rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
martedì 4 novembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Radio Articolo 1 del 04/11/14
Work in news
Intervengono I. Aramini, Flc Lecce; O. Ferrara, Arci (intervista sull’assegnazione del
premio Falcone alla Carovana Antimafie) ; M. Forcellini, Ecomondo
http://www.radioarticolo1.it/audio/2014/11/4/22160/work-in-news
Da Antimafia 2000 del 03/11/14
La 'Carovana Internazionale Antimafie' vince
il "Premio Falcone"
Verrà assegnato alla Carovana Internazionale Antimafie nella persona
del suo coordinatore Alessandro Cobianchi il prestigioso ‘Premio
Falcone’ istituito dal Consiglio d’Europa e dalla città di Strasburgo
Martedì 4 novembre 2014 presso le sale del Forum della Democrazia a Strasburgo
È stato assegnato alla Carovana Internazionale Antimafie, rappresentata dal suo
coordinatore Alessandro Cobianchi, il '’Premio Falcone’ (categoria democrazia).
La Carovana Internazionale Antimafie - promossa da Arci, Libera e Avviso Pubblico,
dedicata quest’anno al tema della tratta degli esseri umani, co-finanziata dall’Ue
nell’ambito del Programma Prevention of and figth against crime nell’ambito del progetto
‘CARTT. Campaign for Awareness-Raising and Training to fight Trafficking’ - come si
legge nelle motivazioni del Premio, “viaggia instancabilmente da venti anni in giro per
l'Italia e l'Europa, per riportare le voci di coloro che lavorano per lo Stato democratico di
diritto e della giustizia sociale, ma anche per promuovere progetti concreti, incontrare le
famiglie delle vittime di mafia e raccontare le modalità di riutilizzo dei beni confiscati”.
Il Premio, assegnato dal Consiglio d'Europa e dalla città di Strasburgo nell’ambito del
Forum mondiale per la democrazia, quest’anno è stato conferito, oltre alla Carovana
Antimafie, all’associazione Progetto San Francesco e al Centro Studi Sociali contro le
mafie.
La consegna del premio è prevista per il prossimo 4 novembre, a Strasburgo, in occasione
del Forum Mondiale della Democrazia dove più di un migliaio di persone - capi di stato,
opinion maker, attivisti della società civile, rappresentanti delle imprese, del mondo
accademico, dei media e dei gruppi professionali provenienti da circa cento paesi - si
incontreranno per cercare di determinare in che modo le democrazie possono rispondere
alle attese dei cittadini.
La Carovana Antimafie ha da poco concluso le tappe nell'Europa dell'Est e riprenderà il
suo viaggio già dalla prima settimana di novembre, attraverso le città francesi di Marsiglia,
Nizza, Tolone, Nimes e Bastia. A Bari farà tappa la prima settimana di febbraio dove,
insieme a CARTT, organizzerà cinque eventi e un workshop dedicati allo scambio di
buone pratiche tra partner europei (Come la rumena Parada), focalizzandosi sulla
metodologia comune contro lo sfruttamento lavorativo nel settore della cura e della pulizia
domestica.
Alcune informazioni utili:
Alessandro Cobianchi: Dal 2008 coordina i gruppi di lavoro su campi antimafia e di
educazione alla legalità democratica dell'Arci
2
Il premio Falcone: Fu istituito nel 2012 su iniziativa degli avvocati Laurent Hincker (Istituto
IFRAV contro la violenza) e Roland Sanviti (Giustizia e democrazia), in memoria del
giudice italiano Giovanni Falcone. Nel 2012 fu Roberto Saviano il protagonista dello stesso
premio per la giustizia, lo scorso anno invece, per i diritti umani, fu scelta la televisione
pubblica algerina (eptv) per i suoi 25 giornalisti uccisi, mentre il premio per la democrazia
andò al 'grand reporter' francese Karim Baila per le sue inchieste.
Il viaggio di Carovana: La Carovana antimafie nasce nel 1994 da un’idea dell’Arci Sicilia,
con dieci giorni di viaggio da Capaci a Licata, attraversando il territorio con un percorso a
tappe che, a un anno e mezzo dalle stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, si proponeva
di portare solidarietà a coloro che in prima fila operavano per portare legalità democratica,
giustizia e opportunità di crescita sociale nel proprio territorio, di sensibilizzare le persone
per tenere alta l’attenzione sul fenomeno mafioso, di promuovere impegno sociale e
progetti concreti. Sin dal primo anno si è potuto cogliere come la Carovana fosse uno
straordinario strumento per animare il territorio e porre l’accento su questioni che si legano
con la democrazia, la partecipazione, la lotta alle mafie. La Carovana, dal 1996
copromossa, insieme all’Arci, da Libera e Avviso Pubblico e divenuta nazionale e
internazionale, è ancora oggi un viaggio per sperimentare nuove forme di partecipazione,
per favorire dinamiche di coesione sociale e di produzione di beni relazionali. La lunga e
partecipata Carovana internazionale antimafie continua ad essere un grande laboratorio
itinerante dove l’animazione sociale sul territorio ha lo scopo di rivivificare la democrazia e
contribuire a riformare la politica, puntando alla costruzione di luoghi di aggregazione, di
spazi di socialità, di metodi per combattere il degrado e la marginalità sociale - terreni su
cui le mafie e la criminalità prosperano – attraverso la costruzione di relazioni tra le
persone e di reti comunitarie. Se il viaggio della Carovana dal 1994 non si è mai fermato,
ma anzi si è arricchito di nuovi contatti, relazioni, persone e organizzazioni disponibili a
condividere il percorso, è solo perché continua ad essere prezioso strumento per
comunicare e costruire il cambiamento sociale.
Oggi si avvale del sostegno di Cgil, Cisl, Uil e Ligue de l’enseignement.
http://www.antimafiaduemila.com/2014110352170/cronache-italia/la-carovanainternazionale-antimafie-vince-il-qpremio-falconeq.html
Da LaStampa.it del 03/11/14
“Moving Tff”: François Truffaut
Oggi alle 15,30 in Bibliomediateca proiezione de «La calda amante»
Daniele Cavalla
Il cinema di François Truffaut caratterizza l’appuntamento settimanale di «Moving Tff»,
lunga marcia di avvicinamento al prossimo Torino Film Festival attraverso proiezioni e
incontri organizzati da Altera, Arci e Tff in vari punti della città. Oggi è la Bibliomediateca
Mario Gromo, via Matilde Serao 8, a ospitare alle 15,30 la proiezione del film «La calda
amante» girato da Truffaut nel 1964, uno dei titoli dell’autore meno apprezzati dalla critica
all’epoca. «Ho voluto fare “La peau douce” - ha detto Truffaut - per dimostrare che l’amore
è qualcosa di molto meno euforico ed esaltante. L’ho fatto quindi in risposta a “Jules e
Jim”: ci sono le menzogne, il lato sordido, la doppia vita. È un film da incubo.»
Si narra la storia di Pierre Lachenay, direttore di una rivista letteraria e rinomato studioso,
che vive a Parigi con la moglie e la figlia: durante un viaggio a Lisbona conosce una
giovane hostess con cui comincia una relazione. Il cast: Françoise Dorléac, Daniel
Ceccaldi, Jean Desailly, Nelly Benedetti.
3
Ingresso libero.
Da Adn Kronos del 04/11/14
MODENA, I DOCUMENTARI RACCONTANO
LA NOSTRA STORIA
Ritorna ViaEmiliaDocFest dal 6 al 9 novembre al Teatro dei Segni, con proiezioni, incontri
con i registi, dibattiti su digitale e nuova legge. Venerdì c’è Tatti Sanguineti Ci sono la
Storia e la società contemporanea con le sue contraddizioni al centro della quinta edizione
del ViaEmiliaDocFest, la rassegna di documentari nazionali e internazionali che si
svolgerà da giovedì 6 a domenica 9 novembre al Teatro dei Segni di via San Giovanni
Bosco 150 a Modena. Come in ogni edizione, al Festival modenese del cinema
documentario è abbinato un concorso on line, per il quale la premiazione è in programma
sabato 8 novembre alle 20.30. La rassegna riserva, ancora una volta, grande attenzione ai
progetti collettivi, come nel caso di “9X10 Novanta” che racconta l’Italia attraverso le
immagini dell’Istituto Luce, memoria audiovisiva storica per eccellenza, e ha tra i registi
anche Alice Rohrwacher, Palma d’Oro a Cannes 2014. “I ponti di Sarajevo” è invece
dedicato alla capitale bosniaca, luogo simbolico e tragico del Novecento, mentre il
progetto modenese “È la mia vita in piazza Grande” ha visto al lavoro nove film maker che
hanno riletto il cuore della città attraverso sguardi differenti e affrontando temi diversi. “Il
festival vuole mettere a confronto le produzioni indipendenti dell’Emilia Romagna con
alcune anteprime importanti – spiega il direttore artistico Fabrizio Grosoli – facendo quindi
riflettere sul modo di raccontare la storia attraverso le immagini”. “Proprio grazie alla sua
capacità di raccontare la società, il documentario è entrato di diritto nei canali principali del
cinema – sottolinea Anna Lisa Lamazzi, presidente di Arci Modena – e da parte nostra c’è
soddisfazione per un progetto che vede lavorare in rete istituzioni e associazioni e che è
cresciuto raggiungendo un buon riconoscimento a livello nazionale”. “Nel documentario –
commenta Gianpietro Cavazza, assessore alla Cultura del Comune di Modena – il
linguaggio delle immagini intrecciato con la musica e le parole, tocca corde emotive e
cognitive sviluppando capacità di critica. Ma il documentario e il cinema sono anche
formazione e lavoro, come si sottolinea nella nuova legge regionale”. Durante la quattro
giorni di ViaEmiliaDocFest, infatti, si discuterà della nuova legge sul cinema in Emilia
Romagna oltre che dei cambiamenti nell’era digitale. Tra i protagonisti del festival il critico
e regista Tatti Sanguineti (a Modena venerdì 7 novembre), Marco Bonfanti, Pietro
Marcello, Francesca Ragusa (con “Avec toi sans toi”), Valerio Gnesini (con “Varvilla”),
Felice Farina (con “Patria”), Giovanni Cioni (con “Per Ulisse”) ed Ermanno Cavazzoni (con
“Vacanze al mare”). Domenica ci sarà spazio per i quattro corti finalisti del premio Maneki
Neko Tatami Shot dell’Ozu Film Festival. ViaEmiliaDocFest è organizzato da Comune di
Modena, Regione Emilia-Romagna, Arci Modena, Ucca, Pulsemdia, Kaleidoscope Factory
in collaborazione con Università di Modena e Reggio Emilia (Dipartimento Studi Linguistici
e culturali), ed è realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di risparmio di
Modena. Il programma completo è on line ( www.modenaviaemiliadocfest.it).
4
Da TiscaliNewsdel 04/11/14
Gioco d'azzardo, stracciato dopo le
polemiche l'accordo tra le concessionarie e le
associazioni
di G.M.B.
Il titolo non è di quelli che aiutano a capire la notizia: “'Mettiamoci in gioco' lancia una
nuova campagna di comunicazione”. Ma chi va a leggere il testo capisce subito quel che è
successo: il protocollo d'intesa siglato con la Confindustria del gioco d'azzardo – travolto
dalle polemiche – è stato stracciato.
Dopo aver precisato che i contenuti di questa campagna di comunicazione erano stati
“definiti fin dall'estate” (il messaggio sottinteso è che non è stata inventata per mettere una
pezza sullo scandalo) il comunicato chiarisce: “Il Comitato promotore ha anche affrontato
la questione relativa al protocollo d’intesa firmato con Sistema Gioco Italia di
Confindustria. Si è convenuto sul fatto che l’iniziativa – mossa esclusivamente
dall’intenzione di limitare i rischi del gioco d’azzardo nell’attuale contesto normativo– ha
dato luogo a incomprensioni e polemiche originate anche da una gestione di tale
passaggio segnata da errori e ingenuità, che non giustificano tuttavia la vera e propria
opera di denigrazione che la Campagna nel suo complesso e il portavoce don Armando
Zappolini hanno dovuto subire”. E più avanti: “Il protocollo con Confindustria non ha
aiutato il perseguimento dei fini prefissati e va dunque accantonato, fermo restando il
dialogo e la ricerca del consenso con tutti i soggetti politici e sociali per arrivare a un
sistema di regolazione e cura moderno ed efficace per tutta la società”.
Finisce così una vicenda che nelle ultime settimane ha creato tensioni enormi tra le
associazioni che lottano contro il gioco d'azzardo. Al comitato 'Mettiamoci in gioco'
aderiscono tutte le più importanti: i sindacati confederali, l'Arci, le Acli, la
Federconsumatori, Libera, l'Azione Cattolica, il gruppo Abele e molte altre ancora. Quando
lo scorso 16 ottobre emersa la notizia del 'protocollo d'intesa' con Sistema Gioco Italia lo
scandalo fu immediato. Soprattutto perché, tra i vari punti dell'accordo, ce n'era uno che
riguardava una nuova denominazione del gioco d'azzardo: “Gioco con alea con posta in
denaro”.
Una denominazione ipocrita e fuorviante, giustificata con un argomento privo di
fondamento: che per la legge italiana l'espressione “gioco d'azzardo” si riferisca solo a
quello illegale. In realtà – ha sottolineato monsignor Alberto D'Urso, segretario della
Consulta Nazionale Antiusura polemizzando direttamente con don Armando Zappolini, il
coordinatore di 'Mettiamoci in gioco' – una sentenza della Corte costituzionale risalente al
1975 usa l'espressione 'giuoco d'azzardo' per stabilire che in questo settore il nostro
ordinamento non riconosce la libertà d'impresa (e infatti le concessioni sono accordate
dallo Stato) e non per definire il gioco illegale. Secondo D'Urso, facendo propria quella
definizione edulcorante, 'Mettiamoci in gioco' finiva col relegare il problema ai casi
patologici di dipendenza negando che esso derivi “dal complesso di sofferenze e
disfunzioni che riguardano l'intera società italiana, nelle sue differenti sfere: dei rapporti
economici, culturali, interpersonali, familiari, educativi”.
La tesi secondo cui il gioco d'azzardo “non fa male”, ma fa male solo il suo abuso (come
se il suo abuso non fosse anche determinato dalle modalità attraverso cui il gioco è
proposto) è esattamente la tesi delle concessionarie, una lobby fortissima in grado di
incidere sulle decisioni della politica. Nella nota – per ribadire che l'incidente dell'accordo
non ha in alcun modo modificato le sue posizioni – 'Mettiamoci in gioco' segnala “Le
difficoltà che la legge quadro sul gioco d’azzardo sta incontrando in Parlamento
5
confermano la forza delle lobby che si oppongono a una qualsiasi forma di
regolamentazione e regolazione di questo settore”. Tuttavia, si precisa, “un’interlocuzione
con tutti i soggetti coinvolti è necessaria sulla base dei valori che ci hanno contraddistinto
in questi anni, per tentare di limitare i danni dell’azzardo nella situazione attuale”.
Insomma, il protocollo è stracciato, ma il confronto con le concessionarie continua.
6
ESTERI
Del 4/11/2014, pag. 8
L’asse con al-Nusra spinge in avanti il
califfato
Iraq/Siria. A Diyarbakir cresce il sostegno a Kobane, insieme alla
repressione turca. I qaedisti avanzano a Idlib e minacciano la frontiera
tra Siria e Turchia. Attentati dell'Isis a Baghdad durante l'Ashura sciita
Chiara Cruciati, DIYARBAKIR
Il sole tramonta, la tensione sale. Nella città vecchia di Diyarbakir succede ormai quasi
ogni sera, dal 7 ottobre scorso quando scoppiò la rabbia kurda per l’apatia di Ankara verso
Kobane. «Non si passa, la polizia ha chiuso la strada», ci dice un’anziana signora mentre
accende un fuoco nella piccola piazza a ridosso delle mura. Qualche scaramuccia, i poliziotti che intervengono e chiudono con le transenne e un paio di auto l’ingresso in città
vecchia. Dopo mezz’ora torna la calma.
«Durante i giorni di coprifuoco, all’inizio di ottobre, la situazione era esplosiva – racconta al
manifesto Bilal, attivista del movimento politico kurdo – La polizia lanciava i lacrimogeni
nelle case, la notte non si dormiva. Da allora il governo ha dato piena autorità ai poliziotti:
lo chiamano ‘ragionevole sospetto’. Se ritengono che possano esserci proteste, hanno
mano libera. Ne approfittano per provocare la gente e avere poi la scusa per reprimere:
chiudono le strade, fermano qualche giovane, perquisiscono le abitazioni».
Nei discorsi di tutti resta però una parola fissa: Kobane. Nelle tv la metà dei notiziari
è dedicata alla battaglia al di là della frontiera, alla radio passano canzoni che celebrano il
Kurdistan unito. La solidarietà per i combattenti kurdi in Siria è forte e aumenta proporzionalmente alla durata dell’assedio islamista. Che ieri ha ottenuto ulteriore sostegno: il
Fronte al-Nusra, formazione qaedista oggi vicina all’Isis, si è ammassato nella cittadina di
Sarmada, a soli 6 km dallo strategico passaggio di frontiera di Bab al-Hawa tra Siria e Turchia. L’eventuale presa di Bab al-Hawa avrebbe conseguenze nere per la coalizione guidata dagli Usa che da quella frontiera ha finora sostenuto le opposizioni moderate al
regime di Assad. La situazione volge al peggio soprattutto dopo la presa da parte di alNusra di un’altra città, Khan al-Subul, e di altri villaggi nella provincia nord-occidentale di
Idlib, prima in mano ai moderati del movimento Hazm e dell’Esercito Libero Siriano, che
già la scorsa settimana aveva perso il controllo di alcune comunità a favore dei qaedisti.
Insieme ai villaggi, al-Nusra si è impossessato anche di armi consegnate ai gruppi antiAssad da Washington, tra cui missili anti-carro. Se questo è il sostegno di cui gode il
califfo, quello a favore di Kobane è minimo: i 150 peshmerga sono troppo pochi e resteranno – come detto dal primo ministro del Kurdistan iracheno, Nechervan Barzani – solo
«temporaneamente» a sostegno della resistenza di Rojava. Nessun ruolo politico futuro,
ha messo in chiaro il premier, nessun successivo discorso unitario. A Diyarbakir qualcuno
storce il naso: c’è chi addirittura sostiene che un gruppo di peshmerga abbia approfittato
del viaggio in Turchia per disertare, altri li chiamano «inutili cowboy con i Ray Ban». Non
faranno la differenza, soprattutto contro il potenziale militare islamista. Tra le file militari
kurde, ha aggiunto poi Barzani, ci sono anche peshmerga contrari all’avventura siriana
e che vorrebbero concentrarsi sulla ripresa delle città occupate in Iraq, lamentando
l’assenza del governo di Baghdad. Il premier al-Abadi vive un periodo nero: i massacri
contro le comunità sunnite che si sono sollevate contro l’Isis proseguono con numeri
7
senza precedenti insieme agli attacchi suicidi. Ieri un’autobomba è esplosa nel quartiere
sciita di Sadr City, nella capitale, uccidendo 23 persone durante la tradizionale processione al-Husseiniya della settimana dell’Ashura, festa religiosa sciita. Domenica un’altra
marcia era stata target a sud di Baghdad: 31 morti. Entrambi gli attacchi sono stati rivendicati dall’Isis che ha celebrato sul web gli attentatori definendoli «eroi dell’Islam». Ma nel
mirino del califfato non ci sono solo gli «apostati» sciiti. Ci sono anche i sunniti, quelli che
hanno preso le armi contro l’avanzata islamista. Dopo le stragi della scorsa settimana
nella provincia di Anbar, di nuovo bersaglio è la tribù di Albu Nimr: oltre 200 i civili –
donne, uomini, bambini – giustiziati in pochi giorni. Numeri capaci di far tremare qualsiasi
governo, tanto più quello di Baghdad ad oggi incapace di difendere la popolazione, sunnita
e sciita.
Del 4/11/2014, pag. 1-8
La guerra al buio così il Califfo spegne la
voce dei giornalisti
THOMAS L. FRIEDMAN
LO STATO Islamico ha associato alla brutale conquista di ampie porzioni di Iraq e Siria il
rapimento e la decapitazione di giornalisti. Qualunque giornalista osi avventurarsi nel
territorio dell’Is rischia la vita ogni secondo. Così gli Usa sono oggi impegnati nel primo
conflitto prolungato nel moderno Medio Oriente che i reporter e i fotografi americani non
possono seguire in prima battuta quotidianamente, liberi di osservare e scrivere a proprio
piacimento, offrendo con la loro continua presenza sul territorio una prospettiva
sull’evolversi della situazione. Questo non è un bene.
Ma c’è di peggio. Il New York Times ha rivelato la settimana scorsa che l’Is ha usato un
ostaggio britannico nel ruolo di corrispondente di guerra dalla città siriana di Kobane per
«pronosticare la caduta della città nelle mani dei militanti nonostante i raid aerei
americani», a testimonianza di una cresciuta abilità dello Stato Islamico nel promuovere la
propria causa adottando le tecniche dei notiziari televisivi. «Salve, sono John Cantlie »,
dice l’ostaggio nel video, vestito di nero, «ci troviamo nella città di Kobane, al confine tra
Siria e Turchia. Alle mie spalle, appunto, c’è la Turchia». E andrà ancora peggio. Dylan
Byers, esperto di media della rivista Politico , ha scritto il 23 ottobre che l’Fbi ha avvertito
le testate giornalistiche che l’Is ha identificato giornalisti e personaggi mediatici come
«obiettivi legittimi di rappresaglie» in reazione ai raid aerei guidati dagli Usa.
