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RASSEGNA STAMPA martedì 4 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Radio Articolo 1 del 04/11/14 Work in news Intervengono I. Aramini, Flc Lecce; O. Ferrara, Arci (intervista sull’assegnazione del premio Falcone alla Carovana Antimafie) ; M. Forcellini, Ecomondo http://www.radioarticolo1.it/audio/2014/11/4/22160/work-in-news Da Antimafia 2000 del 03/11/14 La 'Carovana Internazionale Antimafie' vince il "Premio Falcone" Verrà assegnato alla Carovana Internazionale Antimafie nella persona del suo coordinatore Alessandro Cobianchi il prestigioso ‘Premio Falcone’ istituito dal Consiglio d’Europa e dalla città di Strasburgo Martedì 4 novembre 2014 presso le sale del Forum della Democrazia a Strasburgo È stato assegnato alla Carovana Internazionale Antimafie, rappresentata dal suo coordinatore Alessandro Cobianchi, il '’Premio Falcone’ (categoria democrazia). La Carovana Internazionale Antimafie - promossa da Arci, Libera e Avviso Pubblico, dedicata quest’anno al tema della tratta degli esseri umani, co-finanziata dall’Ue nell’ambito del Programma Prevention of and figth against crime nell’ambito del progetto ‘CARTT. Campaign for Awareness-Raising and Training to fight Trafficking’ - come si legge nelle motivazioni del Premio, “viaggia instancabilmente da venti anni in giro per l'Italia e l'Europa, per riportare le voci di coloro che lavorano per lo Stato democratico di diritto e della giustizia sociale, ma anche per promuovere progetti concreti, incontrare le famiglie delle vittime di mafia e raccontare le modalità di riutilizzo dei beni confiscati”. Il Premio, assegnato dal Consiglio d'Europa e dalla città di Strasburgo nell’ambito del Forum mondiale per la democrazia, quest’anno è stato conferito, oltre alla Carovana Antimafie, all’associazione Progetto San Francesco e al Centro Studi Sociali contro le mafie. La consegna del premio è prevista per il prossimo 4 novembre, a Strasburgo, in occasione del Forum Mondiale della Democrazia dove più di un migliaio di persone - capi di stato, opinion maker, attivisti della società civile, rappresentanti delle imprese, del mondo accademico, dei media e dei gruppi professionali provenienti da circa cento paesi - si incontreranno per cercare di determinare in che modo le democrazie possono rispondere alle attese dei cittadini. La Carovana Antimafie ha da poco concluso le tappe nell'Europa dell'Est e riprenderà il suo viaggio già dalla prima settimana di novembre, attraverso le città francesi di Marsiglia, Nizza, Tolone, Nimes e Bastia. A Bari farà tappa la prima settimana di febbraio dove, insieme a CARTT, organizzerà cinque eventi e un workshop dedicati allo scambio di buone pratiche tra partner europei (Come la rumena Parada), focalizzandosi sulla metodologia comune contro lo sfruttamento lavorativo nel settore della cura e della pulizia domestica. Alcune informazioni utili: Alessandro Cobianchi: Dal 2008 coordina i gruppi di lavoro su campi antimafia e di educazione alla legalità democratica dell'Arci 2 Il premio Falcone: Fu istituito nel 2012 su iniziativa degli avvocati Laurent Hincker (Istituto IFRAV contro la violenza) e Roland Sanviti (Giustizia e democrazia), in memoria del giudice italiano Giovanni Falcone. Nel 2012 fu Roberto Saviano il protagonista dello stesso premio per la giustizia, lo scorso anno invece, per i diritti umani, fu scelta la televisione pubblica algerina (eptv) per i suoi 25 giornalisti uccisi, mentre il premio per la democrazia andò al 'grand reporter' francese Karim Baila per le sue inchieste. Il viaggio di Carovana: La Carovana antimafie nasce nel 1994 da un’idea dell’Arci Sicilia, con dieci giorni di viaggio da Capaci a Licata, attraversando il territorio con un percorso a tappe che, a un anno e mezzo dalle stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, si proponeva di portare solidarietà a coloro che in prima fila operavano per portare legalità democratica, giustizia e opportunità di crescita sociale nel proprio territorio, di sensibilizzare le persone per tenere alta l’attenzione sul fenomeno mafioso, di promuovere impegno sociale e progetti concreti. Sin dal primo anno si è potuto cogliere come la Carovana fosse uno straordinario strumento per animare il territorio e porre l’accento su questioni che si legano con la democrazia, la partecipazione, la lotta alle mafie. La Carovana, dal 1996 copromossa, insieme all’Arci, da Libera e Avviso Pubblico e divenuta nazionale e internazionale, è ancora oggi un viaggio per sperimentare nuove forme di partecipazione, per favorire dinamiche di coesione sociale e di produzione di beni relazionali. La lunga e partecipata Carovana internazionale antimafie continua ad essere un grande laboratorio itinerante dove l’animazione sociale sul territorio ha lo scopo di rivivificare la democrazia e contribuire a riformare la politica, puntando alla costruzione di luoghi di aggregazione, di spazi di socialità, di metodi per combattere il degrado e la marginalità sociale - terreni su cui le mafie e la criminalità prosperano – attraverso la costruzione di relazioni tra le persone e di reti comunitarie. Se il viaggio della Carovana dal 1994 non si è mai fermato, ma anzi si è arricchito di nuovi contatti, relazioni, persone e organizzazioni disponibili a condividere il percorso, è solo perché continua ad essere prezioso strumento per comunicare e costruire il cambiamento sociale. Oggi si avvale del sostegno di Cgil, Cisl, Uil e Ligue de l’enseignement. http://www.antimafiaduemila.com/2014110352170/cronache-italia/la-carovanainternazionale-antimafie-vince-il-qpremio-falconeq.html Da LaStampa.it del 03/11/14 “Moving Tff”: François Truffaut Oggi alle 15,30 in Bibliomediateca proiezione de «La calda amante» Daniele Cavalla Il cinema di François Truffaut caratterizza l’appuntamento settimanale di «Moving Tff», lunga marcia di avvicinamento al prossimo Torino Film Festival attraverso proiezioni e incontri organizzati da Altera, Arci e Tff in vari punti della città. Oggi è la Bibliomediateca Mario Gromo, via Matilde Serao 8, a ospitare alle 15,30 la proiezione del film «La calda amante» girato da Truffaut nel 1964, uno dei titoli dell’autore meno apprezzati dalla critica all’epoca. «Ho voluto fare “La peau douce” - ha detto Truffaut - per dimostrare che l’amore è qualcosa di molto meno euforico ed esaltante. L’ho fatto quindi in risposta a “Jules e Jim”: ci sono le menzogne, il lato sordido, la doppia vita. È un film da incubo.» Si narra la storia di Pierre Lachenay, direttore di una rivista letteraria e rinomato studioso, che vive a Parigi con la moglie e la figlia: durante un viaggio a Lisbona conosce una giovane hostess con cui comincia una relazione. Il cast: Françoise Dorléac, Daniel Ceccaldi, Jean Desailly, Nelly Benedetti. 3 Ingresso libero. Da Adn Kronos del 04/11/14 MODENA, I DOCUMENTARI RACCONTANO LA NOSTRA STORIA Ritorna ViaEmiliaDocFest dal 6 al 9 novembre al Teatro dei Segni, con proiezioni, incontri con i registi, dibattiti su digitale e nuova legge. Venerdì c’è Tatti Sanguineti Ci sono la Storia e la società contemporanea con le sue contraddizioni al centro della quinta edizione del ViaEmiliaDocFest, la rassegna di documentari nazionali e internazionali che si svolgerà da giovedì 6 a domenica 9 novembre al Teatro dei Segni di via San Giovanni Bosco 150 a Modena. Come in ogni edizione, al Festival modenese del cinema documentario è abbinato un concorso on line, per il quale la premiazione è in programma sabato 8 novembre alle 20.30. La rassegna riserva, ancora una volta, grande attenzione ai progetti collettivi, come nel caso di “9X10 Novanta” che racconta l’Italia attraverso le immagini dell’Istituto Luce, memoria audiovisiva storica per eccellenza, e ha tra i registi anche Alice Rohrwacher, Palma d’Oro a Cannes 2014. “I ponti di Sarajevo” è invece dedicato alla capitale bosniaca, luogo simbolico e tragico del Novecento, mentre il progetto modenese “È la mia vita in piazza Grande” ha visto al lavoro nove film maker che hanno riletto il cuore della città attraverso sguardi differenti e affrontando temi diversi. “Il festival vuole mettere a confronto le produzioni indipendenti dell’Emilia Romagna con alcune anteprime importanti – spiega il direttore artistico Fabrizio Grosoli – facendo quindi riflettere sul modo di raccontare la storia attraverso le immagini”. “Proprio grazie alla sua capacità di raccontare la società, il documentario è entrato di diritto nei canali principali del cinema – sottolinea Anna Lisa Lamazzi, presidente di Arci Modena – e da parte nostra c’è soddisfazione per un progetto che vede lavorare in rete istituzioni e associazioni e che è cresciuto raggiungendo un buon riconoscimento a livello nazionale”. “Nel documentario – commenta Gianpietro Cavazza, assessore alla Cultura del Comune di Modena – il linguaggio delle immagini intrecciato con la musica e le parole, tocca corde emotive e cognitive sviluppando capacità di critica. Ma il documentario e il cinema sono anche formazione e lavoro, come si sottolinea nella nuova legge regionale”. Durante la quattro giorni di ViaEmiliaDocFest, infatti, si discuterà della nuova legge sul cinema in Emilia Romagna oltre che dei cambiamenti nell’era digitale. Tra i protagonisti del festival il critico e regista Tatti Sanguineti (a Modena venerdì 7 novembre), Marco Bonfanti, Pietro Marcello, Francesca Ragusa (con “Avec toi sans toi”), Valerio Gnesini (con “Varvilla”), Felice Farina (con “Patria”), Giovanni Cioni (con “Per Ulisse”) ed Ermanno Cavazzoni (con “Vacanze al mare”). Domenica ci sarà spazio per i quattro corti finalisti del premio Maneki Neko Tatami Shot dell’Ozu Film Festival. ViaEmiliaDocFest è organizzato da Comune di Modena, Regione Emilia-Romagna, Arci Modena, Ucca, Pulsemdia, Kaleidoscope Factory in collaborazione con Università di Modena e Reggio Emilia (Dipartimento Studi Linguistici e culturali), ed è realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di risparmio di Modena. Il programma completo è on line ( www.modenaviaemiliadocfest.it). 4 Da TiscaliNewsdel 04/11/14 Gioco d'azzardo, stracciato dopo le polemiche l'accordo tra le concessionarie e le associazioni di G.M.B. Il titolo non è di quelli che aiutano a capire la notizia: “'Mettiamoci in gioco' lancia una nuova campagna di comunicazione”. Ma chi va a leggere il testo capisce subito quel che è successo: il protocollo d'intesa siglato con la Confindustria del gioco d'azzardo – travolto dalle polemiche – è stato stracciato. Dopo aver precisato che i contenuti di questa campagna di comunicazione erano stati “definiti fin dall'estate” (il messaggio sottinteso è che non è stata inventata per mettere una pezza sullo scandalo) il comunicato chiarisce: “Il Comitato promotore ha anche affrontato la questione relativa al protocollo d’intesa firmato con Sistema Gioco Italia di Confindustria. Si è convenuto sul fatto che l’iniziativa – mossa esclusivamente dall’intenzione di limitare i rischi del gioco d’azzardo nell’attuale contesto normativo– ha dato luogo a incomprensioni e polemiche originate anche da una gestione di tale passaggio segnata da errori e ingenuità, che non giustificano tuttavia la vera e propria opera di denigrazione che la Campagna nel suo complesso e il portavoce don Armando Zappolini hanno dovuto subire”. E più avanti: “Il protocollo con Confindustria non ha aiutato il perseguimento dei fini prefissati e va dunque accantonato, fermo restando il dialogo e la ricerca del consenso con tutti i soggetti politici e sociali per arrivare a un sistema di regolazione e cura moderno ed efficace per tutta la società”. Finisce così una vicenda che nelle ultime settimane ha creato tensioni enormi tra le associazioni che lottano contro il gioco d'azzardo. Al comitato 'Mettiamoci in gioco' aderiscono tutte le più importanti: i sindacati confederali, l'Arci, le Acli, la Federconsumatori, Libera, l'Azione Cattolica, il gruppo Abele e molte altre ancora. Quando lo scorso 16 ottobre emersa la notizia del 'protocollo d'intesa' con Sistema Gioco Italia lo scandalo fu immediato. Soprattutto perché, tra i vari punti dell'accordo, ce n'era uno che riguardava una nuova denominazione del gioco d'azzardo: “Gioco con alea con posta in denaro”. Una denominazione ipocrita e fuorviante, giustificata con un argomento privo di fondamento: che per la legge italiana l'espressione “gioco d'azzardo” si riferisca solo a quello illegale. In realtà – ha sottolineato monsignor Alberto D'Urso, segretario della Consulta Nazionale Antiusura polemizzando direttamente con don Armando Zappolini, il coordinatore di 'Mettiamoci in gioco' – una sentenza della Corte costituzionale risalente al 1975 usa l'espressione 'giuoco d'azzardo' per stabilire che in questo settore il nostro ordinamento non riconosce la libertà d'impresa (e infatti le concessioni sono accordate dallo Stato) e non per definire il gioco illegale. Secondo D'Urso, facendo propria quella definizione edulcorante, 'Mettiamoci in gioco' finiva col relegare il problema ai casi patologici di dipendenza negando che esso derivi “dal complesso di sofferenze e disfunzioni che riguardano l'intera società italiana, nelle sue differenti sfere: dei rapporti economici, culturali, interpersonali, familiari, educativi”. La tesi secondo cui il gioco d'azzardo “non fa male”, ma fa male solo il suo abuso (come se il suo abuso non fosse anche determinato dalle modalità attraverso cui il gioco è proposto) è esattamente la tesi delle concessionarie, una lobby fortissima in grado di incidere sulle decisioni della politica. Nella nota – per ribadire che l'incidente dell'accordo non ha in alcun modo modificato le sue posizioni – 'Mettiamoci in gioco' segnala “Le difficoltà che la legge quadro sul gioco d’azzardo sta incontrando in Parlamento 5 confermano la forza delle lobby che si oppongono a una qualsiasi forma di regolamentazione e regolazione di questo settore”. Tuttavia, si precisa, “un’interlocuzione con tutti i soggetti coinvolti è necessaria sulla base dei valori che ci hanno contraddistinto in questi anni, per tentare di limitare i danni dell’azzardo nella situazione attuale”. Insomma, il protocollo è stracciato, ma il confronto con le concessionarie continua. 6 ESTERI Del 4/11/2014, pag. 8 L’asse con al-Nusra spinge in avanti il califfato Iraq/Siria. A Diyarbakir cresce il sostegno a Kobane, insieme alla repressione turca. I qaedisti avanzano a Idlib e minacciano la frontiera tra Siria e Turchia. Attentati dell'Isis a Baghdad durante l'Ashura sciita Chiara Cruciati, DIYARBAKIR Il sole tramonta, la tensione sale. Nella città vecchia di Diyarbakir succede ormai quasi ogni sera, dal 7 ottobre scorso quando scoppiò la rabbia kurda per l’apatia di Ankara verso Kobane. «Non si passa, la polizia ha chiuso la strada», ci dice un’anziana signora mentre accende un fuoco nella piccola piazza a ridosso delle mura. Qualche scaramuccia, i poliziotti che intervengono e chiudono con le transenne e un paio di auto l’ingresso in città vecchia. Dopo mezz’ora torna la calma. «Durante i giorni di coprifuoco, all’inizio di ottobre, la situazione era esplosiva – racconta al manifesto Bilal, attivista del movimento politico kurdo – La polizia lanciava i lacrimogeni nelle case, la notte non si dormiva. Da allora il governo ha dato piena autorità ai poliziotti: lo chiamano ‘ragionevole sospetto’. Se ritengono che possano esserci proteste, hanno mano libera. Ne approfittano per provocare la gente e avere poi la scusa per reprimere: chiudono le strade, fermano qualche giovane, perquisiscono le abitazioni». Nei discorsi di tutti resta però una parola fissa: Kobane. Nelle tv la metà dei notiziari è dedicata alla battaglia al di là della frontiera, alla radio passano canzoni che celebrano il Kurdistan unito. La solidarietà per i combattenti kurdi in Siria è forte e aumenta proporzionalmente alla durata dell’assedio islamista. Che ieri ha ottenuto ulteriore sostegno: il Fronte al-Nusra, formazione qaedista oggi vicina all’Isis, si è ammassato nella cittadina di Sarmada, a soli 6 km dallo strategico passaggio di frontiera di Bab al-Hawa tra Siria e Turchia. L’eventuale presa di Bab al-Hawa avrebbe conseguenze nere per la coalizione guidata dagli Usa che da quella frontiera ha finora sostenuto le opposizioni moderate al regime di Assad. La situazione volge al peggio soprattutto dopo la presa da parte di alNusra di un’altra città, Khan al-Subul, e di altri villaggi nella provincia nord-occidentale di Idlib, prima in mano ai moderati del movimento Hazm e dell’Esercito Libero Siriano, che già la scorsa settimana aveva perso il controllo di alcune comunità a favore dei qaedisti. Insieme ai villaggi, al-Nusra si è impossessato anche di armi consegnate ai gruppi antiAssad da Washington, tra cui missili anti-carro. Se questo è il sostegno di cui gode il califfo, quello a favore di Kobane è minimo: i 150 peshmerga sono troppo pochi e resteranno – come detto dal primo ministro del Kurdistan iracheno, Nechervan Barzani – solo «temporaneamente» a sostegno della resistenza di Rojava. Nessun ruolo politico futuro, ha messo in chiaro il premier, nessun successivo discorso unitario. A Diyarbakir qualcuno storce il naso: c’è chi addirittura sostiene che un gruppo di peshmerga abbia approfittato del viaggio in Turchia per disertare, altri li chiamano «inutili cowboy con i Ray Ban». Non faranno la differenza, soprattutto contro il potenziale militare islamista. Tra le file militari kurde, ha aggiunto poi Barzani, ci sono anche peshmerga contrari all’avventura siriana e che vorrebbero concentrarsi sulla ripresa delle città occupate in Iraq, lamentando l’assenza del governo di Baghdad. Il premier al-Abadi vive un periodo nero: i massacri contro le comunità sunnite che si sono sollevate contro l’Isis proseguono con numeri 7 senza precedenti insieme agli attacchi suicidi. Ieri un’autobomba è esplosa nel quartiere sciita di Sadr City, nella capitale, uccidendo 23 persone durante la tradizionale processione al-Husseiniya della settimana dell’Ashura, festa religiosa sciita. Domenica un’altra marcia era stata target a sud di Baghdad: 31 morti. Entrambi gli attacchi sono stati rivendicati dall’Isis che ha celebrato sul web gli attentatori definendoli «eroi dell’Islam». Ma nel mirino del califfato non ci sono solo gli «apostati» sciiti. Ci sono anche i sunniti, quelli che hanno preso le armi contro l’avanzata islamista. Dopo le stragi della scorsa settimana nella provincia di Anbar, di nuovo bersaglio è la tribù di Albu Nimr: oltre 200 i civili – donne, uomini, bambini – giustiziati in pochi giorni. Numeri capaci di far tremare qualsiasi governo, tanto più quello di Baghdad ad oggi incapace di difendere la popolazione, sunnita e sciita. Del 4/11/2014, pag. 1-8 La guerra al buio così il Califfo spegne la voce dei giornalisti THOMAS L. FRIEDMAN LO STATO Islamico ha associato alla brutale conquista di ampie porzioni di Iraq e Siria il rapimento e la decapitazione di giornalisti. Qualunque giornalista osi avventurarsi nel territorio dell’Is rischia la vita ogni secondo. Così gli Usa sono oggi impegnati nel primo conflitto prolungato nel moderno Medio Oriente che i reporter e i fotografi americani non possono seguire in prima battuta quotidianamente, liberi di osservare e scrivere a proprio piacimento, offrendo con la loro continua presenza sul territorio una prospettiva sull’evolversi della situazione. Questo non è un bene. Ma c’è di peggio. Il New York Times ha rivelato la settimana scorsa che l’Is ha usato un ostaggio britannico nel ruolo di corrispondente di guerra dalla città siriana di Kobane per «pronosticare la caduta della città nelle mani dei militanti nonostante i raid aerei americani», a testimonianza di una cresciuta abilità dello Stato Islamico nel promuovere la propria causa adottando le tecniche dei notiziari televisivi. «Salve, sono John Cantlie », dice l’ostaggio nel video, vestito di nero, «ci troviamo nella città di Kobane, al confine tra Siria e Turchia. Alle mie spalle, appunto, c’è la Turchia». E andrà ancora peggio. Dylan Byers, esperto di media della rivista Politico , ha scritto il 23 ottobre che l’Fbi ha avvertito le testate giornalistiche che l’Is ha identificato giornalisti e personaggi mediatici come «obiettivi legittimi di rappresaglie» in reazione ai raid aerei guidati dagli Usa. Non avere giornalisti costantemente presenti sul territorio dell’Is è una grossa perdita. Significa non poter dare una nostra risposta a interrogativi importanti: che impatto hanno i nostri bombardamenti? Portano i combattenti dell’Is e i sunniti iracheni ad unirsi o sono fonte di divisione? Come governa lo Stato Islamico? Come funzionano le scuole e il sistema giudiziario? Che percezione ne hanno gli iracheni e i siriani? Cosa spinge tanti disperati ad aderire a questo movimento jihadista? Stiamo dando loro il giusto messaggio? E potrei andare avanti ancora. Il vicesegretario di Stato Bill Burns ha dispensato alcuni consigli ai diplomatici americani in un articolo scritto per la rivista Foreign Policy . Citando Edward R. Murrow, il gigante della Cbs News , ha ammonito che «l’anello davvero importante nella catena della comunicazione internazionale è la distanza che si può coprire col contatto personale — parlandosi». Lo stesso vale per i giornalisti e i fotografi. Certo, i sondaggi, i grafici e i tweet sono importanti. Sono informazioni e dati importanti anche quelli. Ma intervistare un altro essere umano su quelle che sono le sue speranze e i 8 suoi sogni, su ciò che teme e ciò che odia, è a sua volta un modo di raccogliere e analizzare dati: è quello su cui si basano i migliori diplomatici, giornalisti e storici. Non si possono tradurre in cifre uno sguardo perplesso o stupito, un sorriso tirato, la paura negli occhi di un profugo o il rammarico nella voce di un