immediatamente, tuttavia, che non si sarebbe mai
sognato di dire che si trattasse di una strada facile da percorrere.
Come avrebbe potuto? È parte della vita il fatto che una certa dose
di compromesso sia una necessità; e l’abilità di rendere appetibile tale
compromesso è un’importante capacità politica. Ma è anche vero che
spesso è dificile discernere dove il compromesso politico sfuma nel
compromesso morale e nella cooperazione materiale al male.
Due dei più grandi statisti di tutti i tempi, Cicerone ed Edmund
Burke, si trovarono di frequente a combattere con il problema di
quando, se e ino a che punto cedere al compromesso, sia per perorare la causa in cui essi credevano, sia per far progredire la propria
carriera politica. E fa rilettere il fatto che, stando a quanto scrissero,
non riuscirono a fare bene le cose in questo senso.
Per sua stessa ammissione, ci furono delle occasioni in cui Cicerone
non riuscì a mantenere fede ai principi da egli stesso professati, e non
riuscì a perseguire i propri ideali. L’esempio più lampante si ebbe
all’epoca in cui egli era all’apice del potere come console. Nel corso
della restaurazione dell’ordine dopo la soppressione della congiura
di Catilina, ordinò che cinque dei complici dei cospiratori venissero
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giustiziati senza processo. Fu un passo che egli giustiicò come una
misura d’emergenza, la quale però violava uno dei principi base che
egli aveva spesso cercato di difendere.
Ci furono anche delle occasioni, tuttavia, in cui Cicerone pagò un
prezzo molto alto per aver riiutato di scendere a un compromesso
rispetto ai propri principi. Il fatto più eclatante in questo senso avvenne quando egli declinò l’invito da parte di Giulio Cesare, Pompeo e
Crasso a unirsi al loro triumvirato, poiché vedeva che le loro azioni risultavano distruttive per la Repubblica. I triumviri, a turno, si riiutarono di sostenerlo quando i seguaci di Catilina iniziarono a vendicarsi.
Le lettere di Cicerone indicano che egli vide la maggior parte dei propri sforzi svanire nel nulla nel senso che si rese conto che il destino della
Repubblica a Roma era segnato. Nemmeno nei suoi sogni più ambiziosi
avrebbe potuto immaginare quanto la sua eredità sarebbe durata nel tempo, quanto lontano sarebbe giunta, e quali forme avrebbe assunto.
Consideriamo, per esempio, come, secoli dopo, Cicerone divenne una sorta di anima gemella per un giovane irlandese di nome
Edmund Burke. Burke, come Cicerone, era un ambizioso “uomo
nuovo” che veniva dalla provincia e che cercava di farsi strada nella
vasta scena politica del proprio tempo. Ma gli ostacoli che Burke
si trovò a dover affrontare nella Londra del XVIII secolo furono
persino più grandi di quelli che Cicerone dovette superare a Roma.
A quel tempo l’Irlanda era governata con un sistema di dure leggi penali che proibivano ai cattolici di votare o di ricoprire cariche
pubbliche; persino di praticare la propria religione in pubblico. Le
barriere che in base a tali leggi ostacolavano lo sviluppo economico
erano così forti che molti cattolici vennero registrati come convertiti
al protestantesimo. Questo fu ciò che fece il padre di Burke per poter esercitare la professione di avvocato e dare così delle opportunità
ai propri igli.
Poiché la situazione critica dei suoi connazionali gli stava a cuore,
all’apice della sua carriera gli si presentò un grosso problema: ino a
che punto permettersi di scoprirsi e di mostrare ciò che si è veramente? (Questo è un problema reale per molti giovani cristiani oggi, nel
momento in cui devono preparare il curriculum vitae per entrare nel
mercato del lavoro. Si deve menzionare, ad esempio, di aver lavorato
per un’organizzazione politica “conservatrice”, o di aver fatto parte di
un gruppo di aiuto alla vita?).
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Più Burke faceva carriera, più andava a scontrarsi con quella che
noi oggi chiamiamo la politica della distruzione della persona. I suoi
avversari misero il naso nei suoi affari privati e i vignettisti non mancarono mai di ritrarlo in abito clericale da cattolico romano. Nel caso
qualcuno si fosse dimenticato che era irlandese, lo rafiguravano intento a mangiare patate con accanto un bariletto di whiskey.
Immaginiamo come si deve essere sentito quando per il suo primo
lavoro in politica, come assistente di un membro del Parlamento britannico, gli venne richiesto di preparare uno scritto di presa di posizione sull’Irlanda. Ciò che egli fece in quell’occasione fu di spingersi
in là quanto poteva nel criticare le leggi penali, ma per fare in modo
che il suo capo prendesse almeno in considerazione tali critiche egli
descrisse alcuni provvedimenti che escludevano i cattolici dagli incarichi pubblici come “giusti e necessari”. Tale affermazione era molto
lontana dalle sue vere convinzioni e molte persone più tardi lo avrebbero criticato per questo. Ma quella concessione gli permise di farsi
strada, di tenersi stretto il lavoro e inine di diventare il principale
teorico del partito dei Whig.