Non avere giornalisti costantemente presenti sul territorio dell’Is è una grossa perdita.
Significa non poter dare una nostra risposta a interrogativi importanti: che impatto hanno i
nostri bombardamenti? Portano i combattenti dell’Is e i sunniti iracheni ad unirsi o sono
fonte di divisione? Come governa lo Stato Islamico? Come funzionano le scuole e il
sistema giudiziario? Che percezione ne hanno gli iracheni e i siriani? Cosa spinge tanti
disperati ad aderire a questo movimento jihadista? Stiamo dando loro il giusto messaggio?
E potrei andare avanti ancora. Il vicesegretario di Stato Bill Burns ha dispensato alcuni
consigli ai diplomatici americani in un articolo scritto per la rivista Foreign Policy . Citando
Edward R. Murrow, il gigante della Cbs News , ha ammonito che «l’anello davvero
importante nella catena della comunicazione internazionale è la distanza che si può
coprire col contatto personale — parlandosi». Lo stesso vale per i giornalisti e i fotografi.
Certo, i sondaggi, i grafici e i tweet sono importanti. Sono informazioni e dati importanti
anche quelli. Ma intervistare un altro essere umano su quelle che sono le sue speranze e i
8
suoi sogni, su ciò che teme e ciò che odia, è a sua volta un modo di raccogliere e
analizzare dati: è quello su cui si basano i migliori diplomatici, giornalisti e storici. Non si
possono tradurre in cifre uno sguardo perplesso o stupito, un sorriso tirato, la paura negli
occhi di un profugo o il rammarico nella voce di un miliziano. A volte un silenzio parla più
di mille parole.
Spesso ripenso alle interviste che feci in un seggio riservato alle donne nel quartiere più
povero del Cairo nel 2012, durante le elezioni che portarono alla presidenza un leader dei
Fratelli Musulmani. Quasi tutte le intervistate avevano votato per Mohammed Morsi, ma
come motivazione nessuna di loro adduceva la religione. Dicevano invece che Morsi
avrebbe portato posti di lavoro, sicurezza, marciapiedi, migliori condizioni di vita e avrebbe
posto fine alla corruzione — in breve, avrebbe governato meglio. Morsi è stato poi
cacciato perché non ha portato nulla di tutto questo, non a motivo della sua irreligiosità.
Recentemente Vice News ha incaricato il fotoreporter Medyan Dairieh, veterano di Al
Jazeera, di realizzare dalla Siria un avvincente documentario, dal titolo “Lo Stato Islamico”.
Ma il direttore, Jason Mojica, ha dichiarato ad una tavola rotonda alla New York University
che si è trattato di un’iniziativa una tantum, con garanzia che il giornalista «potesse tornare
sano e salvo». Ho chiesto alla giornalista Mina al-Oraibi, vice direttore di Asharq Al-Awsat,
testata con sede a Londra, in che modo un quotidiano arabo segue l’Is. «Abbiamo dei
corrispondenti supportati da pochi freelance locali che rischiano la vita per essere in
contatto con noi dall’Iraq. Tuttavia dalle zone controllate dall’Is in Siria, soprattutto Raqqa,
è blackout. L’uso dei telefoni e della posta elettronica in Iraq è problematico per la
sicurezza dei collaboratori, che spesso lavorano senza sapere come verranno poi pagati…
A parte questo, per la copertura ci avvaliamo di reti di iracheni e siriani che ci raccontano
le loro storie, oltre ad avere contatti con iracheni, siriani ed altri arabi che hanno interagito
con i combattenti dell’Is o avevano rapporti con loro quando militavano sotto altre bandiere
». Ma in realtà, ha aggiunto, «quello che sappiamo ci viene in gran parte o dai militanti
dell’Is o dai racconti di osservatori o di persone che hanno familiari nelle località controllate
dallo Stato Islamico». A dire il vero l’Is ci dice quello che vuole che sappiamo attraverso
Twitter e Facebook, nascondendoci quello che non vuole farci sapere. Quindi attenzione a
cosa vi raccontano su questa guerra, che ne parlino bene, male o con indifferenza. Senza
un giornalismo indipendente sul campo ci aspettano delle sorprese. Se non vai, non sai.
Del 4/11/2014, pag. 8
Bagnasco a Gaza: «Vedo una terra che vuole
vivere»
Striscia di Gaza. Il presidente della Conferenza episcopale italiana ha
ribadito l'impegno della Chiesa contro la guerra e a favore della
realizzazione delle aspirazioni palestinesi. Domenica a Qalandiya ferita
una volontaria italiana dell'Ism
Michele Giorgio, GERUSALEMME
Quella del cardinale Angelo Bagnasco ieri a Gaza è stata una visita che supera il gesto
simbolico verso una terra martoriata e l’impegno, affermato dal Vaticano, a favore delle vittime della guerra. Perchè Gaza in questi giorni è tornata sotto un assedio pieno, con
Israele ed Egitto che tengono chiusi i valichi di frontiera in faccia ai palestinesi. E perchè
giunge in un momento in cui lo scontro tra israeliani e palestinesi si sta facendo ancora più
9
duro e il governo Netanyahu stringe la morsa per spegnere le proteste palestinesi a Gerusalemme prima che l’incendio si propaghi al resto dei Territori occupati. L’esecutivo Netanyahu ha approvato un emendamento al codice penale che prevede fino a 20 anni di
reclusione per i palestinesi che lanceranno sassi in segno di protesta contro civili e militari
israeliani. E’ una misura punitiva, ampiamente sproporzionata rispetto al “reato” e che rappresenta una reazione alle proteste palestinesi in corso da giorni e che domenica hanno
visto anche una italiana nell’elenco dei feriti degli scontri. Si tratta di una 28enne, Giulia,
volontaria dell’International Solidarity Movement (Ism), ferita al volto (pochi centimetri
sopra l’occhio sinistro) e alla gamba da proiettili di gomma sparati dai soldati israeliani
durante scontri al posto di blocco di Qalandiya. La volontaria, che ha preferito non rivelare
la sua piena identità, è stata curata all’ospedale di Ramallah dove i medici hanno dovuto
suturare la ferita con 6–7 punti. «Ero con altri attivisti sul lato della strada – ha raccontato
Giulia — mentre fotografavo l’esercito che sparava gas lacrimogeni ai manifestanti,
quando ho sentito un colpo alla gamba e uno alla testa: a quel punto tutto quello che riuscivo a vedere era sangue». La volontaria, che ha preferito non rivelare la sua piena identità, è stata curata all’ospedale di Ramallah dove i medici hanno dovuto suturare la ferita
con 6–7 punti. «Vedo una terra sofferente, ma con tanta voglia di vivere…Siamo qui per
ribadire solidarietà e ricordare che tutti hanno diritto a vivere in pace», ha detto il cardinale
Bagnasco giunto a Gaza con il segretario della Cei mons. Nunzio Galantino, e i tre vicepresidenti della Conferenza episcopale: il cardinale arcivescovo di Perugia Angelo Bassetti, l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia e il vescovo di Aversa Angelo Spinillo. La
delegazione ha fatto visita alla scuola del Patriarcato latino. Si tratta una delle tre scuole
cattoliche di Gaza che hanno subito danni nell’offensiva militare israeliana della scorsa
estate (“Margine Protettivo”), già riparati grazie a donazioni per 150 mila dollari, per permettere ai ragazzi iscritti di tornare subito sui banchi. Bagasco è poi andato all’ospedale
giordano, ha incontrato il vescovo Alexios della comunità greco-ortodossa e ha officiato
una messa nella parrocchia della Sacra Famiglia. «Essere qui per la Chiesa italiana significa assumersi degli impegni che non sono solo di preghiera ma anche di vicinanza e di
solidarietà concreta e immediata», ha aggiunto da parte sua il segretario della Cei mons.
Galantino. Stamattina la delegazione della Cei si recherà a Sderot, la città israeliana verso
la quale le fazioni armate palestinesi hanno indirizzato una parte consistente dei razzi sparati da Gaza la scorsa estate. Gli Stati Uniti intanto hanno di nuovo condannato
l’espansione degli insediamenti colonici nella zona araba di Gerusalemme, dopo
l’annuncio che la Commissione edilizia del ministero dell’interno israeliano ha approvato il
piano per 500 nuove abitazioni a Ramat Shlomo. A fine ottobre Netanyahu aveva dato il
via libera a un piano complessivo di 1.060 case da costruire nelle colonie di tra Ramat
Shlomo e Har Homa. Washington manifesta insofferenza verso la politica di Netanyahu
e critiche al premier arrivano anche dai vertici militari e dei servizi segreti. Ieri si è appreso
che 106 tra generali, ex direttori del Mossad e funzionari di polizia, tutti in pensione, hanno
sottoscritto una lettera in cui chiedono a Netanyahu di cominciare ”un’iniziativa diplomatica” per un accordo con i palestinesi. Secondo la lettera — citata da Canale 2 della tv —
Israele ha forza e mezzi per raggiungere un accordo con la soluzione a due Stati senza
rischi per la sicurezza. Intesa finora non raggiunta, sottolineano, a causa della debole
leadership.
del 04/11/14, pag. 10
Obama prepara già la controffensiva
10
Oggi il voto di Midterm che potrebbe portare i repubblicani a controllare
il Senato Ma il presidente è pronto a governare a colpi di decreti per il
resto della legislatura
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK L’America oggi al voto di Midterm: repubblicani
galvanizzati, convinti di conquistare anche il Senato, oltre a consolidare la loro
maggioranza alla Camera. Democratici sulla difensiva anche se, con Barack Obama sotto
attacco, è il suo vice Joe Biden a suonare la carica nelle ore della vigilia: «Sono convinto
che non perderemo il controllo del Senato». Come finirà dovremmo saperlo entro poche
ore, ma non è detto che le cose vadano in questo modo.
Il controllo di quest’Aula (nella quale i repubblicani oggi hanno 47 senatori su 100)
potrebbe giocarsi su un seggio o due. E in due casi — Louisiana e Georgia — è probabile
che si vada al ballottaggio: le norme di questi due Stati prevedono, infatti, una nuova
votazione (in un caso a dicembre, nell’altro addirittura a gennaio) se nessun candidato
raggiunge il quorum del 50 per cento. In Kansas e South Dakota, poi, a spuntarla potrebbe
essere un candidato indipendente che potrebbe anche non schierarsi con uno dei due
partiti maggiori.
Qualunque sia l’esito delle elezioni, comunque, difficilmente verrà superato il «muro contro
muro» che negli ultimi anni ha pressoché paralizzato l’attività legislativa. Le analisi sono,
quindi, già proiettate sulle prossime mosse di un presidente che certamente non vuole
ritrovarsi con le mani legate negli ultimi due anni del suo mandato alla Casa Bianca. Le
voci che vengono dal team di Obama parlano di un leader amareggiato, convinto di non
aver potuto governare efficacemente per i gravi malfunzionamenti di un sistema
istituzionale che lui non ha avuto la forza politica di riformare. Amareggiato ma, comunque,
deciso, dopo il voto e un lungo viaggio in Asia e in Australia per una serie di vertici
internazionali, a lanciare una controffensiva: il presidente intenderebbe utilizzare i suoi
poteri esecutivi per varare una raffica di interventi in materia di immigrazione (una sorta di
sanatoria per una parte, almeno, dei lavoratori clandestini), di investimenti in infrastrutture
pubbliche e di asili-nido: una misura sociale, quest’ultima, a favore delle famiglie meno
abbienti, a cominciare da quelle con donne lavoratrici, che non possono pagarsi il
kindergarten privato.
Non un’agenda particolarmente ambiziosa, come si vede, ma i repubblicani, che fin qui
sono riusciti a bloccare qualunque mossa del presidente, già minacciano di trattarlo da
golpista se proverà ad adottare misure di forte impatto senza passare dal Parlamento. Il
team di Obama (un gruppo sempre più ristretto e compatto di assistenti e consiglieri,
mentre continua l’emorragia dei collaboratori «storici» andati a fare altri mestieri o, come
nel caso di John Podesta, in procinto di passare alla squadra elettorale che verrà costituita
da Hillary Clinton per le Presidenziali del 2016), è, però, convinto che la legge lasci al
presidente ampi poteri d’intervento nei campi scelti per il «blitz autunnale».
Molto dipenderà da come questi interventi verranno concepiti: se, ad esempio, la Casa
Bianca varerà una vera sanatoria per i clandestini, anche se parziale, scatterà
sicuramente l’accusa di abuso di potere. Una misura più limitata, come la rinuncia a
deportare chi vive negli Usa da un certo numero di anni o ha studiato nel Paese,
passerebbe per un altro pannicello caldo. L’altro vincolo di Obama è quello dei tempi: nella
migliore delle ipotesi, il presidente avrà ancora margini di manovra politica per poco più di
sei mesi, fino all’inizio dell’estate 2015. Da allora in poi sarà tutto concentrato sulla
campagna per le Presidenziali 2016.
M. Ga.
11
Del 4/11/2014, pag. 14
Così Facebook “controlla” le scelte degli
americani
FABIO CHIUSI
ANCHE quest’anno, come avviene dal 2008, Facebook fornirà la possibilità di dire ai
propri amici sul social network “ho votato” tramite un apposito badge. Quattro anni or
sono, ha scritto un team di ricercatori su Nature, il badge servì a portare 340 mila elettori
in più alle urne. Ciò che finora non sapevamo è che gli studi sui dati di Zuckerberg non si
sono limitati a ritocchi nella presentazione di quello che Facebook chiama “megafono dei
votanti”. Come scrive su Mother Jones il co-fondatore di Personal Democracy Media,
Micah Sifry, gli esperimenti hanno riguardato anche il flusso di notizie di ben 1,9 milioni di
utenti della piattaforma. A tre mesi dalle elezioni Usa del 2012, infatti, il filtro che seleziona
cosa vediamo sul social network è stato modificato per far sì che ciascuno di loro avesse
in cima ai contenuti proposti notizie di attualità, così da rendere «molto più probabile»
vederle. Risultato? Un «aumento statisticamente significativo nell’attenzione che gli utenti
sostengono di avere prestato al governo», tradottosi in un incremento (auto-dichiarato)
nell’affluenza dei partecipanti dal 64 al 67%.
Niente di male, si dirà. E infatti, Facebook lo sostiene. Il problema è che Sifry lo ha
scoperto a partire dal video di un incontro pubblico tenuto da una data scientist di
Zuckerberg, Lada Adamic, e che da quando gliene ha chiesto conto quel video è stato
rimosso. Facebook sostiene per consentire al collega che ha computato i risultati,
Solomon Messing, di pubblicarne uno studio accademico nel 2015. Ma per Sifry «era
come se Facebook non volesse che gli utenti sapessero che aveva alterato il loro feed di
notizie a questo modo». Non sorprende, dopo la sollevazione globale seguita alla
rivelazione, lo scorso giugno, che gli esperimenti si spingono fino alla manipolazione delle
nostre emozioni. Eppure quando è in gioco la possibilità di alterare l’esito elettorale una
maggiore trasparenza sarebbe d’obbligo. Specie ora che Facebook dichiara l’intenzione di
fare data mining, ossia analisi statistiche di grandi quantità di dati per estrarvi conoscenze
utili, per scoprire le reazioni e gli atteggia- menti degli utenti «su determinati candidati o
temi». Il tutto, pur se aggregato e anonimizzato, anche «per genere e luogo», così da
comprendere cosa pensino gli elettori di determinati candidati in regioni chiave o su temi
particolarmente caldi su base locale. I risultati saranno condivisi con Abc News e BuzzFeed, ma al fondo si tratta di altre informazioni preziose che Facebook potrebbe usare, se
lo volesse, per promuovere una forza politica a discapito delle altre. L’aspetto più
inquietante è che lo potrebbe già fare, e noi — utenti e pubblico — non avremmo altro
modo di saperlo che fidandoci di Zuckerberg. A nostra insaputa, e potenzialmente perfino
alla sua: già oggi, nota Sifry, il badge «non è un meccanismo neutrale per chiamare al
voto» perché «la base di utenza di Facebook è inclinata verso i democratici». Ma il
problema, si diceva, è la trasparenza. E non bastano il mea culpa e le cautele aggiuntive
promesse a inizio ottobre dal Chief Technology Officer, Mike Schroepfer. Perché certo,
nuove linee guida più severe per i ricercatori, l’aiuto di un team di ingegneri, legali ed
esperti di privacy per scrutinare i progetti di ricerca proposti, sei settimane di formazione
obbligatoria e un sito dove pubblicare tutte le ricerche prodotte sono tutte misure
benvenute. Ma ciò che manca da quello scenario siamo noi, gli utenti, e il nostro pieno e
informato consenso a diventare soggetti sperimentali.
Dice bene la sociologa Zeynep Tufekci, su Twitter: «Ogni volta che viene condotto un
esperimento o un test che può influenzare l’esito delle elezioni, deve essere reso
12
pubblico». Non solo: «C’è bisogno di una divulgazione più tempestiva degli esperimenti di
Facebook e dei loro effetti». Finora marginali, è vero, ma non per questo meno degni di
una approfondita discussione pubblica. Un maggiore silenzio in risposta a rivelazioni come
quella di Sifry, prosegue Tufekci, «sarebbe sbagliato e non farebbe che creare ulteriori
preoccupazioni in ogni caso». Ingiustificate, per ora. Ma se vogliamo che la Rete diventi
un luogo di maggiore, e non minore, democrazia, la questione non può essere lasciata
all’arbitrio dei data scientist di un social network.
Del 4/11/2014, pag. 7
Elezioni nel Donbass: regolari e democratiche
Ucraina. Il neo ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni: «Non
riconosciamo il voto»
Fabrizio Poggi
Nessuna sorpresa: dalle elezioni delle regioni ribelli ucraine, escono confermati dal voto gli
attuali «facenti funzione« di leader delle due Repubbliche, Aleksandr Zakharcenko e Igor
Plotnitskij. Zakharcenko ha raccolto più di 765mila voti (oltre l’80%), contro i circa 112mila
del vice Presidente del parlamento di Novorossija Aleksandr Kofman e i 93mila del deputato del Soviet repubblicano Jurij Sivokonenko. Per Plotnitskij hanno votato oltre 445mila
elettori (63,8%); gli altri due candidati a Lugansk hanno raccolto rispettivamente il 10 e il
7,2%. Per quanto riguarda le liste, vincitrice «Repubblica di Donetsk», capeggiata da
Zakharcenko, votata da poco meno di 663mila elettori; «Pace a Lugansk» capeggiata da
Plotnitskij, ha raccolto il 70% dei consensi. Roman Ljaghin, Presidente della Commissione
elettorale centrale di Donetsk, ha dichiarato che questa non cercherà il riconoscimento del
voto: «Kiev deve mettersi l’animo in pace: il Donbass non fa più parte dell’Ucraina. Questo
è un’assioma». Attesa per oggi la cerimonia di insediamento di Zakharcenko. Ma i dati
numerici non rendono probabilmente conto della partecipazione popolare alla elezione dei
deputati e dei Presidenti delle due Repubbliche. Le code — alcune di diverse centinaia di
metri — fuori dai seggi che hanno «scioccato» (termine ripetuto per l’intera domenica dai
canali televisivi russi) gli osservatori stranieri, testimoniano della volontà di partecipazione
e, al tempo stesso, una risposta a Kiev, Washington, Ue e Osce che, mentre continuano
a esaltare la «democraticità« del voto del 26 ottobre per la Rada suprema, rifiutano di riconoscere questo del 2 novembre nel Donbass, considerato invece valido da Mosca.
Se Kiev ha intenzione di dichiarare «persona non grata» gli oltre 70 osservatori stranieri
(italiani, cechi, tedeschi, americani, russi, austriaci, greci, serbi, bulgari, ecc.), questi, da
parte loro, hanno rilevato la perfetta organizzazione, la democraticità e legittimità della
consultazione, esprimendo il parere che «non la guerra sia la strada da seguire, ma la
federalizzazione dell’Ucraina». «Ho visto persone felici di andare a votare e orgogliose di
farlo. Il sistema di voto è stato assolutamente legittimo e corrispondente alle norme della
democrazia», ha dichiarato alla Tass l’eurodeputato italiano Fabrizio Bertot. Il voto si
è tenuto in una giornata tranquilla – il vice premier della Repubblica di Donetsk Andrej Purghin, intervistato da Rossija 24, ha attribuito il silenzio delle artiglierie di Kiev alla presenza
degli osservatori stranieri – e sono stati liquidati senza difficoltà un paio di tentativi di infiltrazione da parte di sabotatori equipaggiati con armi pesanti. L’età minima per votare era
di 16 anni; esclusi dal voto i miliziani affluiti nel Donbass da altre regioni, mentre a quelli
impegnati in prima linea, i seggi sono stati portati direttamente sul fronte. Alcune decine di
migliaia di profughi hanno votato nei seggi allestiti nelle regioni confinanti russe di Rostov
sul Don, Voronezh e Belgorod. Sventati vari tentativi di hacker ucraini di interferire sul voto
13
elettronico. Il commento del Ministero degli Esteri russo, riportato dalla Tass, è stato che
gli eletti nel Donbass hanno ricevuto dagli elettori un mandato per il ripristino della pace,
sottolineando la necessità di intraprendere passi concreti per il dialogo tra Kiev e i rappresentanti delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, sulla scia degli accordi di Minsk.