miliziano. A volte un silenzio parla più di mille parole. Spesso ripenso alle interviste che feci in un seggio riservato alle donne nel quartiere più povero del Cairo nel 2012, durante le elezioni che portarono alla presidenza un leader dei Fratelli Musulmani. Quasi tutte le intervistate avevano votato per Mohammed Morsi, ma come motivazione nessuna di loro adduceva la religione. Dicevano invece che Morsi avrebbe portato posti di lavoro, sicurezza, marciapiedi, migliori condizioni di vita e avrebbe posto fine alla corruzione — in breve, avrebbe governato meglio. Morsi è stato poi cacciato perché non ha portato nulla di tutto questo, non a motivo della sua irreligiosità. Recentemente Vice News ha incaricato il fotoreporter Medyan Dairieh, veterano di Al Jazeera, di realizzare dalla Siria un avvincente documentario, dal titolo “Lo Stato Islamico”. Ma il direttore, Jason Mojica, ha dichiarato ad una tavola rotonda alla New York University che si è trattato di un’iniziativa una tantum, con garanzia che il giornalista «potesse tornare sano e salvo». Ho chiesto alla giornalista Mina al-Oraibi, vice direttore di Asharq Al-Awsat, testata con sede a Londra, in che modo un quotidiano arabo segue l’Is. «Abbiamo dei corrispondenti supportati da pochi freelance locali che rischiano la vita per essere in contatto con noi dall’Iraq. Tuttavia dalle zone controllate dall’Is in Siria, soprattutto Raqqa, è blackout. L’uso dei telefoni e della posta elettronica in Iraq è problematico per la sicurezza dei collaboratori, che spesso lavorano senza sapere come verranno poi pagati… A parte questo, per la copertura ci avvaliamo di reti di iracheni e siriani che ci raccontano le loro storie, oltre ad avere contatti con iracheni, siriani ed altri arabi che hanno interagito con i combattenti dell’Is o avevano rapporti con loro quando militavano sotto altre bandiere ». Ma in realtà, ha aggiunto, «quello che sappiamo ci viene in gran parte o dai militanti dell’Is o dai racconti di osservatori o di persone che hanno familiari nelle località controllate dallo Stato Islamico». A dire il vero l’Is ci dice quello che vuole che sappiamo attraverso Twitter e Facebook, nascondendoci quello che non vuole farci sapere. Quindi attenzione a cosa vi raccontano su questa guerra, che ne parlino bene, male o con indifferenza. Senza un giornalismo indipendente sul campo ci aspettano delle sorprese. Se non vai, non sai. Del 4/11/2014, pag. 8 Bagnasco a Gaza: «Vedo una terra che vuole vivere» Striscia di Gaza. Il presidente della Conferenza episcopale italiana ha ribadito l'impegno della Chiesa contro la guerra e a favore della realizzazione delle aspirazioni palestinesi. Domenica a Qalandiya ferita una volontaria italiana dell'Ism Michele Giorgio, GERUSALEMME Quella del cardinale Angelo Bagnasco ieri a Gaza è stata una visita che supera il gesto simbolico verso una terra martoriata e l’impegno, affermato dal Vaticano, a favore delle vittime della guerra. Perchè Gaza in questi giorni è tornata sotto un assedio pieno, con Israele ed Egitto che tengono chiusi i valichi di frontiera in faccia ai palestinesi. E perchè giunge in un momento in cui lo scontro tra israeliani e palestinesi si sta facendo ancora più 9 duro e il governo Netanyahu stringe la morsa per spegnere le proteste palestinesi a Gerusalemme prima che l’incendio si propaghi al resto dei Territori occupati. L’esecutivo Netanyahu ha approvato un emendamento al codice penale che prevede fino a 20 anni di reclusione per i palestinesi che lanceranno sassi in segno di protesta contro civili e militari israeliani. E’ una misura punitiva, ampiamente sproporzionata rispetto al “reato” e che rappresenta una reazione alle proteste palestinesi in corso da giorni e che domenica hanno visto anche una italiana nell’elenco dei feriti degli scontri. Si tratta di una 28enne, Giulia, volontaria dell’International Solidarity Movement (Ism), ferita al volto (pochi centimetri sopra l’occhio sinistro) e alla gamba da proiettili di gomma sparati dai soldati israeliani durante scontri al posto di blocco di Qalandiya. La volontaria, che ha preferito non rivelare la sua piena identità, è stata curata all’ospedale di Ramallah dove i medici hanno dovuto suturare la ferita con 6–7 punti. «Ero con altri attivisti sul lato della strada – ha raccontato Giulia — mentre fotografavo l’esercito che sparava gas lacrimogeni ai manifestanti, quando ho sentito un colpo alla gamba e uno alla testa: a quel punto tutto quello che riuscivo a vedere era sangue». La volontaria, che ha preferito non rivelare la sua piena identità, è stata curata all’ospedale di Ramallah dove i medici hanno dovuto suturare la ferita con 6–7 punti. «Vedo una terra sofferente, ma con tanta voglia di vivere…Siamo qui per ribadire solidarietà e ricordare che tutti hanno diritto a vivere in pace», ha detto il cardinale Bagnasco giunto a Gaza con il segretario della Cei mons. Nunzio Galantino, e i tre vicepresidenti della Conferenza episcopale: il cardinale arcivescovo di Perugia Angelo Bassetti, l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia e il vescovo di Aversa Angelo Spinillo. La delegazione ha fatto visita alla scuola del Patriarcato latino. Si tratta una delle tre scuole cattoliche di Gaza che hanno subito danni nell’offensiva militare israeliana della scorsa estate (“Margine Protettivo”), già riparati grazie a donazioni per 150 mila dollari, per permettere ai ragazzi iscritti di tornare subito sui banchi. Bagasco è poi andato all’ospedale giordano, ha incontrato il vescovo Alexios della comunità greco-ortodossa e ha officiato una messa nella parrocchia della Sacra Famiglia. «Essere qui per la Chiesa italiana significa assumersi degli impegni che non sono solo di preghiera ma anche di vicinanza e di solidarietà concreta e immediata», ha aggiunto da parte sua il segretario della Cei mons. Galantino. Stamattina la delegazione della Cei si recherà a Sderot, la città israeliana verso la quale le fazioni armate palestinesi hanno indirizzato una parte consistente dei razzi sparati da Gaza la scorsa estate. Gli Stati Uniti intanto hanno di nuovo condannato l’espansione degli insediamenti colonici nella zona araba di Gerusalemme, dopo l’annuncio che la Commissione edilizia del ministero dell’interno israeliano ha approvato il piano per 500 nuove abitazioni a Ramat Shlomo. A fine ottobre Netanyahu aveva dato il via libera a un piano complessivo di 1.060 case da costruire nelle colonie di tra Ramat Shlomo e Har Homa. Washington manifesta insofferenza verso la politica di Netanyahu e critiche al premier arrivano anche dai vertici militari e dei servizi segreti. Ieri si è appreso che 106 tra generali, ex direttori del Mossad e funzionari di polizia, tutti in pensione, hanno sottoscritto una lettera in cui chiedono a Netanyahu di cominciare ”un’iniziativa diplomatica” per un accordo con i palestinesi. Secondo la lettera — citata da Canale 2 della tv — Israele ha forza e mezzi per raggiungere un accordo con la soluzione a due Stati senza rischi per la sicurezza. Intesa finora non raggiunta, sottolineano, a causa della debole leadership. del 04/11/14, pag. 10 Obama prepara già la controffensiva 10 Oggi il voto di Midterm che potrebbe portare i repubblicani a controllare il Senato Ma il presidente è pronto a governare a colpi di decreti per il resto della legislatura DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK L’America oggi al voto di Midterm: repubblicani galvanizzati, convinti di conquistare anche il Senato, oltre a consolidare la loro maggioranza alla Camera. Democratici sulla difensiva anche se, con Barack Obama sotto attacco, è il suo vice Joe Biden a suonare la carica nelle ore della vigilia: «Sono convinto che non perderemo il controllo del Senato». Come finirà dovremmo saperlo entro poche ore, ma non è detto che le cose vadano in questo modo. Il controllo di quest’Aula (nella quale i repubblicani oggi hanno 47 senatori su 100) potrebbe giocarsi su un seggio o due. E in due casi — Louisiana e Georgia — è probabile che si vada al ballottaggio: le norme di questi due Stati prevedono, infatti, una nuova votazione (in un caso a dicembre, nell’altro addirittura a gennaio) se nessun candidato raggiunge il quorum del 50 per cento. In Kansas e South Dakota, poi, a spuntarla potrebbe essere un candidato indipendente che potrebbe anche non schierarsi con uno dei due partiti maggiori. Qualunque sia l’esito delle elezioni, comunque, difficilmente verrà superato il «muro contro muro» che negli ultimi anni ha pressoché paralizzato l’attività legislativa. Le analisi sono, quindi, già proiettate sulle prossime mosse di un presidente che certamente non vuole ritrovarsi con le mani legate negli ultimi due anni del suo mandato alla Casa Bianca. Le voci che vengono dal team di Obama parlano di un leader amareggiato, convinto di non aver potuto governare efficacemente per i gravi malfunzionamenti di un sistema istituzionale che lui non ha avuto la forza politica di riformare. Amareggiato ma, comunque, deciso, dopo il voto e un lungo viaggio in Asia e in Australia per una serie di vertici internazionali, a lanciare una controffensiva: il presidente intenderebbe utilizzare i suoi poteri esecutivi per varare una raffica di interventi in materia di immigrazione (una sorta di sanatoria per una parte, almeno, dei lavoratori clandestini), di investimenti in infrastrutture pubbliche e di asili-nido: una misura sociale, quest’ultima, a favore delle famiglie meno abbienti, a cominciare da quelle con donne lavoratrici, che non possono pagarsi il kindergarten privato. Non un’agenda particolarmente ambiziosa, come si vede, ma i repubblicani, che fin qui sono riusciti a bloccare qualunque mossa del presidente, già minacciano di trattarlo da golpista se proverà ad adottare misure di forte impatto senza passare dal Parlamento. Il team di Obama (un gruppo sempre più ristretto e compatto di assistenti e consiglieri, mentre continua l’emorragia dei collaboratori «storici» andati a fare altri mestieri o, come nel caso di John Podesta, in procinto di passare alla squadra elettorale che verrà costituita da Hillary Clinton per le Presidenziali del 2016), è, però, convinto che la legge lasci al presidente ampi poteri d’intervento nei campi scelti per il «blitz autunnale». Molto dipenderà da come questi interventi verranno concepiti: se, ad esempio, la Casa Bianca varerà una vera sanatoria per i clandestini, anche se parziale, scatterà sicuramente l’accusa di abuso di potere. Una misura più limitata, come la rinuncia a deportare chi vive negli Usa da un certo numero di anni o ha studiato nel Paese, passerebbe per un altro pannicello caldo. L’altro vincolo di Obama è quello dei tempi: nella migliore delle ipotesi, il presidente avrà ancora margini di manovra politica per poco più di sei mesi, fino all’inizio dell’estate 2015. Da allora in poi sarà tutto concentrato sulla campagna per le Presidenziali 2016. M. Ga. 11 Del 4/11/2014, pag. 14 Così Facebook “controlla” le scelte degli americani FABIO CHIUSI ANCHE quest’anno, come avviene dal 2008, Facebook fornirà la possibilità di dire ai propri amici sul social network “ho votato” tramite un apposito badge. Quattro anni or sono, ha scritto un team di ricercatori su Nature, il badge servì a portare 340 mila elettori in più alle urne. Ciò che finora non sapevamo è che gli studi sui dati di Zuckerberg non si sono limitati a ritocchi nella presentazione di quello che Facebook chiama “megafono dei votanti”. Come scrive su Mother Jones il co-fondatore di Personal Democracy Media, Micah Sifry, gli esperimenti hanno riguardato anche il flusso di notizie di ben 1,9 milioni di utenti della piattaforma. A tre mesi dalle elezioni Usa del 2012, infatti, il filtro che seleziona cosa vediamo sul social network è stato modificato per far sì che ciascuno di loro avesse in cima ai contenuti proposti notizie di attualità, così da rendere «molto più probabile» vederle. Risultato? Un «aumento statisticamente significativo nell’attenzione che gli utenti sostengono di avere prestato al governo», tradottosi in un incremento (auto-dichiarato) nell’affluenza dei partecipanti dal 64 al 67%. Niente di male, si dirà. E infatti, Facebook lo sostiene. Il problema è che Sifry lo ha scoperto a partire dal video di un incontro pubblico tenuto da una data scientist di Zuckerberg, Lada Adamic, e che da quando gliene ha chiesto conto quel video è stato rimosso. Facebook sostiene per consentire al collega che ha computato i risultati, Solomon Messing, di pubblicarne uno studio accademico nel 2015. Ma per Sifry «era come se Facebook non volesse che gli utenti sapessero che aveva alterato il loro feed di notizie a questo modo». Non sorprende, dopo la sollevazione globale seguita alla rivelazione, lo scorso giugno, che gli esperimenti si spingono fino alla manipolazione delle nostre emozioni. Eppure quando è in gioco la possibilità di alterare l’esito elettorale una maggiore trasparenza sarebbe d’obbligo. Specie ora che Facebook dichiara l’intenzione di fare data mining, ossia analisi statistiche di grandi quantità di dati per estrarvi conoscenze utili, per scoprire le reazioni e gli atteggia- menti degli utenti «su determinati candidati o temi». Il tutto, pur se aggregato e anonimizzato, anche «per genere e luogo», così da comprendere cosa pensino gli elettori di determinati candidati in regioni chiave o su temi particolarmente caldi su base locale. I risultati saranno condivisi con Abc News e BuzzFeed, ma al fondo si tratta di altre informazioni preziose che Facebook potrebbe usare, se lo volesse, per promuovere una forza politica a discapito delle altre. L’aspetto più inquietante è che lo potrebbe già fare, e noi — utenti e pubblico — non avremmo altro modo di saperlo che fidandoci di Zuckerberg. A nostra insaputa, e potenzialmente perfino alla sua: già oggi, nota Sifry, il badge «non è un meccanismo neutrale per chiamare al voto» perché «la base di utenza di Facebook è inclinata verso i democratici». Ma il problema, si diceva, è la trasparenza. E non bastano il mea culpa e le cautele aggiuntive promesse a inizio ottobre dal Chief Technology Officer, Mike Schroepfer. Perché certo, nuove linee guida più severe per i ricercatori, l’aiuto di un team di ingegneri, legali ed esperti di privacy per scrutinare i progetti di ricerca proposti, sei settimane di formazione obbligatoria e un sito dove pubblicare tutte le ricerche prodotte sono tutte misure benvenute. Ma ciò che manca da quello scenario siamo noi, gli utenti, e il nostro pieno e informato consenso a diventare soggetti sperimentali. Dice bene la sociologa Zeynep Tufekci, su Twitter: «Ogni volta che viene condotto un esperimento o un test che può influenzare l’esito delle elezioni, deve essere reso 12 pubblico». Non solo: «C’è bisogno di una divulgazione più tempestiva degli esperimenti di Facebook e dei loro effetti». Finora marginali, è vero, ma non per questo meno degni di una approfondita discussione pubblica. Un maggiore silenzio in risposta a rivelazioni come quella di Sifry, prosegue Tufekci, «sarebbe sbagliato e non farebbe che creare ulteriori preoccupazioni in ogni caso». Ingiustificate, per ora. Ma se vogliamo che la Rete diventi un luogo di maggiore, e non minore, democrazia, la questione non può essere lasciata all’arbitrio dei data scientist di un social network. Del 4/11/2014, pag. 7 Elezioni nel Donbass: regolari e democratiche Ucraina. Il neo ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni: «Non riconosciamo il voto» Fabrizio Poggi Nessuna sorpresa: dalle elezioni delle regioni ribelli ucraine, escono confermati dal voto gli attuali «facenti funzione« di leader delle due Repubbliche, Aleksandr Zakharcenko e Igor Plotnitskij. Zakharcenko ha raccolto più di 765mila voti (oltre l’80%), contro i circa 112mila del vice Presidente del parlamento di Novorossija Aleksandr Kofman e i 93mila del deputato del Soviet repubblicano Jurij Sivokonenko. Per Plotnitskij hanno votato oltre 445mila elettori (63,8%); gli altri due candidati a Lugansk hanno raccolto rispettivamente il 10 e il 7,2%. Per quanto riguarda le liste, vincitrice «Repubblica di Donetsk», capeggiata da Zakharcenko, votata da poco meno di 663mila elettori; «Pace a Lugansk» capeggiata da Plotnitskij, ha raccolto il 70% dei consensi. Roman Ljaghin, Presidente della Commissione elettorale centrale di Donetsk, ha dichiarato che questa non cercherà il riconoscimento del voto: «Kiev deve mettersi l’animo in pace: il Donbass non fa più parte dell’Ucraina. Questo è un’assioma». Attesa per oggi la cerimonia di insediamento di Zakharcenko. Ma i dati numerici non rendono probabilmente conto della partecipazione popolare alla elezione dei deputati e dei Presidenti delle due Repubbliche. Le code — alcune di diverse centinaia di metri — fuori dai seggi che hanno «scioccato» (termine ripetuto per l’intera domenica dai canali televisivi russi) gli osservatori stranieri, testimoniano della volontà di partecipazione e, al tempo stesso, una risposta a Kiev, Washington, Ue e Osce che, mentre continuano a esaltare la «democraticità« del voto del 26 ottobre per la Rada suprema, rifiutano di riconoscere questo del 2 novembre nel Donbass, considerato invece valido da Mosca. Se Kiev ha intenzione di dichiarare «persona non grata» gli oltre 70 osservatori stranieri (italiani, cechi, tedeschi, americani, russi, austriaci, greci, serbi, bulgari, ecc.), questi, da parte loro, hanno rilevato la perfetta organizzazione, la democraticità e legittimità della consultazione, esprimendo il parere che «non la guerra sia la strada da seguire, ma la federalizzazione dell’Ucraina». «Ho visto persone felici di andare a votare e orgogliose di farlo. Il sistema di voto è stato assolutamente legittimo e corrispondente alle norme della democrazia», ha dichiarato alla Tass l’eurodeputato italiano Fabrizio Bertot. Il voto si è tenuto in una giornata tranquilla – il vice premier della Repubblica di Donetsk Andrej Purghin, intervistato da Rossija 24, ha attribuito il silenzio delle artiglierie di Kiev alla presenza degli osservatori stranieri – e sono stati liquidati senza difficoltà un paio di tentativi di infiltrazione da parte di sabotatori equipaggiati con armi pesanti. L’età minima per votare era di 16 anni; esclusi dal voto i miliziani affluiti nel Donbass da altre regioni, mentre a quelli impegnati in prima linea, i seggi sono stati portati direttamente sul fronte. Alcune decine di migliaia di profughi hanno votato nei seggi allestiti nelle regioni confinanti russe di Rostov sul Don, Voronezh e Belgorod. Sventati vari tentativi di hacker ucraini di interferire sul voto 13 elettronico. Il commento del Ministero degli Esteri russo, riportato dalla Tass, è stato che gli eletti nel Donbass hanno ricevuto dagli elettori un mandato per il ripristino della pace, sottolineando la necessità di intraprendere passi concreti per il dialogo tra Kiev e i rappresentanti delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, sulla scia degli accordi di Minsk. Nella mattinata di ieri le artiglierie di Kiev hanno ricominciato a bombardare Donetsk e nel Donbass non si smette di temere l’inizio di un’offensiva governativa, dopo il sensibile spostamento a destra dello schieramento politico uscito vincitore il 26 ottobre. Uno schieramento che, come dichiarato dal Segretario del Pc ucraino Petr Simonenko, ha ancora all’ordine del giorno un passo tanto politicamente reazionario quanto psichiatricamente assurdo, la messa fuori legge dell’ideologia comunista. Nessuna sorpresa dall’Italia: al contrario di quanto avvenuto nel recente passato — Kosovo dice niente? — Roma, per bocca del neo ministro degli esteri Gentiloni, ha specificato di non riconoscere le elezioni del Donbass. del 04/11/14, pag. 12 I libri di scuola dati in appalto all’amico di Putin «Purga» in Russia contro i testi scolastici MOSCA Vladimir Putin aveva pensato addirittura a un solo libro di testo per ogni materia. Questo per tutti i 14 milioni di studenti sparsi in 43 mila scuole russe. Alla fine però si è deciso «semplicemente» di ridurre il numero dei manuali e di accertarsi che tutti seguano le direttive dello Stato: un «singolo standard storico-culturale», basato sui «Fondamenti della politica culturale statale» elaborati dal ministero per la Cultura. Tanto per capirci, concetti che implicano il rifiuto dei punti di vista «liberali dell’Occidente» e che ribadiscono il principio che «la Russia non è Europa». Benvenuti nel nuovo sistema scolasticoeducativo. La storia, soprattutto, va trattata con grande attenzione. Nei frenetici, caotici ma liberi anni Novanta si era proseguito con la demolizione della figura di Stalin che, in fin dei conti, aveva pur sempre edificato l’Unione Sovietica. E visto che il presidente russo ebbe a definire lo scioglimento dell’Urss «una delle più grandi catastrofi del Ventesimo secolo», non c’è da sorprendersi se del Piccolo Padre, dei suoi massacri e delle sue deportazioni si parla ora in maniera un po’ diversa. In un recente testo si afferma che il Grande Terrore degli anni Trenta (con milioni di persone deportate e trucidate) fu attuato perché Stalin «non sapeva chi avrebbe assestato il prossimo colpo, e per questa ragione attaccò ogni gruppo e ogni movimento». Il manuale include istruzioni per gli insegnanti: «È importante mostrare che Stalin agiva in una situazione storica concreta». In un’altra «Storia della Russia» scritta da due accademici, si afferma che quei milioni di cittadini colpiti «costituivano una potenziale quinta colonna che non era affatto immaginaria». Libri attentamente selezionati, dunque. Ma a chi affidare il compito? Come è spesso avvenuto in questi anni, nelle vicende più spinose sono sempre comparsi personaggi legatissimi al presidente russo. Nel caso specifico colui che sembra destinato a diventare il supercontrollore