Quando Burke stesso riuscì a diventare membro del Parlamento,
abbracciò molte cause impopolari: quella dei coloni americani, quella
dei cattolici in Irlanda, quella degli abitanti dell’India. Come ci si potrebbe aspettare nel caso di un personaggio così controverso, ci sono
opinioni divergenti riguardo alle tattiche adottate da Burke. Alcuni
lo considerano come uno che lungo il proprio percorso ha sacriicato troppe cose in nome dell’opportunismo. Altri concordano con
Winston Churchill che lo riteneva un modello di prudenza politica.
Ciò che va al di là di questa disputa è il fatto che quando Burke alla
ine raggiunse una posizione in virtù della quale era in grado di esercitare una certa inluenza, egli, come il suo eroe Cicerone, non esitò a
mettere a repentaglio la propria carriera per amore dei propri ideali.
Infatti egli fece questo in tre famose occasioni, e ogni volta subì una
forte sconitta dal punto di vista politico.
La prima occasione si veriicò quando era in servizio come membro
del Parlamento per la città di Bristol. Quasi tutti gli studenti di scienze politiche hanno letto il discorso che egli tenne agli elettori della
città dove spiegava la propria visione secondo la quale, se è vero che
un rappresentante uficialmente eletto deve dare un grande peso ai
desideri dei suoi elettori, non per questo egli deve essere un semplice
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strumento nelle mani di chi lo ha votato; ha piuttosto il dovere, nei
confronti dei propri elettori, di fornire loro il proprio giudizio indipendente. Questa idea gli costò il seggio di Bristol. Offese i suoi sostenitori sia rivendicando il libero commercio con l’Irlanda, sia sostenendo la prima riforma in assoluto delle leggi penali irlandesi. Queste
mosse lo resero così impopolare che il suo partito non lo prese mai più
in considerazione per cariche di rilievo.
Più tardi, in qualità di rappresentante di un piccolo collegio elettorale, Burke si imbarcò in un’altra missione impopolare: una crociata
spietata contro le pratiche oppressive messe in atto dalla Compagnia
delle Indie Orientali. Anche se fallì nel tentativo di far accusare il malvagio di turno, il processo consentì a Burke di portare alla luce del
sole le consuetudini della Compagnia e di mettere in moto quelle forze che avrebbero in seguito fermato il sistema di violenze e di abusi
che era prevalso sotto Hastings.
La terza occasione, in cui Burke si giocò la propria carriera per una
questione di principio, fu quando si scontrò con i leader del proprio
partito riguardo alla condanna del comportamento dei rivoluzionari
francesi. Questo mise ine in un solo colpo alla carriera politica di
Burke, in maniera deinitiva. Egli lasciò la vita pubblica e trascorse i
pochi anni che gli restavano scrivendo l’opera che sarebbe diventata
un classico del pensiero ilosoico politico occidentale: le Rilessioni
sulla Rivoluzione Francese.
Come nel caso di Cicerone, se Burke fosse stato giudicato all’epoca
della sua morte sulla base dei risultati ottenuti nello sforzo di perorare
quelle cause politiche che gli stavano a cuore, sarebbe stato ritenuto un
fallito. L’Inghilterra perse le colonie americane. Le popolazioni dell’Irlanda e dell’India continuarono a essere oppresse. La Francia nel 1793
precipitò nel Terrore e si aprirono decenni di instabilità politica.
Credo che qui il messaggio sia il seguente: il semplice fatto che gli
sforzi compiuti da qualcuno nella propria vita non siano visibili non
signiica che tali sforzi siano stati compiuti invano. Il fatto che noi non
conosceremo mai i risultati delle nostre vocazioni nelle nostre vite dischiude il problema che forse più di ogni altro scoraggia molte persone
dall’accettare la politica come vocazione, o dall’interessarsi attivamente
alle questioni politiche: la sensazione, condivisa da molti, che il nostro
destino economico e politico sia regolato da forze distanti, che sfuggono
al nostro controllo. Ma il mestiere della politica – nonostante tutto ciò
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che fa in modo che le persone lo vogliano evitare – è ciò che determina
se tutti gli altri ingredienti di una vita civile (la letteratura, la ilosoia e
così via) possono svilupparsi o no. Quando si considera quanto dipende dal fatto di praticare bene questo mestiere così noioso, rischioso e
sporco, e quanto dipende dal farlo in modo pieno e responsabile, allora forse, dopotutto, non sembra più così ridicolo pensare alla politica
come a una vocazione.
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(Traduzione di Lorenzo Fazzini e Serena Spelta)
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