Nella mattinata di ieri le artiglierie di Kiev hanno ricominciato a bombardare Donetsk e nel
Donbass non si smette di temere l’inizio di un’offensiva governativa, dopo il sensibile spostamento a destra dello schieramento politico uscito vincitore il 26 ottobre. Uno schieramento che, come dichiarato dal Segretario del Pc ucraino Petr Simonenko, ha ancora
all’ordine del giorno un passo tanto politicamente reazionario quanto psichiatricamente
assurdo, la messa fuori legge dell’ideologia comunista. Nessuna sorpresa dall’Italia: al
contrario di quanto avvenuto nel recente passato — Kosovo dice niente? — Roma, per
bocca del neo ministro degli esteri Gentiloni, ha specificato di non riconoscere le elezioni
del Donbass.
del 04/11/14, pag. 12
I libri di scuola dati in appalto all’amico di
Putin
«Purga» in Russia contro i testi scolastici
MOSCA Vladimir Putin aveva pensato addirittura a un solo libro di testo per ogni materia.
Questo per tutti i 14 milioni di studenti sparsi in 43 mila scuole russe. Alla fine però si è
deciso «semplicemente» di ridurre il numero dei manuali e di accertarsi che tutti seguano
le direttive dello Stato: un «singolo standard storico-culturale», basato sui «Fondamenti
della politica culturale statale» elaborati dal ministero per la Cultura. Tanto per capirci,
concetti che implicano il rifiuto dei punti di vista «liberali dell’Occidente» e che ribadiscono
il principio che «la Russia non è Europa». Benvenuti nel nuovo sistema scolasticoeducativo.
La storia, soprattutto, va trattata con grande attenzione. Nei frenetici, caotici ma liberi anni
Novanta si era proseguito con la demolizione della figura di Stalin che, in fin dei conti,
aveva pur sempre edificato l’Unione Sovietica. E visto che il presidente russo ebbe a
definire lo scioglimento dell’Urss «una delle più grandi catastrofi del Ventesimo secolo»,
non c’è da sorprendersi se del Piccolo Padre, dei suoi massacri e delle sue deportazioni si
parla ora in maniera un po’ diversa.
In un recente testo si afferma che il Grande Terrore degli anni Trenta (con milioni di
persone deportate e trucidate) fu attuato perché Stalin «non sapeva chi avrebbe assestato
il prossimo colpo, e per questa ragione attaccò ogni gruppo e ogni movimento».
Il manuale include istruzioni per gli insegnanti: «È importante mostrare che Stalin agiva in
una situazione storica concreta». In un’altra «Storia della Russia» scritta da due
accademici, si afferma che quei milioni di cittadini colpiti «costituivano una potenziale
quinta colonna che non era affatto immaginaria».
Libri attentamente selezionati, dunque. Ma a chi affidare il compito? Come è spesso
avvenuto in questi anni, nelle vicende più spinose sono sempre comparsi personaggi
legatissimi al presidente russo. Nel caso specifico colui che sembra destinato a diventare il
supercontrollore delle nuove generazioni è Arkadij Rotenberg, compagno di judo di
Vladimir Vladimirovich dall’età di 14 anni, ricco costruttore, finito nella lista dei personaggi
sottoposti a sanzioni in Usa ed Europa. In Italia gli sono state sequestrate due ville in
Sardegna e un albergo a Roma.
14
Rotenberg è riuscito a mettere le mani (per quattro soldi) su quella che era l’unica casa
editrice sovietica, la Prosveshcheniye (istruzione), che oggi è il principale editore
scolastico. I libri di tutti gli altri vengono bloccati con una scusa o con l’altra. E così
rimangono solo i testi «giusti» della Prosveshcheniye.
Ma non si epurano solo i manuali di storia. Via, ad esempio, un libro che illustrava
problemi di matematica parlando di Biancaneve. E in letteratura il prossimo obiettivo
potrebbe essere Aleksandr Solzhenitsyn che, secondo il direttore della famosa
Literaturnaya Gazeta Yurij Polyakov, non andrebbe più studiato, visto che emigrò
«volontariamente» in America. Il suo Arcipelago Gulag che descrive gli orrori dei lager,
poi, «è ben lontano dai dati della scienza storica e del buon senso».
Fabrizio Dragosei
del 04/11/14, pag. 13
La Germania Est torna «rossa» E si riapre il
dibattito sulla Ddr
Gli eredi dei comunisti lanciati verso la guida del Land della Turingia
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO Il gioco della politica sembra voler beffare
le ragioni della Storia nella Germania che celebra questa settimana il venticinquesimo
anniversario della caduta del Muro. La Repubblica democratica tedesca, il regime che
dominava ossessivamente le vite degli altri, è certamente ancora ben presente
nell’immaginario collettivo. Sarebbe strano il contrario, in un Paese che ha vissuto ferite
così recenti. Ma in questi giorni di cerimonie e ricordi, il suo fantasma recita un ruolo da
protagonista, ben al di là della rievocazione della libertà riconquistata in quel novembre
1989 e in una prospettiva diversa rispetto al mercato ingenuo della nostalgia.
Questo spettro che si aggira per la Germania ha un nome e cognome. Si chiama Bodo
Ramelow, l’ex sindacalista che sta per diventare, salvo sorprese, il primo governatore di
un Land appartenente alla Linke, il partito che ha parzialmente raccolto l’eredità dei
comunisti dell’Est. Che tutto questo non sia un episodio marginale, legato alla dialettica
futile della cronaca politica, lo ha dimostrato l’intervento del presidente Joachim Gauck.
L’ex pastore evangelico e militante dei diritti umani ha detto chiaramente, come del resto è
abituato, che le persone della sua età che hanno vissuto nella Ddr trovano molto difficile
accettare quanto sta accadendo in Turingia. Si è chiesto se la Linke abbia realmente
preso le distanze dalle idee in nome delle quali i suoi predecessori hanno oppresso la
popolazione e si è domandato se sia possibile averne oggi fiducia. Ha dato un forte
scossone un po’ a tutti, insomma, mentre a Berlino si preparano i palloncini luminosi che
segneranno il percorso del Muro e verranno liberati in cielo nel giorno che ricorda la fine
delle divisioni.
Gli interrogativi provenienti dallo Schloss Bellevue, densi di passione e meno di diplomazia
istituzionale, hanno provocato l’indignazione dei diretti interessati, il plauso dei
conservatori, i rispettosi dissensi dei socialdemocratici. Fedele ad Angela Merkel nella
grande coalizione, la Spd ha deciso infatti di entrare in un governo «rosso-rosso-verde»
nel Land di Goethe e Schiller, scalzando dal potere i cristiano-democratici ed alleandosi
con la Linke, arrivata seconda nelle elezioni con il 28 per cento dei voti. I risultati della
consultazione con gli iscritti sono attesi per oggi. Va comunque detto che Ramelow,
personalmente, non ha niente a che vedere con l’armamentario ideologico di una
consistente ala del suo partito. Viene da Ovest e non ha radici nel mondo che altri suoi
15
compagni, come Gregor Gysi o Sahra Wagenknecht, hanno attraversato ripensando poi
parzialmente il valore di quell’esperienza. E’ un interprete di quella voglia di sicurezza
sociale che anima molti elettori dei nuovi Länder.
Ma il problema del giudizio sulla Germania comunista e della affidabilità dei suoi eredi, veri
o presunti, non è esploso improvvisamente con il successo della rivoluzione guidata da
Ramelow. Già nelle settimane scorse, sempre partendo dalla Turingia, si era aperto un
dibattito sulla definizione, respinta da Gysi, della Ddr come «stato ingiusto».
Secondo il presidente della Linke, che ha però riconosciuto le «ingiustizie» del regime, se
la Repubblica democratica tedesca viene descritta in questo modo «si sostiene anche che
solo le potenze occidentali avevano il diritto di fondare la Repubblica federale, mentre
l’Unione Sovietica non aveva lo stesso diritto». Molte le reazioni negative. Anche in questo
caso è arrivata un netta presa di posizione del presidente Gauck, che ha parlato di «uno
Stato totalitario senza un sistema giudiziario indipendente». L’ex pastore vuole
sconfiggere i fantasmi. L’anniversario del 9 novembre servirà anche a questo.
Del 4/11/2014, pag. 6
Podemos irresistibile, primo partito in Spagna
A sinistra. Sorprendente sondaggio commissionato da «El Paìs»: in
testa con il 27,7%. Nato sulla scia del 15M, il movimento di Pablo
Iglesias è già in grado di aprire una breccia nel bipartitismo iberico
Giuseppe Grosso, MADRID
<<Conquistare il centro dello scenario politico». Aveva puntato in alto il leader di Podemos,
Pablo Iglesias, durante l’assembla costituente che, solo due settimane fa, ha sancito la
metamorfosi della formazione da movimento a partito. E ha colto nel segno: lo confermerebbero i sondaggi sulle intenzioni di voto che il País ha commissionato all’istituto di statistica Metroscopia, secondo i quali Podemos sarebbe la prima forza politica a livello nazionale con il 27,7% di consensi.
Un risultato prodigioso, soprattutto per una formazione nata sulla scia del 15M meno di un
anno fa, ma già in grado, a quanto pare, di aprire una breccia forse insanabile nel bipartitismo ermetico della Spagna democratica. L’ancien regime, d’altronde, era stato ufficialmente avvisato già alle scorse europee, quando Podemos aveva raccolto dal nulla ben 1,2
milioni di voti (5 eurodeputati). Pur così il sondaggio del País deve aver fatto sobbalzare
l’establishment politico: 1,5 punti di vantaggio sul Psoe e addirittura 7 sul Partido popular
(Pp), sprofondato nel baratro di una corruzione dilagante ed elevata a sistema.
L’ultimo scandalo — una trama di appalti edilizi truccati emersa negli scorsi giorni e conosciuta come Operación Púnica — ha travolto la cupola del Pp di Madrid, roccaforte storica
dei popolari, e ora, significativamente, avamposto dell’attacco di Podemos al cuore del
sistema politico. Ovviamente, a quasi un anno dalle elezioni generali, i sondaggi vanno
presi con le pinze: sui dati incidono di certo l’indignazione per le malversazioni del partito
di governo (castigato infatti più del Psoe) e la frustrazione per una crisi che morde ancora
forte, nonostante i proclami di ripresa del Pp (il 91% degli intervistati considerano «pessima» la situazione politica spagnola). L’inchiesta, però, ha più valore come fotografia di
fine ciclo che come oracolo elettorale: un’istantanea storica che rappresenta con nitidezza
il crollo del duopolio Pp/Psoe e soprattutto il trionfo – impensabile fino a pochi anni fa– di
una politica di stampo movimentista, di cui la Spagna è laboratorio all’avanguardia a livello
europeo. Al di là dei numeri, il sondaggio rivela che Podemos ha saputo tenere fede al suo
16
nome: si può, nella Spagna di oggi, partire dalle piazze per arrivare in parlamento; si possono scuotere da sinistra le strutture anchilosate della vecchia politica.
A patto, però, di non cedere alle sirene di un facile populismo (tentazione in cui Podemos
è a volte scivolato) e di riuscire a gestire l’ingombrante figura di Pablo Iglesias, fondatore,
ideologo, e figura imprescindibile del partito, con tendenze assolutiste, difficili da conciliare
con la vocazione pluralista del partito. Sarà una delle sfide di Podemos, che da qui alle
elezioni politiche dovrà cercare di non cannibalizzare i consensi con lotte interne che
potrebbero riversare i potenziali voti sulle altre formazioni di sinistra: prima tra tutte
Izquierda Unida, che ha già ceduto moltissimi voti alla formazione di Iglesias Podemos,
ma che si trova attualmente nel mezzo di un processo di rinnovazione che promette molto
bene. A destra, invece, il Pp non ha concorrenti, cosicché gran parte del flusso emorragico
di voti finisce a ristagnare nel bacino dell’astinenza: lì si giocherà una dura partita, che
potrebbe effettivamente decidere l’esito elettorale. Intanto dal quartier generale di Podemos fanno saggiamente appello alla prudenza: «Bisogna considerare i numeri con
estrema cautela. Manca un anno alle elezioni: siamo in una fase di transizione e le cose
possono cambiare velocemente in funzione degli sviluppi politici.
I numeri in questo periodo hanno una scadenza molto ravvicinata». Numeri che, per ora,
immortalano a mezz’aria il sasso che, scagliato dalla fionda di Davide, sembrerebbe
diretto alla fronte di Golia. Per sapere se colpirà il bersaglio, bisognerà aspettare fino alle
politiche del prossimo autunno.
Del 4/11/2014, pag. 8
Libia: battaglia a Bengasi, evacuato il porto
dalle milizie pro-Haftar
Libia. Gli islamisti minacciano nuove elezioni
Giuseppe Acconcia
È tempo di elezioni anche per il parlamento di Tripoli. Se il voto dello scorso maggio ha
portato alla formazione di un’Assemblea a Tobruk, senza sede fissa ma appoggiata dai
militari dell’ex generale ed ex agente Cia Khalifa Haftar, il premier, espressione degli islamisti moderati, Omar al-Hassi non ci sta e promette di tornare alle urne. Con lo scopo di
colmare la lacuna degli islamisti: la scadenza del mandato parlamentare che ha portato
alle dimissioni forzate del premier Ali Zeidan, prima, e al via libera al golpe Haftar, poi.
Ma a Bengasi la battaglia non si ferma, dopo la sfilata trionfale i militari di Haftar, hanno
dato 12 ore di tempo ai miliziani di Ansar al Sharia, responsabili dell’attacco costato la vita
all’ambasciatore Usa, Chris Stevens, per lasciare il porto cittadino. Alla vigilia della sua
marcia sulla città, Bengasi è stata scossa da violente esplosioni. Alcuni razzi Grad sono
piovuti anche sui quartieri del porto e testimoni hanno parlato di raid aerei dell’esercito
libico sulle postazioni jihadiste. Non solo, Ibrahim Jathran, che detiene il controllo di vari
pozzi petroliferi a est di Bengasi, rifiuta sempre di unirsi alla guerriglia, vicina agli islamisti.
La parte dell’esercito che appoggia Haftar ha chiesto ieri ai residenti del quartiere portuale
al-Sabiri di lasciare le loro case prima della nuova, grande operazione contro gli islamisti.
Nelle ultime settimane, oltre 200 persone sono state uccise nel tentativo di liberare la città
dai jihadisti.
Alla vigilia della controoffensiva, uno dei portavoce dell’esercito libico, Mohammed Hegazi,
ha dichiarato che un aereo del Qatar ha portato armi ed equipaggiamenti militari a Misurata in mano alle milizie islamiste. Hegazi ha confermato che le forze di Haftar controllano
17
il 90% della città. «L’esercito libico controlla tutti i quartieri di Bengasi», ha detto il colonnello Wanis bu Khamade, comandante delle forze scelte e dei paracadutisti. Wanis ha
inoltre riferito che «sono in arrivo da Ajdabiya (a ovest di Bengasi) rinforzi militari con il
battaglione 148, che si dispiegherà nell’est della Libia». I militari hanno compiuto perquisizioni e arresti sommari a Bengasi.
Per questo le famiglie degli uomini della brigata 17 febbraio e di Ansar al Sharia si sono
ritirate verso il porto e nell’ovest. Per le associazioni che monitorano le vittime, sono 35
i più impegnati attivisti politici libici uccisi dall’inizio 2014. Infine, centinaia di egiziani sono
stati fermati all’aeroporto di Tripoli e obbligati a non entrare nel paese. Militari e islamisti si
accusano a vicenda per il coinvolgimento di combattenti egiziani tra le loro fila.
del 04/11/14, pag. 28
Un’assemblea di pace per la Libia dilaniata
di Bernard - Henry Levy
Viaggio lampo a Tunisi. All’aeroporto, alcuni nostalgici di Gheddafi, urlanti e patetici. Nelle
ore seguenti, vari siti complottistici imbastiscono i più stravaganti scenari per spiegare la
mia presenza, con Gilles Hertzog, sul suolo tunisino: un incontro occulto con il partito
Ennahda, una conferenza immaginaria a Hammamet in compagnia di un jihadista, un
appuntamento segreto con un ministro o un presidente.
Sorvolo sul resto, poiché l’essenziale evidentemente è un altro. La piccola agitazione che
ci circonda non riesce a distoglierci dall’unico appuntamento che meriti, cioè quello del
cuore e dello spirito con la nostra cara e sofferente Libia.
Sabato scorso, in una sala riunioni del nostro albergo, abbiamo di fronte Waheed Burshan,
l’ingegnere della città di Gharyan incontrato nel giugno 2011, mentre organizzava il ponte
aereo che avrebbe rifornito di viveri e armi le montagne del Jebel Nefusa.
Attorno a lui e a Gazi Moalla, l’amico tunisino artefice dell’incontro, alcuni rappresentanti di
Bengasi, Tripoli, Zauia, Misurata, Ifren o Nalut, città dai nomi per noi familiari e che furono
le stazioni del calvario, poi della liberazione, di un popolo che non era il nostro e di cui
abbiamo sposato la causa.
Uno degli invitati, soprattutto, colpisce: Fadil Lamine che — alla maniera di André Gide in
una sua famosa battuta «nato a Parigi da un padre di Uzès e da una madre normanna,
dove vuole, signor Barrès, che metta radici?» — rivela come gli riuscirebbe difficile,
essendo suo padre di Tripoli e sua madre di Benghazi, riconoscersi in una delle fazioni
che si disputano un potere del resto inesistente. Non è un caso — sembra dire — se cade
su di lui la notevole responsabilità del Consiglio del dialogo nazionale che, da aprile 2013,
lavora per superare le divisioni etniche e politiche che dilaniano la nazione libica. Con le
lacrime agli occhi, evochiamo la memoria della sua ex vicepresidente, Salwa Bougaighis,
la giovane, coraggiosa avvocatessa, militante dei diritti dell’uomo e della donna,
assassinata il 25 giugno scorso a Bengasi. Ricordiamo un giorno di marzo del 2011,
quando aveva contribuito ad organizzare la prima assemblea unitaria delle tribù di
Cirenaica e Tripolitania, cui eravamo stati invitati, durante la quale aveva detto fieramente:
«C’è una sola tribù in Libia, la tribù della Libia libera»; frase che fu per noi una sorta di
motto nei sette mesi di solidarietà con la nazione araba insorta. È questo motto che
bisogna resuscitare, dice Burshan gravemente. È questo spirito che si deve contrapporre
a tutti coloro che vogliono infrangere un sogno e che, se non vengono fermati, potrebbero
far scorrere i fiumi di sangue promessi dalla dittatura, ma evitati dall’intervento alleato.
18
Che fare, chiediamo, quando sembra che ciascuno si preoccupi solo del proprio
tornaconto in un Paese in rovina? Quale soluzione, per una nazione che ha due Primi
ministri, due parlamenti, e dove lo Stato non esiste?
Si ricorre alla società civile, risponde pensieroso Burshan. Ci si affida a quegli uomini di
buona volontà di cui parla uno dei vostri scrittori e di cui avete qui alcuni eminenti
rappresentanti. Quando la politica fallisce e si continua con la guerra fratricida, c’è una
sola via d’uscita: far capire a tutti che nessuno può vincere da solo e che la salvezza, o il
suicidio, possono essere soltanto collettivi. E c’è un solo programma: convocare una sorta
di Loya Jirga, una grande assemblea, dove tutti i protagonisti di questa rivoluzione
interminabile e divoratrice saranno invitati e dove gli assenti saranno designati come
nemici della pace e della Libia.
Burshan e i suoi amici contano sulla Francia. Non vogliono interventi esterni, ma vedono di
buon occhio una missione di mediazione condotta dalla nazione amica per eccellenza.
Eravate con noi durante la guerra, dicono, siate con noi durante la pace. Siete stati nostri
compagni di armi, siate nostri compagni nella riconciliazione e nella ricostruzione. Ora che
il terrorismo è internazionale, le nostre frontiere non sono anche le vostre? Quanto al Sud
libico, diventato l’arsenale e il santuario della nuova setta di assassini che imperversa
nella regione, perché non cominciare, insieme, a renderlo più sicuro?
La riunione si conclude con un ultimo intervento dei partecipanti, che prefigura quasi il
governo di saggi e di esperti sognato da Burshan e di cui si intravede improvvisamente la
fattibilità. È giunto il momento, per lui, di tornare di corsa in Libia: è appena arrivata la
notizia di un bagno di sangue a Kekla, nel Jebel Nefusa, vicino a casa sua. È giunto il
momento, per noi, di tornare a Parigi: non è escluso che siamo stati i testimoni di uno di
quegli eventi che, come dice Nietzsche, accadono a passi di colomba ma sono, talvolta, i
più decisivi, e bisogna trasmetterne la notizia senza indugio.
Mi rendo ben conto che non abbiamo chiuso con il nostro giuramento libico. Che non
siamo dispensati dalle nostre responsabilità nei confronti degli uomini che il nostro Paese
ha aiutato a liberarsi e che oggi ha il dovere di aiutare a risollevarsi.
La speranza non è morta. La lotta, pacifica, continua.
(traduzione di Daniela Maggioni)
Del 4/11/2014, pag. 7
Le mafie a Peña Nieto: i 43 studenti sono vivi
Messico. Cresce la rabbia per il massacro di Iguala
Geraldina Colotti
I 43 studenti messicani– scomparsi il 26 settembre a Iguala dopo la repressione congiunta
di polizia e bande criminali — potrebbero essere vivi. Nel fine settimana, i narcotrafficanti
dei Guerreros Unidos, accusati della mattanza, hanno fatto trovare un lungo messaggio,
scritto su un lenzuolo bianco.