delle nuove generazioni è Arkadij Rotenberg, compagno di judo di Vladimir Vladimirovich dall’età di 14 anni, ricco costruttore, finito nella lista dei personaggi sottoposti a sanzioni in Usa ed Europa. In Italia gli sono state sequestrate due ville in Sardegna e un albergo a Roma. 14 Rotenberg è riuscito a mettere le mani (per quattro soldi) su quella che era l’unica casa editrice sovietica, la Prosveshcheniye (istruzione), che oggi è il principale editore scolastico. I libri di tutti gli altri vengono bloccati con una scusa o con l’altra. E così rimangono solo i testi «giusti» della Prosveshcheniye. Ma non si epurano solo i manuali di storia. Via, ad esempio, un libro che illustrava problemi di matematica parlando di Biancaneve. E in letteratura il prossimo obiettivo potrebbe essere Aleksandr Solzhenitsyn che, secondo il direttore della famosa Literaturnaya Gazeta Yurij Polyakov, non andrebbe più studiato, visto che emigrò «volontariamente» in America. Il suo Arcipelago Gulag che descrive gli orrori dei lager, poi, «è ben lontano dai dati della scienza storica e del buon senso». Fabrizio Dragosei del 04/11/14, pag. 13 La Germania Est torna «rossa» E si riapre il dibattito sulla Ddr Gli eredi dei comunisti lanciati verso la guida del Land della Turingia DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO Il gioco della politica sembra voler beffare le ragioni della Storia nella Germania che celebra questa settimana il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro. La Repubblica democratica tedesca, il regime che dominava ossessivamente le vite degli altri, è certamente ancora ben presente nell’immaginario collettivo. Sarebbe strano il contrario, in un Paese che ha vissuto ferite così recenti. Ma in questi giorni di cerimonie e ricordi, il suo fantasma recita un ruolo da protagonista, ben al di là della rievocazione della libertà riconquistata in quel novembre 1989 e in una prospettiva diversa rispetto al mercato ingenuo della nostalgia. Questo spettro che si aggira per la Germania ha un nome e cognome. Si chiama Bodo Ramelow, l’ex sindacalista che sta per diventare, salvo sorprese, il primo governatore di un Land appartenente alla Linke, il partito che ha parzialmente raccolto l’eredità dei comunisti dell’Est. Che tutto questo non sia un episodio marginale, legato alla dialettica futile della cronaca politica, lo ha dimostrato l’intervento del presidente Joachim Gauck. L’ex pastore evangelico e militante dei diritti umani ha detto chiaramente, come del resto è abituato, che le persone della sua età che hanno vissuto nella Ddr trovano molto difficile accettare quanto sta accadendo in Turingia. Si è chiesto se la Linke abbia realmente preso le distanze dalle idee in nome delle quali i suoi predecessori hanno oppresso la popolazione e si è domandato se sia possibile averne oggi fiducia. Ha dato un forte scossone un po’ a tutti, insomma, mentre a Berlino si preparano i palloncini luminosi che segneranno il percorso del Muro e verranno liberati in cielo nel giorno che ricorda la fine delle divisioni. Gli interrogativi provenienti dallo Schloss Bellevue, densi di passione e meno di diplomazia istituzionale, hanno provocato l’indignazione dei diretti interessati, il plauso dei conservatori, i rispettosi dissensi dei socialdemocratici. Fedele ad Angela Merkel nella grande coalizione, la Spd ha deciso infatti di entrare in un governo «rosso-rosso-verde» nel Land di Goethe e Schiller, scalzando dal potere i cristiano-democratici ed alleandosi con la Linke, arrivata seconda nelle elezioni con il 28 per cento dei voti. I risultati della consultazione con gli iscritti sono attesi per oggi. Va comunque detto che Ramelow, personalmente, non ha niente a che vedere con l’armamentario ideologico di una consistente ala del suo partito. Viene da Ovest e non ha radici nel mondo che altri suoi 15 compagni, come Gregor Gysi o Sahra Wagenknecht, hanno attraversato ripensando poi parzialmente il valore di quell’esperienza. E’ un interprete di quella voglia di sicurezza sociale che anima molti elettori dei nuovi Länder. Ma il problema del giudizio sulla Germania comunista e della affidabilità dei suoi eredi, veri o presunti, non è esploso improvvisamente con il successo della rivoluzione guidata da Ramelow. Già nelle settimane scorse, sempre partendo dalla Turingia, si era aperto un dibattito sulla definizione, respinta da Gysi, della Ddr come «stato ingiusto». Secondo il presidente della Linke, che ha però riconosciuto le «ingiustizie» del regime, se la Repubblica democratica tedesca viene descritta in questo modo «si sostiene anche che solo le potenze occidentali avevano il diritto di fondare la Repubblica federale, mentre l’Unione Sovietica non aveva lo stesso diritto». Molte le reazioni negative. Anche in questo caso è arrivata un netta presa di posizione del presidente Gauck, che ha parlato di «uno Stato totalitario senza un sistema giudiziario indipendente». L’ex pastore vuole sconfiggere i fantasmi. L’anniversario del 9 novembre servirà anche a questo. Del 4/11/2014, pag. 6 Podemos irresistibile, primo partito in Spagna A sinistra. Sorprendente sondaggio commissionato da «El Paìs»: in testa con il 27,7%. Nato sulla scia del 15M, il movimento di Pablo Iglesias è già in grado di aprire una breccia nel bipartitismo iberico Giuseppe Grosso, MADRID <<Conquistare il centro dello scenario politico». Aveva puntato in alto il leader di Podemos, Pablo Iglesias, durante l’assembla costituente che, solo due settimane fa, ha sancito la metamorfosi della formazione da movimento a partito. E ha colto nel segno: lo confermerebbero i sondaggi sulle intenzioni di voto che il País ha commissionato all’istituto di statistica Metroscopia, secondo i quali Podemos sarebbe la prima forza politica a livello nazionale con il 27,7% di consensi. Un risultato prodigioso, soprattutto per una formazione nata sulla scia del 15M meno di un anno fa, ma già in grado, a quanto pare, di aprire una breccia forse insanabile nel bipartitismo ermetico della Spagna democratica. L’ancien regime, d’altronde, era stato ufficialmente avvisato già alle scorse europee, quando Podemos aveva raccolto dal nulla ben 1,2 milioni di voti (5 eurodeputati). Pur così il sondaggio del País deve aver fatto sobbalzare l’establishment politico: 1,5 punti di vantaggio sul Psoe e addirittura 7 sul Partido popular (Pp), sprofondato nel baratro di una corruzione dilagante ed elevata a sistema. L’ultimo scandalo — una trama di appalti edilizi truccati emersa negli scorsi giorni e conosciuta come Operación Púnica — ha travolto la cupola del Pp di Madrid, roccaforte storica dei popolari, e ora, significativamente, avamposto dell’attacco di Podemos al cuore del sistema politico. Ovviamente, a quasi un anno dalle elezioni generali, i sondaggi vanno presi con le pinze: sui dati incidono di certo l’indignazione per le malversazioni del partito di governo (castigato infatti più del Psoe) e la frustrazione per una crisi che morde ancora forte, nonostante i proclami di ripresa del Pp (il 91% degli intervistati considerano «pessima» la situazione politica spagnola). L’inchiesta, però, ha più valore come fotografia di fine ciclo che come oracolo elettorale: un’istantanea storica che rappresenta con nitidezza il crollo del duopolio Pp/Psoe e soprattutto il trionfo – impensabile fino a pochi anni fa– di una politica di stampo movimentista, di cui la Spagna è laboratorio all’avanguardia a livello europeo. Al di là dei numeri, il sondaggio rivela che Podemos ha saputo tenere fede al suo 16 nome: si può, nella Spagna di oggi, partire dalle piazze per arrivare in parlamento; si possono scuotere da sinistra le strutture anchilosate della vecchia politica. A patto, però, di non cedere alle sirene di un facile populismo (tentazione in cui Podemos è a volte scivolato) e di riuscire a gestire l’ingombrante figura di Pablo Iglesias, fondatore, ideologo, e figura imprescindibile del partito, con tendenze assolutiste, difficili da conciliare con la vocazione pluralista del partito. Sarà una delle sfide di Podemos, che da qui alle elezioni politiche dovrà cercare di non cannibalizzare i consensi con lotte interne che potrebbero riversare i potenziali voti sulle altre formazioni di sinistra: prima tra tutte Izquierda Unida, che ha già ceduto moltissimi voti alla formazione di Iglesias Podemos, ma che si trova attualmente nel mezzo di un processo di rinnovazione che promette molto bene. A destra, invece, il Pp non ha concorrenti, cosicché gran parte del flusso emorragico di voti finisce a ristagnare nel bacino dell’astinenza: lì si giocherà una dura partita, che potrebbe effettivamente decidere l’esito elettorale. Intanto dal quartier generale di Podemos fanno saggiamente appello alla prudenza: «Bisogna considerare i numeri con estrema cautela. Manca un anno alle elezioni: siamo in una fase di transizione e le cose possono cambiare velocemente in funzione degli sviluppi politici. I numeri in questo periodo hanno una scadenza molto ravvicinata». Numeri che, per ora, immortalano a mezz’aria il sasso che, scagliato dalla fionda di Davide, sembrerebbe diretto alla fronte di Golia. Per sapere se colpirà il bersaglio, bisognerà aspettare fino alle politiche del prossimo autunno. Del 4/11/2014, pag. 8 Libia: battaglia a Bengasi, evacuato il porto dalle milizie pro-Haftar Libia. Gli islamisti minacciano nuove elezioni Giuseppe Acconcia È tempo di elezioni anche per il parlamento di Tripoli. Se il voto dello scorso maggio ha portato alla formazione di un’Assemblea a Tobruk, senza sede fissa ma appoggiata dai militari dell’ex generale ed ex agente Cia Khalifa Haftar, il premier, espressione degli islamisti moderati, Omar al-Hassi non ci sta e promette di tornare alle urne. Con lo scopo di colmare la lacuna degli islamisti: la scadenza del mandato parlamentare che ha portato alle dimissioni forzate del premier Ali Zeidan, prima, e al via libera al golpe Haftar, poi. Ma a Bengasi la battaglia non si ferma, dopo la sfilata trionfale i militari di Haftar, hanno dato 12 ore di tempo ai miliziani di Ansar al Sharia, responsabili dell’attacco costato la vita all’ambasciatore Usa, Chris Stevens, per lasciare il porto cittadino. Alla vigilia della sua marcia sulla città, Bengasi è stata scossa da violente esplosioni. Alcuni razzi Grad sono piovuti anche sui quartieri del porto e testimoni hanno parlato di raid aerei dell’esercito libico sulle postazioni jihadiste. Non solo, Ibrahim Jathran, che detiene il controllo di vari pozzi petroliferi a est di Bengasi, rifiuta sempre di unirsi alla guerriglia, vicina agli islamisti. La parte dell’esercito che appoggia Haftar ha chiesto ieri ai residenti del quartiere portuale al-Sabiri di lasciare le loro case prima della nuova, grande operazione contro gli islamisti. Nelle ultime settimane, oltre 200 persone sono state uccise nel tentativo di liberare la città dai jihadisti. Alla vigilia della controoffensiva, uno dei portavoce dell’esercito libico, Mohammed Hegazi, ha dichiarato che un aereo del Qatar ha portato armi ed equipaggiamenti militari a Misurata in mano alle milizie islamiste. Hegazi ha confermato che le forze di Haftar controllano 17 il 90% della città. «L’esercito libico controlla tutti i quartieri di Bengasi», ha detto il colonnello Wanis bu Khamade, comandante delle forze scelte e dei paracadutisti. Wanis ha inoltre riferito che «sono in arrivo da Ajdabiya (a ovest di Bengasi) rinforzi militari con il battaglione 148, che si dispiegherà nell’est della Libia». I militari hanno compiuto perquisizioni e arresti sommari a Bengasi. Per questo le famiglie degli uomini della brigata 17 febbraio e di Ansar al Sharia si sono ritirate verso il porto e nell’ovest. Per le associazioni che monitorano le vittime, sono 35 i più impegnati attivisti politici libici uccisi dall’inizio 2014. Infine, centinaia di egiziani sono stati fermati all’aeroporto di Tripoli e obbligati a non entrare nel paese. Militari e islamisti si accusano a vicenda per il coinvolgimento di combattenti egiziani tra le loro fila. del 04/11/14, pag. 28 Un’assemblea di pace per la Libia dilaniata di Bernard - Henry Levy Viaggio lampo a Tunisi. All’aeroporto, alcuni nostalgici di Gheddafi, urlanti e patetici. Nelle ore seguenti, vari siti complottistici imbastiscono i più stravaganti scenari per spiegare la mia presenza, con Gilles Hertzog, sul suolo tunisino: un incontro occulto con il partito Ennahda, una conferenza immaginaria a Hammamet in compagnia di un jihadista, un appuntamento segreto con un ministro o un presidente. Sorvolo sul resto, poiché l’essenziale evidentemente è un altro. La piccola agitazione che ci circonda non riesce a distoglierci dall’unico appuntamento che meriti, cioè quello del cuore e dello spirito con la nostra cara e sofferente Libia. Sabato scorso, in una sala riunioni del nostro albergo, abbiamo di fronte Waheed Burshan, l’ingegnere della città di Gharyan incontrato nel giugno 2011, mentre organizzava il ponte aereo che avrebbe rifornito di viveri e armi le montagne del Jebel Nefusa. Attorno a lui e a Gazi Moalla, l’amico tunisino artefice dell’incontro, alcuni rappresentanti di Bengasi, Tripoli, Zauia, Misurata, Ifren o Nalut, città dai nomi per noi familiari e che furono le stazioni del calvario, poi della liberazione, di un popolo che non era il nostro e di cui abbiamo sposato la causa. Uno degli invitati, soprattutto, colpisce: Fadil Lamine che — alla maniera di André Gide in una sua famosa battuta «nato a Parigi da un padre di Uzès e da una madre normanna, dove vuole, signor Barrès, che metta radici?» — rivela come gli riuscirebbe difficile, essendo suo padre di Tripoli e sua madre di Benghazi, riconoscersi in una delle fazioni che si disputano un potere del resto inesistente. Non è un caso — sembra dire — se cade su di lui la notevole responsabilità del Consiglio del dialogo nazionale che, da aprile 2013, lavora per superare le divisioni etniche e politiche che dilaniano la nazione libica. Con le lacrime agli occhi, evochiamo la memoria della sua ex vicepresidente, Salwa Bougaighis, la giovane, coraggiosa avvocatessa, militante dei diritti dell’uomo e della donna, assassinata il 25 giugno scorso a Bengasi. Ricordiamo un giorno di marzo del 2011, quando aveva contribuito ad organizzare la prima assemblea unitaria delle tribù di Cirenaica e Tripolitania, cui eravamo stati invitati, durante la quale aveva detto fieramente: «C’è una sola tribù in Libia, la tribù della Libia libera»; frase che fu per noi una sorta di motto nei sette mesi di solidarietà con la nazione araba insorta. È questo motto che bisogna resuscitare, dice Burshan gravemente. È questo spirito che si deve contrapporre a tutti coloro che vogliono infrangere un sogno e che, se non vengono fermati, potrebbero far scorrere i fiumi di sangue promessi dalla dittatura, ma evitati dall’intervento alleato. 18 Che fare, chiediamo, quando sembra che ciascuno si preoccupi solo del proprio tornaconto in un Paese in rovina? Quale soluzione, per una nazione che ha due Primi ministri, due parlamenti, e dove lo Stato non esiste? Si ricorre alla società civile, risponde pensieroso Burshan. Ci si affida a quegli uomini di buona volontà di cui parla uno dei vostri scrittori e di cui avete qui alcuni eminenti rappresentanti. Quando la politica fallisce e si continua con la guerra fratricida, c’è una sola via d’uscita: far capire a tutti che nessuno può vincere da solo e che la salvezza, o il suicidio, possono essere soltanto collettivi. E c’è un solo programma: convocare una sorta di Loya Jirga, una grande assemblea, dove tutti i protagonisti di questa rivoluzione interminabile e divoratrice saranno invitati e dove gli assenti saranno designati come nemici della pace e della Libia. Burshan e i suoi amici contano sulla Francia. Non vogliono interventi esterni, ma vedono di buon occhio una missione di mediazione condotta dalla nazione amica per eccellenza. Eravate con noi durante la guerra, dicono, siate con noi durante la pace. Siete stati nostri compagni di armi, siate nostri compagni nella riconciliazione e nella ricostruzione. Ora che il terrorismo è internazionale, le nostre frontiere non sono anche le vostre? Quanto al Sud libico, diventato l’arsenale e il santuario della nuova setta di assassini che imperversa nella regione, perché non cominciare, insieme, a renderlo più sicuro? La riunione si conclude con un ultimo intervento dei partecipanti, che prefigura quasi il governo di saggi e di esperti sognato da Burshan e di cui si intravede improvvisamente la fattibilità. È giunto il momento, per lui, di tornare di corsa in Libia: è appena arrivata la notizia di un bagno di sangue a Kekla, nel Jebel Nefusa, vicino a casa sua. È giunto il momento, per noi, di tornare a Parigi: non è escluso che siamo stati i testimoni di uno di quegli eventi che, come dice Nietzsche, accadono a passi di colomba ma sono, talvolta, i più decisivi, e bisogna trasmetterne la notizia senza indugio. Mi rendo ben conto che non abbiamo chiuso con il nostro giuramento libico. Che non siamo dispensati dalle nostre responsabilità nei confronti degli uomini che il nostro Paese ha aiutato a liberarsi e che oggi ha il dovere di aiutare a risollevarsi. La speranza non è morta. La lotta, pacifica, continua. (traduzione di Daniela Maggioni) Del 4/11/2014, pag. 7 Le mafie a Peña Nieto: i 43 studenti sono vivi Messico. Cresce la rabbia per il massacro di Iguala Geraldina Colotti I 43 studenti messicani– scomparsi il 26 settembre a Iguala dopo la repressione congiunta di polizia e bande criminali — potrebbero essere vivi. Nel fine settimana, i narcotrafficanti dei Guerreros Unidos, accusati della mattanza, hanno fatto trovare un lungo messaggio, scritto su un lenzuolo bianco. Un messaggio diretto al presidente della repubblica Enrique Peña Nieto in cui sostengono che i ragazzi sono vivi e accusano le autorità di colpevole inadempienza. E accludono una lista di politici collusi con le mafie. Ci consegneremo – scrivono – quando tutti loro verranno arrestati. Intanto, circola in rete un video registrato con un cellulare subito dopo i fatti di Iguala. Gli studenti chiedono inutilmente aiuto e gridano alla polizia: «Non sparete, non abbiamo armi», mentre vedono uccidere i loro compagni. Il 26 settembre, studenti e maestri delle scuole rurali — istituti di antica tradizione di sinistra radicale — erano in agitazione: contro la discriminazione di cui soffrono e contro le 19 politiche di privatizzazione della scuola pubblica portate avanti dal neoliberista Nieto. Gli autobus su cui circolavano sono stati aggrediti da polizia e individui pesantemente armati, i quali hanno poi attaccato anche un pullman di calciatori di ritorno dallo stadio. Quel giorno, il bilancio è stato di 6 ragazzi uccisi (uno dei quali con segni di tortura), 25 feriti e 43 scomparsi. Le testimonianze dei cittadini e le telecamere di sicurezza hanno portato all’arresto di 22 poliziotti e di diversi narcotrafficanti dei Guerreros unidos. Le confessioni di alcuni pentiti e le indagini delle brigate di autodifesa comunitaria hanno consentito poi la scoperta di 12 fosse comuni contenenti 28 cadaveri carbonizzati, resti di materiale didattico e zainetti. Secondo le testimonianze dei pentiti, almeno un gruppo di 17 studenti è stato consegnato dalla polizia ai narcotrafficanti, che li hanno uccisi e bruciati: credendoli appartenenti a una banda rivale, hanno poi sostenuto i Guerreros Unidos. L’esame dei resti bruciati ha apparentemente escluso la presenza degli studenti fra i cadaveri. Le associazioni dei familiari contestano però l’imparzialità delle indagini disposte dalle autorità locali. E hanno nominato una commissione di antropologi forensi proveniente dall’Argentina, denunciando a più riprese il boicottaggio esercitato nei loro confronti dagli esperti istituzionali. Nel frattempo, è ricercato l’ex sindaco di Iguala e il governatore del Guerrero, in fuga e sostituito a interim. Intanto, continuano le manifestazioni previste per tutta la settimana. Domenica papa Francesco ha «pregato» a San Pietro per gli scomparsi di Iguala. Un caso che interroga anche il nordamerica, grande sostenitore delle politiche neoliberiste in Messico. Una sessantina di persone ha organizzato una veglia davanti alla Casa Bianca. Qualche giorno fa, Barack Obama ha definito «inquietanti» i fatti accaduti nel Guerrero, uno stato in cui più è incancrenito l’intreccio di mafia e politica vigente in Messico. E un articolo del New Yorker prevede «un grande tumulto sociale» qualora si appurasse che gli studenti sono stati uccisi. I messicani – scrive la rivista Usa – anestetizzati da anni di episodi di violenza nel paese ora sono indignati per ciò che è accaduto quella tragica notte di settembre in cui sono emersi come mai prima i legami esistenti tra le autorità locali più corrotte e i politici di governo a livello nazionale. 