Un messaggio diretto al presidente della repubblica Enrique Peña Nieto in cui sostengono
che i ragazzi sono vivi e accusano le autorità di colpevole inadempienza. E accludono una
lista di politici collusi con le mafie. Ci consegneremo – scrivono – quando tutti loro verranno arrestati. Intanto, circola in rete un video registrato con un cellulare subito dopo
i fatti di Iguala. Gli studenti chiedono inutilmente aiuto e gridano alla polizia: «Non sparete,
non abbiamo armi», mentre vedono uccidere i loro compagni.
Il 26 settembre, studenti e maestri delle scuole rurali — istituti di antica tradizione di sinistra radicale — erano in agitazione: contro la discriminazione di cui soffrono e contro le
19
politiche di privatizzazione della scuola pubblica portate avanti dal neoliberista Nieto. Gli
autobus su cui circolavano sono stati aggrediti da polizia e individui pesantemente armati,
i quali hanno poi attaccato anche un pullman di calciatori di ritorno dallo stadio. Quel
giorno, il bilancio è stato di 6 ragazzi uccisi (uno dei quali con segni di tortura), 25 feriti
e 43 scomparsi. Le testimonianze dei cittadini e le telecamere di sicurezza hanno portato
all’arresto di 22 poliziotti e di diversi narcotrafficanti dei Guerreros unidos. Le confessioni
di alcuni pentiti e le indagini delle brigate di autodifesa comunitaria hanno consentito poi la
scoperta di 12 fosse comuni contenenti 28 cadaveri carbonizzati, resti di materiale didattico e zainetti. Secondo le testimonianze dei pentiti, almeno un gruppo di 17 studenti
è stato consegnato dalla polizia ai narcotrafficanti, che li hanno uccisi e bruciati: credendoli
appartenenti a una banda rivale, hanno poi sostenuto i Guerreros Unidos.
L’esame dei resti bruciati ha apparentemente escluso la presenza degli studenti fra i cadaveri. Le associazioni dei familiari contestano però l’imparzialità delle indagini disposte dalle
autorità locali. E hanno nominato una commissione di antropologi forensi proveniente
dall’Argentina, denunciando a più riprese il boicottaggio esercitato nei loro confronti dagli
esperti istituzionali. Nel frattempo, è ricercato l’ex sindaco di Iguala e il governatore del
Guerrero, in fuga e sostituito a interim. Intanto, continuano le manifestazioni previste per
tutta la settimana. Domenica papa Francesco ha «pregato» a San Pietro per gli scomparsi
di Iguala. Un caso che interroga anche il nordamerica, grande sostenitore delle politiche
neoliberiste in Messico. Una sessantina di persone ha organizzato una veglia davanti alla
Casa Bianca. Qualche giorno fa, Barack Obama ha definito «inquietanti» i fatti accaduti
nel Guerrero, uno stato in cui più è incancrenito l’intreccio di mafia e politica vigente in
Messico. E un articolo del New Yorker prevede «un grande tumulto sociale» qualora si
appurasse che gli studenti sono stati uccisi. I messicani – scrive la rivista Usa – anestetizzati da anni di episodi di violenza nel paese ora sono indignati per ciò che è accaduto
quella tragica notte di settembre in cui sono emersi come mai prima i legami esistenti tra le
autorità locali più corrotte e i politici di governo a livello nazionale.
20
INTERNI
Del 4/11/2014, pag. 1-8
IL PUNTO
L’incognita della legge elettorale e la partita
del Quirinale
I tempi per l’approvazione del nuovo sistema di voto si allungano. Il sì
del Senato non arriverà prima di gennaio
DI STEFANO FOLLI
UN passo dopo l’altro, ci si avvicina ai passaggi cruciali che decideranno il futuro della
legislatura e le prospettive del governo Renzi. Le scadenze si affollano nell’agenda di fine
anno, dalla riforma del lavoro alla legge di stabilità, ma la vera incognita resta ancora la
legge elettorale. Sulla quale l’incertezza è ovviamente aumentata dopo che il presidente
del Consiglio ha rimescolato le carte e ha avanzato la proposta di assegnare il premio di
maggioranza non più alla coalizione vincitrice, bensì alla lista, cioè al partito. Questo
significa che quando il Senato l’avrà votata, nella migliore delle ipotesi non prima di
gennaio inoltrato, la legge tornerà alla Camera per una seconda lettura non solo formale. I
tempi insomma si allungano, anche perché gli accordi in Parlamento attendono di essere
definiti. Nessuno mette in discussione il “patto del Nazareno”; ma i fatti dimostrano che
l’intesa con Berlusconi, pur solida, non è una camicia di forza in grado di coprire tutte le
contraddizioni. Prova ne sia l’infinita altalena sui candidati alla Corte Costituzionale.
In altri termini, Renzi va per la sua strada, ma gli ostacoli potrebbero essere più insidiosi
del previsto. Il suo tallone d’Achille - egli stesso ne è ben consapevole - è l’economia, o
meglio il rischio concreto che le misure già in atto o in preparazione non riescano a
imprimere uno stimolo significativo al sistema produttivo. A maggior ragione il premier
deve consolidare in fretta il suo “blocco sociale” e di conseguenza un sistema di potere
ancora imperfetto. Anche nel discorso di ieri agli industriali di Brescia è emersa questa
determinazione, nel segno del dinamismo innovatore, ma si è avvertita fra le righe
l’inquietudine di chi teme che non tutti i tasselli del mosaico vadano al loro posto in tempo
utile. Sotto il profilo politico-istituzionale, le carte migliori in mano a Renzi sono due. La
prima è la condizione di grave prostrazione in cui versa la minoranza del Pd, incapace di
costituire una minaccia alla stabilità del governo e tanto meno di prefigurare una scissione
credibile, che non sia cioè l’uscita alla spicciolata dal Pd di tre o quattro irriducibili
oppositori del “renzismo”. La seconda è invece l’appoggio fermo e costante garantito al
premier dal presidente della Repubblica. La capacità di Napolitano di influenzare le
decisioni di Renzi si è vista ancora la settimana scorsa, in occasione della scelta di Paolo
Gentiloni come ministro degli Esteri. Al tempo stesso abbiamo avuto conferma della
disponibilità del presidente del Consiglio ad accettare i consigli del Quirinale, ricercando il
compromesso. Questa è la falsariga che segnerà i rapporti istituzionali anche nel prossimo
futuro. Fino al momento in cui Napolitano deciderà di lasciare il Quirinale.
Il presidente ha superato di recente la prova più dura, anche sotto il profilo psicologico: la
testimonianza resa davanti ai magistrati di Palermo. Ne è uscito rinfrancato, avendo
rintuzzato quella che poteva diventare una prova di forza contro gli equilibri costituzionali
del paese. Ciò nonostante, egli non fa mistero della sua intenzione di voler mettere fine al
suo secondo mandato in ragione dell’età e della salute. È ragionevole pensare che questo
non accadrà prima della fine del semestre europeo dell’Italia, ma nemmeno troppo più in
21
là. Ne deriva un intreccio molto delicato. È impensabile che quel giorno, quando sarà, il
governo abbia completato il percorso delle riforme, anzi con ogni probabilità non avremo
nemmeno la nuova legge elettorale. Il rischio è allora che i due piani s’intreccino e che sul
cammino della legge elettorale si scarichino tutte le tensioni e gli inevitabili veleni della
contesa per il Quirinale.
Del 4/11/2014, pag. 6
Silvio vuol tenere in ostaggio l’Italicum “Darò
l’ok solo se torno candidabile”
TOMMASO CIRIACO
Prendere in ostaggio la legge elettorale per costringere il governo a seppellire la legge
Severino. È il piano ad altissimo rischio che ha in mente Silvio Berlusconi. Studiato a
tavolino, nei dettagli, dopo aver individuato quello che ad Arcore considerano il punto
debole del premier: «Matteo spiega il Cavaliere decaduto mi ha detto che vuole al più
presto l’Italicum. Ne ha bisogno per frenare quelli di sinistra del Pd. Ecco, noi possiamo
votare la legge elettorale solo se mi permetteranno di candidarmi ». Non sarà facile, certo,
ma è il leader di Forza Italia a suonare la carica dal rifugio brianzolo. «Altrimenti il patto del
Nazareno non vale più». Più o meno il messaggio fatto recapitare in queste ore al
presidente del Consiglio.
Avesse la certezza, Berlusconi si accontenterebbe (si fa per dire) di un giudizio di
incostituzionalità della legge Severino pronunciato dalla Corte costituzionale. I tempi, però,
sono prevedibilmente lunghi e l’ex premier ha fretta di tornare al centro della scena. «Sono
un perseguitato. Ho subito un’ingiustizia, bisogna cancellarla », ripete senza sosta agli
amici di Ncd con i quali è rimasto in rapporti e che spera di ricondurre a casa. Ecco allora
l’idea, spregiudicata a dir poco: «Renzi tiene buoni i pochi comunisti rimasti nel Pd con la
minaccia di tornare alle elezioni. Magari poi non si vota, ma serve a spaventarli. Per
questo ha bisogno della legge elettorale ». Proprio quella riforma che Berlusconi non è
disposto a concedere senza ottenere in cambio un colpo di spugna della legge Severino.
È una partita a scacchi. È stato Berlusconi a iniziarla, chiedendo al partito di cavalcare le
novità del Tar sul caso De Magistris. «Cancellare la Severino deve diventare la nostra
priorità - si è infuriato per i tempi di reazione troppo lenti - Sia chiaro a tutti che sono un
martire ». Ecco, il martirio deve diventare pubblico, invadendo via etere le case di tutti gli
italiani. Preparato il terreno, toccherà al Parlamento interveni- re. C’è chi spera in un
ricorso alla giunta per le elezioni del Senato, in modo da sollevare quella questione di
legittimità costituzionale negata al momento della decadenza del leader. Probabile, però,
che si scelga la strada più semplice: «Ovvio che anche noi stiamo pensando
all’opportunità di presentare una legge», assicura il capogruppo di FI al Senato, Paolo
Romani. Tuttavia la strada legislativa presenta dei rischi: «Se il governo modifica solo una
parte della norma, potrebbe rallentare il giudizio della Corte costituzionale ». E siccome
«siamo convinti che la Severino sia completamente incostituzionale, stiamo ragionando
per capire se convenga ». Per spingere Palazzo Chigi ad assecondare le pulsioni
“revisioniste” della norma anticorrotti, Forza Italia alza il tiro contro l’esecutivo. Il Mattinale
lo ammette candidamente: «La Severino è una trappola che ferisce la democrazia. Cosa
aspetta Renzi a rimediare? Il Patto del Nazareno ha al suo primo punto la lealtà reciproca
tra i due protagonisti». Un avvertimento esplicito, senza giri di parole. Parallelamente, va
avanti la battaglia in sede continentale. «La retroattività della Severino è un sacrilegio si
sgola Berlusconi - la Corte europea dei diritti dell’uomo mi darà ragione».
22
Saltasse la Severino, il leader di Arcore tornerebbe candidabile a partire dalla metà del
2015. «Poniamo il caso che si vada a votare - è l’estrema sintesi di Ignazio Abrignani - Il
centrodestra ha un leader che però non può correre. Se facciamo le primarie, chi
candidiamo? Se invece salta la Severino cambia tutto. Possiamo solo sperare che lui torni
in campo e gli permettano di giocarsela, come ha sempre fatto». Certo, resterebbe il
problema di ricostruire un partito allo sbando, lacerato dalla fronda di Raffaele Fitto e
diviso in cento micro correnti territoriali. Stanco, anzi «nauseato» - come ciclicamente gli
accade osservando FI - ieri sera Berlusconi ha incontrato Deborah Bergamini, Giovanni
Toti e Alessandro Cattaneo per dare il via all’operazione “101”. Tanti saranno i giovani
selezionati per sostituire la vecchia classe dirigente. Volti freschi da mandare in tv. «Quelli
che abbiamo adesso - è la sentenza del leader - sono un vero disastro».
Del 4/11/2014, pag. 6
Tesauro sulla legge Severino “Spero che le
modifiche siano decise in Parlamento”
Il presidente della Consulta: più sano di un nostro intervento
Berlusconi: la giustizia prevalga sulla convenienza politica
ALBERTO D’ARGENIO
È il presidente della Corte Costituzionale, Giuseppe Tesauro, ad intervenire nel dibattito
sulla Legge Severino, rimandata alla Consulta dal Tar di Napoli in relazione al caso De
Magistris. «Tra il Parlamento e il giudice io preferisco sempre il Parlamento, quindi se le
Camere volessero intervenire, non so in che termini, certo sarebbe meglio, più sano». Tra
l’altro, aggiunge Tesauro, il tempo non mancherebbe, visto che per arrivare ad una
decisione sulla costituzionalità della norma i tempo fisiologici sono di 6-7 mesi». Ed è
Silvio Berlusconi, decaduto dal Senato proprio in virtù della Severino, a crederci:
«L’assoluzione nel processo Ruby e la decisione del Tar di rinviare la legge Severino
fanno sperare che dopo tanti mesi oscuri la giustizia possa prevalere sulla convenienza
politica». Tesauro non entra nel merito della polemica politica, e liquida la frase dell’ex
premier con una battuta: «Abbiamo tutti questa speranza». Ad ogni modo il presidente
della Consulta non si vuole esprimere sulla presunta analogia, cara a Forza Italia, tra la
vicenda giudiziaria di De Magistris e quella di Berlusconi: «Non so se siano questioni
diverse, bisognerebbe aprire il fascicolo e non lo aprirò io. Chi ora dice qualcosa è un
presuntuoso». Ma le parole di Tesauro galvanizzano i fedelissimi di Berlusconi, che a gran
voce chiedono che il Parlamento intervenga subito per cambiare la legge e riabilitare
politicamente il loro capo. Daniela Santanchè attacca, “chiede” al Partito democratico di
avere «un minimo di onestà intellettuale». Il suo ragionamento è questo: «Con che basi il
Pd vuole discutere la Severino solo per il caso De Magistris e non per quello di Silvio
Berlusconi?». Il cavallo di battaglia dei forzisti è che la sua retroattività venga abolita, in
modo da rimettere in gioco l’ex Cavaliere. La tattica degli azzurri la svela il Mattinale, la
nota politica del gruppo alla Camera guidato da Brunetta che allude alla tenuta del patto
tra Renzi e Berlusconi sulle riforme. «Il Patto del Nazareno ha al suo primo punto la lealtà
reciproca tra i due protagonisti, che razza di democrazia è quella che mette fuori gioco a
priori un contendente, applicando norme incostituzionali?». Intanto il viceministro della
Giustizia, Enrico Costa (Ncd), apre ad un «tagliando» parlamentare alla Severino «perché
non ci siano spazi lasciati a interpretazioni equivoche o a dubbi di disparità di
trattamento». Parte invece all’attacco il Movimento 5 Stelle, i cui deputati si chiedono a chi
23
interessi manomettere la Severino, con la seguente risposta: «Il vociare in merito a
possibili aggiustature dell’unica legge voluta dalla politica per combattere la corruzione è il
tipico disegno di chi vuole cambiare le carte in tavola e ripristinare vecchi equilibri politici».
del 04/11/14, pag. 9
Consulta, rinuncia anche Sandulli
E si complica il dialogo con l’M5S
Sfuma il ticket rosa. La candidata attaccata da FI: non ci sono le
condizioni
ROMA Nulla da fare. Quando il ticket rosa sembrava potere aver ragione di un Parlamento
paralizzato e incapace di scegliere i due giudici della Corte costituzionale, è saltato tutto.
Nella tarda mattinata, la professoressa Maria Alessandra Sandulli dirama una nota nella
quale spiega di considerare un «onore» la candidatura, ma rinuncia: «Non ci sono le
condizioni per confermare la mia disponibilità». E così salta il gioco a incastro dal quale
dovevano finalmente uscire i due nuovi giudici. La prossima votazione dovrebbe tenersi
giovedì alle 13 e prima bisognerà trovare un nuovo nome.
Sfuma così anche la possibilità, almeno per ora, che della delicata partita della Consulta
facciano parte anche i 5 Stelle. Dopo aver nicchiato, considerando le candidature della
Sandulli e di Silvana Sciarra, chiedendo che venissero ufficializzate, sembravano aver
sciolto le riserve. Anche perché, in cambio, al Movimento di Beppe Grillo sarebbe toccato
un uomo nel Csm, Alessio Zaccaria. Ma la Sandulli è stata impallinata da molti esponenti
del centrodestra, compresa Forza Italia. Proprio il partito che, in teoria, avrebbe fornito il
suo nome. Tra le colpe della Sandulli, una firma nel 2005 contro la riforma costituzionale
presentata da Silvio Berlusconi. La Sandulli ha visto l’aria che tirava e si è chiamata fuori.
Con il plauso di Maurizio Gasparri: «Bene che Sandulli — candidata da chi? — prenda
atto che non può avere per la Corte i voti di chi aveva in disprezzo. Archiviata!». E ora?
Spiega il ministro Maria Elena Boschi: «Mi pare che sia una vicenda interna a Forza Italia.
Noi abbiamo dato disponibilità a tutti. Compresi i 5 Stelle». Tra i nomi che circolano ci
sono Lorenza Violini, Antonella Marandola, Carla Pasini, Ginevra Cerrina Ferroni.
Oggi si tiene un’assemblea congiunta dei gruppi M5S per sondare la disponibilità nei
confronti dei nomi che emergeranno. Poi la palla passerà alla Rete, che dovrà vidimare
l’opinione dei parlamentari.
In realtà, spiega Danilo Toninelli, «i nostri nomi sono sempre lì: persone con requisiti a
posto che nessuno ha mai contestato». Vero, ma i 5 Stelle sono pronti ad abbandonarli, se
Pd e Forza Italia proponessero «nomi di garanzia», come spiega il capogruppo Andrea
Cecconi. Così com’è vero che i 5 Stelle potrebbero essere il «secondo forno» da usare per
la legge elettorale se Forza Italia non accettasse il premio di maggioranza alla lista
richiesto da Renzi. Ma il Movimento di Grillo deve anche risolvere i suoi problemi interni,
come dimostra l’ennesimo affondo del sindaco di Parma Federico Pizzarotti: «Non serve
l’uomo solo al comando. In tv non ci deve andare da solo Luigi Di Maio, ma un team. Io
dico la mia opinione, anche se si percepisce la mia mancanza di feeling con Beppe
Grillo». Quanto alle strategie politiche, il sindaco ha qualcosa da dire anche su questo:
«Era meglio andare a vedere, invece di sbattere la porta in faccia a Bersani, e condannare
M5S a una sorta di infantilismo politico».
Comunque sia, resta da risolvere il problema della Consulta, prima di passare alla legge
elettorale. La presidente della Camera Laura Boldrini spiega che «io e il presidente Grasso
24
stiamo cercando di fare pressione sui gruppi perché trovino un accordo, ma non sarebbe
lungimirante convocare a oltranza il Parlamento e bloccarne le attività».
Alessandro Trocino
Del 4/11/2014, pag. 7
P3, GRANA PER IL NAZARENO
VERDINI VA A PROCESSO
L’UOMO DEL PATTO RINVIATO A GIUDIZIO: “MI SENTO PERSEGUITATO”
PROCEDIMENTO ANCHE PER L’EX SOTTOSEGRETARIO COSENTINO
Di Davide Vecchi
Secondo rinvio a giudizio per Denis Verdini. Il gup di Roma, Paola Della Monica, ieri ha
deciso di mandare a processo per corruzione l’ex coordinatore nazionale del Pdl, nonché
trait d’union tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi per la stesura del Patto del Nazareno. A
giudizio anche l’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, con l'accusa di
diffamazione e violenza privata mentre è stata stralciata la posizione di Marcello Dell’Utri,
indagato come Verdini per corruzione, ma in attesa di estradizione dal Libano. Infatti,
nonostante sia già nel carcere di Parma a seguito della sentenza definitiva a sette anni per
concorso esterno in associazione mafiosa, Dell’Utri deve essere estradato per il
procedimento specifico. L’INCHIESTA è quella relativa alla cosiddetta P3 ideata, tra gli
altri, dall'imprenditore Flavio Carboni. Un’associazione segreta che aveva come obiettivo
la realizzazione “di una serie indeterminata di delitti di corruzione, di abuso d’ufficio e di
illecito finanziamento” oltre “a condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di
rilevanza costituzionale, nonché gli apparati della Pubblica amministrazione dello Stato e
di enti locali”. A Verdini, in particolare, è contestato di aver fatto pressioni sulla Corte di
Cassazione per anticipare l’udienza che doveva discutere il merito della misura cautelare
emessa nei confronti di Nicola Cosentino; di aver tentato di influire sul giudizio della
Consulta sulla costituzionalità del lodo Alfano e, infine, di aver interferito nei confronti del
Csm affinché venisse nominato presidente della Corte d'appello di Milano Alfonso Marra.
Cosentino è invece ritenuto responsabile di aver fatto pubblicare su un blog notizie false
relative all’attuale presidente della Campania, Stefano Caldoro, per screditare l’allora
candidato alle Regionali del 2010. All’ex sottosegretario è contestato anche l'aver
compiuto atti diretti a costringere Caldoro a rinunciare a partecipare alle elezioni. La prima
udienza è fissata per il 5 febbraio, mentre il processo a carico degli altri imputati nel filone
principale, tra cui Carboni e l’ex giudice tributario Pasquale Lombardi, è già cominciato
ormai da un anno e proseguirà il 10 novembre. La posizione dei tre era stata stralciata in
attesa della decisione della giunta per l’im - munità che, per quanto riguarda Verdini, a
fronte della richiesta della magistratura formulata il 21 aprile 2010, è stata autorizzata
solamente nel marzo 2014. “Mi sento perseguitato dalla magistratura”, ha detto ieri sera
Verdini ad alcuni parlamentari che lo hanno contattato per esprimergli la loro solidarietà.
Da Gasparri a Fitto, mentre Berlusconi ha osservato un religioso silenzio. Sul futuro di
Verdini incombe del resto anche un altro processo che si aprirà il 21 aprile a Firenze. Il
gup del tribunale toscano Fabio Frangini lo ha rinviato a giudizio, insieme al parlamentare
di Forza Italia Massimo Parisi, per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta,
appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. L’inchiesta è relativa alla gestione del
25
Credito cooperativo fiorentino (Ccf) del quale Verdini è stato presidente fino al 2010.
SECONDO le indagini preliminari, chiuse nell’ottobre 2011, finanziamenti e crediti milionari
sarebbero stati concessi senza “garanzie”, sulla base di contratti preliminari di
compravendite ritenute fittizie. Soldi che venivano dati a “persone ritenute vicine” a Verdini
stesso sulla base di “documentazione carente e in assenza di adeguata istruttoria”. In
totale il volume d’affari - ricostruito dai carabinieri dei Ros - sarebbe stato pari a “un
importo di circa 100 milioni di euro” di finanziamenti deliberati dal Cda del Credito i cui
membri, secondo la notifica della chiusura indagini “par - tecipavano all’associazione
svolgendo il loro ruolo di consiglieri quali meri esecutori delle determinazioni del Verdini”.
Inoltre il coordinatore di Forza Italia è chiamato a rispondere dell’accusa di truffa ai danni
dello Stato per i fondi per l’editoria, che avrebbe percepito illegittimamente per la
pubblicazione di Il Giornale della Toscana: 20 milioni di euro.
Del 4/11/2014, pag. 12
“Caricate”. E la polizia picchiò gli operai
Nel video di Gazebo gli incidenti di Roma che hanno visto coinvolti i
lavoratori della Thyssen di Terni Le immagini sembrano smentire la
versione ufficiale secondo la quale il corteo era diretto verso Termini
MAURO FAVALE
«Caricate». Il primo dirigente della Questura di Roma ha un giubbotto di pelle marrone,
occhiali da sole e una radio trasmittente in mano. Urla l’ordine al reparto mobile in tenuta
antisommossa, quando gli operai delle acciaierie di Terni sono ancora a qualche metro di
distanza dagli agenti. Da una parte si avanza reggendo lo striscione, dall’altra ci si
compatta rapidamente.
È mercoledì 29 ottobre, siamo in piazza Indipendenza, all’angolo con via Curtatone e sono
da poco passate le 13. C’è il contatto tra i due blocchi, si spinge, da dietro vola qualche
oggetto mentre i manganelli si alzano e poi si abbassano sulle teste e sulle braccia dei
manifestanti. Viene sfiorato a una mano anche Maurizio Landini, leader Fiom, che si trova
nelle prime file. «Siamo lavoratori come voi, ma che state facendo», grida il segretario dei
metalmeccanici Cgil ai poliziotti. A terra, feriti, restano 4 tra operai e sindacalisti, più tardi
arriverà anche il bollettino della Questura: 4 agenti contusi.
È il bilancio dei tafferugli scoppiati quasi una settimana fa e che oggi possono essere
osservati da una prospettiva diversa che smentisce la ricostruzione del Viminale, riferita
giovedì alle Camere direttamente dal ministro dell’Interno Angelino Alfano. «C’era la
preoccupazione — aveva spiegato davanti a senatori e deputati — che alcuni manifestanti
volessero dirigersi verso la vicina stazione Termini, voce raccolta dai funzionari di polizia
in servizio a piazza Indipendenza. Un folto numero di manifestanti, dando vita a un
improvviso corteo, si è diretto verso via Solferino e, visto lo sbarramento opposto dalla
polizia, ha poi deviato verso vie limitrofe che conducono comunque verso piazza dei
Cinquecento e dunque verso la stazione».
A mostrare immagini diverse, però, è stato due sere fa Gazebo, la trasmissione di RaiTre,
le cui telecamere hanno ripreso i momenti più concitati, con l’ordine delle carica dato ben
prima del contatto e, soprattutto, con l’improvvisato corteo degli operai di Terni che non si
dirige verso Termini, attraverso via Solferino, bensì devia a destra, verso via Curtatone, da
tutt’altra parte rispetto ai binari. La meta è il ministero dello Sviluppo economico, in via
Veneto. «Dove volete andare?», chiede un dirigente a Landini dopo le manganellate. «Al
26
ministero», risponde il sindacalista. «Ditecelo allora, ce lo dovete dire», è la replica del
poliziotto in borghese. Alla fine, sotto al Mise, i metalmeccanici riusciranno ad arrivare solo
dopo le botte e una trattativa con i funzionari della questura che autorizzano il percorso.
Sei giorni dopo si rinfocolano le polemiche per la gestione di quella piazza, con il
presidente del Pd, Matteo Orfini, che interpella il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro:
«Capisco che è impegnato ad annullare matrimoni, ma potrebbe trovare un minuto per
spiegare le nuove immagini sulla carica della polizia». Ufficialmente Pecoraro non parla.
«Così ha deciso Alfano», è la versione che filtra. Ma da prefettura e questura la linea è
che quel video inedito (che sui social network e sul web ha raccolto decine di migliaia di
visualizzazioni) «non smentisce proprio nulla». Al momento, insomma, va avanti solo
un’indagine amministrativa interna per ricostruire i fatti, con Palazzo Chigi in attesa di
comunicazioni ufficiali. Intanto domani pomeriggio in Parlamento verrà votata la mozione
di sfiducia contro Alfano presentata da Sel, M5S e condivisa dalla Lega. E giovedì, a
Roma, torneranno nuovamente gli operai delle acciaierie di Terni per seguire da vicino la
loro vertenza.
del 04/11/14, pag. 5
Cortei, nuove regole di ingaggio agli agenti
Un’«area di rispetto» per evitare scontri
Domani il voto sulla mozione di sfiducia ad Alfano: un video riapre il
caso e il Pd attacca il prefetto di Roma
ROMA Il contatto fisico con i manifestanti «deve essere l’extrema ratio». Mentre si
riaccende la polemica per quanto accaduto la scorsa settimana durante la protesta degli
operai della TyssenKrupp in piazza Indipendenza a Roma, i vertici della polizia varano
nuove «regole d’ingaggio». Il clima è ormai incandescente, il prefetto Alessandro Pansa sa
che il crescente disagio sociale e le possibili «infiltrazioni» dei violenti tra i lavoratori
rischiano di provocare gravi conseguenze. E decide di accelerare l’entrata in vigore di quel
regolamento per correggere le attuali storture, frenando gli eccessi di chi va in servizio di
ordine pubblico, in modo da tutelare «l’incolumità dei cittadini, ma anche degli agenti
chiamati a garantire la sicurezza».
La distanza
Il provvedimento riguarda tutte le attività della polizia, però l’attenzione è ora puntata sul
capitolo dedicato ai cortei. Viene infatti ribadita e dettagliata la necessità — già evidenziata
dopo il G8 di Genova — di lasciare ai manifestanti la cosiddetta «area di rispetto» e cioè
una distanza congrua dai reparti in assetto antisommossa proprio per evitare che si entri
facilmente in contatto. Non a caso si ritiene indispensabile che ai lati di chi sfila non
vengano schierati agenti in divisa. Questo naturalmente presuppone che si segua il
percorso autotizzato, dunque agenti e mezzi a protezione delle istituzioni o delle zone
vietate devono essere sistemati lontano dal corteo. Il regolamento raccomanda l’utilizzo
dei dispositivi e degli equipaggiamenti che possano scoraggiare gli attacchi dei
manifestanti e quindi le successive «cariche». Proprio come accaduto a Napoli il mese
scorso, quando l’assalto al palazzo del vertice della Banca centrale europea fu fermato
con l’uso degli idranti e questo fu sufficiente per disperdere i contestatori più facinorosi. Il
fine è evidente: evitare il contatto diretto con i manifestanti e così limitare al massimo l’uso
della forza.
Manganelli e manette
27
Il lavoro più approfondito svolto in questi mesi ha riguardato tutti gli strumenti in dotazione
agli agenti che — in casi di estrema concitazione oppure di scontro — possono diventare
mezzo di offesa come i manganelli, gli sfollagente, le manette. Ma pure quelli utili a
ricostruire quanto accaduto durante eventuali incidenti, come le telecamere montate sulla
divisa che i poliziotti hanno chiesto e ottenuto proprio per poter documentare gli scontri.
Grande rilevanza deve essere attribuita all’analisi preventiva, con la valutazione sulle
componenti che scendono in piazza proprio per poter modulare al meglio il dispositivo di
sicurezza. E così distinguere le frange estreme da chi invece cerca soltanto di far valere i
propri diritti. Su tutto questo ci si confronterà con i sindacati, già convocati per giovedì al
Viminale. Riceveranno il testo e poi dovranno presentare le proprie valutazioni. Le
posizioni — come si è visto anche in questi giorni — sono molto distanti con Cgil, Siulp e
Associazione funzionari che invitano alla pacatezza i propri colleghi, mentre Sap, Coisp e
altre sigle minori continuano a fomentare la «base».
Il passaggio alla Camera
Una divisione riproposta in maniera eclatante in queste ore, alla vigilia del voto sulla
mozione di sfiducia presentata da Sel, Movimento 5 Stelle e Lega contro il ministro
dell’Interno Angelino Alfano che sarà discussa domani alla Camera. A riaccendere la
polemica è un video, trasmesso domenica sera da «Gazebo» su Raitre che mostra un
funzionario della polizia mentre incita gli agenti a «caricare» i lavoratori della
TyssenKrupp.
Duro è l’attacco del presidente del Pd Matteo Orfini, condiviso da Sel: «Capisco che è
impegnato ad annullare matrimoni, ma il prefetto di Roma potrebbe trovare un minuto per
spiegare queste nuove immagini sulla carica». E tanto basta per comprendere come la
vicenda sia tutt’altro che chiusa.
Fiorenza Sarzanini
Del 4/11/2014, pag. 20
Cucchi, il grande freddo tra la famiglia e la
procura “Abbiamo perso solo tempo”
Pignatone: rileggeremo le carte. Poi loda i titolari dell’inchiesta La
sorella di Stefano si infuria. Il Sappe la querela: ci calunnia
ILARIA CUCCHI
«Abbiamo solo perso tempo». Tutto sembrava essere andato bene. E invece si chiude
così, con queste parole lapidarie di Ilaria Cucchi, l’incontro tra lei, i suoi genitori e il
procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone.
La famiglia del giovane morto cinque anni fa dopo essere stato arrestato, era arrivata a
palazzo di giustizia alle 2.30 del pomeriggio. Superato il dispiegamento delle telecamere e
avere mostrato le foto del corpo dilaniato di Stefano, i Cucchi sono stati immediatamente
ricevuti. Un quarto d’ora circa di colloquio, «teso ma cordiale», durante il quale il
procuratore ha annunciato la sua disponibilità a riesaminare le carte del caso. «La
procura, con animo sereno e senza pregiudizi di alcun tipo, né positivi né negativi,
rileggerà gli atti del procedimento, dal primo all’ultimo foglio. Ovviamente vagliando le
posizioni che non sono a processo». Il che in buona sostanza vuole dire i carabinieri, che
hanno arrestato Stefano Cucchi, e chiunque altro possa essere sfuggito alle indagini.
«Ho detto alla famiglia che le leggerò io personalmente. E al termine di questo lavoro
faremo le nostre valutazioni non prima che siano arrivate le motivazioni della Corte
28
d’Assise d’Appello». Fino a qui, tutto sembrava andare per il meglio. La tregua, se così si
può chiamare (Ilaria Cucchi a chi le ha chiesto se era felice ha risposto: «La mia felicità è
finita cinque anni fa, quando ho perso mio fratello») è cessata però non appena le agenzie
hanno diffuso la notizia della dichiarazione fatta poco dopo dal procuratore: «Voglio dire
che i due pubblici ministeri hanno fatto un lavoro egregio e godono della mia piena
fiducia». Immediata la reazione di Ilaria Cucchi: «Non sono passate nemmeno due ore dal
colloquio durante il quale il procuratore ci ha garantito che avrebbe studiato tutto il
fascicolo senza pregiudizi e già ha capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo
lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla
perfezione tutto il fascicolo relativo alla morte di Stefano Cucchi, oppure forse oggi
abbiamo perso tutti del tempo». D’altronde, la sorella della vittima non ha mai fatto mistero
dei suoi attriti con la procura: «Spero sia stata soltanto una cosa fatta così, diciamo
d’ufficio, per non sconfessare i due sostituti. Altrimenti è del tutto inutile. Comunque sia, io
non mi arrenderò mai. Vorrei solo che questi magistrati provassero a chiudere gli occhi un
istante e pensassero se invece di essere mio fratello quello morto nella mani dello Stato,
fosse il loro. Non penso di essere assurda». E mentre sui social network è partita una
campagna contro la sentenza di assoluzione con l’hashtag è #sonoStatoio che in poche
ore ha già raccolto migliaia di firme, il sindacato autonomo della polizia penitenziara Sappe
ha annunciato querela contro Ilaria Cucchi: «Calunnia e diffama la penitenziaria».
29
LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 4/11/2014, pag. 10
Case bruciate e minacce
Vita da sindaco di paese
DA NORD A SUD, LE DENUNCE DEI PRIMI CITTADINI ALLA
COMMISSIONE D’INCHIESTA
PIÙ DI TRECENTO CASI SOLO DA GENNAIO AD APRILE 2014: UNO
OGNI OTTO ORE
Cadono regolari. Una a colazione, l’altra all’ora di pranzo, l’altra ancora all’ora di cena.
Una telefonata anonima, una lettera di insulti, quando va bene. Una macchina bruciata,
un animale morto sull’uscio di casa, se gira peggio. Così, ogni 8 ore, dal lunedì alla
domenica festività incluse, un sindaco di un comune italiano viene minacciato, intimidito,
perseguitato: 321 casi solo nei primi quattro mesi del 2014, quasi tre al giorno. Succede
più spesso in Sicilia, Puglia e Calabria. Ma anche in Toscana, Marche ed Emilia
Romagna: da gennaio ad aprile, gli episodi intimidatori hanno già superato quelli di tutto
il 2013. Fascicoli aperti quasi sempre contro ignoti. Da qualche mese, al Senato, sfilano i
protagonisti di queste storie. E raccontano alla Commissione di inchiesta sulle
intimidazioni agli amministratori locali le loro vite in trincea. Eccone alcune. Antonio
Barile, San Giovanni in Fiore (Cosenza): “Non passa giorno senza che io riceva nel mio
ufficio gente disperata che non ha casa, che non ha soldi per le bollette e se non li si
gestisce come si deve ci si può ritrovare in situazioni difficili. La prima non ricordo se è
avvenuta alla mia prima elezione, perché mi hanno tagliato le ruote dieci volte. Il primo
atto serio è che mi hanno svitato tutti i bulloni delle ruote della macchina e mia moglie,
mentre andava a Crotone, ha rischiato di morire in quanto le ruote stavano per volare
via. Per fortuna, se n'è accorta perché ha spento la radio e ha sentito un rumore; si è
fermata e c'erano tutte le ruote svitate. Dopo un anno, è avvenuto l'altro atto pesante:
una casa di campagna dove andiamo il fine settimana è stata bruciata completamente
all'interno con evidente segno di intimidazione perché mi hanno bruciato il letto e la culla
del bambino. Hanno messo dentro delle ruote e li hanno incendiati”. Maria Ferrucci,
Corsico (Milano) : “Fu installata una sala giochi senza neanche la licenza da parte della
questura; quindi, svolti immediatamente i controlli, venimmo a conoscenza di tutto quello
che non funzionava, cui si aggiungeva il fatto che lì si era venuto a creare un ritrovo di
persone collegate alla criminalità organizzata, cui era direttamente collegata pure la
persona che doveva gestire la sala stessa. Chiudemmo quindi la sala giochi con i sigilli,
ma le persone coinvolte ci minacciarono, dicendo, come sempre accade, che nel giro di
tre giorni avrebbero avuto le licenze che servivano loro. In realtà, riaprirono la sala giochi
con un'azione di forza nei nostri confronti, infischiandosene della nostra polizia locale;
siamo però andati avanti e abbiamo chiuso nuovamente la sala. La mia macchina è stata
circondata da ricevute di giocate o di ‘gratta e vinci’, buttate tutto intorno, ed è stata
messa in giro la voce che io sarei una giocatrice d'azzardo”. Alessio Chiavetta, Nettuno
( Roma) : “C'è una crisi economica enorme e stiamo vivendo un momento difficile come
città, un po’ come tutte le altre. Gli amministratori vengono esposti al pubblico, in alcuni
casi, e a minacce in altri casi; arriva qualcuno che dice: “andiamo sotto casa”; “andiamo
a menarlo”; “dammi 100.000 euro e ci penso io”. Oppure vengono fatte minacce dirette:
30
“Una volta che ti togli la fascia di sindaco, siamo io e te”. Si dicono anche altre cose che
non posso riferire perché si tratta di parolacce”. Giosuè Starita, Torre Annunziata
(Napoli): “Sono stati incendiati i due portoni principali di accesso alla Casa comunale. La
nostra città è una sorta di ‘Gran - de fratello’, grazie alle diverse telecamere che abbiamo
installato dappertutto e quindi è facile ricostruire tutto ciò che accade: si vede il soggetto,
che in quel momento non ha con sé taniche di benzina o altro, che parte da
un’abitazione in una zona particolarmente malfamata; successivamente recupera la
tanica, in un punto dove abitano altri appartenenti alle famiglie camorristiche, e quindi va
ad incendiare il portone: la dinamica è abbastanza precisa. Una delle categorie che più
mi inquieta a Torre Annunziata è quella dei commercianti. Ad esempio, nelle riunioni si
inizia a parlare di antiracket, ma si finisce sempre a discutere dell’il - luminazione
stradale, delle buche, della Tarsu o del traffico, che sembrano essere i problemi centrali.
Questo è degno del miglior Johnny Stecchino! Se si parla di camorra, si leva subito un
brusìo e si viene accusati di parlare sempre delle stesse cose. Se si vuole far concludere
una riunione perché magari ci si è stancati, basta proporre di fare un documento contro
la camorra: vanno via tutti perché improvvisamente si accorgono che devono riaprire i
negozi!” Paola Natalicchio, Molfetta (Bari): “Partirei da alcuni atti intimidatori che ho
vissuto proprio in riferimento alla persona che ha ucciso Gianni (Carnicella, ex sindaco
ammazzato nel '92, ndr): costui si chiama Cristoforo Brattoli e, soprattutto nei primi mesi
del mio mandato, si è visto molto spesso nei locali di via Carnicella - sembra un
paradosso - chiedendo ripetutamente di essere ricevuto sia da me sia dal mio vice
sindaco. (…) Il signor Brattoli per numerose settimane ha insistito nei nostri corridoi. In
particolare, per un periodo aspettava il mio arrivo in garage, in una zona retrostante agli
uffici del sindaco nella quale possiamo parcheggiare ed entrare da una scala. Siccome
non lo ricevevo, si faceva trovare appollaiato vicino ad una finestra e mi dava il
buongiorno quando arrivavo; poi, quando tornavo a casa a pranzo o riprendevo la
macchina, lo trovavo sempre lì, appollaiato>>.
31
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 04/11/14, pag. 27
Unione. Dopo il monito di Merkel il governo Cameron ribadisce
l'esigenza di limiti anche nella Ue
Londra-Berlino: scontro sugli immigrati
Nicol Degli Innocenti
LONDRA
Londra si allontana da Bruxelles e Berlino prende le distanze da Londra. Mettendo in
dubbio il principio della libera circolazione delle persone e dei lavoratori all'interno
dell'Unione europea David Cameron rischia di raggiungere il «punto di non ritorno» che
porterà all'uscita della Gran Bretagna dalla Ue. E questa volta la Germania starà a
guardare senza opporre resistenza: questo l'avvertimento lanciato dal cancelliere Angela
Merkel al premier britannico.
Ad allarmare la Merkel sono state le recenti dichiarazioni di Cameron sulla possibile
imposizione di tetti, quote e limiti al numero di immigrati dai Paesi Ue, che secondo il
cancelliere violerebbero il principio-chiave alla base del progetto europeo. Il governo
tedesco vuole che Londra resti nella Ue ma non intende scendere a compromessi sulla
libera circolazione, ha sottolineato ieri il portavoce della Merkel: «La Gran Bretagna deve
chiarire il ruolo che intende svolgere in futuro nella Ue».
Downing Street ha reagito con toni di sfida: la la libertà di movimento non può essere un
«diritto incondizionato» e le regole devono diventare più «ragionevoli», ha detto ieri il
portavoce del premier.
Mentre nei partiti di opposizione e sui media infuriava la polemica per il monito tedesco, è
toccato al cancelliere George Osborne presentare la posizione dei Tories e ribadire che
cercheranno di limitare sia il numero di immigrati dalla Ue che il loro accesso ai sussidi
statali britannici. «Agiremo in modo calmo e razionale ma sempre nell'interesse
nazionale» ha dichiarato Osborne.