20 INTERNI Del 4/11/2014, pag. 1-8 IL PUNTO L’incognita della legge elettorale e la partita del Quirinale I tempi per l’approvazione del nuovo sistema di voto si allungano. Il sì del Senato non arriverà prima di gennaio DI STEFANO FOLLI UN passo dopo l’altro, ci si avvicina ai passaggi cruciali che decideranno il futuro della legislatura e le prospettive del governo Renzi. Le scadenze si affollano nell’agenda di fine anno, dalla riforma del lavoro alla legge di stabilità, ma la vera incognita resta ancora la legge elettorale. Sulla quale l’incertezza è ovviamente aumentata dopo che il presidente del Consiglio ha rimescolato le carte e ha avanzato la proposta di assegnare il premio di maggioranza non più alla coalizione vincitrice, bensì alla lista, cioè al partito. Questo significa che quando il Senato l’avrà votata, nella migliore delle ipotesi non prima di gennaio inoltrato, la legge tornerà alla Camera per una seconda lettura non solo formale. I tempi insomma si allungano, anche perché gli accordi in Parlamento attendono di essere definiti. Nessuno mette in discussione il “patto del Nazareno”; ma i fatti dimostrano che l’intesa con Berlusconi, pur solida, non è una camicia di forza in grado di coprire tutte le contraddizioni. Prova ne sia l’infinita altalena sui candidati alla Corte Costituzionale. In altri termini, Renzi va per la sua strada, ma gli ostacoli potrebbero essere più insidiosi del previsto. Il suo tallone d’Achille - egli stesso ne è ben consapevole - è l’economia, o meglio il rischio concreto che le misure già in atto o in preparazione non riescano a imprimere uno stimolo significativo al sistema produttivo. A maggior ragione il premier deve consolidare in fretta il suo “blocco sociale” e di conseguenza un sistema di potere ancora imperfetto. Anche nel discorso di ieri agli industriali di Brescia è emersa questa determinazione, nel segno del dinamismo innovatore, ma si è avvertita fra le righe l’inquietudine di chi teme che non tutti i tasselli del mosaico vadano al loro posto in tempo utile. Sotto il profilo politico-istituzionale, le carte migliori in mano a Renzi sono due. La prima è la condizione di grave prostrazione in cui versa la minoranza del Pd, incapace di costituire una minaccia alla stabilità del governo e tanto meno di prefigurare una scissione credibile, che non sia cioè l’uscita alla spicciolata dal Pd di tre o quattro irriducibili oppositori del “renzismo”. La seconda è invece l’appoggio fermo e costante garantito al premier dal presidente della Repubblica. La capacità di Napolitano di influenzare le decisioni di Renzi si è vista ancora la settimana scorsa, in occasione della scelta di Paolo Gentiloni come ministro degli Esteri. Al tempo stesso abbiamo avuto conferma della disponibilità del presidente del Consiglio ad accettare i consigli del Quirinale, ricercando il compromesso. Questa è la falsariga che segnerà i rapporti istituzionali anche nel prossimo futuro. Fino al momento in cui Napolitano deciderà di lasciare il Quirinale. Il presidente ha superato di recente la prova più dura, anche sotto il profilo psicologico: la testimonianza resa davanti ai magistrati di Palermo. Ne è uscito rinfrancato, avendo rintuzzato quella che poteva diventare una prova di forza contro gli equilibri costituzionali del paese. Ciò nonostante, egli non fa mistero della sua intenzione di voler mettere fine al suo secondo mandato in ragione dell’età e della salute. È ragionevole pensare che questo non accadrà prima della fine del semestre europeo dell’Italia, ma nemmeno troppo più in 21 là. Ne deriva un intreccio molto delicato. È impensabile che quel giorno, quando sarà, il governo abbia completato il percorso delle riforme, anzi con ogni probabilità non avremo nemmeno la nuova legge elettorale. Il rischio è allora che i due piani s’intreccino e che sul cammino della legge elettorale si scarichino tutte le tensioni e gli inevitabili veleni della contesa per il Quirinale. Del 4/11/2014, pag. 6 Silvio vuol tenere in ostaggio l’Italicum “Darò l’ok solo se torno candidabile” TOMMASO CIRIACO Prendere in ostaggio la legge elettorale per costringere il governo a seppellire la legge Severino. È il piano ad altissimo rischio che ha in mente Silvio Berlusconi. Studiato a tavolino, nei dettagli, dopo aver individuato quello che ad Arcore considerano il punto debole del premier: «Matteo spiega il Cavaliere decaduto mi ha detto che vuole al più presto l’Italicum. Ne ha bisogno per frenare quelli di sinistra del Pd. Ecco, noi possiamo votare la legge elettorale solo se mi permetteranno di candidarmi ». Non sarà facile, certo, ma è il leader di Forza Italia a suonare la carica dal rifugio brianzolo. «Altrimenti il patto del Nazareno non vale più». Più o meno il messaggio fatto recapitare in queste ore al presidente del Consiglio. Avesse la certezza, Berlusconi si accontenterebbe (si fa per dire) di un giudizio di incostituzionalità della legge Severino pronunciato dalla Corte costituzionale. I tempi, però, sono prevedibilmente lunghi e l’ex premier ha fretta di tornare al centro della scena. «Sono un perseguitato. Ho subito un’ingiustizia, bisogna cancellarla », ripete senza sosta agli amici di Ncd con i quali è rimasto in rapporti e che spera di ricondurre a casa. Ecco allora l’idea, spregiudicata a dir poco: «Renzi tiene buoni i pochi comunisti rimasti nel Pd con la minaccia di tornare alle elezioni. Magari poi non si vota, ma serve a spaventarli. Per questo ha bisogno della legge elettorale ». Proprio quella riforma che Berlusconi non è disposto a concedere senza ottenere in cambio un colpo di spugna della legge Severino. È una partita a scacchi. È stato Berlusconi a iniziarla, chiedendo al partito di cavalcare le novità del Tar sul caso De Magistris. «Cancellare la Severino deve diventare la nostra priorità - si è infuriato per i tempi di reazione troppo lenti - Sia chiaro a tutti che sono un martire ». Ecco, il martirio deve diventare pubblico, invadendo via etere le case di tutti gli italiani. Preparato il terreno, toccherà al Parlamento interveni- re. C’è chi spera in un ricorso alla giunta per le elezioni del Senato, in modo da sollevare quella questione di legittimità costituzionale negata al momento della decadenza del leader. Probabile, però, che si scelga la strada più semplice: «Ovvio che anche noi stiamo pensando all’opportunità di presentare una legge», assicura il capogruppo di FI al Senato, Paolo Romani. Tuttavia la strada legislativa presenta dei rischi: «Se il governo modifica solo una parte della norma, potrebbe rallentare il giudizio della Corte costituzionale ». E siccome «siamo convinti che la Severino sia completamente incostituzionale, stiamo ragionando per capire se convenga ». Per spingere Palazzo Chigi ad assecondare le pulsioni “revisioniste” della norma anticorrotti, Forza Italia alza il tiro contro l’esecutivo. Il Mattinale lo ammette candidamente: «La Severino è una trappola che ferisce la democrazia. Cosa aspetta Renzi a rimediare? Il Patto del Nazareno ha al suo primo punto la lealtà reciproca tra i due protagonisti». Un avvertimento esplicito, senza giri di parole. Parallelamente, va avanti la battaglia in sede continentale. «La retroattività della Severino è un sacrilegio si sgola Berlusconi - la Corte europea dei diritti dell’uomo mi darà ragione». 22 Saltasse la Severino, il leader di Arcore tornerebbe candidabile a partire dalla metà del 2015. «Poniamo il caso che si vada a votare - è l’estrema sintesi di Ignazio Abrignani - Il centrodestra ha un leader che però non può correre. Se facciamo le primarie, chi candidiamo? Se invece salta la Severino cambia tutto. Possiamo solo sperare che lui torni in campo e gli permettano di giocarsela, come ha sempre fatto». Certo, resterebbe il problema di ricostruire un partito allo sbando, lacerato dalla fronda di Raffaele Fitto e diviso in cento micro correnti territoriali. Stanco, anzi «nauseato» - come ciclicamente gli accade osservando FI - ieri sera Berlusconi ha incontrato Deborah Bergamini, Giovanni Toti e Alessandro Cattaneo per dare il via all’operazione “101”. Tanti saranno i giovani selezionati per sostituire la vecchia classe dirigente. Volti freschi da mandare in tv. «Quelli che abbiamo adesso - è la sentenza del leader - sono un vero disastro». Del 4/11/2014, pag. 6 Tesauro sulla legge Severino “Spero che le modifiche siano decise in Parlamento” Il presidente della Consulta: più sano di un nostro intervento Berlusconi: la giustizia prevalga sulla convenienza politica ALBERTO D’ARGENIO È il presidente della Corte Costituzionale, Giuseppe Tesauro, ad intervenire nel dibattito sulla Legge Severino, rimandata alla Consulta dal Tar di Napoli in relazione al caso De Magistris. «Tra il Parlamento e il giudice io preferisco sempre il Parlamento, quindi se le Camere volessero intervenire, non so in che termini, certo sarebbe meglio, più sano». Tra l’altro, aggiunge Tesauro, il tempo non mancherebbe, visto che per arrivare ad una decisione sulla costituzionalità della norma i tempo fisiologici sono di 6-7 mesi». Ed è Silvio Berlusconi, decaduto dal Senato proprio in virtù della Severino, a crederci: «L’assoluzione nel processo Ruby e la decisione del Tar di rinviare la legge Severino fanno sperare che dopo tanti mesi oscuri la giustizia possa prevalere sulla convenienza politica». Tesauro non entra nel merito della polemica politica, e liquida la frase dell’ex premier con una battuta: «Abbiamo tutti questa speranza». Ad ogni modo il presidente della Consulta non si vuole esprimere sulla presunta analogia, cara a Forza Italia, tra la vicenda giudiziaria di De Magistris e quella di Berlusconi: «Non so se siano questioni diverse, bisognerebbe aprire il fascicolo e non lo aprirò io. Chi ora dice qualcosa è un presuntuoso». Ma le parole di Tesauro galvanizzano i fedelissimi di Berlusconi, che a gran voce chiedono che il Parlamento intervenga subito per cambiare la legge e riabilitare politicamente il loro capo. Daniela Santanchè attacca, “chiede” al Partito democratico di avere «un minimo di onestà intellettuale». Il suo ragionamento è questo: «Con che basi il Pd vuole discutere la Severino solo per il caso De Magistris e non per quello di Silvio Berlusconi?». Il cavallo di battaglia dei forzisti è che la sua retroattività venga abolita, in modo da rimettere in gioco l’ex Cavaliere. La tattica degli azzurri la svela il Mattinale, la nota politica del gruppo alla Camera guidato da Brunetta che allude alla tenuta del patto tra Renzi e Berlusconi sulle riforme. «Il Patto del Nazareno ha al suo primo punto la lealtà reciproca tra i due protagonisti, che razza di democrazia è quella che mette fuori gioco a priori un contendente, applicando norme incostituzionali?». Intanto il viceministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), apre ad un «tagliando» parlamentare alla Severino «perché non ci siano spazi lasciati a interpretazioni equivoche o a dubbi di disparità di trattamento». Parte invece all’attacco il Movimento 5 Stelle, i cui deputati si chiedono a chi 23 interessi manomettere la Severino, con la seguente risposta: «Il vociare in merito a possibili aggiustature dell’unica legge voluta dalla politica per combattere la corruzione è il tipico disegno di chi vuole cambiare le carte in tavola e ripristinare vecchi equilibri politici». del 04/11/14, pag. 9 Consulta, rinuncia anche Sandulli E si complica il dialogo con l’M5S Sfuma il ticket rosa. La candidata attaccata da FI: non ci sono le condizioni ROMA Nulla da fare. Quando il ticket rosa sembrava potere aver ragione di un Parlamento paralizzato e incapace di scegliere i due giudici della Corte costituzionale, è saltato tutto. Nella tarda mattinata, la professoressa Maria Alessandra Sandulli dirama una nota nella quale spiega di considerare un «onore» la candidatura, ma rinuncia: «Non ci sono le condizioni per confermare la mia disponibilità». E così salta il gioco a incastro dal quale dovevano finalmente uscire i due nuovi giudici. La prossima votazione dovrebbe tenersi giovedì alle 13 e prima bisognerà trovare un nuovo nome. Sfuma così anche la possibilità, almeno per ora, che della delicata partita della Consulta facciano parte anche i 5 Stelle. Dopo aver nicchiato, considerando le candidature della Sandulli e di Silvana Sciarra, chiedendo che venissero ufficializzate, sembravano aver sciolto le riserve. Anche perché, in cambio, al Movimento di Beppe Grillo sarebbe toccato un uomo nel Csm, Alessio Zaccaria. Ma la Sandulli è stata impallinata da molti esponenti del centrodestra, compresa Forza Italia. Proprio il partito che, in teoria, avrebbe fornito il suo nome. Tra le colpe della Sandulli, una firma nel 2005 contro la riforma costituzionale presentata da Silvio Berlusconi. La Sandulli ha visto l’aria che tirava e si è chiamata fuori. Con il plauso di Maurizio Gasparri: «Bene che Sandulli — candidata da chi? — prenda atto che non può avere per la Corte i voti di chi aveva in disprezzo. Archiviata!». E ora? Spiega il ministro Maria Elena Boschi: «Mi pare che sia una vicenda interna a Forza Italia. Noi abbiamo dato disponibilità a tutti. Compresi i 5 Stelle». Tra i nomi che circolano ci sono Lorenza Violini, Antonella Marandola, Carla Pasini, Ginevra Cerrina Ferroni. Oggi si tiene un’assemblea congiunta dei gruppi M5S per sondare la disponibilità nei confronti dei nomi che emergeranno. Poi la palla passerà alla Rete, che dovrà vidimare l’opinione dei parlamentari. In realtà, spiega Danilo Toninelli, «i nostri nomi sono sempre lì: persone con requisiti a posto che nessuno ha mai contestato». Vero, ma i 5 Stelle sono pronti ad abbandonarli, se Pd e Forza Italia proponessero «nomi di garanzia», come spiega il capogruppo Andrea Cecconi. Così com’è vero che i 5 Stelle potrebbero essere il «secondo forno» da usare per la legge elettorale se Forza Italia non accettasse il premio di maggioranza alla lista richiesto da Renzi. Ma il Movimento di Grillo deve anche risolvere i suoi problemi interni, come dimostra l’ennesimo affondo del sindaco di Parma Federico Pizzarotti: «Non serve l’uomo solo al comando. In tv non ci deve andare da solo Luigi Di Maio, ma un team. Io dico la mia opinione, anche se si percepisce la mia mancanza di feeling con Beppe Grillo». Quanto alle strategie politiche, il sindaco ha qualcosa da dire anche su questo: «Era meglio andare a vedere, invece di sbattere la porta in faccia a Bersani, e condannare M5S a una sorta di infantilismo politico». Comunque sia, resta da risolvere il problema della Consulta, prima di passare alla legge elettorale. La presidente della Camera Laura Boldrini spiega che «io e il presidente Grasso 24 stiamo cercando di fare pressione sui gruppi perché trovino un accordo, ma non sarebbe lungimirante convocare a oltranza il Parlamento e bloccarne le attività». Alessandro Trocino Del 4/11/2014, pag. 7 P3, GRANA PER IL NAZARENO VERDINI VA A PROCESSO L’UOMO DEL PATTO RINVIATO A GIUDIZIO: “MI SENTO PERSEGUITATO” PROCEDIMENTO ANCHE PER L’EX SOTTOSEGRETARIO COSENTINO Di Davide Vecchi Secondo rinvio a giudizio per Denis Verdini. Il gup di Roma, Paola Della Monica, ieri ha deciso di mandare a processo per corruzione l’ex coordinatore nazionale del Pdl, nonché trait d’union tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi per la stesura del Patto del Nazareno. A giudizio anche l’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, con l'accusa di diffamazione e violenza privata mentre è stata stralciata la posizione di Marcello Dell’Utri, indagato come Verdini per corruzione, ma in attesa di estradizione dal Libano. Infatti, nonostante sia già nel carcere di Parma a seguito della sentenza definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, Dell’Utri deve essere estradato per il procedimento specifico. L’INCHIESTA è quella relativa alla cosiddetta P3 ideata, tra gli altri, dall'imprenditore Flavio Carboni. Un’associazione segreta che aveva come obiettivo la realizzazione “di una serie indeterminata di delitti di corruzione, di abuso d’ufficio e di illecito finanziamento” oltre “a condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nonché gli apparati della Pubblica amministrazione dello Stato e di enti locali”. A Verdini, in particolare, è contestato di aver fatto pressioni sulla Corte di Cassazione per anticipare l’udienza che doveva discutere il merito della misura cautelare emessa nei confronti di Nicola Cosentino; di aver tentato di influire sul giudizio della Consulta sulla costituzionalità del lodo Alfano e, infine, di aver interferito nei confronti del Csm affinché venisse nominato presidente della Corte d'appello di Milano Alfonso Marra. Cosentino è invece ritenuto responsabile di aver fatto pubblicare su un blog notizie false relative all’attuale presidente della Campania, Stefano Caldoro, per screditare l’allora candidato alle Regionali del 2010. All’ex sottosegretario è contestato anche l'aver compiuto atti diretti a costringere Caldoro a rinunciare a partecipare alle elezioni. La prima udienza è fissata per il 5 febbraio, mentre il processo a carico degli altri imputati nel filone principale, tra cui Carboni e l’ex giudice tributario Pasquale Lombardi, è già cominciato ormai da un anno e proseguirà il 10 novembre. La posizione dei tre era stata stralciata in attesa della decisione della giunta per l’im - munità che, per quanto riguarda Verdini, a fronte della richiesta della magistratura formulata il 21 aprile 2010, è stata autorizzata solamente nel marzo 2014. “Mi sento perseguitato dalla magistratura”, ha detto ieri sera Verdini ad alcuni parlamentari che lo hanno contattato per esprimergli la loro solidarietà. Da Gasparri a Fitto, mentre Berlusconi ha osservato un religioso silenzio. Sul futuro di Verdini incombe del resto anche un altro processo che si aprirà il 21 aprile a Firenze. Il gup del tribunale toscano Fabio Frangini lo ha rinviato a giudizio, insieme al parlamentare di Forza Italia Massimo Parisi, per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. L’inchiesta è relativa alla gestione del 25 Credito cooperativo fiorentino (Ccf) del quale Verdini è stato presidente fino al 2010. SECONDO le indagini preliminari, chiuse nell’ottobre 2011, finanziamenti e crediti milionari sarebbero stati concessi senza “garanzie”, sulla base di contratti preliminari di compravendite ritenute fittizie. Soldi che venivano dati a “persone ritenute vicine” a Verdini stesso sulla base di “documentazione carente e in assenza di adeguata istruttoria”. In totale il volume d’affari - ricostruito dai carabinieri dei Ros - sarebbe stato pari a “un importo di circa 100 milioni di euro” di finanziamenti deliberati dal Cda del Credito i cui membri, secondo la notifica della chiusura indagini “par - tecipavano all’associazione svolgendo il loro ruolo di consiglieri quali meri esecutori delle determinazioni del Verdini”. Inoltre il coordinatore di Forza Italia è chiamato a rispondere dell’accusa di truffa ai danni dello Stato per i fondi per l’editoria, che avrebbe percepito illegittimamente per la pubblicazione di Il Giornale della Toscana: 20 milioni di euro. Del 4/11/2014, pag. 12 “Caricate”. E la polizia picchiò gli operai Nel video di Gazebo gli incidenti di Roma che hanno visto coinvolti i lavoratori della Thyssen di Terni Le immagini sembrano smentire la versione ufficiale secondo la quale il corteo era diretto verso Termini MAURO FAVALE «Caricate». Il primo dirigente della Questura di Roma ha un giubbotto di pelle marrone, occhiali da sole e una radio trasmittente in mano. Urla l’ordine al reparto mobile in tenuta antisommossa, quando gli operai delle acciaierie di Terni sono ancora a qualche metro di distanza dagli agenti. Da una parte si avanza reggendo lo striscione, dall’altra ci si compatta rapidamente. È mercoledì 29 ottobre, siamo in piazza Indipendenza, all’angolo con via Curtatone e sono da poco passate le 13. C’è il contatto tra i due blocchi, si spinge, da dietro vola qualche oggetto mentre i manganelli si alzano e poi si abbassano sulle teste e sulle braccia dei manifestanti. Viene sfiorato a una mano anche Maurizio Landini, leader Fiom, che si trova nelle prime file. «Siamo lavoratori come voi, ma che state facendo», grida il segretario dei metalmeccanici Cgil ai poliziotti. A terra, feriti, restano 4 tra operai e sindacalisti, più tardi arriverà anche il bollettino della Questura: 4 agenti contusi. È il bilancio dei tafferugli scoppiati quasi una settimana fa e che oggi possono essere osservati da una prospettiva diversa che smentisce la ricostruzione del Viminale, riferita giovedì alle Camere direttamente dal ministro dell’Interno Angelino Alfano. «C’era la preoccupazione — aveva spiegato davanti a senatori e deputati — che alcuni manifestanti volessero dirigersi verso la vicina stazione Termini, voce raccolta dai funzionari di polizia in servizio a piazza Indipendenza. Un folto numero di manifestanti, dando vita a un improvviso corteo, si è diretto verso via Solferino e, visto lo sbarramento opposto dalla polizia, ha poi deviato verso vie limitrofe che conducono comunque verso piazza dei Cinquecento e dunque verso la stazione». A mostrare immagini diverse, però, è stato due sere fa Gazebo, la trasmissione di RaiTre, le cui telecamere hanno ripreso i momenti più concitati, con l’ordine delle carica dato ben prima del contatto e, soprattutto, con l’improvvisato corteo degli operai di Terni che non si dirige verso Termini, attraverso via Solferino, bensì devia a destra, verso via Curtatone, da tutt’altra parte rispetto ai binari. La meta è il ministero dello Sviluppo economico, in via Veneto. «Dove volete andare?», chiede un dirigente a Landini dopo le manganellate. «Al 26 ministero», risponde il sindacalista. «Ditecelo allora, ce lo dovete dire», è la replica del poliziotto in borghese. Alla fine, sotto al Mise, i metalmeccanici riusciranno ad arrivare solo dopo le botte e una trattativa con i funzionari della questura che autorizzano il percorso. Sei giorni dopo si rinfocolano le polemiche per la gestione di quella piazza, con il presidente del Pd, Matteo Orfini, che interpella il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro: «Capisco che è impegnato ad annullare matrimoni, ma potrebbe trovare un minuto per spiegare le nuove immagini sulla carica della polizia». Ufficialmente Pecoraro non parla. «Così ha deciso Alfano», è la versione che filtra. Ma da prefettura e questura la linea è che quel video inedito (che sui social network e sul web ha raccolto decine di migliaia di visualizzazioni) «non smentisce proprio nulla». Al momento, insomma, va avanti solo un’indagine amministrativa interna per ricostruire i fatti, con Palazzo Chigi in attesa di comunicazioni ufficiali. Intanto domani pomeriggio in Parlamento verrà votata la mozione di sfiducia contro