Il cancelliere ha minimizzato la querelle nata da indiscrezioni di stampa tedesche,
definendola «una storia basata su voci su quello che Merkel potrebbe avere detto a
proposito di qualcosa che Cameron potrebbe dire in futuro» e ha voluto ribadire l'unità di
vedute tra i cittadini dei due Paesi. «I tedeschi comprendono l'inquietudine degli inglesi
quando ci sono persone che arrivano senza lavoro da altre parti d'Europa e reclamano i
nostri sussidi» ha detto.
Dopo molte vaghe dichiarazioni, Cameron si è impegnato a presentare prima di Natale
una serie di proposte dettagliate sulle riforme che chiede a Bruxelles. Allo studio tra l'altro
un sistema per deportare chi dipende ancora dai sussidi tre mesi dopo l'arrivo in Gran
Bretagna e il possibile utilizzo del controverso "freno di emergenza" per chiudere le
frontiere se l'immigrazione supera una certa soglia.
La retorica più aggressiva di Cameron nelle ultime settimane è stata dettata da ragioni di
politica interna. L'ascesa di Ukip, il partito che chiede l'uscita immediata dalla Ue e
promette di chiudere le porte all'immigrazione, rischia di danneggiare le prospettive dei
Tories nelle cruciali elezioni del maggio prossimo. Ukip ha appena mandato il suo primo
deputato al Parlamento di Westminster, grazie alla defezione di un Tory euroscettico, e
presto potrebbe averne un secondo. Secondo i sondaggi infatti le elezioni suppletive del
20 novembre a Rochester porteranno alla vittoria del candidato Ukip, che con grande
irritazione di Cameron è un altro transfuga dai Tories.
32
Nigel Farage ieri ha colto la palla al balzo e ha dichiarato che il monito della Merkel è
un'ulteriore prova che non esistono compromessi fattibili sull'immigrazione e che quindi la
Gran Bretagna deve uscire dalla Ue: «Non è possibile avere un menu à la carte in
Europa» ha detto il leader di Ukip.
33
SOCIETA’
del 04/11/14, pag. 19
Alfano e le case popolari occupate «Niente
acqua e luce agli abusivi»
La denuncia dell’Unione inquilini: in Italia 40 mila alloggi pubblici sfitti
ROMA Non ha usato mezze parole il ministro dell’Interno Angelino Alfano: «Le
occupazioni illegali delle case sono del tutto inaccettabili, siamo pronti a intervenire».
Ieri Alfano ha risposto a una domanda durante un programma televisivo del mattino e
sembrava con l’occasione che avesse voluto cogliere al balzo e rilanciare l’appello di un
suo compagno di governo, il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi.
Anche Angelino Alfano, infatti, ha ribadito il concetto che Lupi aveva già espresso un paio
di giorni fa: «Chiunque occupi abusivamente una casa non può chiedere la residenza e
l’allacciamento delle utenze». Niente gas, niente luce quindi per chi occupa alloggi
illegalmente: «Lo dice la legge» ha decretato il ministro dell’Interno, promettendo interventi
immediati. È ritornata alla ribalta qualche giorno fa la questione delle case popolari
occupate abusivamente. È tornata alla ribalta in seguito all’inchiesta condotta dal Corriere
tra i quartieri alla periferia di Milano dove è successo anche che un anziano, rientrato a
casa dall’ospedale, aveva trovato il suo alloggio occupato da una famiglia di rom.
Il responsabile del Viminale non ci sta e vorrebbe mettere la parola fine a un fenomeno
che si trascina da anni. Dice infatti: «Abbiamo approvato apposta un decreto legge dove
all’articolo 5 si prevede esplicitamente la lotta alle occupazioni abusive di immobili». Poi,
sempre alla trasmissione televisiva del mattino sulle reti Mediaset, chiarisce il suo
pensiero, senza lasciare ombra di dubbi: «Chi ha diritto deve avere la casa, chi non ce l’ha
non può averla e chiunque occupi irregolarmente non può avere la residenza. Non
accetteremo che questa illegalità vada avanti».
Il fenomeno delle case popolari occupate abusivamente è diffuso a macchia d’olio un po’
in tutto il Paese. Ma è a Milano che da qualche tempo si sono riaccesi i riflettori per
illuminare un dramma che ha tutto il sapore di una «guerra tra poveri» come ha
commentato ieri Massimo Pasquini, presidente dell’Unione inquilini proponendo una sua
soluzione al caso.
«Le ragioni di quello che sta accadendo vanno ricercate a monte» sostiene Pasquini. E
spiega: «Quello che nessuno dice, parlando di Milano ad esempio, è che qui ci sono 23
mila famiglie in graduatoria per avere una casa popolare e, contestualmente, ci sono
ottomila appartamenti popolari o di proprietà del Comune sfitti, in condizioni di degrado e
non assegnati. In tutta Italia questo numero sale ad oltre 40 mila alloggi popolari sfitti».
Secondo Pasquini sono questi i numeri che generano l’emergenza, la «guerra tra poveri».
«Sono questi numeri che delineano la situazione drammatica che bisogna evidenziare.
Sappiamo bene che il mercato delle case popolari è in mano alla criminalità organizzata
per venderle a 30 o a 50 mila euro nel mercato nero. Per questo è opportuno provvedere
all’assegnazione, e in fretta, delle case sfitte». E anche Mohamed Sameh, portavoce di un
gruppo di inquilini di Milano aggiunge: «Non chiediamo lo stato di polizia ma il rispetto
delle regole».
Alessandra Arachi
34
Del 4/11/2014, pag. 5
Nella mirabolante città dell’Expo caccia
aperta a chi occupa le case
Milano. Destre, Ncd e Corriere della Sera in campagna elettorale
strumentalizzano l'emergenza abitativa agitando lo spettro degli
stranieri che rubano le case agli italiani. Ermanno Ronda (Sicet): «La
stragrande maggioranza delle occupazioni ha una storia ventennale e
l’impegno della giunta Pisapia è insufficiente»
Luca Fazio, MILANO
Questa è una storia di miseria. Politica e sociale. Nel paese con il record dei proprietari di
case (85%) si sta scatenando la caccia agli occupanti abusivi di case. Un marchio di infamia per centinaia di migliaia di poveri che non possono permettersi di esistere a prezzi
d mercato. Sulla loro pelle, a Milano, il centrodestra sta impostando la campagna elettorale. Non solo per insidiare la giunta di Giuliano Pisapia.
Hanno cominciato le reti Mediaset, poi il Corriere della Sera. Morale: Milano sarebbe sotto
assedio. Su 1.278 occupazioni dall’inizio dell’anno, tre su quattro hanno un colpevole: gli
stranieri. Si tratta di «tentativi», ma il dettaglio interessa poco i ministri Maurizio Lupi
(futuro candidato sindaco?) e Angelino Alfano. Il primo staccherebbe gas e luce anche ai
bambini, il secondo ha già l’elmetto in testa: «Interverremo». Le cronache raccontano di
donne straniere con figli e di «zingari» che occupano le case delle vecchiette uscite a fare
la spesa. La storia si ripete, ma non sono vaccinati nemmeno gli amministratori più avveduti. L’assessore alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino, di solito vicino agli ultimi
della terra, si lascia sfuggire un’argomentazione alla De Corato: «Smettiamola con il sociologismo d’accatto. Chi occupa va sgomberato e gli edifici vanno difesi anche sperimentando forme di sorveglianza privata» (Matteo Salvini, proprio a Milano, aveva chiesto
l’intervento dell’esercito). A Milano le occupazioni abusive sono 4.850 — tra case popolari
della Regione (Aler) e del Comune. Ma per la stragrande maggioranza si tratta di occupazioni storiche (l’80%). Ci sono famiglie «abusive» che hanno occupato 25 anni fa, dopo
l’ultima sanatoria. Mario T., 47 anni, disoccupato, dal 1999 suo malgrado ingrossa le statistiche. Eppure versa regolarmente l’affitto. «Pago un’indennità di occupazione — spiega
— di 300 euro al mese per 45 metri quadrati. L’Aler dopo dieci anni di pagamenti regolari
me ne ha chiesti 700 ma non posso pagare una cifra così». Cinque anni fa la Regione ha
istituito una commissione per valutare le occupazioni caso per caso: Mario T. ci sperava,
ma la commissione non è mai partita. La situazione è sempre stata drammatica. Dopo cinque anni di crisi, lo è ancora di più. A Milano ci sono 23.500 famiglie in lista di attesa per
un alloggio popolare e 1.000 sfratti esecutivi per morosità. Però Regione e Comune
dispongono di 8.000 alloggi sfitti. Come si spiega? «Su circa 58 mila inquilini — dice
Ermanno Ronda del Sicet Milano — c’è un turnover fisiologico, ma quando gli alloggi si
svuotano nessuno se ne fa carico per ristrutturarli e riassegnarli. La Regione mette pochi
soldi, lo Stato non ha ancora stanziato quelli promessi e il Comune si impegna per l’Expo
ma destina pochi fondi per le case popolari». Per evitare nuove occupazioni molti appartamenti vengono distrutti. Una follia: così facendo, per essere assegnati avranno bisogno di
interventi molto più costosi. Soldi che non ci sono. Secondo Ermanno Ronda la giunta
Pisapia non è esente da colpe: «L’offerta di case viene fatta col contagocce, la conoscenza del patrimonio abitativo è scarsa, la macchina operativa è lenta e questa debolezza presta il fianco a strumentalizzazioni politiche mentre la situazione è sempre più
35
esplosiva». Ronda è perplesso anche sulla «rivoluzione» annunciata da Palazzo Marino,
che dal primo dicembre assegnerà la gestione delle sue case popolari alla società Metropolitana Milanese (di sua proprietà) dopo la gestione fallimentare dell’Aler: «Non c’è
chiarezza». Chi parla di escalation strumentalizza l’aspetto più drammatico della crisi,
ancora più del lavoro che manca. Alcune situazioni al limite ci sono, in quartieri dove la
pressione è reale (San Siro, Giambellino, Lorenteggio). Ma è sempre stato così. Quanto
alle donne rom che occupano, che altro potrebbero fare visto che la giunta ha continuato
a sgomberare senza offrire soluzioni? Anche se complicata, la quotidianità nelle periferie
non somiglia al far west. Simona Fregoni, presidente della commissione case popolari di
zona 9, parla di una situazione sotto controllo (nell’ultima settimana hanno evitato due
nuove occupazioni). Ma è preoccupata: «Il clima è cambiato, la guerra tra poveri è dietro
l’angolo, se gruppi di estrema destra aprissero sedi nelle periferie la situazione diventerebbe esplosiva».
del 04/11/14, pag. 27
Noi, i pessimisti
L’Italia che non sogna più: al 134° posto su 142 Paesi Ci superano in
ottimismo anche ucraini e thailandesi
Era l’ultima certezza: nonostante tutto siamo un popolo resiliente e tenace, capace di
reagire alle difficoltà! Il timore è che non sia più così. Forse stiamo perdendo anche
l’ottimismo. Il rapporto Prosperity Index 2014, appena pubblicato dal Legatum Institute,
ogni anno mette a confronto 142 Paesi. Nell’indice di prosperità siamo scesi al 37° posto,
perdendo cinque posizioni rispetto al 2013.
L’Italia registra i picchi negativi alle domande «L’economia andrà meglio?» e «È un buon
momento per trovare lavoro?»: siamo 134° su 142 Paesi. Siamo più pessimisti di spagnoli
(132°), francesi (120°) e ucraini (107°). Uscendo dall’Europa, più di peruviani (36°) e
thailandesi (quarti!). Le grandi masse cinesi e indiane (rispettivamente 54° e 67°) sono più
ottimiste di noi.
Sorprendente? Non tanto. L’ottimismo delle nazioni non è legato ai numeri, ma alle
prospettive. Non ai fatti, ma alle percezioni e alle aspettative. Gli umani sono esseri
sognatori e misurano la felicità sul progresso. È un grande sabato del villaggio globale: e
in Italia stiamo perdendo il gusto del dopo. Kazaki (30°) e uruguayani (43°) non stanno
meglio di noi, oggettivamente; ma sono convinti che oggi sia meglio di ieri e domani sarà
meglio di oggi. Queste cose contano, nella vita delle persone, delle famiglie e delle
nazioni.
I più grandi masticatori di futuro vivono negli Usa. Non dipende solo dall’economia e
dall’occupazione (248.000 nuovi posti di lavoro in settembre). Vecchi residenti o nuovi
arrivati, gli americani sono convinti di poter condizionare il proprio futuro. Gli Stati Uniti
sono una nazione fondata sul trasloco, nuove residenze e nuove conoscenze. Ogni
presidenza è una catarsi; ogni elezione un inizio; ogni lavoro una sfida. Il fallimento, che in
Italia è un marchio d’infamia, negli Usa vuol dire: almeno ci ho provato.
Non possiamo, né dobbiamo, scimmiottare l’America. Ma dobbiamo ammettere che il
nostro realismo è diventato cinismo, e il cinismo ci sta conducendo al pessimismo. I
continui, pessimi esempi pubblici — 5,7 miliardi l’anno il costo della corruzione, stimano
Guardia di Finanza e Corte dei Conti — contribuiscono a questo umore. Altrove non
accade. I Paesi che hanno una libertà di informazione simile alla nostra non hanno la
36
nostra corruzione; e i Paesi che hanno la nostra corruzione non hanno la nostra libertà di
informazione. Una consapevolezza scoraggiante, quella italiana.
L’economia e l’occupazione influiscono sull’umore collettivo; e l’umore collettivo,
lentamente, diventa narrativa nazionale. Quali Paesi possiedono oggi la capacità di vedere
se stessi come protagonisti di una storia che va avanti? Dell’America, abbiamo detto. Cina
e India, in competizione tra loro e col resto del mondo, hanno una visione epica di questo
momento storico. In Europa è una tranquilla consapevolezza che accomuna Germania e
Polonia, Irlanda e Regno Unito. Perfino la Russia ha un’idea di se stessa. Putin, in cerca di
consenso, ha rispolverato i miti sovietici. In mancanza di meglio, molti connazionali gli
hanno creduto.
L’Italia ha saputo raccontarsi negli anni Sessanta, quando l’economia tirava e le famiglie
sognavano (sì, anche grazie a un’automobile o a un elettrodomestico). A metà degli anni
Ottanta, quando ha intravisto il sorpasso dell’Inghilterra. Nei primi anni Novanta, quando
ha provato a battersi contro il malaffare. Negli anni Duemila, quando la maggioranza ha
creduto al «contratto con gli italiani» di Silvio Berlusconi. Tre illusioni e tre delusioni,
seguite da questi anni di crisi economica.
Facciamo fatica a sognare ancora.
Beppe Severgnini
37
BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 4/11/2014, pag. 6
Riscaldamento climatico: allarme Onu
Rapporto dell'Ipcc. "Bisogna agire subito" affermano gli esperti, per sperare in un
riscaldamento che non superi +2 gradi. A dicembre riunione preparatoria a Lima in
vista del summit mondiale del 2015 a Parigi. L'economia non subirà conseguenze se
il mondo si impegna, in caso contrario c'è un rischio catastrofi. ma gli egoismi
nazionali hanno ancora il sopravvento
Anna Maria Merlo, PARIGI
Un anno per trovare un accordo mondiale e combattere il riscaldamento climatico che
minaccia la terra. Il quinto rapporto dell’International Panel on Climate Change (Ipcc) –
organismo Onu che nel 2007 ha avuto il Nobel per la pace – mette in guardia i governi:
bisogna agire in fretta e con decisione, per evitare “effetti severi e irreversibili” che minacciano le società umane e l’ecosistema. Nel 2050, bisognerà arrivare ad avere almeno
l’80% di energie rinnovabili, entro il 2100 l’energia fossile dovrà essere eliminata. L’Ipcc
è estremamente preoccupato, ma non assolutamente pessimista: siamo ancora in tempo
per rimediare almeno in parte ai danni arrecati dal modo di produzione dominante,
“abbiamo i mezzi per limitare il cambiamento climatico in corso”, ha precisato il segretario
generale dell’Onu, Ban Ki-moon alla presentazione del rapporto Ipcc a Copenhagen,
domenica. Non ci sono più scuse, dice il rapporto, dopo anni di polemiche sollevate dagli
“scettici” del riscaldamento climatico, “l’ignoranza non puo’ più essere un pretesto”. Le
conclusioni dell’Ipcc sono basate su 30mila ricerche, analizzate da 800 scienziati, commentate da un altro migliaio e riviste da altri duemila studiosi. La temperatura è aumentata
globalmente di 0,85 gradi nella bassa atmosfera terrestre dalla fine del XIX secolo. Il livello
degli oceani è salito di 19 centimetri. Per limitare al massimo a due gradi il riscaldamento
climatico – è la soglia di “pericolo” stabilita nel 2009 e accettata a livello internazionale – le
emissioni mondiali a effetto serra dovranno diminuire tra il 40 e il 70% entro il 2050
(rispetto al 2010), ma nei fatti sono in continuo aumento. Nel 2100, le emissioni di Co2
dovranno essere pari a zero, se non negative (con assorbimento di Co2).
I negoziati internazionali dovranno arrivare a un accordo, al summit di Parigi del dicembre
2015, firmato dai 195 paesi che aderiscono alla Convenzione sul clima. All’inizio del prossimo dicembre, c’è una riunione preparatoria a Lima. Ma sono 25 anni che l’Ipcc esiste
e che lancia allarmi, senza effetto. Cosa potrà far cambiare rotta? In questo ultimo rapporto viene sottolineata con forza la questione economica. Finora, la rivoluzione energetica è stata frenata dal timore di influire negativamente sull’economia. Secondo gli esperti,
mantenere il riscaldamento climatico entro i 2 gradi, “non colpirà significativamente la crescita” – una riduzione annuale a livello mondiale tra lo 0,04% e lo 0,14% — mentre perseverare con le emissioni ad effetto serra avrà conseguenze economiche catastrofiche,
a cominciare per esempio dalla sicurezza alimentare. Inoltre “più aspettiamo (ad agire) più
i costi saranno importanti”. Certo, gli sforzi da realizzare non saranno “senza cambiamenti
nello stile di vita e nei comportamenti”: in altri termini, tutta l’umanità non puo’ avere come
prospettiva di adeguare il proprio modello di vista su quello occidentale. Eppure, è quello
che succede ora. La Cina è ormai il primo produttore mondiale di Co2 con il 29% delle
emissioni totali, seguita dagli Usa, al 16% e dalla Ue, all’11%. L’accordo di Parigi dovrà
essere internazionale, rilanciando cosi’ una cooperazione che sta soccombendo sotto
i colpi delle guerre, della concorrenza economica, del primato degli interessi particolari.
38
L’Ue si è proposta come “modello” mondiale. Ma L’Europa adesso frena. La scorsa settimana, i 28 hanno raggiunto un accordo al minimo comun denominatore sul clima, che ha
cercato un punto di equilibrio precario tra interessi dei diversi stati, per ridurre la spaccatura tra i paesi di vecchia industrializzazione e l’est europeo, dove l’energia fossile ha un
peso maggiore. Ma anche la Germania, che si presenta virtuosa per le rinnovabili, continua ad avere molte centrali a carbone, mentre la Francia vanta un “buon” bilancio Co2
solo grazie ai 58 reattori nucleari e la Gran Bretagna rifiuta ogni interferenza sull’efficienza
energetica. “Il governo italiano sembra voler rimanere ancorato al passato – denuncia
Greenpeace – il decreto sblocca Italia dà il via a trivelle nei mari per due gocce di petrolio.
Una vera follia”. E la Turchia, con incredibile faccia tosta, propone Istambul – dove si sradicano alberi a un ritmo accelerato in nome della “modernità” – come “capitale verde”
europea per il 2017.
del 04/11/14, pag. 19
La carica della green economy
Da domani a Rimini gli Stati generali Le imprese verdi chiedono alla
politica di assecondare (e non frenare) la crescita
Jacopo Giliberto
Sulla green economy si pubblicano libri ponderosi di economisti e saggi documentatissimi
di studiosi, ne parlano con facondia politici e oratori. Una volta la green economy si faceva
e basta, e nessuno la chiamava così. La carta, fino a cent'anni fa, era prodotta riciclando
stracci; il ferro si riutilizza fin dalla comparsa dell'età del ferro; i vestiti vecchi, dopo essere
stati rammendati, rattoppati, rigirati e rifoderati più volte, finivano a Prato per diventare
lana da materassi e imbottiture. Era green economy della fame e della povertà. Oggi
sappiamo che di sicuro l'economia verde, con radici così profonde, è quella del futuro
prossimo.
Dall'economista Alessandro Marangoni (Althesys) apprendiamo che il riciclo dei rifiuti
sviluppato dal sistema Conai ci fa risparmiare 3,24 miliardi all'anno che altrimenti l'Italia
spenderebbe per lo smaltimento dei rifiuti di imballaggio.
Ed ecco infatti l'entusiasmo espresso dal ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, nel
presentare gli Stati generali della green economy in programma da domani alla Fiera di
Rimini durante Ecomondo: gli Stati generali «sono il motore della conversione culturale, e
quindi politica ed economica, che sta ponendo l'economia sostenibile al centro del
progetto-paese. I dati parlano chiaro: in anni di crisi gravissima, cresce, e vigorosamente,
nel nostro paese un solo comparto, quello della green economy. È cresciuto il volume
d'affari ed è cresciuta soprattutto l'occupazione. Il Governo sostiene questa "rivoluzione
ambientale"».