Alfano presentata da Sel, M5S e condivisa dalla Lega. E giovedì, a Roma, torneranno nuovamente gli operai delle acciaierie di Terni per seguire da vicino la loro vertenza. del 04/11/14, pag. 5 Cortei, nuove regole di ingaggio agli agenti Un’«area di rispetto» per evitare scontri Domani il voto sulla mozione di sfiducia ad Alfano: un video riapre il caso e il Pd attacca il prefetto di Roma ROMA Il contatto fisico con i manifestanti «deve essere l’extrema ratio». Mentre si riaccende la polemica per quanto accaduto la scorsa settimana durante la protesta degli operai della TyssenKrupp in piazza Indipendenza a Roma, i vertici della polizia varano nuove «regole d’ingaggio». Il clima è ormai incandescente, il prefetto Alessandro Pansa sa che il crescente disagio sociale e le possibili «infiltrazioni» dei violenti tra i lavoratori rischiano di provocare gravi conseguenze. E decide di accelerare l’entrata in vigore di quel regolamento per correggere le attuali storture, frenando gli eccessi di chi va in servizio di ordine pubblico, in modo da tutelare «l’incolumità dei cittadini, ma anche degli agenti chiamati a garantire la sicurezza». La distanza Il provvedimento riguarda tutte le attività della polizia, però l’attenzione è ora puntata sul capitolo dedicato ai cortei. Viene infatti ribadita e dettagliata la necessità — già evidenziata dopo il G8 di Genova — di lasciare ai manifestanti la cosiddetta «area di rispetto» e cioè una distanza congrua dai reparti in assetto antisommossa proprio per evitare che si entri facilmente in contatto. Non a caso si ritiene indispensabile che ai lati di chi sfila non vengano schierati agenti in divisa. Questo naturalmente presuppone che si segua il percorso autotizzato, dunque agenti e mezzi a protezione delle istituzioni o delle zone vietate devono essere sistemati lontano dal corteo. Il regolamento raccomanda l’utilizzo dei dispositivi e degli equipaggiamenti che possano scoraggiare gli attacchi dei manifestanti e quindi le successive «cariche». Proprio come accaduto a Napoli il mese scorso, quando l’assalto al palazzo del vertice della Banca centrale europea fu fermato con l’uso degli idranti e questo fu sufficiente per disperdere i contestatori più facinorosi. Il fine è evidente: evitare il contatto diretto con i manifestanti e così limitare al massimo l’uso della forza. Manganelli e manette 27 Il lavoro più approfondito svolto in questi mesi ha riguardato tutti gli strumenti in dotazione agli agenti che — in casi di estrema concitazione oppure di scontro — possono diventare mezzo di offesa come i manganelli, gli sfollagente, le manette. Ma pure quelli utili a ricostruire quanto accaduto durante eventuali incidenti, come le telecamere montate sulla divisa che i poliziotti hanno chiesto e ottenuto proprio per poter documentare gli scontri. Grande rilevanza deve essere attribuita all’analisi preventiva, con la valutazione sulle componenti che scendono in piazza proprio per poter modulare al meglio il dispositivo di sicurezza. E così distinguere le frange estreme da chi invece cerca soltanto di far valere i propri diritti. Su tutto questo ci si confronterà con i sindacati, già convocati per giovedì al Viminale. Riceveranno il testo e poi dovranno presentare le proprie valutazioni. Le posizioni — come si è visto anche in questi giorni — sono molto distanti con Cgil, Siulp e Associazione funzionari che invitano alla pacatezza i propri colleghi, mentre Sap, Coisp e altre sigle minori continuano a fomentare la «base». Il passaggio alla Camera Una divisione riproposta in maniera eclatante in queste ore, alla vigilia del voto sulla mozione di sfiducia presentata da Sel, Movimento 5 Stelle e Lega contro il ministro dell’Interno Angelino Alfano che sarà discussa domani alla Camera. A riaccendere la polemica è un video, trasmesso domenica sera da «Gazebo» su Raitre che mostra un funzionario della polizia mentre incita gli agenti a «caricare» i lavoratori della TyssenKrupp. Duro è l’attacco del presidente del Pd Matteo Orfini, condiviso da Sel: «Capisco che è impegnato ad annullare matrimoni, ma il prefetto di Roma potrebbe trovare un minuto per spiegare queste nuove immagini sulla carica». E tanto basta per comprendere come la vicenda sia tutt’altro che chiusa. Fiorenza Sarzanini Del 4/11/2014, pag. 20 Cucchi, il grande freddo tra la famiglia e la procura “Abbiamo perso solo tempo” Pignatone: rileggeremo le carte. Poi loda i titolari dell’inchiesta La sorella di Stefano si infuria. Il Sappe la querela: ci calunnia ILARIA CUCCHI «Abbiamo solo perso tempo». Tutto sembrava essere andato bene. E invece si chiude così, con queste parole lapidarie di Ilaria Cucchi, l’incontro tra lei, i suoi genitori e il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. La famiglia del giovane morto cinque anni fa dopo essere stato arrestato, era arrivata a palazzo di giustizia alle 2.30 del pomeriggio. Superato il dispiegamento delle telecamere e avere mostrato le foto del corpo dilaniato di Stefano, i Cucchi sono stati immediatamente ricevuti. Un quarto d’ora circa di colloquio, «teso ma cordiale», durante il quale il procuratore ha annunciato la sua disponibilità a riesaminare le carte del caso. «La procura, con animo sereno e senza pregiudizi di alcun tipo, né positivi né negativi, rileggerà gli atti del procedimento, dal primo all’ultimo foglio. Ovviamente vagliando le posizioni che non sono a processo». Il che in buona sostanza vuole dire i carabinieri, che hanno arrestato Stefano Cucchi, e chiunque altro possa essere sfuggito alle indagini. «Ho detto alla famiglia che le leggerò io personalmente. E al termine di questo lavoro faremo le nostre valutazioni non prima che siano arrivate le motivazioni della Corte 28 d’Assise d’Appello». Fino a qui, tutto sembrava andare per il meglio. La tregua, se così si può chiamare (Ilaria Cucchi a chi le ha chiesto se era felice ha risposto: «La mia felicità è finita cinque anni fa, quando ho perso mio fratello») è cessata però non appena le agenzie hanno diffuso la notizia della dichiarazione fatta poco dopo dal procuratore: «Voglio dire che i due pubblici ministeri hanno fatto un lavoro egregio e godono della mia piena fiducia». Immediata la reazione di Ilaria Cucchi: «Non sono passate nemmeno due ore dal colloquio durante il quale il procuratore ci ha garantito che avrebbe studiato tutto il fascicolo senza pregiudizi e già ha capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo relativo alla morte di Stefano Cucchi, oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo». D’altronde, la sorella della vittima non ha mai fatto mistero dei suoi attriti con la procura: «Spero sia stata soltanto una cosa fatta così, diciamo d’ufficio, per non sconfessare i due sostituti. Altrimenti è del tutto inutile. Comunque sia, io non mi arrenderò mai. Vorrei solo che questi magistrati provassero a chiudere gli occhi un istante e pensassero se invece di essere mio fratello quello morto nella mani dello Stato, fosse il loro. Non penso di essere assurda». E mentre sui social network è partita una campagna contro la sentenza di assoluzione con l’hashtag è #sonoStatoio che in poche ore ha già raccolto migliaia di firme, il sindacato autonomo della polizia penitenziara Sappe ha annunciato querela contro Ilaria Cucchi: «Calunnia e diffama la penitenziaria». 29 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 4/11/2014, pag. 10 Case bruciate e minacce Vita da sindaco di paese DA NORD A SUD, LE DENUNCE DEI PRIMI CITTADINI ALLA COMMISSIONE D’INCHIESTA PIÙ DI TRECENTO CASI SOLO DA GENNAIO AD APRILE 2014: UNO OGNI OTTO ORE Cadono regolari. Una a colazione, l’altra all’ora di pranzo, l’altra ancora all’ora di cena. Una telefonata anonima, una lettera di insulti, quando va bene. Una macchina bruciata, un animale morto sull’uscio di casa, se gira peggio. Così, ogni 8 ore, dal lunedì alla domenica festività incluse, un sindaco di un comune italiano viene minacciato, intimidito, perseguitato: 321 casi solo nei primi quattro mesi del 2014, quasi tre al giorno. Succede più spesso in Sicilia, Puglia e Calabria. Ma anche in Toscana, Marche ed Emilia Romagna: da gennaio ad aprile, gli episodi intimidatori hanno già superato quelli di tutto il 2013. Fascicoli aperti quasi sempre contro ignoti. Da qualche mese, al Senato, sfilano i protagonisti di queste storie. E raccontano alla Commissione di inchiesta sulle intimidazioni agli amministratori locali le loro vite in trincea. Eccone alcune. Antonio Barile, San Giovanni in Fiore (Cosenza): “Non passa giorno senza che io riceva nel mio ufficio gente disperata che non ha casa, che non ha soldi per le bollette e se non li si gestisce come si deve ci si può ritrovare in situazioni difficili. La prima non ricordo se è avvenuta alla mia prima elezione, perché mi hanno tagliato le ruote dieci volte. Il primo atto serio è che mi hanno svitato tutti i bulloni delle ruote della macchina e mia moglie, mentre andava a Crotone, ha rischiato di morire in quanto le ruote stavano per volare via. Per fortuna, se n'è accorta perché ha spento la radio e ha sentito un rumore; si è fermata e c'erano tutte le ruote svitate. Dopo un anno, è avvenuto l'altro atto pesante: una casa di campagna dove andiamo il fine settimana è stata bruciata completamente all'interno con evidente segno di intimidazione perché mi hanno bruciato il letto e la culla del bambino. Hanno messo dentro delle ruote e li hanno incendiati”. Maria Ferrucci, Corsico (Milano) : “Fu installata una sala giochi senza neanche la licenza da parte della questura; quindi, svolti immediatamente i controlli, venimmo a conoscenza di tutto quello che non funzionava, cui si aggiungeva il fatto che lì si era venuto a creare un ritrovo di persone collegate alla criminalità organizzata, cui era direttamente collegata pure la persona che doveva gestire la sala stessa. Chiudemmo quindi la sala giochi con i sigilli, ma le persone coinvolte ci minacciarono, dicendo, come sempre accade, che nel giro di tre giorni avrebbero avuto le licenze che servivano loro. In realtà, riaprirono la sala giochi con un'azione di forza nei nostri confronti, infischiandosene della nostra polizia locale; siamo però andati avanti e abbiamo chiuso nuovamente la sala. La mia macchina è stata circondata da ricevute di giocate o di ‘gratta e vinci’, buttate tutto intorno, ed è stata messa in giro la voce che io sarei una giocatrice d'azzardo”. Alessio Chiavetta, Nettuno ( Roma) : “C'è una crisi economica enorme e stiamo vivendo un momento difficile come città, un po’ come tutte le altre. Gli amministratori vengono esposti al pubblico, in alcuni casi, e a minacce in altri casi; arriva qualcuno che dice: “andiamo sotto casa”; “andiamo a menarlo”; “dammi 100.000 euro e ci penso io”. Oppure vengono fatte minacce dirette: 30 “Una volta che ti togli la fascia di sindaco, siamo io e te”. Si dicono anche altre cose che non posso riferire perché si tratta di parolacce”. Giosuè Starita, Torre Annunziata (Napoli): “Sono stati incendiati i due portoni principali di accesso alla Casa comunale. La nostra città è una sorta di ‘Gran - de fratello’, grazie alle diverse telecamere che abbiamo installato dappertutto e quindi è facile ricostruire tutto ciò che accade: si vede il soggetto, che in quel momento non ha con sé taniche di benzina o altro, che parte da un’abitazione in una zona particolarmente malfamata; successivamente recupera la tanica, in un punto dove abitano altri appartenenti alle famiglie camorristiche, e quindi va ad incendiare il portone: la dinamica è abbastanza precisa. Una delle categorie che più mi inquieta a Torre Annunziata è quella dei commercianti. Ad esempio, nelle riunioni si inizia a parlare di antiracket, ma si finisce sempre a discutere dell’il - luminazione stradale, delle buche, della Tarsu o del traffico, che sembrano essere i problemi centrali. Questo è degno del miglior Johnny Stecchino! Se si parla di camorra, si leva subito un brusìo e si viene accusati di parlare sempre delle stesse cose. Se si vuole far concludere una riunione perché magari ci si è stancati, basta proporre di fare un documento contro la camorra: vanno via tutti perché improvvisamente si accorgono che devono riaprire i negozi!” Paola Natalicchio, Molfetta (Bari): “Partirei da alcuni atti intimidatori che ho vissuto proprio in riferimento alla persona che ha ucciso Gianni (Carnicella, ex sindaco ammazzato nel '92, ndr): costui si chiama Cristoforo Brattoli e, soprattutto nei primi mesi del mio mandato, si è visto molto spesso nei locali di via Carnicella - sembra un paradosso - chiedendo ripetutamente di essere ricevuto sia da me sia dal mio vice sindaco. (…) Il signor Brattoli per numerose settimane ha insistito nei nostri corridoi. In particolare, per un periodo aspettava il mio arrivo in garage, in una zona retrostante agli uffici del sindaco nella quale possiamo parcheggiare ed entrare da una scala. Siccome non lo ricevevo, si faceva trovare appollaiato vicino ad una finestra e mi dava il buongiorno quando arrivavo; poi, quando tornavo a casa a pranzo o riprendevo la macchina, lo trovavo sempre lì, appollaiato>>. 31 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 04/11/14, pag. 27 Unione. Dopo il monito di Merkel il governo Cameron ribadisce l'esigenza di limiti anche nella Ue Londra-Berlino: scontro sugli immigrati Nicol Degli Innocenti LONDRA Londra si allontana da Bruxelles e Berlino prende le distanze da Londra. Mettendo in dubbio il principio della libera circolazione delle persone e dei lavoratori all'interno dell'Unione europea David Cameron rischia di raggiungere il «punto di non ritorno» che porterà all'uscita della Gran Bretagna dalla Ue. E questa volta la Germania starà a guardare senza opporre resistenza: questo l'avvertimento lanciato dal cancelliere Angela Merkel al premier britannico. Ad allarmare la Merkel sono state le recenti dichiarazioni di Cameron sulla possibile imposizione di tetti, quote e limiti al numero di immigrati dai Paesi Ue, che secondo il cancelliere violerebbero il principio-chiave alla base del progetto europeo. Il governo tedesco vuole che Londra resti nella Ue ma non intende scendere a compromessi sulla libera circolazione, ha sottolineato ieri il portavoce della Merkel: «La Gran Bretagna deve chiarire il ruolo che intende svolgere in futuro nella Ue». Downing Street ha reagito con toni di sfida: la la libertà di movimento non può essere un «diritto incondizionato» e le regole devono diventare più «ragionevoli», ha detto ieri il portavoce del premier. Mentre nei partiti di opposizione e sui media infuriava la polemica per il monito tedesco, è toccato al cancelliere George Osborne presentare la posizione dei Tories e ribadire che cercheranno di limitare sia il numero di immigrati dalla Ue che il loro accesso ai sussidi statali britannici. «Agiremo in modo calmo e razionale ma sempre nell'interesse nazionale» ha dichiarato Osborne. Il cancelliere ha minimizzato la querelle nata da indiscrezioni di stampa tedesche, definendola «una storia basata su voci su quello che Merkel potrebbe avere detto a proposito di qualcosa che Cameron potrebbe dire in futuro» e ha voluto ribadire l'unità di vedute tra i cittadini dei due Paesi. «I tedeschi comprendono l'inquietudine degli inglesi quando ci sono persone che arrivano senza lavoro da altre parti d'Europa e reclamano i nostri sussidi» ha detto. Dopo molte vaghe dichiarazioni, Cameron si è impegnato a presentare prima di Natale una serie di proposte dettagliate sulle riforme che chiede a Bruxelles. Allo studio tra l'altro un sistema per deportare chi dipende ancora dai sussidi tre mesi dopo l'arrivo in Gran Bretagna e il possibile utilizzo del controverso "freno di emergenza" per chiudere le frontiere se l'immigrazione supera una certa soglia. La retorica più aggressiva di Cameron nelle ultime settimane è stata dettata da ragioni di politica interna. L'ascesa di Ukip, il partito che chiede l'uscita immediata dalla Ue e promette di chiudere le porte all'immigrazione, rischia di danneggiare le prospettive dei Tories nelle cruciali elezioni del maggio prossimo. Ukip ha appena mandato il suo primo deputato al Parlamento di Westminster, grazie alla defezione di un Tory euroscettico, e presto potrebbe averne un secondo. Secondo i sondaggi infatti le elezioni suppletive del 20 novembre a Rochester porteranno alla vittoria del candidato Ukip, che con grande irritazione di Cameron è un altro transfuga dai Tories. 32 Nigel Farage ieri ha colto la palla al balzo e ha dichiarato che il monito della Merkel è un'ulteriore prova che non esistono compromessi fattibili sull'immigrazione e che quindi la Gran Bretagna deve uscire dalla Ue: «Non è possibile avere un menu à la carte in Europa» ha detto il leader di Ukip. 33 SOCIETA’ del 04/11/14, pag. 19 Alfano e le case popolari occupate «Niente acqua e luce agli abusivi» La denuncia dell’Unione inquilini: in Italia 40 mila alloggi pubblici sfitti ROMA Non ha usato mezze parole il ministro dell’Interno Angelino Alfano: «Le occupazioni illegali delle case sono del tutto inaccettabili, siamo pronti a intervenire». Ieri Alfano ha risposto a una domanda durante un programma televisivo del mattino e sembrava con l’occasione che avesse voluto cogliere al balzo e rilanciare l’appello di un suo compagno di governo, il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Anche Angelino Alfano, infatti, ha ribadito il concetto che Lupi aveva già espresso un paio di giorni fa: «Chiunque occupi abusivamente una casa non può chiedere la residenza e l’allacciamento delle utenze». Niente gas, niente luce quindi per chi occupa alloggi illegalmente: «Lo dice la legge» ha decretato il ministro dell’Interno, promettendo interventi immediati. È ritornata alla ribalta qualche giorno fa la questione delle case popolari occupate abusivamente. È tornata alla ribalta in seguito all’inchiesta condotta dal Corriere tra i quartieri alla periferia di Milano dove è successo anche che un anziano, rientrato a casa dall’ospedale, aveva trovato il suo alloggio occupato da una famiglia di rom. Il responsabile del Viminale non ci sta e vorrebbe mettere la parola fine a un fenomeno che si trascina da anni. Dice infatti: «Abbiamo approvato apposta un decreto legge dove all’articolo 5 si prevede esplicitamente la lotta alle occupazioni abusive di immobili». Poi, sempre alla trasmissione televisiva del mattino sulle reti Mediaset, chiarisce il suo pensiero, senza lasciare ombra di dubbi: «Chi ha diritto deve avere la casa, chi non ce l’ha non può averla e chiunque occupi irregolarmente non può avere la residenza. Non accetteremo che questa illegalità vada avanti». Il fenomeno delle case popolari occupate abusivamente è diffuso a macchia d’olio un po’ in tutto il Paese. Ma è a Milano che da qualche tempo si sono riaccesi i riflettori per illuminare un dramma che ha tutto il sapore di una «guerra tra poveri» come ha commentato ieri Massimo Pasquini, presidente dell’Unione inquilini proponendo una sua soluzione al caso. «Le ragioni di quello che sta accadendo vanno ricercate a monte» sostiene Pasquini. E spiega: «Quello che nessuno dice, parlando di Milano ad esempio, è che qui ci sono 23 mila famiglie in graduatoria per avere una casa popolare e, contestualmente, ci sono ottomila appartamenti popolari o di proprietà del Comune sfitti, in condizioni di degrado e non assegnati. In tutta Italia questo numero sale ad oltre 40 mila alloggi popolari sfitti». Secondo Pasquini sono questi i numeri che generano l’emergenza, la «guerra tra poveri». «Sono questi numeri che delineano la situazione drammatica che bisogna evidenziare. Sappiamo bene che il mercato delle case popolari è in mano alla criminalità organizzata per venderle a 30 o a 50 mila euro nel mercato nero. Per questo è opportuno provvedere all’assegnazione, e in fretta, delle case sfitte». E anche Mohamed Sameh, portavoce di un gruppo di inquilini di Milano aggiunge: «Non chiediamo lo stato di polizia ma il rispetto delle regole». Alessandra Arachi 34 Del 4/11/2014, pag. 5 Nella mirabolante città dell’Expo caccia aperta a chi occupa le case Milano. Destre, Ncd e Corriere della Sera in campagna elettorale strumentalizzano l'emergenza abitativa agitando lo spettro degli stranieri che rubano le case agli italiani. Ermanno Ronda (Sicet): «La stragrande maggioranza delle occupazioni ha una storia ventennale e l’impegno della giunta Pisapia è insufficiente» Luca Fazio, MILANO Questa è una storia di miseria. Politica e sociale. Nel paese con il record dei proprietari di case (85%) si sta scatenando la caccia agli occupanti abusivi di case. Un marchio di infamia per centinaia di migliaia di poveri che non possono permettersi di esistere a prezzi d mercato. Sulla loro pelle, a Milano, il centrodestra sta impostando la campagna elettorale. Non solo per insidiare la giunta di Giuliano Pisapia. Hanno cominciato le reti Mediaset, poi il Corriere della Sera. Morale: Milano sarebbe sotto assedio. Su 1.278 occupazioni dall’inizio dell’anno, tre su quattro hanno un colpevole: gli stranieri. Si tratta di «tentativi», ma il dettaglio interessa poco i ministri Maurizio Lupi (futuro candidato sindaco?) e Angelino Alfano. Il primo staccherebbe gas e luce anche ai bambini, il secondo ha già l’elmetto in testa: «Interverremo». Le cronache raccontano di donne straniere con figli e di «zingari» che occupano le case delle vecchiette uscite a fare la spesa. La storia si ripete, ma non sono vaccinati nemmeno gli amministratori più avveduti. L’assessore alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino, di solito vicino agli ultimi della terra, si lascia sfuggire un’argomentazione alla De Corato: «Smettiamola con il sociologismo d’accatto. Chi occupa va sgomberato e gli edifici vanno difesi anche sperimentando forme di sorveglianza privata» (Matteo Salvini, proprio a Milano, aveva chiesto l’intervento dell’esercito). A Milano le occupazioni abusive sono 4.850 — tra case popolari della Regione (Aler) e del Comune. Ma per la stragrande maggioranza si tratta di occupazioni storiche (l’80%). Ci sono famiglie «abusive» che hanno occupato 25 anni fa, dopo l’ultima sanatoria. Mario T., 47 anni, disoccupato, dal 1999 suo malgrado ingrossa le statistiche. Eppure versa regolarmente l’affitto. «Pago un’indennità di occupazione — spiega — di 300 euro al mese per 45 metri quadrati. L’Aler dopo dieci anni di pagamenti regolari me ne ha chiesti 700 ma non posso pagare una cifra così». Cinque anni fa la Regione ha istituito una commissione per valutare le occupazioni caso per caso: Mario T. ci sperava, ma la commissione non è mai partita. La situazione è sempre stata drammatica. Dopo cinque anni di crisi, lo è ancora di più. A Milano ci sono 23.500 famiglie in lista di attesa per un alloggio popolare e 1.000 sfratti esecutivi per morosità. Però Regione e Comune dispongono di 8.000 alloggi sfitti. Come si spiega? «Su circa 58 mila inquilini — dice Ermanno Ronda del Sicet Milano — c’è un turnover fisiologico, ma quando gli alloggi si svuotano nessuno se ne fa carico per ristrutturarli e riassegnarli. La Regione mette pochi soldi, lo Stato non ha ancora stanziato quelli promessi e il Comune si impegna per l’Expo ma destina pochi fondi per le case popolari». Per evitare nuove occupazioni molti appartamenti vengono distrutti. Una follia: così facendo, per essere assegnati avranno bisogno di interventi molto più costosi. Soldi che non ci sono. Secondo Ermanno Ronda la giunta Pisapia non è esente da colpe: «L’offerta di case viene fatta col contagocce, la conoscenza del patrimonio abitativo è scarsa, la macchina operativa è lenta e questa debolezza presta il fianco a strumentalizzazioni politiche mentre la situazione è sempre più 35 esplosiva». Ronda è perplesso anche sulla «rivoluzione» annunciata da Palazzo Marino, che dal primo dicembre assegnerà la gestione delle sue case popolari alla società Metropolitana Milanese (di sua proprietà) dopo la gestione fallimentare dell’Aler: «Non c’è chiarezza». Chi parla di escalation strumentalizza l’aspetto più drammatico della crisi, ancora più del lavoro che manca. Alcune situazioni al limite ci sono, in quartieri dove la pressione è reale (San Siro, Giambellino, Lorenteggio). Ma è sempre stato così. Quanto alle donne rom che occupano, che altro potrebbero fare visto che la giunta ha continuato a sgomberare senza offrire soluzioni? Anche se complicata, la quotidianità nelle periferie non somiglia al far west. Simona Fregoni, presidente della commissione case popolari di zona 9, parla di una situazione sotto controllo (nell’ultima settimana hanno evitato due nuove occupazioni). Ma è preoccupata: «Il clima è cambiato, la guerra tra poveri è dietro l’angolo, se gruppi di estrema destra aprissero sedi nelle periferie la situazione diventerebbe esplosiva». del 04/11/14, pag. 27 Noi, i pessimisti L’Italia che non sogna più: al 134° posto su 142 Paesi Ci superano in ottimismo anche ucraini e thailandesi Era l’ultima certezza: nonostante tutto siamo un popolo resiliente e tenace, capace di reagire alle difficoltà! Il timore è che non sia più così. Forse stiamo perdendo anche l’ottimismo. Il rapporto Prosperity Index 2014, appena pubblicato dal Legatum Institute, ogni anno mette a confronto 142 Paesi. Nell’indice di prosperità siamo scesi al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013. L’Italia registra i picchi negativi alle domande «L’economia andrà meglio?» e «È un buon momento per trovare lavoro?»: siamo 134° su 142 Paesi. Siamo più pessimisti di spagnoli (132°), francesi (120°) e ucraini (107°). Uscendo dall’Europa, più di peruviani (36°) e thailandesi (quarti!). Le grandi masse cinesi e indiane (rispettivamente 54° e 67°) sono più ottimiste di noi. Sorprendente? Non tanto. L’ottimismo delle nazioni non è legato ai numeri, ma alle prospettive. Non ai fatti, ma alle percezioni e alle aspettative. Gli umani sono esseri sognatori e misurano la felicità sul progresso. È un grande sabato del villaggio globale: e in Italia stiamo perdendo il gusto del dopo. Kazaki (30°) e uruguayani (43°) non stanno meglio di noi, oggettivamente; ma sono convinti che oggi sia meglio di ieri e domani sarà meglio di oggi. Queste cose contano, nella vita delle persone, delle famiglie e delle nazioni. I più grandi masticatori di futuro vivono negli Usa. Non dipende solo dall’economia e dall’occupazione (248.000 nuovi posti di lavoro in settembre). Vecchi residenti o nuovi arrivati, gli americani sono convinti di poter condizionare il proprio futuro. Gli Stati Uniti sono una nazione fondata sul trasloco, nuove residenze e nuove conoscenze. Ogni presidenza è una catarsi; ogni elezione un inizio; ogni lavoro una sfida. Il fallimento, che in Italia è un marchio d’infamia, negli Usa vuol dire: almeno ci ho provato. Non possiamo, né dobbiamo, scimmiottare l’America. Ma dobbiamo ammettere che il nostro realismo è diventato cinismo, e il cinismo ci sta conducendo al pessimismo. I continui, pessimi esempi pubblici — 5,7 miliardi l’anno il costo della corruzione, stimano Guardia di Finanza e Corte dei Conti — contribuiscono a questo umore. Altrove non accade. I Paesi che hanno una libertà di informazione simile alla nostra non hanno la 36 nostra corruzione; e i Paesi che hanno la nostra corruzione non hanno la nostra libertà di informazione. Una consapevolezza scoraggiante, quella italiana. L’economia e l’occupazione influiscono sull’umore collettivo; e l’umore collettivo, lentamente, diventa narrativa nazionale. Quali Paesi possiedono oggi la capacità di vedere se stessi come protagonisti di una storia che va avanti? Dell’America, abbiamo detto. Cina e India, in competizione tra loro e col resto del mondo, hanno una visione epica di questo momento storico. In Europa è una tranquilla consapevolezza che accomuna Germania e Polonia, Irlanda e Regno Unito. Perfino la Russia ha un’idea di se stessa. Putin, in cerca di consenso, ha rispolverato i miti sovietici. In mancanza di meglio, molti connazionali gli hanno creduto. L’Italia ha saputo raccontarsi negli anni Sessanta, quando l’economia tirava e le famiglie sognavano (sì, anche grazie a un’automobile o a un elettrodomestico). A metà degli anni Ottanta, quando ha intravisto il sorpasso dell’Inghilterra. Nei primi anni Novanta, quando ha provato a battersi contro il malaffare. Negli anni Duemila, quando la maggioranza ha creduto al «contratto con gli italiani» di Silvio Berlusconi. Tre illusioni e tre delusioni, seguite da questi anni di crisi economica. Facciamo fatica a sognare ancora. Beppe Severgnini 37 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 4/11/2014, pag. 6 Riscaldamento climatico: allarme Onu Rapporto dell'Ipcc. "Bisogna agire subito" affermano gli esperti, per sperare in un riscaldamento che non superi +2 gradi. A dicembre riunione preparatoria a Lima in vista del summit mondiale del 2015 a Parigi. L'economia non subirà conseguenze se il mondo si impegna, in caso contrario c'è un rischio catastrofi. ma gli egoismi nazionali hanno ancora il sopravvento Anna Maria Merlo, PARIGI Un anno per trovare un accordo mondiale e combattere il riscaldamento climatico che minaccia la terra. Il quinto rapporto dell’International Panel on Climate Change (Ipcc) – organismo Onu che nel 2007 ha avuto il Nobel per la pace – mette in guardia i governi: bisogna agire in fretta e con decisione, per evitare “effetti severi e irreversibili” che minacciano le società umane e l’ecosistema. Nel 2050, bisognerà arrivare ad avere almeno l’80% di energie rinnovabili, entro il 2100 l’energia fossile dovrà essere eliminata. L’Ipcc è estremamente preoccupato, ma non assolutamente pessimista: siamo ancora in tempo per rimediare almeno in parte ai danni arrecati dal modo di produzione dominante, “abbiamo i mezzi per limitare il cambiamento climatico in corso”, ha precisato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon alla presentazione del rapporto Ipcc a Copenhagen, domenica. Non ci sono più scuse, dice il rapporto, dopo anni di polemiche sollevate dagli “scettici” del riscaldamento climatico, “l’ignoranza non puo’ più essere un pretesto”. Le conclusioni dell’Ipcc sono basate su 30mila ricerche, analizzate da 800 scienziati, commentate da un altro migliaio e riviste da altri duemila studiosi. La temperatura è aumentata globalmente di 0,85 gradi nella bassa atmosfera terrestre dalla fine del XIX secolo. Il livello degli oceani è salito di 19 centimetri. Per limitare al massimo a due gradi il riscaldamento climatico – è la soglia di “pericolo” stabilita nel 2009 e accettata a livello internazionale – le emissioni mondiali a effetto serra dovranno diminuire tra il 40 e il 70% entro il 2050 (rispetto al 2010), ma nei fatti sono in continuo aumento. Nel 2100, le emissioni di Co2 dovranno essere pari a zero, se non negative (con assorbimento di Co2). I negoziati internazionali dovranno arrivare a un accordo, al summit di Parigi del dicembre 2015, firmato dai 195 paesi che aderiscono alla Convenzione sul clima. All’inizio del prossimo dicembre, c’è una riunione preparatoria a Lima. Ma sono 25 anni che l’Ipcc esiste e che lancia allarmi, senza effetto. Cosa potrà far cambiare rotta? In questo ultimo rapporto viene sottolineata con forza la questione economica. Finora, la rivoluzione energetica è stata frenata dal timore di influire negativamente sull’economia. Secondo gli esperti, mantenere il riscaldamento climatico entro i 2 gradi, “non colpirà significativamente la crescita” – una riduzione annuale a livello mondiale tra lo 0,04% e lo 0,14% — mentre perseverare con le emissioni ad effetto serra avrà conseguenze economiche catastrofiche, a cominciare per esempio dalla sicurezza alimentare. Inoltre “più aspettiamo (ad agire) più i costi saranno importanti”. Certo, gli sforzi da realizzare non saranno “senza cambiamenti nello stile di vita e nei comportamenti”: in altri termini, tutta l’umanità non puo’ avere come prospettiva di adeguare il proprio modello di vista su quello occidentale. Eppure, è quello che succede ora. La Cina è ormai il primo produttore mondiale di Co2 con il 29% delle emissioni totali, seguita dagli Usa, al 16% e dalla Ue, all’11%. L’accordo di Parigi dovrà essere internazionale, rilanciando cosi’ una cooperazione che sta soccombendo sotto i colpi delle guerre, della concorrenza economica, del primato degli interessi particolari. 38 L’Ue si è proposta come “modello” mondiale. Ma L’Europa adesso frena. La scorsa settimana, i 28 hanno raggiunto un accordo al minimo comun denominatore sul clima, che ha cercato un punto di equilibrio precario tra interessi dei diversi stati, per ridurre la spaccatura tra i paesi di vecchia industrializzazione e l’est europeo, dove l’energia fossile ha un peso maggiore. Ma anche la Germania, che si presenta virtuosa per le rinnovabili, continua ad avere molte centrali a carbone, mentre la Francia vanta un “buon” bilancio Co2 solo grazie ai 58 reattori nucleari e la Gran Bretagna rifiuta ogni interferenza sull’efficienza energetica. “Il governo italiano sembra voler rimanere ancorato al passato – denuncia Greenpeace – il decreto sblocca Italia dà il via a trivelle nei mari per due gocce di petrolio. Una vera follia”. E la Turchia, con incredibile faccia tosta, propone Istambul – dove si sradicano alberi a un ritmo accelerato in nome della “modernità” – come “capitale verde” europea per il 2017. del 04/11/14, pag. 19 La carica della green economy Da domani a Rimini gli Stati generali Le imprese verdi chiedono alla politica di assecondare (e non frenare) la crescita Jacopo Giliberto Sulla green economy si pubblicano libri ponderosi di economisti e saggi documentatissimi di studiosi, ne parlano con facondia politici e oratori. Una volta la green economy si faceva e basta, e nessuno la chiamava così. La carta, fino a cent'anni fa, era prodotta riciclando stracci; il ferro si riutilizza fin dalla comparsa dell'età del ferro; i vestiti vecchi, dopo essere stati rammendati, rattoppati, rigirati e rifoderati più volte, finivano a Prato per diventare lana da materassi e imbottiture. Era green economy della fame e della povertà. Oggi sappiamo che di sicuro l'economia verde, con radici così profonde, è quella del futuro prossimo. Dall'economista Alessandro Marangoni (Althesys) apprendiamo che il riciclo dei rifiuti sviluppato dal sistema Conai ci fa risparmiare 3,24 miliardi all'anno che altrimenti l'Italia spenderebbe per lo smaltimento dei rifiuti di imballaggio. Ed ecco infatti l'entusiasmo espresso dal ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, nel presentare gli Stati generali della green economy in programma da domani alla Fiera di Rimini durante Ecomondo: gli Stati generali «sono il motore della conversione culturale, e quindi politica ed economica, che sta ponendo l'economia sostenibile al centro del progetto-paese. I dati parlano chiaro: in anni di crisi gravissima, cresce, e vigorosamente, nel nostro paese un solo comparto, quello della green economy. È cresciuto il volume d'affari ed è cresciuta soprattutto l'occupazione. Il Governo sostiene questa "rivoluzione ambientale"». Eppure a differenza degli auspici del ministro le politiche attuate da anni sono ondivaghe e incostanti. La locuzione che parla di un'Italia "a due velocità" è sì un luogo comune, ma ha un fondamento di terribile verità. Per esempio il 41% dei rifiuti (dato sul 2012 nell'ultimo rapporto Ispra) va in discarica soprattutto per il grande vuoto di alcune regioni del Mezzogiorno. Non a caso la settimana scorsa è dovuto intervenire perfino il Conai per riuscire ad avviare d'intesa con il Comune la raccolta differenziata a Casal di Principe, nel Casertano, la terra difficile del clan dei casalesi. Come ha detto la sottosegretaria all'Ambiente, Barbara Degani, «nell'economia circolare il rifiuto non è un problema, ma può essere addirittura una risorsa, se gestito legalmente, anche per lo sviluppo di un 39 territorio. Per questo dobbiamo lavorare con forza partendo da quelle comunità locali, come Casal di Principe, dove l'ambiente è stato sfruttato e violentato per anni». Gli imprenditori, nei documenti preparatori degli Stati generali riminesi, vogliono che i politici, contraddittori e incerti, assecondino la crescita invece di frenarla nel nome di malintesi concetti desueti. L'economia verde in Italia ha caratteristiche, consistenza e potenziali di sviluppo che possono accelerare l'abbandono veloce della brown economy, contenere i costi e ridurre i rischi delle crisi ambientali, a partire da quella climatica, per assicurare possibilità di sviluppo anche in futuro e per migliorare, rendere più esteso e inclusivo, il benessere. L'esperienza – dicono le imprese verdi – ha mostrato che la competitività ha tratto benefici dalla crescita della consapevolezza ambientale e della domanda di beni e servizi ad elevata qualità ambientale. Sulla produttività del lavoro non sono mancate le novità green: con l'eco-efficienza, con un migliore uso delle risorse (materiali ed energia), con l'ecoinnovazione, con i miglioramenti della qualità dei prodotti e delle vendite, l'indirizzo green in non pochi casi ha contribuito a migliorarla e a consentire un buon livello di profittabilità. La lunga crisi avviata nel 2008 ha messo in difficoltà le produzioni e i profitti di molte imprese, ma ha così anche alimentato la ricerca di nuovi sbocchi di mercato e una spinta verso innovazioni, conversioni, differenziazioni di produzioni e prodotti in direzione green. Un esempio per tutti: attraverso la promozione del progetto Corrente del Gse, la Vt Telematica venderà in India 100 container di pannelli fotovoltaici della siciliana 3Sun per un ordine complessivo di 10 milioni di euro. Per la 3Sun si tratta di circa il 20% della produzione industriale annua dello stabilimento. «Un gruppo esteso di imprenditori si caratterizza per un nuovo orientamento, chiaramente green, e comincia a operare nella stessa direzione sulla base di idee e convinzioni condivise – commenta Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile (che ha preparato l'attività degli Stati generali) -. È su questo importante fattore che vogliamo incentrare la discussione presentando al Governo imprenditori pronti a fare squadra per affrontare la crisi economica e climatica». 40 INFORMAZIONE Del 4/11/2014, pag. 1-14 E’ il momento di riprenderci la nostra testata miriprendoilmanifesto.it. In questa crisi sempre più nera, nell’asfissiante conformismo dell’informazione, per un milione di ragioni (e di euro) lanciamo la nostra campagna più difficile. Dobbiamo, vogliamo ridiventare «padroni di noi stessi». Entro la fine dell’anno i liquidatori metteranno all’asta la testata «il manifesto». C’è il rischio che finisca in altre mani. Perciò ci serve davvero l’aiuto di tutte e tutti Norma Rangeri Care lettrici, cari lettori, cosa è per voi il manifesto? Che cosa rappresenta? Qual è il vostro rapporto con il giornale? Per noi che lo abbiamo curato, difeso, inventato per oltre quarant’anni non è mai stato solo un posto di lavoro, rappresenta un luogo dell’anima, nel quale mettiamo testa e cuore ogni giorno per coltivare idee, progetti, e, oggi, anche per realizzare un obiettivo che perseguiamo da anni. Per concretizzarlo, per dare corpo a questa speranza, adesso dobbiamo compiere un salto con l’asta, spingere il nostro giornale oltre l’ostacolo, il più grande della nostra storia: l’acquisto della testata. Ma per realizzare questa nuova, grande impresa abbiamo bisogno di una spinta collettiva. I liquidatori la metteranno all’asta entro la fine del 2014, come ultimo atto, finalmente, di una vicenda iniziata ormai due anni fa quando le difficoltà economiche portarono il collettivo alla decisione di liquidare la vecchia cooperativa per tentare di dare vita a un nuovo inizio. Per noi è stata una durissima sfida, che abbiamo affrontato con determinazione e convinzione. Superando dolorose divisioni politiche, vincendo spinte contrastanti, riuscendo, e lo possiamo dire con un pizzico di orgoglio, a ricostruire un gruppo di lavoro in grado di garantire al manifesto identità, vendite, lavoro. Con tutti gli alti e bassi di un’avventura senza rete. Non è poco in una fase di crisi profonda nella politica, nella società, nel lavoro, nell’informazione. Questa esperienza, con le sue debolezze, i suoi limiti, i suoi inciampi, questa nostra perigliosa navigazione che ha dovuto aggirare scogli e affrontare mari burrascosi, è giunta al suo ultimo, decisivo giro di boa. Dobbiamo, vogliamo fortemente diventare «padroni» (parola che stavolta possiamo usare), di noi stessi. E quindi della testata che dal 28 aprile 1971 mandiamo ogni giorno, tranne il lunedì, in edicola. Padroni di noi stessi perché non c’è chi più di noi possa reclamarne il diritto di esserlo. Perché in tutti questi anni abbiamo imparato che l’indipendenza è stata ed è la grande forza del manifesto. Non abbiamo un editore, né un socio finanziatore, nessuno che ci dica quello che dobbiamo fare o non fare. A volte, nei momenti più difficili, farebbe comodo avere un editore dalle spalle forti. Ma si tratta di un pensiero fugace, perché non si può cambiare la natura di questa particolare voce della sinistra, perché un editore unico snaturerebbe la storia del giornale. Ed è proprio l’esito che vorremmo scongiurare: evitare che il manifesto finisca in altre mani. Questo compito non può essere affrontato e garantito solo dal collettivo. Perciò abbiamo bisogno di una forte mobilitazione di tutti voi. La «partita» va chiusa entro Natale. E noi dobbiamo giocarla e vincerla. Possiamo farlo soltanto insieme: noi e voi, voi e noi. Per riuscirci è importante ritrovare una risorsa, un valore che la sinistra sembra avere smarrito: la solidarietà. Che in questo caso significa capacità di donare anche poco, facendolo però in tanti, tantissimi, per ottenere un beneficio comune. La crisi divide, isola, spinge cia41 scuno ad affrontare le difficoltà della vita individualmente. Gli operai soli davanti alla fabbrica, gli anziani con la loro scarsa pensione, le donne costrette a tornare a casa, i ragazzi a cui manca un futuro, i precari che non hanno garanzie, gli intellettuali senza idealità, gli impiegati con lavori alienanti. Eppure in questa vasta solitudine che ci circonda, ogni tanto si accende una luce che illumina, come abbiamo visto con la manifestazione del 25 ottobre: se stiamo insieme, se siamo uniti, si può cambiare, si può vincere. Noi del manifesto viviamo da sempre un’esistenza povera di mezzi. Eppure, nonostante tutto, compensiamo le difficoltà di un’impresa politico editoriale con la solidarietà. La nostra, che si concretizza quotidianamente realizzando il giornale. La vostra, che acquistando e sostenendo il manifesto ci incoraggiate a continuare. È un esempio virtuoso di mutuo soccorso, è un modo di essere sinistra facendo camminare le idee (di autonomia, di indipendenza) nella pratica. Se fossimo militanti di un partito o iscritti a un’associazione ci rimboccheremmo le maniche anche per andare nei quartieri a costruire pezzi di welfare, per aiutare chi non ce la fa con azioni concrete (raccolte di fondi, coinvolgimento delle persone). Del resto se è vero che ci stanno spingendo verso rapporti di lavoro ottocenteschi, sarebbe utile recuperare proprio quelle forme di mutuo soccorso alla base della nascita del movimento operaio. D’altra parte ne abbiamo un esempio concreto e recente. Infatti proprio così hanno combattuto la loro battaglia le donne e gli uomini del movimento di Tsipras diventando pesci nell’acqua del popolo greco, fino a essere oggi il partito che punta al governo del paese. Ecco: la sinistra, oltre che studiare come uscire dall’angolo in cui il neoliberismo l’ha relegata, dovrebbe anche cominciare a fare quello che predica. Come sosteneva Luigi Pintor, non ci può essere separazione tra quello che si pensa e quello che si dice, tra quello che si dice e quello che si fa. Per noi del manifesto essere ogni giorno in via Bargoni — dove è la nostra sede a Roma — significa anche dare voce a chi non ce l’ha, significa fare una diversa informazione e comunicazione, per tentare di unire chi il potere vuole isolare, separare, ammutolire, persino umiliare. «Siamo diversi perché siamo tutti uguali» recita uno degli slogan della nostra campagna di promozione per l’acquisto della testata. Vuol dire una cosa molto semplice: qui le idee sono benvenute, perché vogliamo una sinistra plurale, ricca di differenze eppure fedele a un solido principio: l’uguaglianza. Che, nel caso nostro, cerchiamo di praticare compensando le differenze di ruoli e di responsabilità con la parità delle retribuzioni. Ebbene se si dovesse dare retta all’attuale presidente del consiglio, un giornale che difende i più deboli socialmente, che combatte contro Jobs Act e riforme maggioritarie, che si impegna per i diritti sociali e civili di tutti, sarebbe un ferro vecchio da rottamare. E allora, care lettrici e cari lettori, sta anche a voi smentirlo. Aiutandoci a riprenderci il nostromanifesto. Il salto con l’asta è alto, perché deve arrivare ad almeno un milione di euro. Al momento in più di tredicimila ogni giorno andate in edicola e on line per acquistare il giornale e in sessantamila ci leggete. Fate voi i conti di quanto ciascuno dovrebbe donare per raggiungere l’obiettivo. Noi li abbiamo già fatti: con una media di venti euro a testa possiamo farcela. E chissà: forse sotto l’albero del prossimo Natale potrebbe esserci un grande, bel regalo per tutti. 