Eppure a differenza degli auspici del ministro le politiche attuate da anni sono ondivaghe e
incostanti. La locuzione che parla di un'Italia "a due velocità" è sì un luogo comune, ma ha
un fondamento di terribile verità. Per esempio il 41% dei rifiuti (dato sul 2012 nell'ultimo
rapporto Ispra) va in discarica soprattutto per il grande vuoto di alcune regioni del
Mezzogiorno. Non a caso la settimana scorsa è dovuto intervenire perfino il Conai per
riuscire ad avviare d'intesa con il Comune la raccolta differenziata a Casal di Principe, nel
Casertano, la terra difficile del clan dei casalesi. Come ha detto la sottosegretaria
all'Ambiente, Barbara Degani, «nell'economia circolare il rifiuto non è un problema, ma
può essere addirittura una risorsa, se gestito legalmente, anche per lo sviluppo di un
39
territorio. Per questo dobbiamo lavorare con forza partendo da quelle comunità locali,
come Casal di Principe, dove l'ambiente è stato sfruttato e violentato per anni».
Gli imprenditori, nei documenti preparatori degli Stati generali riminesi, vogliono che i
politici, contraddittori e incerti, assecondino la crescita invece di frenarla nel nome di
malintesi concetti desueti. L'economia verde in Italia ha caratteristiche, consistenza e
potenziali di sviluppo che possono accelerare l'abbandono veloce della brown economy,
contenere i costi e ridurre i rischi delle crisi ambientali, a partire da quella climatica, per
assicurare possibilità di sviluppo anche in futuro e per migliorare, rendere più esteso e
inclusivo, il benessere. L'esperienza – dicono le imprese verdi – ha mostrato che la
competitività ha tratto benefici dalla crescita della consapevolezza ambientale e della
domanda di beni e servizi ad elevata qualità ambientale. Sulla produttività del lavoro non
sono mancate le novità green: con l'eco-efficienza, con un migliore uso delle risorse
(materiali ed energia), con l'ecoinnovazione, con i miglioramenti della qualità dei prodotti e
delle vendite, l'indirizzo green in non pochi casi ha contribuito a migliorarla e a consentire
un buon livello di profittabilità. La lunga crisi avviata nel 2008 ha messo in difficoltà le
produzioni e i profitti di molte imprese, ma ha così anche alimentato la ricerca di nuovi
sbocchi di mercato e una spinta verso innovazioni, conversioni, differenziazioni di
produzioni e prodotti in direzione green. Un esempio per tutti: attraverso la promozione del
progetto Corrente del Gse, la Vt Telematica venderà in India 100 container di pannelli
fotovoltaici della siciliana 3Sun per un ordine complessivo di 10 milioni di euro. Per la
3Sun si tratta di circa il 20% della produzione industriale annua dello stabilimento.
«Un gruppo esteso di imprenditori si caratterizza per un nuovo orientamento, chiaramente
green, e comincia a operare nella stessa direzione sulla base di idee e convinzioni
condivise – commenta Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo
sostenibile (che ha preparato l'attività degli Stati generali) -. È su questo importante fattore
che vogliamo incentrare la discussione presentando al Governo imprenditori pronti a fare
squadra per affrontare la crisi economica e climatica».
40
INFORMAZIONE
Del 4/11/2014, pag. 1-14
E’ il momento di riprenderci la nostra testata
miriprendoilmanifesto.it. In questa crisi sempre più nera, nell’asfissiante
conformismo dell’informazione, per un milione di ragioni (e di euro)
lanciamo la nostra campagna più difficile. Dobbiamo, vogliamo ridiventare «padroni di noi stessi». Entro la fine dell’anno i liquidatori
metteranno all’asta la testata «il manifesto». C’è il rischio che finisca in
altre mani. Perciò ci serve davvero l’aiuto di tutte e tutti
Norma Rangeri
Care lettrici, cari lettori,
cosa è per voi il manifesto? Che cosa rappresenta? Qual è il vostro rapporto con il
giornale? Per noi che lo abbiamo curato, difeso, inventato per oltre quarant’anni non
è mai stato solo un posto di lavoro, rappresenta un luogo dell’anima, nel quale mettiamo
testa e cuore ogni giorno per coltivare idee, progetti, e, oggi, anche per realizzare un obiettivo che perseguiamo da anni. Per concretizzarlo, per dare corpo a questa speranza,
adesso dobbiamo compiere un salto con l’asta, spingere il nostro giornale oltre l’ostacolo,
il più grande della nostra storia: l’acquisto della testata. Ma per realizzare questa nuova,
grande impresa abbiamo bisogno di una spinta collettiva. I liquidatori la metteranno
all’asta entro la fine del 2014, come ultimo atto, finalmente, di una vicenda iniziata ormai
due anni fa quando le difficoltà economiche portarono il collettivo alla decisione di liquidare
la vecchia cooperativa per tentare di dare vita a un nuovo inizio. Per noi è stata una durissima sfida, che abbiamo affrontato con determinazione e convinzione. Superando dolorose divisioni politiche, vincendo spinte contrastanti, riuscendo, e lo possiamo dire con un
pizzico di orgoglio, a ricostruire un gruppo di lavoro in grado di garantire al manifesto identità, vendite, lavoro. Con tutti gli alti e bassi di un’avventura senza rete. Non è poco in una
fase di crisi profonda nella politica, nella società, nel lavoro, nell’informazione. Questa
esperienza, con le sue debolezze, i suoi limiti, i suoi inciampi, questa nostra perigliosa
navigazione che ha dovuto aggirare scogli e affrontare mari burrascosi, è giunta al suo
ultimo, decisivo giro di boa. Dobbiamo, vogliamo fortemente diventare «padroni» (parola
che stavolta possiamo usare), di noi stessi. E quindi della testata che dal 28 aprile 1971
mandiamo ogni giorno, tranne il lunedì, in edicola. Padroni di noi stessi perché non c’è chi
più di noi possa reclamarne il diritto di esserlo. Perché in tutti questi anni abbiamo imparato che l’indipendenza è stata ed è la grande forza del manifesto. Non abbiamo un editore, né un socio finanziatore, nessuno che ci dica quello che dobbiamo fare o non fare.
A volte, nei momenti più difficili, farebbe comodo avere un editore dalle spalle forti. Ma si
tratta di un pensiero fugace, perché non si può cambiare la natura di questa particolare
voce della sinistra, perché un editore unico snaturerebbe la storia del giornale. Ed è proprio l’esito che vorremmo scongiurare: evitare che il manifesto finisca in altre mani. Questo compito non può essere affrontato e garantito solo dal collettivo. Perciò abbiamo bisogno di una forte mobilitazione di tutti voi. La «partita» va chiusa entro Natale. E noi dobbiamo giocarla e vincerla. Possiamo farlo soltanto insieme: noi e voi, voi e noi. Per
riuscirci è importante ritrovare una risorsa, un valore che la sinistra sembra avere smarrito:
la solidarietà. Che in questo caso significa capacità di donare anche poco, facendolo però
in tanti, tantissimi, per ottenere un beneficio comune. La crisi divide, isola, spinge cia41
scuno ad affrontare le difficoltà della vita individualmente. Gli operai soli davanti alla fabbrica, gli anziani con la loro scarsa pensione, le donne costrette a tornare a casa, i ragazzi
a cui manca un futuro, i precari che non hanno garanzie, gli intellettuali senza idealità, gli
impiegati con lavori alienanti. Eppure in questa vasta solitudine che ci circonda, ogni tanto
si accende una luce che illumina, come abbiamo visto con la manifestazione del 25 ottobre: se stiamo insieme, se siamo uniti, si può cambiare, si può vincere. Noi del manifesto viviamo da sempre un’esistenza povera di mezzi. Eppure, nonostante tutto, compensiamo le difficoltà di un’impresa politico editoriale con la solidarietà. La nostra, che si concretizza quotidianamente realizzando il giornale. La vostra, che acquistando e sostenendo il manifesto ci incoraggiate a continuare. È un esempio virtuoso di mutuo soccorso,
è un modo di essere sinistra facendo camminare le idee (di autonomia, di indipendenza)
nella pratica. Se fossimo militanti di un partito o iscritti a un’associazione ci rimboccheremmo le maniche anche per andare nei quartieri a costruire pezzi di welfare, per aiutare
chi non ce la fa con azioni concrete (raccolte di fondi, coinvolgimento delle persone). Del
resto se è vero che ci stanno spingendo verso rapporti di lavoro ottocenteschi, sarebbe
utile recuperare proprio quelle forme di mutuo soccorso alla base della nascita del movimento operaio. D’altra parte ne abbiamo un esempio concreto e recente. Infatti proprio
così hanno combattuto la loro battaglia le donne e gli uomini del movimento di Tsipras
diventando pesci nell’acqua del popolo greco, fino a essere oggi il partito che punta al
governo del paese. Ecco: la sinistra, oltre che studiare come uscire dall’angolo in cui il
neoliberismo l’ha relegata, dovrebbe anche cominciare a fare quello che predica. Come
sosteneva Luigi Pintor, non ci può essere separazione tra quello che si pensa e quello che
si dice, tra quello che si dice e quello che si fa. Per noi del manifesto essere ogni giorno
in via Bargoni — dove è la nostra sede a Roma — significa anche dare voce a chi non ce
l’ha, significa fare una diversa informazione e comunicazione, per tentare di unire chi il
potere vuole isolare, separare, ammutolire, persino umiliare. «Siamo diversi perché siamo
tutti uguali» recita uno degli slogan della nostra campagna di promozione per l’acquisto
della testata. Vuol dire una cosa molto semplice: qui le idee sono benvenute, perché
vogliamo una sinistra plurale, ricca di differenze eppure fedele a un solido principio:
l’uguaglianza. Che, nel caso nostro, cerchiamo di praticare compensando le differenze di
ruoli e di responsabilità con la parità delle retribuzioni. Ebbene se si dovesse dare retta
all’attuale presidente del consiglio, un giornale che difende i più deboli socialmente, che
combatte contro Jobs Act e riforme maggioritarie, che si impegna per i diritti sociali e civili
di tutti, sarebbe un ferro vecchio da rottamare. E allora, care lettrici e cari lettori, sta anche
a voi smentirlo. Aiutandoci a riprenderci il nostromanifesto. Il salto con l’asta è alto, perché deve arrivare ad almeno un milione di euro. Al momento in più di tredicimila ogni
giorno andate in edicola e on line per acquistare il giornale e in sessantamila ci leggete.
Fate voi i conti di quanto ciascuno dovrebbe donare per raggiungere l’obiettivo. Noi li
abbiamo già fatti: con una media di venti euro a testa possiamo farcela. E chissà: forse
sotto l’albero del prossimo Natale potrebbe esserci un grande, bel regalo per tutti.
42
CULTURA E SCUOLA
del 04/11/14, pag. 15
Cultura. A rischio la missione Unesco
Pompei, in arrivo tre giorni di protesta
Francesco Prisco
POMPEI
Ai piedi del Vesuvio la pace sociale è già finita. Nel sito archeologico di Pompei è di nuovo
muro contro muro tra soprintendenza e sindacati. Questi ultimi venerdì scorso hanno
proclamato lo stato di agitazione e, dal 5 al 7 novembre, riuniranno i lavoratori in
assemblea, con tutti i disagi che potranno conseguirne per i visitatori. E con l'incognita
della missione Unesco che, da sabato a martedì della settimana prossima, farà tappa nel
sito.
Due le questioni che hanno riacceso i toni del confronto: «iniziative, unilaterali e
inefficienti, - si legge nel comunicato delle rsu - adottate dall'amministrazione in merito alla
razionalizzazione delle risorse umane addette alla vigilanza» e soprattutto le nuove «linee
guida per la riorganizzazione del servizio di vigilanza» che prevedono, tra le altre cose,
una convenzione con un istituto di vigilanza privato. Sul primo versante, le sigle Flp e
Unsa e tre rsu contestano le ultime decisioni assunte dalla soprintendenza che avrebbero
comportato una «sperequazione dei carichi di lavoro, sbilanciando in maniera forte il
numero del personale di vigilanza tra le cinque squadre» impegnate nel servizio di
vigilanza «che invece andrebbe riequilibrato dopo gli ultimi cinque pensionamenti». Sono
129 gli addetti alla vigilanza degli scavi, cui si sommano 13 risorse in sala regia per un
totale di 142 lavoratori delegati a questa mansione. Ma, come spesso accade all'ombra
del Vesuvio, dietro a vicende contingenti ci sono in ballo questioni ben più grandi: è il caso
del dibattito sulla riorganizzazione della vigilanza che, il prossimo 19 novembre, sarà
oggetto di un incontro specifico.
L'amministrazione ha proposto alla controparte una bozza di "riforma" che apre prefigura
«una convenzione con un istituto di vigilanza privato, per l'integrazione dei servizi». Misura
che a primavera scorsa fu anche caldeggiata dal ministro dei Beni culturali Dario
Franceschini. Le linee guida della riorganizzazione tracciano poi un quadro critico del
personale di vigilanza interno, il cui "standard formativo" sarebbe «da considerarsi carente
sia sotto il profilo di base che su quello dell'aggiornamento». Con le aggravanti di una
«non sempre elevata spinta motivazionale» e un'età media sui 56 anni. La soprintendenza
propone per loro corsi di formazione. Le risorse non mancherebbero, considerando anche
la dote dei 105 milioni del Grande progetto che si fa fatica a spendere e andranno
tassativamente impiegati entro fine 2015. «Per quanto ci riguarda - commenta Antonio
Pepe della rsu - utilizzeremo i giorni dell'assemblea per elaborare una controproposta
sulla riorganizzazione del servizio di vigilanza». C'è da temere disagi anche alla luce
dell'ispezione dei commissari Unesco, il prossimo fine settimana? «Tutt'altro, - risponde
Pepe - i lavoratori degli scavi sono pronti a fare gli straordinari per consentire all'Unesco di
effettuare tutti i rilievi di cui avrà bisogno».
43
Del 4/11/2014, pag. 32
Viaggio nel monumento che il ministro Franceschini vorrebbe coprire
per ripristinare l’arena originaria Teatro di lotte tra gladiatori e in tempi
recenti del concerto di Paul McCartney. Ma il lavoro sarebbe complesso
e costoso perché sotto c’è un mondo, una fabbrica di spettacolo. E
soprattutto scorre un fiume che farebbe saltare la copertura come un
tappo
Colosseo Mistery Tour
FRANCESCO MERLO
DALLA balconata del suo twitter il ministro Franceschini non l’ha vista, ma «nel Colosseo
sotto il Colosseo c’è l’acqua, il fosso di san Clemente si chiama: un fiume che, quando
piove, esonda, e in pochi minuti riempie tutto e dunque farebbe saltare l’eventuale
copertura come un tappo» dice la direttrice Rossella Rea. E mi spiega che vale per il
Colosseo, nell’architettura, quel che Mark Twain diceva del classico nella letteratura: «Tutti
lo conoscono, ma nessuno l’ha letto».
La direttrice Rea è un’archeologa napoletana che lavora per questo monumento dal 1985,
e dunque, se non fosse una raffinata signora, sarebbe per il Colosseo quel che
Quasimodo era per Notre-Dame, custode e campanara, e forse pure fata con la bacchetta
risolutrice: «Oggi coprire l’arena e ripristinare il suo aspetto originario sarebbe un lavoro
raffinatissimo di filologia, di ingegneria e anche di idraulica perché bisognerebbe
imbrigliare quell’acqua intervenendo chissà dove». Perciò non basterebbe un poco di
coraggio come ha scritto il ministro nel suo tweet? «No, ci vorrebbe moltissima scienza e
moltissimo danaro».
Sposata con un archeologo che si occupa del Foro Traiano, Rossella Rea ha un figlio che
si chiama Michelangelo, ma non è una talebana della conservazione, del “non si tocca”,
non ha paura degli spettacoli e dell’intrattenimento, in una parola del riuso, «purché sia di
livello», purché non sia come il Grazie Roma di Venditti girato sotto gli archi nel 1983 con
quel pianoforte bianco… Quanto danaro ci vorrebbe per coprire l’arena? «Non so dire,
certamente molto, ma molto di più dei 25 milioni che l’imprenditore Diego Della Valle sta
spendendo per i restauri ». Si possono trovare i soldi con qualche donazione privata?
Rossella Rea apre le braccia: «Lei che dice?». Dunque non se ne farà nulla?
«Ovviamente costerebbe molto meno una copertura provvisoria, come nel 1950, per il
Giubileo ». E mi mostra la foto di quella coperta di legno «che era diciamo così arrangiata,
prevedeva pure un calpestio». A che servirebbe? « A ridare la forma in certe occasioni
speciali. Si potrebbe qualche volta montare, ma non certo per eventi molto affollati».
E racconta divertita di Paul McCartney che «percorse una passerella longitudinale
fumando una sigaretta e alla fine ci fu qualcuno che si precipitò a raccogliere la cicca e
ancora la conserva». McCarteny cantò pure: «The Magical Mystery Tour vuole portarvi
via… Venite, venite, satisfaction guaranteed». Poi «abbiamo avuto le tragedie greche e,
due anni fa, il concerto di beneficenza di Biagio Antonacci. E voglio dire che i monumenti
non sono templi, che il riuso non è sempre profanazione», e nonostante questo sia, dal
punto di vista della Chiesa, un luogo di martirio, una Basilica.
E mi fa vedere che l’arena, anche se parzialmente, è comunque già coperta, come ai
tempi dei gladiatori: «È stato un lavoro interdisciplinare bellissimo che abbiamo fatto nel
1998». La parte coperta è un terzo dell’intera superficie. Il legno è stato rivestito di malta
«per dare la parvenza della sabbia». Mi mostra i piloni che non poggiano mai direttamente
sulla struttura romana e hanno dei basamenti di cemento volutamente non occultati: «Qui
44
è stato più facile coprire l’arena perché le rovine erano molto rovinate, e dunque c’era
spazio. Più difficile sarebbe coprire il resto».
Ora con lei mi perdo e mi ritrovo nelle interiora dell’anfiteatro. Il tufo, il travertino, quel
serpente d’acqua cheta che viene da lontano, entra da via Labicana ed esce verso l’Arco
di Costantino, e poi i buchi per i binari del “red carpet” con i dodici corridoi laterali, i forni,
gli alloggiamenti delle scenografie per i trionfi civili e religiosi degli imperatori. Ecco:
circondato dai turisti che mi guardano dall’alto, a poco poco capisco che questo basso
mondo è molto più di un sotterraneo scoperchiato: «È un monumento nel monumento ».
Interrogo allora questi turisti, che dentro il Colosseo non sono tutti “infradito e cono gelato”.
Spiego loro, con entusiasmo sincero, l’idea dell’archeologo Daniele Manacorda che è
piaciuta al ministro e, a prima botta, pure a me. Dico dunque che è una bella tentazione
coprire l’arena per ricomporre la forma, l’ellissi perfetta che senza il pavimento non si
percepisce più perché il fondo ruba la scena con i suoi corridoi, i suoi ruderi
sbocconcellati, il suo mistero di labirinto. Insomma spiego che sarebbe affascinante ridare
un suolo al sottosuolo. Ma non convinco nessuno: « Don’t do that » mi dice addirittura una
bella signora brasiliana. Un giapponese cita a memoria la Yourcenar che amava la Niche
di Samotracia «proprio perché, acefala, senza braccia e separata dalla sua mano, era
meno donna e più vento». Ma io non credo che il paragone sia pertinente sino in fondo,
perché la statua è solo un capolavoro d’arte mentre questo è «anche un pezzo di città» mi
dice una coppia di Chicago, Victoria e Andrew Zysberg, di professione librai. Con loro è
bella e inaspettata la chiacchierata sulla «macchina urbana », sulla bellezza del
meccanismo rivelato: «era un pezzo di città». Insomma, anche loro hanno capito che
quello non era l’inferno dove nella metà del cinquecento Cellini andava con un
negromante per risvegliare i demoni che dal “Culiseo” poi avrebbero invaso tutta Roma, né
era il territorio del romanticismo ottocentesco, da Dostoevskij sino a Gide, e neppure lo
scavare per scovare dei viaggiatori europei che nelle grotte di Roma e nei meandri oscuri
delle sue rovine, monumentalizzate da Piranesi, cercavano la propria formazione
sentimentale. Era invece una macchina urbana che oggi dall’alto si decifra benissimo. Non
è un retroscena, non un sotto palco costretto a stare a pancia all’aria, ma è lo svelamento
di una fabbrica di spettacolo sempre cangiante, appunto «un pezzo di città» viva che
prendeva aria e luce da cento botole, chiuse solo durante lo show. È da queste botole che,
per mezzo di montacarichi a corde, facevano il loro spettacolare ingresso in scena le
bestie, i divi, le star. «Solo la luce elettrica non avevano inventato» scherza la direttrice.
Andando via penso a quel fiume, spietato nemico di Franceschini, che passa pure sotto la
Basilica di San Clemente e sbucò persino sotto la via Sannio durante i lavori
dell’imprendibile Metropolitana C. Ai colleghi dell’ufficio stampa chiedo se il ministro
Franceschini ha visitato i sotterranei: «È venuto a salutare quando c’era Obama. Ma non è
sceso: i servizi segreti non hanno permesso altri accompagnatori. Non escludo che
Franceschini sia venuto, ma da solo, in incognito».
Esco dunque dal Colosseo sotto il Colosseo e mi sembra di lasciare «un pezzo di città»
con il suo fiume sconosciuto, le vie, gli archi, e le sue mille strutture in rovina, ma ordinate.
Al contrario il Colosseo fuori dal Colosseo è la solita terra desolata dei finti gladiatori e dei
venditori ambulanti di orribili panini, almeno trecento “lavoratori” nel marasma del piazzale
lastricato a sampietrini. Con la coda dell’occhio vedo che due centurioni con la scopa in
testa si appartano dietro una Renault et mingunt ad murum. Il Comune che pure li ospita
non si cura dei bisogni degli ancient Romans.