42 CULTURA E SCUOLA del 04/11/14, pag. 15 Cultura. A rischio la missione Unesco Pompei, in arrivo tre giorni di protesta Francesco Prisco POMPEI Ai piedi del Vesuvio la pace sociale è già finita. Nel sito archeologico di Pompei è di nuovo muro contro muro tra soprintendenza e sindacati. Questi ultimi venerdì scorso hanno proclamato lo stato di agitazione e, dal 5 al 7 novembre, riuniranno i lavoratori in assemblea, con tutti i disagi che potranno conseguirne per i visitatori. E con l'incognita della missione Unesco che, da sabato a martedì della settimana prossima, farà tappa nel sito. Due le questioni che hanno riacceso i toni del confronto: «iniziative, unilaterali e inefficienti, - si legge nel comunicato delle rsu - adottate dall'amministrazione in merito alla razionalizzazione delle risorse umane addette alla vigilanza» e soprattutto le nuove «linee guida per la riorganizzazione del servizio di vigilanza» che prevedono, tra le altre cose, una convenzione con un istituto di vigilanza privato. Sul primo versante, le sigle Flp e Unsa e tre rsu contestano le ultime decisioni assunte dalla soprintendenza che avrebbero comportato una «sperequazione dei carichi di lavoro, sbilanciando in maniera forte il numero del personale di vigilanza tra le cinque squadre» impegnate nel servizio di vigilanza «che invece andrebbe riequilibrato dopo gli ultimi cinque pensionamenti». Sono 129 gli addetti alla vigilanza degli scavi, cui si sommano 13 risorse in sala regia per un totale di 142 lavoratori delegati a questa mansione. Ma, come spesso accade all'ombra del Vesuvio, dietro a vicende contingenti ci sono in ballo questioni ben più grandi: è il caso del dibattito sulla riorganizzazione della vigilanza che, il prossimo 19 novembre, sarà oggetto di un incontro specifico. L'amministrazione ha proposto alla controparte una bozza di "riforma" che apre prefigura «una convenzione con un istituto di vigilanza privato, per l'integrazione dei servizi». Misura che a primavera scorsa fu anche caldeggiata dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Le linee guida della riorganizzazione tracciano poi un quadro critico del personale di vigilanza interno, il cui "standard formativo" sarebbe «da considerarsi carente sia sotto il profilo di base che su quello dell'aggiornamento». Con le aggravanti di una «non sempre elevata spinta motivazionale» e un'età media sui 56 anni. La soprintendenza propone per loro corsi di formazione. Le risorse non mancherebbero, considerando anche la dote dei 105 milioni del Grande progetto che si fa fatica a spendere e andranno tassativamente impiegati entro fine 2015. «Per quanto ci riguarda - commenta Antonio Pepe della rsu - utilizzeremo i giorni dell'assemblea per elaborare una controproposta sulla riorganizzazione del servizio di vigilanza». C'è da temere disagi anche alla luce dell'ispezione dei commissari Unesco, il prossimo fine settimana? «Tutt'altro, - risponde Pepe - i lavoratori degli scavi sono pronti a fare gli straordinari per consentire all'Unesco di effettuare tutti i rilievi di cui avrà bisogno». 43 Del 4/11/2014, pag. 32 Viaggio nel monumento che il ministro Franceschini vorrebbe coprire per ripristinare l’arena originaria Teatro di lotte tra gladiatori e in tempi recenti del concerto di Paul McCartney. Ma il lavoro sarebbe complesso e costoso perché sotto c’è un mondo, una fabbrica di spettacolo. E soprattutto scorre un fiume che farebbe saltare la copertura come un tappo Colosseo Mistery Tour FRANCESCO MERLO DALLA balconata del suo twitter il ministro Franceschini non l’ha vista, ma «nel Colosseo sotto il Colosseo c’è l’acqua, il fosso di san Clemente si chiama: un fiume che, quando piove, esonda, e in pochi minuti riempie tutto e dunque farebbe saltare l’eventuale copertura come un tappo» dice la direttrice Rossella Rea. E mi spiega che vale per il Colosseo, nell’architettura, quel che Mark Twain diceva del classico nella letteratura: «Tutti lo conoscono, ma nessuno l’ha letto». La direttrice Rea è un’archeologa napoletana che lavora per questo monumento dal 1985, e dunque, se non fosse una raffinata signora, sarebbe per il Colosseo quel che Quasimodo era per Notre-Dame, custode e campanara, e forse pure fata con la bacchetta risolutrice: «Oggi coprire l’arena e ripristinare il suo aspetto originario sarebbe un lavoro raffinatissimo di filologia, di ingegneria e anche di idraulica perché bisognerebbe imbrigliare quell’acqua intervenendo chissà dove». Perciò non basterebbe un poco di coraggio come ha scritto il ministro nel suo tweet? «No, ci vorrebbe moltissima scienza e moltissimo danaro». Sposata con un archeologo che si occupa del Foro Traiano, Rossella Rea ha un figlio che si chiama Michelangelo, ma non è una talebana della conservazione, del “non si tocca”, non ha paura degli spettacoli e dell’intrattenimento, in una parola del riuso, «purché sia di livello», purché non sia come il Grazie Roma di Venditti girato sotto gli archi nel 1983 con quel pianoforte bianco… Quanto danaro ci vorrebbe per coprire l’arena? «Non so dire, certamente molto, ma molto di più dei 25 milioni che l’imprenditore Diego Della Valle sta spendendo per i restauri ». Si possono trovare i soldi con qualche donazione privata? Rossella Rea apre le braccia: «Lei che dice?». Dunque non se ne farà nulla? «Ovviamente costerebbe molto meno una copertura provvisoria, come nel 1950, per il Giubileo ». E mi mostra la foto di quella coperta di legno «che era diciamo così arrangiata, prevedeva pure un calpestio». A che servirebbe? « A ridare la forma in certe occasioni speciali. Si potrebbe qualche volta montare, ma non certo per eventi molto affollati». E racconta divertita di Paul McCartney che «percorse una passerella longitudinale fumando una sigaretta e alla fine ci fu qualcuno che si precipitò a raccogliere la cicca e ancora la conserva». McCarteny cantò pure: «The Magical Mystery Tour vuole portarvi via… Venite, venite, satisfaction guaranteed». Poi «abbiamo avuto le tragedie greche e, due anni fa, il concerto di beneficenza di Biagio Antonacci. E voglio dire che i monumenti non sono templi, che il riuso non è sempre profanazione», e nonostante questo sia, dal punto di vista della Chiesa, un luogo di martirio, una Basilica. E mi fa vedere che l’arena, anche se parzialmente, è comunque già coperta, come ai tempi dei gladiatori: «È stato un lavoro interdisciplinare bellissimo che abbiamo fatto nel 1998». La parte coperta è un terzo dell’intera superficie. Il legno è stato rivestito di malta «per dare la parvenza della sabbia». Mi mostra i piloni che non poggiano mai direttamente sulla struttura romana e hanno dei basamenti di cemento volutamente non occultati: «Qui 44 è stato più facile coprire l’arena perché le rovine erano molto rovinate, e dunque c’era spazio. Più difficile sarebbe coprire il resto». Ora con lei mi perdo e mi ritrovo nelle interiora dell’anfiteatro. Il tufo, il travertino, quel serpente d’acqua cheta che viene da lontano, entra da via Labicana ed esce verso l’Arco di Costantino, e poi i buchi per i binari del “red carpet” con i dodici corridoi laterali, i forni, gli alloggiamenti delle scenografie per i trionfi civili e religiosi degli imperatori. Ecco: circondato dai turisti che mi guardano dall’alto, a poco poco capisco che questo basso mondo è molto più di un sotterraneo scoperchiato: «È un monumento nel monumento ». Interrogo allora questi turisti, che dentro il Colosseo non sono tutti “infradito e cono gelato”. Spiego loro, con entusiasmo sincero, l’idea dell’archeologo Daniele Manacorda che è piaciuta al ministro e, a prima botta, pure a me. Dico dunque che è una bella tentazione coprire l’arena per ricomporre la forma, l’ellissi perfetta che senza il pavimento non si percepisce più perché il fondo ruba la scena con i suoi corridoi, i suoi ruderi sbocconcellati, il suo mistero di labirinto. Insomma spiego che sarebbe affascinante ridare un suolo al sottosuolo. Ma non convinco nessuno: « Don’t do that » mi dice addirittura una bella signora brasiliana. Un giapponese cita a memoria la Yourcenar che amava la Niche di Samotracia «proprio perché, acefala, senza braccia e separata dalla sua mano, era meno donna e più vento». Ma io non credo che il paragone sia pertinente sino in fondo, perché la statua è solo un capolavoro d’arte mentre questo è «anche un pezzo di città» mi dice una coppia di Chicago, Victoria e Andrew Zysberg, di professione librai. Con loro è bella e inaspettata la chiacchierata sulla «macchina urbana », sulla bellezza del meccanismo rivelato: «era un pezzo di città». Insomma, anche loro hanno capito che quello non era l’inferno dove nella metà del cinquecento Cellini andava con un negromante per risvegliare i demoni che dal “Culiseo” poi avrebbero invaso tutta Roma, né era il territorio del romanticismo ottocentesco, da Dostoevskij sino a Gide, e neppure lo scavare per scovare dei viaggiatori europei che nelle grotte di Roma e nei meandri oscuri delle sue rovine, monumentalizzate da Piranesi, cercavano la propria formazione sentimentale. Era invece una macchina urbana che oggi dall’alto si decifra benissimo. Non è un retroscena, non un sotto palco costretto a stare a pancia all’aria, ma è lo svelamento di una fabbrica di spettacolo sempre cangiante, appunto «un pezzo di città» viva che prendeva aria e luce da cento botole, chiuse solo durante lo show. È da queste botole che, per mezzo di montacarichi a corde, facevano il loro spettacolare ingresso in scena le bestie, i divi, le star. «Solo la luce elettrica non avevano inventato» scherza la direttrice. Andando via penso a quel fiume, spietato nemico di Franceschini, che passa pure sotto la Basilica di San Clemente e sbucò persino sotto la via Sannio durante i lavori dell’imprendibile Metropolitana C. Ai colleghi dell’ufficio stampa chiedo se il ministro Franceschini ha visitato i sotterranei: «È venuto a salutare quando c’era Obama. Ma non è sceso: i servizi segreti non hanno permesso altri accompagnatori. Non escludo che Franceschini sia venuto, ma da solo, in incognito». Esco dunque dal Colosseo sotto il Colosseo e mi sembra di lasciare «un pezzo di città» con il suo fiume sconosciuto, le vie, gli archi, e le sue mille strutture in rovina, ma ordinate. Al contrario il Colosseo fuori dal Colosseo è la solita terra desolata dei finti gladiatori e dei venditori ambulanti di orribili panini, almeno trecento “lavoratori” nel marasma del piazzale lastricato a sampietrini. Con la coda dell’occhio vedo che due centurioni con la scopa in testa si appartano dietro una Renault et mingunt ad murum. Il Comune che pure li ospita non si cura dei bisogni degli ancient Romans. 45 Del 4/11/2014, pag. 33 LE PROPOSTE Giochi o musica gli esperti si dividono SARA GRATTOGGI C’È chi immagina al centro del Colosseo reading con musica antica. E chi non vedrebbe male nemmeno una rievocazione dei giochi gladiatori. Dopo la proposta lanciata dal ministro ai Beni culturali, Dario Franceschini, di ricostruire l’arena del Colosseo, fra gli esperti si è acceso il dibattito. Franceschini ieri si è detto «pronto a investire risorse del ministero, qualora la proposta risultasse fattibile». Mentre la direttrice dell’Anfiteatro Flavio, Rea, ha spiegato: «È prioritario il restauro delle strutture portanti, dei sotterranei. E questo è oggetto di sponsorizzazione». Intanto l’attenzione è rivolta verso l’uso che dell’arena si potrebbe fare in futuro, fra chi storce il naso a sentir parlare di “intrattenimento” e chi la vorrebbe aperta a manifestazioni “contemporanee”. A cominciare dall’archeologo Daniele Manacorda, il primo a suggerire l’idea di ripristinare l’arena: «La aprirei a ogni iniziativa, purché non invasiva. Dagli incontri di judo o lotta greco-romana a concerti e spettacoli teatrali. Sarà il confronto culturale, e la Soprintendenza responsabile del monumento, a decidere cosa sia possibile e cosa no». «Il Colosseo — ricorda l’ex soprintendente, Adriano La Regina — può ospitare, lo ha già fatto, spettacoli musicali compatibili con una capienza di poche centinaia di posti a sedere. Ma non prendiamo a modello l’Arena di Verona, dove vengono svolte attività invasive che portano problemi per la tutela». L’archeologo e orientalista Paolo Matthiae immagina invece «una rivitalizzazione alta del monumento, con musica e letteratura, anche del ‘500 o ‘600. Sicuramente non concerti rock, né rievocazioni in costume dei giochi gladiatori. Nemmeno Plauto, però, il cui spazio è quello del teatro. L’importante è che a nessuno venga in mente di ricostruire gli spalti». L’archeologo Andrea Carandini, invece, non esclude che il Colosseo possa ospitare «rievocazioni filologiche dei giochi gladiatori. O delle Passioni che vi si svolgevano nel Medioevo. Vedrei bene, in particolare, un’esecuzione della “Passione secondo Matteo” di Bach». Del 4/11/2014, pag. IV RM I sindacati dell’Opera “Stop licenziamenti pronti alla moratoria sugli scioperi” La proposta per il ritiro dei 180 esuberi Barenboim: “Inammissibile mandarli a casa” ANNA BANDETTINI «SIAMO pronti a non scioperare »: detto così sembra un annuncio clamoroso anche perché a farlo sono le sette sigle sindacali dei lavoratori del Teatro dell’Opera. Ieri si sono impegnate a non astenersi dal lavoro sui punti di un eventuale accordo con la dirigenza del teatro. È la prima schiarita da quando, un mese fa, nella fondazione lirica della capitale sono scattati i 182 licenziamenti per coro e orchestra che proprio ieri Daniel Barenboim, uno dei grandi nella direzione d’orchestra internazionale, ha definito “inammissibili”. Da quel 2 ottobre in cui fu annunciata la drastica misura della esternalizzazione delle masse artistiche, si è aperta una vertenza tra sindacati e azienda che, arrivata al terzo incontro 46 (per il teatro c’era il direttore personale Stefano Bottaro), ha mostrato un passo avanti, sia pur piccolo. In sostanza i sindacati affermano di essere disponibili, a fronte di un eventuale accordo condiviso, “a redigere un protocollo volto a non attivare conflittualità su quanto sottoscritto tra le parti”, come recita il comunicato firmato da Slc-Cgil, Fistel-Cisl, UilcomUil, Fials-Cisal, Libersind, Usb, Fisaps. «È una moratoria sugli scioperi- spiega Francesco Melis della Uilcom-Uil- se troveremo un accordo sul piano industriale di rientro chiesto dalla legge Bray. Noi siamo pronti a parlare di aumento della produttività, di ottimiztendere zazione delle risorse, abbattimento dei costi necessari per risolvere i problemi di bilancio». Cioè i 4,2 milioni di euro di rosso già previsti sul 2015. Questa “apertura” non azzera però, per ora, le posizioni contrapposte tra lavoratori e teatro. I sindacati nel comunicato sottolineano che i licenziamenti sono “incompatibili con la legge Bray” e chiedono all’azienda di ritirarli. Ma il teatro non intende farlo fino a che non ci sarà una seria proposta dei sindacati per il risanamento e per la futura attività del teatro, lasciando in- che bisognerà mettere mano al contratto aziendale. Giovedì ci sarà una nuova riunione. Intanto i lavoratori si portano a casa il sostegno “ideale” di Daniel Barenboim. Il direttore d’orchestra in riferimento ai licenziamenti all’Opera parla di «decisioni catastrofiche che dimostrano la mancanza di cultura di chi le prende ». Ammette che forse ci sono stati “abusi” dei musicisti «ma quando ci sono difficoltà, chi ha potere ha la responsabilità di aprire un dialogo». del 04/11/14, pag. 25 In Rete istruzione e sanità per gli abitanti dello Stato di Facebook E il «presidente»-fondatore risponderà al Question time Benvenuti nello Stato di Facebook. Definire il social network di Zuckerberg un Paese, molto presto, potrebbe non essere solo un’iperbole giornalistica. La tesi arriva dal Financial Times . Si parte dai numeri, sconvolgenti. Già, perché se Facebook fosse davvero uno Stato sarebbe il secondo più popoloso al mondo, forte del suo miliardo e trecento milioni di abitanti, secondo soltanto alla Cina. La capitale è Menlo Park, il Pil 280 miliardi di dollari, il presidente è Mark Zuckerberg che, giovedì, risponderà al «popolo» in un Question time pubblico. Al leader non mancano visione strategica e linea politica. Per Cory Ondrejka, vicepresidente del settore ingegneristico di Facebook, le fondamenta di tutto sono tre pilastri-obiettivo: connettere e capire il mondo, e costruire un’economia del sapere basata sui primi due precetti. La dimensione social, stando anche a quello che scrive in «The Facebook Effect» David Kirckpatrick, per il leader è superata. In un discorso pubblico due anni fa era menzionata 24 volte, ora in un intervento in Indonesia il vocabolo ha fatto la sua comparsa solo in due frasi. Per i sostenitori, quella di Mark è una missione civilizzatrice che comprende anche progetti benefici come Internet.org per portare la connessione nel cuore dell’Africa. Per altri è solo sete di potere e denaro. Secondo Kate Losse, ex dipendente di Facebook che ha stigmatizzato l’approccio maschilista del colosso in un libro dal titolo «The Boy Kings», Zuckie era solito ripetere ai dipendenti una frase dal sapore capitalista: «La cosa migliore che bisogna fare se si vuole cambiare il mondo è fondare un’impresa». Animato dalle migliori intenzioni o avido che sia, Mark, proprio come altri suoi colleghi del settore tech, ha in mano tutte le carte per cambiare il mondo. 47 Nella Silicon Valley non è un mistero che a Facebook stiano pensando di creare comunità online di supporto con cui mettere in contatto gli utenti che soffrono della stessa malattia. In progetto ci sarebbe anche un’applicazione di prevenzione con consigli per migliorare lo stile di vita degli utenti, strategia consigliata dalla moglie Priscilla che già nel 2012 convinse Mark a introdurre la possibilità di indicare sulla propria pagina l’opzione «donatore di organi». Dal cuore si passa al portafogli. Grazie alle rivelazioni di Andrew Aude, studente e sviluppatore della Stanford University, Messenger — la chat da poco resa obbligatoria per chi vuole comunicare attraverso Facebook — potrà essere usata per transazioni economiche. Basterà connettersi al proprio profilo per pagare l’affitto o fare un bonifico. E non è finita. «Facebookland» ha anche potere in materia di educazione e sapere. Con Graph Search si sta infatti cercando di capire come trasformare il social network in un motore di ricerca, su cui trovare immagini, dichiarazioni, informazioni sfruttando la geolocalizzazione. E non importa se tutti questi pilastri hanno al loro interno una crepa chiamata privacy. Di recente, Zuckerberg ha dovuto fare una concessione al suo popolo. Ossia permettere di connettersi a Facebook con Tor, sistema di comunicazione crittografata per navigare senza essere identificabili, usato anche in quei Paesi, dalla Cina all’Iran, dove la Rete non è libera. Una mossa che è un cerotto sulla bocca di chi, come Snowden, ha sempre dipinto il suo regno come il male. E un gesto magnanimo, da perfetto monarca democratico. Marta Serafini 48 ECONOMIA E LAVORO Del 4/11/2014, pag. 1-2 Matteo chiede garanzie sul jobs act “Voglio tempi certi o niente modifiche” VALENTINA CONTE GOFFREDO DE MARCHIS IL RETROSCENA Renzi mette il timbro alla trattativa sul mercato del lavoro, anche se continua il gioco delle parti. Il responsabile economico del Pd Filippo Taddei non esclude che alla Camera sia ripresentato alla lettera il testo approvato al Senato. «Poi ci penserà Poletti coi decreti delegati a precisare il Jobs Act. Dobbiamo fidarci di lui». Gli risponde il capogruppo del Pd a Montecitorio Roberto Speranza: «Fidarsi di Poletti? Prima fidiamoci del Parlamento e correggiamo la legge tutti insieme». In realtà, Palazzo Chigi cerca l’intesa con la minoranza del Pd per due motivi. Perché Renzi così può dimostrare un’apertura al dialogo che oggi non gli viene riconosciuta. E perché solo un accordo permetterà al governo di avere l’approvazione della Camera entro il 21 novembre e poi un voto lampo al Senato per il varo definitivo. Se il braccio di ferro continua il rischio infatti è che la legge di stabilità scavalchi nel calendario la riforma del lavoro. Il presidente della Camera Laura Boldrini sarebbe orientata verso questo slittamento, per esempio. E il Jobs Act finirebbe al 2015. Ci vuole quindi un punto di caduta, una delega corretta che rispetti il lavoro del Parlamento e mandi un segnale distensivo non solo ai dissidenti Pd ma anche alla piazza e ai sindacati. L’obiettivo si concentra sulla specifica dei licenziamenti disciplinari. Per questa tipologia rimarrebbe il ricorso al giudice e la reintegra. O meglio, indicando le fattispecie del licenziamento per motivi di disciplina, si potrà stabilire dove interviene l’indennizzo e dove il tribunale. Naturalmente, i decreti delegati del ministero del Lavoro completerebbero l’opera con degli standard attuativi. In questo caso, attraverso un accordo, anche il ricorso alla fiducia avrebbe un impatto minore. Impatto che nel caso di un aut aut dell’esecutivo sul testo uscito dal Senato sarebbe invece più traumatico: almeno 20 deputati del Pd sono pronti a votare contro Renzi. «Io vedo un gioco al logoramento — dice il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano — . Andiamo avanti tra docce calde e fredde». Damiano e il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini hanno il mandato a trattare. Hanno tempo per un accordo fino al 12, termine ultimo per la presentazione degli emendamenti. Renzi mette un solo paletto: «La legge di stabilità non deve passare avanti. Non accetto di mischiare i due argomenti. Se la minoranza insegue questo risultato, faccio saltare la trattativa». Se si trova un’intesa intorno all’ordine del giorno varato dalla direzione del Pd «allarghiamo il campo, teniamo dentro l’intera maggioranza a parte qualche caso isolato. Sarebbe un buon risultato », dice Speranza. Non la pensa così Pippo Civati: «I 27 senatori che hanno votato la fiducia contando su sostanziose modifiche alla Camera non saranno soddisfatti. E i numeri di Palazzo Madama sono a rischio». I tecnicismi giuridici lasciano il tempo che trovano, dicono a Palazzo Chigi. E anche le piazze possono sino ad un certo punto. Qui la questione è squisitamente politica. E giocata tutta dentro al partito del premier. La legge delega, dopo la fiducia incassata al Senato, è arrivata in commissione alla Camera. Laddove la forza di interdizione della minoranza Pd — ex ministri del lavoro, ex sindacalisti Cgil — è certo più forte. Il presidente Damiano è tutto sommato ottimista. Si può scrivere cioè nero su bianco quanto sin qui 49 omesso, visto che il testo non dedica nemmeno mezza riga all’articolo 18. E dunque che “il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”. In effetti, quella frase del documento pd potrebbe confluire nel testo di legge. La mediazione è affidata al ministro Poletti che da ieri sera, rientrato a Roma, tesse la tela. «Dobbiamo trovare una formulazione che funzioni, con i giudici un po’ strani che abbiamo non è semplice», avvertono gli uomini del premier. «Non darei troppo per scontato l’inserimento dell’ordine del giorno dentro il Jobs Act», frena però il responsabile economico del partito, Filippo Taddei. «È una richiesta legittima, da parte della minoranza pd, l’unica che possono avanzare. Ma per ora si mantiene l’impianto del Senato, forte dell’impegno preso dal ministro Poletti nel discorso a Palazzo Madama sulla fiducia alla legge delega. Quello cioè di tener conto proprio di quell’ordine del giorno. Si vuole che le parole del ministro finiscano nel Jobs Act? Ma se non si fidano di noi, perché noi dobbiamo fidarci di loro?». Parole nette che sembrano chiudere ogni confronto. Per ora. «Non confondiamo le richieste legittime con i compromessi», prosegue Taddei. «C’è una discussione ampia in corso, seguiamone i passaggi, ma senza diktat. Per noi fa fede l’ordine del giorno del Pd ed è sufficiente l’impegno del ministro». Del 4/11/2014, pag. 4 Bankitalia:“Pensioni a rischio con Tfr in busta” “La misura sia solo temporanea. E i tagli alle Regioni potranno determinare l’aumento della pressione fiscale” Istat: “La manovra non porterà benefici nel prossimo biennio. L’effetto del bonus annullato dalla clausola di salvaguardia” ELENA POLIDORI I tecnici di via Nazionale e quelli dell’Istituto di statistica guardano ai nuovi provvedimenti con una certa cautela. «E’ cruciale che la temporaneità del Tfr sia mantenuta», avverte in Parlamento il vicedirettore generale della banca centrale, Luigi Signorini secondo cui «l’adesione dei lavoratori a basso reddito all’iniziativa aggrava il rischio che questi abbiano in futuro pensioni non adeguate». Secondo l’Istat i provvedimenti contenuti nella manovra avranno un «impatto netto marginalmente positivo nel 2014 ed un effetto cumulativo netto nullo nel biennio successivo». Motivo: la spinta del bonus degli 80 euro potrebbe annullarsi con le conseguenze negative derivanti dalla clausola di salvaguardia legata all’eventuale aumento dell’Iva. La stessa Banca d’Italia ragiona su vantaggi e svantaggi di queste clausole. Da un lato il loro utilizzo «rafforza la credibilità dell’impegno del Paese a proseguire nel consolidamento delle finanze pubbliche». Ma nel caso specifico del- l’Iva, l’aumento porterebbe le aliquote «su livelli molto elevati». Cosa da evitare. Luci ed ombre anche sull’Irap: il suo «ridimensionamento consente un significativo alleggerimento del costo del lavoro» ma al tempo stesso «comprime i margini di autonomia delle Regioni, per le quali il tributo rappresenta la principale fonte di finanziamento». Sempre Signorini prevede anche che i tagli alle Regioni potrebbero tradursi in nuove tasse: «Si stima che la riduzione delle risorse disponibili per gli enti decentrati si traduca interamente in un taglio delle spese correnti. Tuttavia, l’evidenza degli ultimi anni mostra che questi enti hanno reagito anche 50 aumentando significativamente le entrate». Per la Banca d’Italia il rinvio del pareggio di bilancio «è motivato» dalla profondità della recessione. E, non ultimo, la manovra realizza un calo del cuneo fiscale e finanzia riforme importanti come l’istruzione e il mercato del lavoro. L’Istat taglia le stime di crescita del governo (quest’anno — 0,3%, il prossimo +0,5), in lieve ribasso rispetto al Def e stima per il 2014 un aumento della spesa delle famiglie, dopo tre anni di gelo, attribuibile però solo ad un calo della propensione al risparmio. Il potere d’acquisto è fermo, malgrado la gelata dei prezzi. Per il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi la legge di Stabilità «segna un’importante discontinuità rispetto al passato», finalmente «alza il piede dal freno», ma senza «pigiare l’acceleratore». Ci sono cioè norme importanti sulla riduzione della spesa, ma «manca un’azione decisa sugli investimenti». Nel complesso però il giudizio è positivo: la manovra «potrà rimettere il Paese su un più alto sentiero di sviluppo». Del 4/11/2014, pag. 2 Gli operai fuori dalla porta Contestazioni per la visita di Renzi agli industriali nello stabilimento della Palazzoli, i cui dipendenti sono stati mandati in «ferie collettive». Sfila la Fiom, una delegazione attende di essere ricevuta dal premier, che non si presenta: «Ci ha fatto aspettare mezz’ora e più». Cariche al corteo di studenti, centri sociali e sindacati di base Andrea Tornago Il corteo delle auto di lusso comincia la mattina presto. Gli industriali entrano dall’ingresso sul retro, collegato direttamente con la tangenziale, lontano da sguardi indiscreti e dai cortei di operai e centri sociali. È la giornata di Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio interverrà all’assemblea dell’Associazione industriale bresciana, ospitata nello stabilimento della Palazzoli Spa, azienda alla periferia nord di Brescia i cui operai, per l’occasione, sono stati mandati in «ferie collettive» dalla dirigenza. Matteo Renzi di contestazioni non ne vuole sapere. Quando arriva alla fabbrica, con il corteo di auto blu, sono passate da poco le 10. La polizia sta caricando la manifestazione dei sindacati di base, degli studenti e del centro sociale Magazzino 47. Gli studenti hanno capito che la contestazione davanti ai cancelli della fabbrica è un’arma spuntata: l’entrata e l’uscita delle macchine si svolgerà sul retro. Tenteranno per tutta la mattina di aggirare il cordone di polizia, ma quando bloccheranno la tangenziale Renzi sarà già lontano. Il bilancio delle cariche è di alcuni manifestanti colpiti dalle manganellate e — fa sapere la Questura — due agenti feriti con prognosi di 20 e 7 giorni. Il corteo della Fiom intanto sfila — circa un migliaio di persone — dai cancelli dell’acciaieria Ori Martin fino all’ingresso della Palazzoli. «Renzi non ha mai lavorato, giù le mani dal sindacato» è lo striscione della giornata. I metalmeccanici si fermano in presidio davanti allo stabilimento, mentre Renzi sta già rispondendo a modo suo: «Se vogliono contestare il governo lo facciano, ma senza sfruttare il dolore dei disoccupati». Ad invitarlo sul palco degli industriali bresciani, insieme al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, è stato il presidente dell’Aib — l’associazione industriale bresciana — Marco Bonometti, che tuona dal palco: «Il sindacato oggi è un ostacolo sulla strada del rilancio dell’Italia». È la seconda visita del presidente Renzi a Brescia in poche settimane. Il 6 settembre scorso aveva partecipato all’inaugurazione del nuovo stabilimento delle Rubinetterie Bresciane di Aldo Bonomi, ex vicepresidente di Confindustria e imprenditore vicino a Renzi, 51 tra i protagonisti della Leopolda. «Sia presso l’azienda bresciana che ha recentemente visitato, sia alla Palazzoli — ha scritto a Matteo Renzi il segretario della Fiom bresciana, Francesco Bertoli — la Fiom non può svolgere assemblee retribuite ormai da qualche anno». Scelte non casuali quelle del presidente del Consiglio, che delineano un disegno preciso dei rapporti industriali. Verso le 10,30 dagli altoparlanti della Cgil arriva la notizia: Renzi ha accettato di incontrare i lavoratori. Il colloquio si sarebbe dovuto svolgere alle 12 nello stabilimento delle Officine meccaniche rezzatesi, di proprietà del presidente degli industriali, Marco Bonometti: l’ultima fabbrica che Renzi passerà in rassegna, dopo l’Italcementi di Rezzato della famiglia Pesenti, a 7 chilometri da Brescia. Il racconto della delegazione della Fiom è il ritratto più fedele della giornata bresciana di Renzi: «Abbiamo aspettato più di un’ora e venti nella sala d’attesa dell’azienda, poi ci hanno avvisato che il presidente non aveva tempo — ha spiegato il segretario della Fiom bresciana, Bertoli — Ci hanno detto di lasciare un documento al capo del cerimoniale ma ce ne siamo andati subito. È una vergogna». Ad attendere Matteo Renzi negli uffici dell’azienda, secondo il racconto della Fiom, c’erano anche il sindaco di Brescia Emilio Del Bono, la vicesindaco Laura Castelletti e il presidente dell’area vasta della Provincia di Brescia Pierluigi Mottinelli. «Forse loro sono stati più fortunati» ha concluso il segretario della Fiom Bertoli. Ma nella sua full immersion nella Brescia produttiva il presidente del Consiglio non ha avuto tempo nemmeno per gli incontri istituzionali. Giusto per tre stabilimenti, in poco meno di tre ore. Poi la corsa verso l’aeroporto e il volo per Roma. Del 4/11/2014, pag. 31 CHI ASPIRA OGGI A DIVENTARE OPERAIO? NADIA URBINATI LA BATTAGLIA sul lavoro che sta dividendo il Pd è più di una contesa sulla rappresentanza politica dei lavoratori. Il 25 ottobre scorso ha messo in scena una spaccatura che è più che politica, e che per questo peserà sui destini del Pd, come ci ha tra l’altro mostrato il sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato domenica scorsa su Repubblica. La contrapposizione tra Landini/Camusso e Renzi, tra Piazza San Giovanni e la Leopolda, mostra una divisone interna alla rappresentazione del lavoro, alla percezione sociale del ruolo e dell’identità dei lavoratori. È l’esito del declino del lavoro industriale che, non va dimenticato, ha marciato insieme al declino della Guerra fredda, alla fine del mondo diviso. La dimensione globale dei mercati e la decadenza del valore sociale del lavoro stanno insieme e si riflettono nella diaspora e trasformazione della sinistra. Il secondo dopoguerra è nato su fondamenti molto strutturati, a livello nazionale e internazionale. Un mondo diviso ha significato per alcuni decenni una limitata possibilità per il capitalismo occidentale di attingere all’immensa riserva di mano d’opera offerta dalle aree più povere del mondo. Su quei confini si è costruita la cultura dei diritti dei lavoratori occidentali e la forza delle loro organizzazioni sindacali. I cui cardini erano tenuti insieme dalla filosofia lavorista, dall’idea che il lavoro fosse certamente fatica e necessità ma che l’azione politica e associata avrebbe avuto il potere di renderlo prassi e condizione di emancipazione. Lavoro prometeico come forza creatrice di beni materiali e immateriali, tanto per la sinistra marxista quanto per quella socialdemocratica. La condizione operaia, se non la meta più agognata, era certamente dignitosa e perfino nobile. Questa rappresentazione è stata per buona parte del Novecento condivisa da giovani e non giovani, da uomini e donne. Ora non lo è più. 52 Chi oggi aspira a diventare operaio? Chi coltiva l’utopia del lavoro produttivo come opportunità per ridisegnare i rapporti di forza nell’azienda e fuori? Il globo senza interni steccati è un luogo maledetto per il lavoro, perché qui vince chi offre mano d’opera a basso costo e possibilmente con scarsa professionalità e senza diritti. La globalizzazione da un lato ha aperto le porte ai mercati e alla diversità delle preferenze, dei gusti e delle culture, e dall’altro ha aumentato il numero dei concorrenti che si confrontano non più solo all’interno di un mercato nazionale protetto da barriere legali e/o culturali, ma nell’arena del mercato globale. In questa dimensione aperta si verifica l’attacco ai lavoratori “protetti”, non solo da parte degli amministratori delegati ma anche di altri lavoratori. Per chi è parte del mondo del lavoro, il lavoro con diritti è sempre più spesso un lusso e perfino un privilegio. Per chi non è parte del mondo del lavoro, il lavoro è sempre più spesso un non valore. Il lavoro manuale si fa non solo meno pagato e meno meritevole di diritti, ma anche meno dignitoso, e anzi oggetto di una rappresentazione sociale penalizzante e umiliante. È spesso visto come sinonimo di sconfitta sociale perché le aspettative dei giovani sono di avere una carriera, una professione magari precaria inizialmente, raramente di diventare operai. Il creatore di futuro, il Prometeo dei decenni passati non fa parte del loro immaginario perché le preferenze e le aspirazioni favorite dal mondo globale sono essenzialmente individualiste e associate alla gratificazione personale immediata. È la realizzazione individuale, psicologica e monetaria, e il riconoscimento sociale che danno valore all’occupazione. Fatte le dovute eccezioni (come l’orgoglio dell’operaio specializzato nelle aziende meccaniche dell’Emilia) l’operaio corrisponde nella vulgata popolare a una condizione in molti casi di ripiego o perfino di sconfitta personale. Questa è del resto la rappresentazione che i media alimentano. Anche per questa ragione, il lavoro non trova facile e omogenea collocazione in una sinistra che vuole essere targata giovane. Come ci ha mostrato Diamanti, per la maggior parte di chi oggi si orienta verso il Pd, il lavoro non ha valore simbolico se non è carriera e segno di riconoscimento sociale. La dissociazione nel Pd è quindi tutt’altro che di poco conto. Non riguarda tanto un modo “vecchio” o “nuovo” di essere della sinistra come forse conviene sostenere per ragioni propagandistiche. Riguarda la formazione, si potrebbe dire, di due classi sociali, di una gerarchia, dentro il mondo del lavoro: da un lato il lavoro per chi non ha realizzato sogni di carriera (la categoria dei lavoratori dipendenti o degli operai); dall’altro un lavoro associato alla carriera e alla mobilità verso l’alto (a questa i giovani aspirano). È una gerarchia tra lavoratori, e interna al mondo del lavoro, quella che si misura e cerca rappresentanza politica nella battaglia che sta dividendo il Pd. Del 4/11/2014, pag. 3 Andate e delocalizzate: il governo vi applaudirà L’ESEMPIO DEL MINISTRO GUIDI: LA SUA DUCATI ENERGIA, DOPO UN CONTRIBUTO PUBBLICO DI 750.000 EURO, HA APERTO UNO STABILIMENTO IN CROAZIA Di Giorgio Meletti 53 Non dev’essere un caso se il governo Renzi ha in squadra una delle più lucide teoriche della delocalizzazione, il ministro dello Sviluppo economico (dovunque si sviluppi, par di capire) Federica Guidi. Già anni fa l’imprenditrice emiliana spiegava: “Per restare competitivi dobbiamo avere un basso costo del prodotto. Quindi un basso costo della manodopera. In Italia il costo varia dai 18 ai 21 euro, in Croazia è di poco superiore ai tre, in Romania è inferiore a un euro”. Infatti la sua Ducati Energia aprì uno stabilimento in Croazia, con un contributo finanziario di circa 740 mila euro della finanziaria pubblica Simest. Bersagliata da rabbiose interrogazioni di M5S e Lega Nord, la scorsa primavera, la ministra non si scompose: “Non è una delocalizzazione ma un’operazione finalizzata a mantenere la presenza di Ducati Energia in un settore pesantemente aggredito da produttori del Far East asiatico”. LE MIGLIAIA di lavoratori che stanno perdendo il posto perché il loro lavoro viene riallocato a colleghi di Paesi più competitivi sono le vittime della delocalizzazione, e hanno poco da stare allegri. Perché delle variegate accezioni negative del termine (da “carognata” a “male inevitabile”) al governo Renzi non ne piace nessuna. La delocalizzazione gli piace proprio. Non c'è caso che li commuova. Per dire, il comune di Roma mette in gara l’appalto per il call center 060606, la società romana Al - maviva che lo gestiva perde la gara e 280 addetti dipendenti il lavoro. A risultato acquisito, un mese fa, si è scoperto che il bando non prevedeva l’obbligo di assorbire il personale, ma soprattutto di svolgere il servizio a Roma. Sono notizie quotidiane, grandi e piccole. A Ferragosto ha chiuso la Bronte Jeans di Catania, gruppo tessile che produceva per grandi marchi come Benetton e Diesel, 175 posti di lavoro in fumo, altrettante assunzioni pronte a scattare in Vietnam, in Bangladesh o in Cina. I sindacalisti dei tessili siciliani hanno subito chiesto un tavolo al ministero dello Sviluppo economico, dove c’è un interlocutore credibile e informato, la Guidi appunto, che sa a memoria i minimi salariali dei cinque continenti e almeno non alimenterà vane illusioni. Se ne vanno a frotte. Non solo la Moncler, ma anche altri storici marchi del made in Italy vanno altrove per risparmiare. Hanno delocalizzato le calze Omsa, le tute da moto Dainese , la caffettiere Bialetti, le scarpe Geox , le attrezzature da sci della Rossi. Producono da sempre all’estero la Tod's di Diego Della Valle e la Benetton . Quest’ultima un anno e mezzo fa ha perso molti collaboratori nel crollo del Rana Plaza, la fabbricona tessile alla periferia di Dacca, in Bangladesh, dove sono morte 1134 persone e però 2400 circa si sono salvate. Le varie multinazionali coinvolte hanno litigato sui risarcimenti e, nessuno volendo fare la prima mossa, nessuno ha versato il pattuito. Il Bangladesh, a dispetto dei crolli delle fabbriche sulla testa di chi lavora, rimane stracompetitivo. Nonostante un recente aumento del 77 per cento, il salario dei 3,6 milioni di lavoratori tessili (quasi tutte donne) non supera i 50 euro al mese. Di fronte a tanto orrore, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha trovato il modo di argomentare che la delocalizzazione è una mano santa se ci aiuta a evitare che il suddetto orrore entri nelle nostre fabbriche. Meglio chiuderle. Lo ha detto per celebrare il Primo maggio. Dopo aver premesso che “non bisogna pensare all’imprenditore solo come uno sfruttatore”, ha teorizzato: “Non sono disposto a far restare in Italia le imprese a ogni costo. Se hanno intenzione di danneggiare i lavoratori, territorio e ambiente possono andare altrove”. L’idea di Poletti è la cosa più di sinistra che c’è nel governo Renzi. L’imprenditore non è uno sfruttatore ma se lo fosse, per deprecabile ed estremo caso, delocalizzi al più presto. Meglio disoccupati che sfruttati, e via di mezzo evidentemente non c’è. IL PREMIER INVECE, non venendo dalla paludata scuola comunista di Poletti, è proprio entusiasta della delocalizzazione. In Cina, a giugno scorso, ci ha regalato impagabili perorazioni, come quella declamata a Shangai: “Chi viene ad investire all’estero non è un fuggitivo. Si è dato della delocalizzazione un significato solo negativo. Ma così si è 54 scoraggiata l’apertura al mondo del Paese”. Le migliaia di persone che perdono il lavoro non hanno capito ciò che Renzi in Cina ha compreso con chiarezza, tanto da bollare come “polemiche stucchevoli” il lamento dei nuovi disoccupati: “Con i ricavi all’estero le aziende italiane portano business e posti di lavoro alle filiali in Italia”. Naturalmente nessun esempio concreto è stato portato a supporto dell’ardita suggestione. Anche perché passando dal generale al particolare cambia tutto, come sa il deputato renzianissimo Michele Anzaldi, alle prese con la delocalizzazione della pasta Garofalo. Non sapendo come conciliare l’umore dei pastai presto disoccupati con quello del capo, ne è uscito con una contorsione che illumina la difficoltà dei politici di fronte ai prezzi della crisi: “Se, come ha detto il premier Matteo Renzi, non sarebbero accettabili interventi governativi di carattere nazionalistico, è invece quanto mai opportuno tutelare l’identità delle nostre produzioni”. Adesso è tutto più chiaro. 55