45
Del 4/11/2014, pag. 33
LE PROPOSTE
Giochi o musica gli esperti si dividono
SARA GRATTOGGI
C’È chi immagina al centro del Colosseo reading con musica antica. E chi non vedrebbe
male nemmeno una rievocazione dei giochi gladiatori. Dopo la proposta lanciata dal
ministro ai Beni culturali, Dario Franceschini, di ricostruire l’arena del Colosseo, fra gli
esperti si è acceso il dibattito. Franceschini ieri si è detto «pronto a investire risorse del
ministero, qualora la proposta risultasse fattibile». Mentre la direttrice dell’Anfiteatro Flavio,
Rea, ha spiegato: «È prioritario il restauro delle strutture portanti, dei sotterranei. E questo
è oggetto di sponsorizzazione».
Intanto l’attenzione è rivolta verso l’uso che dell’arena si potrebbe fare in futuro, fra chi
storce il naso a sentir parlare di “intrattenimento” e chi la vorrebbe aperta a manifestazioni
“contemporanee”. A cominciare dall’archeologo Daniele Manacorda, il primo a suggerire
l’idea di ripristinare l’arena: «La aprirei a ogni iniziativa, purché non invasiva. Dagli incontri
di judo o lotta greco-romana a concerti e spettacoli teatrali. Sarà il confronto culturale, e la
Soprintendenza responsabile del monumento, a decidere cosa sia possibile e cosa no».
«Il Colosseo — ricorda l’ex soprintendente, Adriano La Regina — può ospitare, lo ha già
fatto, spettacoli musicali compatibili con una capienza di poche centinaia di posti a sedere.
Ma non prendiamo a modello l’Arena di Verona, dove vengono svolte attività invasive che
portano problemi per la tutela». L’archeologo e orientalista Paolo Matthiae immagina
invece «una rivitalizzazione alta del monumento, con musica e letteratura, anche del ‘500
o ‘600. Sicuramente non concerti rock, né rievocazioni in costume dei giochi gladiatori.
Nemmeno Plauto, però, il cui spazio è quello del teatro. L’importante è che a nessuno
venga in mente di ricostruire gli spalti». L’archeologo Andrea Carandini, invece, non
esclude che il Colosseo possa ospitare «rievocazioni filologiche dei giochi gladiatori. O
delle Passioni che vi si svolgevano nel Medioevo. Vedrei bene, in particolare,
un’esecuzione della “Passione secondo Matteo” di Bach».
Del 4/11/2014, pag. IV RM
I sindacati dell’Opera “Stop licenziamenti
pronti alla moratoria sugli scioperi”
La proposta per il ritiro dei 180 esuberi Barenboim: “Inammissibile
mandarli a casa”
ANNA BANDETTINI
«SIAMO pronti a non scioperare »: detto così sembra un annuncio clamoroso anche
perché a farlo sono le sette sigle sindacali dei lavoratori del Teatro dell’Opera. Ieri si sono
impegnate a non astenersi dal lavoro sui punti di un eventuale accordo con la dirigenza
del teatro. È la prima schiarita da quando, un mese fa, nella fondazione lirica della capitale
sono scattati i 182 licenziamenti per coro e orchestra che proprio ieri Daniel Barenboim,
uno dei grandi nella direzione d’orchestra internazionale, ha definito “inammissibili”. Da
quel 2 ottobre in cui fu annunciata la drastica misura della esternalizzazione delle masse
artistiche, si è aperta una vertenza tra sindacati e azienda che, arrivata al terzo incontro
46
(per il teatro c’era il direttore personale Stefano Bottaro), ha mostrato un passo avanti, sia
pur piccolo. In sostanza i sindacati affermano di essere disponibili, a fronte di un eventuale
accordo condiviso, “a redigere un protocollo volto a non attivare conflittualità su quanto
sottoscritto tra le parti”, come recita il comunicato firmato da Slc-Cgil, Fistel-Cisl, UilcomUil, Fials-Cisal, Libersind, Usb, Fisaps. «È una moratoria sugli scioperi- spiega Francesco
Melis della Uilcom-Uil- se troveremo un accordo sul piano industriale di rientro chiesto
dalla legge Bray. Noi siamo pronti a parlare di aumento della produttività, di ottimiztendere
zazione delle risorse, abbattimento dei costi necessari per risolvere i problemi di bilancio».
Cioè i 4,2 milioni di euro di rosso già previsti sul 2015. Questa “apertura” non azzera però,
per ora, le posizioni contrapposte tra lavoratori e teatro. I sindacati nel comunicato
sottolineano che i licenziamenti sono “incompatibili con la legge Bray” e chiedono
all’azienda di ritirarli. Ma il teatro non intende farlo fino a che non ci sarà una seria
proposta dei sindacati per il risanamento e per la futura attività del teatro, lasciando in- che
bisognerà mettere mano al contratto aziendale. Giovedì ci sarà una nuova riunione.
Intanto i lavoratori si portano a casa il sostegno “ideale” di Daniel Barenboim. Il direttore
d’orchestra in riferimento ai licenziamenti all’Opera parla di «decisioni catastrofiche che
dimostrano la mancanza di cultura di chi le prende ». Ammette che forse ci sono stati
“abusi” dei musicisti «ma quando ci sono difficoltà, chi ha potere ha la responsabilità di
aprire un dialogo».
del 04/11/14, pag. 25
In Rete istruzione e sanità per gli abitanti
dello Stato di Facebook
E il «presidente»-fondatore risponderà al Question time
Benvenuti nello Stato di Facebook. Definire il social network di Zuckerberg un Paese,
molto presto, potrebbe non essere solo un’iperbole giornalistica. La tesi arriva dal
Financial Times . Si parte dai numeri, sconvolgenti. Già, perché se Facebook fosse
davvero uno Stato sarebbe il secondo più popoloso al mondo, forte del suo miliardo e
trecento milioni di abitanti, secondo soltanto alla Cina. La capitale è Menlo Park, il Pil 280
miliardi di dollari, il presidente è Mark Zuckerberg che, giovedì, risponderà al «popolo» in
un Question time pubblico.
Al leader non mancano visione strategica e linea politica. Per Cory Ondrejka,
vicepresidente del settore ingegneristico di Facebook, le fondamenta di tutto sono tre
pilastri-obiettivo: connettere e capire il mondo, e costruire un’economia del sapere basata
sui primi due precetti. La dimensione social, stando anche a quello che scrive in «The
Facebook Effect» David Kirckpatrick, per il leader è superata. In un discorso pubblico due
anni fa era menzionata 24 volte, ora in un intervento in Indonesia il vocabolo ha fatto la
sua comparsa solo in due frasi. Per i sostenitori, quella di Mark è una missione
civilizzatrice che comprende anche progetti benefici come Internet.org per portare la
connessione nel cuore dell’Africa. Per altri è solo sete di potere e denaro. Secondo Kate
Losse, ex dipendente di Facebook che ha stigmatizzato l’approccio maschilista del
colosso in un libro dal titolo «The Boy Kings», Zuckie era solito ripetere ai dipendenti una
frase dal sapore capitalista: «La cosa migliore che bisogna fare se si vuole cambiare il
mondo è fondare un’impresa».
Animato dalle migliori intenzioni o avido che sia, Mark, proprio come altri suoi colleghi del
settore tech, ha in mano tutte le carte per cambiare il mondo.
47
Nella Silicon Valley non è un mistero che a Facebook stiano pensando di creare comunità
online di supporto con cui mettere in contatto gli utenti che soffrono della stessa malattia.
In progetto ci sarebbe anche un’applicazione di prevenzione con consigli per migliorare lo
stile di vita degli utenti, strategia consigliata dalla moglie Priscilla che già nel 2012
convinse Mark a introdurre la possibilità di indicare sulla propria pagina l’opzione
«donatore di organi».
Dal cuore si passa al portafogli. Grazie alle rivelazioni di Andrew Aude, studente e
sviluppatore della Stanford University, Messenger — la chat da poco resa obbligatoria per
chi vuole comunicare attraverso Facebook — potrà essere usata per transazioni
economiche. Basterà connettersi al proprio profilo per pagare l’affitto o fare un bonifico. E
non è finita. «Facebookland» ha anche potere in materia di educazione e sapere. Con
Graph Search si sta infatti cercando di capire come trasformare il social network in un
motore di ricerca, su cui trovare immagini, dichiarazioni, informazioni sfruttando la
geolocalizzazione.
E non importa se tutti questi pilastri hanno al loro interno una crepa chiamata privacy. Di
recente, Zuckerberg ha dovuto fare una concessione al suo popolo. Ossia permettere di
connettersi a Facebook con Tor, sistema di comunicazione crittografata per navigare
senza essere identificabili, usato anche in quei Paesi, dalla Cina all’Iran, dove la Rete non
è libera.
Una mossa che è un cerotto sulla bocca di chi, come Snowden, ha sempre dipinto il suo
regno come il male. E un gesto magnanimo, da perfetto monarca democratico.
Marta Serafini
48
ECONOMIA E LAVORO
Del 4/11/2014, pag. 1-2
Matteo chiede garanzie sul jobs act “Voglio
tempi certi o niente modifiche”
VALENTINA CONTE
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
Renzi mette il timbro alla trattativa sul mercato del lavoro, anche se continua il gioco delle
parti. Il responsabile economico del Pd Filippo Taddei non esclude che alla Camera sia
ripresentato alla lettera il testo approvato al Senato. «Poi ci penserà Poletti coi decreti
delegati a precisare il Jobs Act. Dobbiamo fidarci di lui». Gli risponde il capogruppo del Pd
a Montecitorio Roberto Speranza: «Fidarsi di Poletti? Prima fidiamoci del Parlamento e
correggiamo la legge tutti insieme». In realtà, Palazzo Chigi cerca l’intesa con la
minoranza del Pd per due motivi. Perché Renzi così può dimostrare un’apertura al dialogo
che oggi non gli viene riconosciuta. E perché solo un accordo permetterà al governo di
avere l’approvazione della Camera entro il 21 novembre e poi un voto lampo al Senato per
il varo definitivo. Se il braccio di ferro continua il rischio infatti è che la legge di stabilità
scavalchi nel calendario la riforma del lavoro. Il presidente della Camera Laura Boldrini
sarebbe orientata verso questo slittamento, per esempio. E il Jobs Act finirebbe al 2015.
Ci vuole quindi un punto di caduta, una delega corretta che rispetti il lavoro del Parlamento
e mandi un segnale distensivo non solo ai dissidenti Pd ma anche alla piazza e ai
sindacati. L’obiettivo si concentra sulla specifica dei licenziamenti disciplinari. Per questa
tipologia rimarrebbe il ricorso al giudice e la reintegra. O meglio, indicando le fattispecie
del licenziamento per motivi di disciplina, si potrà stabilire dove interviene l’indennizzo e
dove il tribunale. Naturalmente, i decreti delegati del ministero del Lavoro completerebbero
l’opera con degli standard attuativi. In questo caso, attraverso un accordo, anche il ricorso
alla fiducia avrebbe un impatto minore. Impatto che nel caso di un aut aut dell’esecutivo
sul testo uscito dal Senato sarebbe invece più traumatico: almeno 20 deputati del Pd sono
pronti a votare contro Renzi. «Io vedo un gioco al logoramento — dice il presidente della
commissione Lavoro Cesare Damiano — . Andiamo avanti tra docce calde e fredde».
Damiano e il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini hanno il mandato a trattare. Hanno
tempo per un accordo fino al 12, termine ultimo per la presentazione degli emendamenti.
Renzi mette un solo paletto: «La legge di stabilità non deve passare avanti. Non accetto di
mischiare i due argomenti. Se la minoranza insegue questo risultato, faccio saltare la
trattativa». Se si trova un’intesa intorno all’ordine del giorno varato dalla direzione del Pd
«allarghiamo il campo, teniamo dentro l’intera maggioranza a parte qualche caso isolato.
Sarebbe un buon risultato », dice Speranza. Non la pensa così Pippo Civati: «I 27 senatori
che hanno votato la fiducia contando su sostanziose modifiche alla Camera non saranno
soddisfatti. E i numeri di Palazzo Madama sono a rischio».
I tecnicismi giuridici lasciano il tempo che trovano, dicono a Palazzo Chigi. E anche le
piazze possono sino ad un certo punto. Qui la questione è squisitamente politica. E
giocata tutta dentro al partito del premier. La legge delega, dopo la fiducia incassata al
Senato, è arrivata in commissione alla Camera. Laddove la forza di interdizione della
minoranza Pd — ex ministri del lavoro, ex sindacalisti Cgil — è certo più forte. Il presidente
Damiano è tutto sommato ottimista. Si può scrivere cioè nero su bianco quanto sin qui
49
omesso, visto che il testo non dedica nemmeno mezza riga all’articolo 18. E dunque che “il
diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli
ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”. In
effetti, quella frase del documento pd potrebbe confluire nel testo di legge. La mediazione
è affidata al ministro Poletti che da ieri sera, rientrato a Roma, tesse la tela. «Dobbiamo
trovare una formulazione che funzioni, con i giudici un po’ strani che abbiamo non è
semplice», avvertono gli uomini del premier. «Non darei troppo per scontato l’inserimento
dell’ordine del giorno dentro il Jobs Act», frena però il responsabile economico del partito,
Filippo Taddei. «È una richiesta legittima, da parte della minoranza pd, l’unica che
possono avanzare. Ma per ora si mantiene l’impianto del Senato, forte dell’impegno preso
dal ministro Poletti nel discorso a Palazzo Madama sulla fiducia alla legge delega. Quello
cioè di tener conto proprio di quell’ordine del giorno. Si vuole che le parole del ministro
finiscano nel Jobs Act? Ma se non si fidano di noi, perché noi dobbiamo fidarci di loro?».
Parole nette che sembrano chiudere ogni confronto. Per ora. «Non confondiamo le
richieste legittime con i compromessi», prosegue Taddei. «C’è una discussione ampia in
corso, seguiamone i passaggi, ma senza diktat. Per noi fa fede l’ordine del giorno del Pd
ed è sufficiente l’impegno del ministro».
Del 4/11/2014, pag. 4
Bankitalia:“Pensioni a rischio con Tfr in
busta”
“La misura sia solo temporanea. E i tagli alle Regioni potranno
determinare l’aumento della pressione fiscale” Istat: “La manovra non
porterà benefici nel prossimo biennio. L’effetto del bonus annullato
dalla clausola di salvaguardia”
ELENA POLIDORI
I tecnici di via Nazionale e quelli dell’Istituto di statistica guardano ai nuovi provvedimenti
con una certa cautela. «E’ cruciale che la temporaneità del Tfr sia mantenuta», avverte in
Parlamento il vicedirettore generale della banca centrale, Luigi Signorini secondo cui
«l’adesione dei lavoratori a basso reddito all’iniziativa aggrava il rischio che questi abbiano
in futuro pensioni non adeguate». Secondo l’Istat i provvedimenti contenuti nella manovra
avranno un «impatto netto marginalmente positivo nel 2014 ed un effetto cumulativo netto
nullo nel biennio successivo». Motivo: la spinta del bonus degli 80 euro potrebbe
annullarsi con le conseguenze negative derivanti dalla clausola di salvaguardia legata
all’eventuale aumento dell’Iva.
La stessa Banca d’Italia ragiona su vantaggi e svantaggi di queste clausole. Da un lato il
loro utilizzo «rafforza la credibilità dell’impegno del Paese a proseguire nel consolidamento
delle finanze pubbliche». Ma nel caso specifico del- l’Iva, l’aumento porterebbe le aliquote
«su livelli molto elevati». Cosa da evitare. Luci ed ombre anche sull’Irap: il suo
«ridimensionamento consente un significativo alleggerimento del costo del lavoro» ma al
tempo stesso «comprime i margini di autonomia delle Regioni, per le quali il tributo
rappresenta la principale fonte di finanziamento». Sempre Signorini prevede anche che i
tagli alle Regioni potrebbero tradursi in nuove tasse: «Si stima che la riduzione delle
risorse disponibili per gli enti decentrati si traduca interamente in un taglio delle spese
correnti. Tuttavia, l’evidenza degli ultimi anni mostra che questi enti hanno reagito anche
50
aumentando significativamente le entrate». Per la Banca d’Italia il rinvio del pareggio di
bilancio «è motivato» dalla profondità della recessione. E, non ultimo, la manovra realizza
un calo del cuneo fiscale e finanzia riforme importanti come l’istruzione e il mercato del
lavoro. L’Istat taglia le stime di crescita del governo (quest’anno — 0,3%, il prossimo
+0,5), in lieve ribasso rispetto al Def e stima per il 2014 un aumento della spesa delle
famiglie, dopo tre anni di gelo, attribuibile però solo ad un calo della propensione al
risparmio. Il potere d’acquisto è fermo, malgrado la gelata dei prezzi.
Per il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi la legge di Stabilità «segna un’importante
discontinuità rispetto al passato», finalmente «alza il piede dal freno», ma senza «pigiare
l’acceleratore». Ci sono cioè norme importanti sulla riduzione della spesa, ma «manca
un’azione decisa sugli investimenti». Nel complesso però il giudizio è positivo: la manovra
«potrà rimettere il Paese su un più alto sentiero di sviluppo».
Del 4/11/2014, pag. 2
Gli operai fuori dalla porta
Contestazioni per la visita di Renzi agli industriali nello stabilimento
della Palazzoli, i cui dipendenti sono stati mandati in «ferie collettive».
Sfila la Fiom, una delegazione attende di essere ricevuta dal premier,
che non si presenta: «Ci ha fatto aspettare mezz’ora e più». Cariche al
corteo di studenti, centri sociali e sindacati di base
Andrea Tornago
Il corteo delle auto di lusso comincia la mattina presto. Gli industriali entrano dall’ingresso
sul retro, collegato direttamente con la tangenziale, lontano da sguardi indiscreti e dai cortei di operai e centri sociali. È la giornata di Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio interverrà all’assemblea dell’Associazione industriale bresciana, ospitata nello stabilimento
della Palazzoli Spa, azienda alla periferia nord di Brescia i cui operai, per l’occasione,
sono stati mandati in «ferie collettive» dalla dirigenza.
Matteo Renzi di contestazioni non ne vuole sapere. Quando arriva alla fabbrica, con il corteo di auto blu, sono passate da poco le 10. La polizia sta caricando la manifestazione dei
sindacati di base, degli studenti e del centro sociale Magazzino 47. Gli studenti hanno
capito che la contestazione davanti ai cancelli della fabbrica è un’arma spuntata: l’entrata
e l’uscita delle macchine si svolgerà sul retro. Tenteranno per tutta la mattina di aggirare il
cordone di polizia, ma quando bloccheranno la tangenziale Renzi sarà già lontano. Il bilancio delle cariche è di alcuni manifestanti colpiti dalle manganellate e — fa sapere la Questura — due agenti feriti con prognosi di 20 e 7 giorni.
Il corteo della Fiom intanto sfila — circa un migliaio di persone — dai cancelli
dell’acciaieria Ori Martin fino all’ingresso della Palazzoli. «Renzi non ha mai lavorato, giù
le mani dal sindacato» è lo striscione della giornata. I metalmeccanici si fermano in presidio davanti allo stabilimento, mentre Renzi sta già rispondendo a modo suo: «Se vogliono
contestare il governo lo facciano, ma senza sfruttare il dolore dei disoccupati». Ad invitarlo
sul palco degli industriali bresciani, insieme al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi,
è stato il presidente dell’Aib — l’associazione industriale bresciana — Marco Bonometti,
che tuona dal palco: «Il sindacato oggi è un ostacolo sulla strada del rilancio dell’Italia».
È la seconda visita del presidente Renzi a Brescia in poche settimane. Il 6 settembre
scorso aveva partecipato all’inaugurazione del nuovo stabilimento delle Rubinetterie Bresciane di Aldo Bonomi, ex vicepresidente di Confindustria e imprenditore vicino a Renzi,
51
tra i protagonisti della Leopolda. «Sia presso l’azienda bresciana che ha recentemente
visitato, sia alla Palazzoli — ha scritto a Matteo Renzi il segretario della Fiom bresciana,
Francesco Bertoli — la Fiom non può svolgere assemblee retribuite ormai da qualche anno». Scelte non casuali quelle del presidente del Consiglio, che delineano un disegno preciso dei rapporti industriali. Verso le 10,30 dagli altoparlanti della Cgil arriva la notizia: Renzi ha accettato di incontrare i lavoratori. Il colloquio si sarebbe dovuto svolgere alle
12 nello stabilimento delle Officine meccaniche rezzatesi, di proprietà del presidente degli
industriali, Marco Bonometti: l’ultima fabbrica che Renzi passerà in rassegna, dopo
l’Italcementi di Rezzato della famiglia Pesenti, a 7 chilometri da Brescia. Il racconto della
delegazione della Fiom è il ritratto più fedele della giornata bresciana di Renzi:
«Abbiamo aspettato più di un’ora e venti nella sala d’attesa dell’azienda, poi ci hanno avvisato che il presidente non aveva tempo — ha spiegato il segretario della Fiom bresciana,
Bertoli — Ci hanno detto di lasciare un documento al capo del cerimoniale ma ce ne siamo
andati subito. È una vergogna». Ad attendere Matteo Renzi negli uffici dell’azienda,
secondo il racconto della Fiom, c’erano anche il sindaco di Brescia Emilio Del Bono, la
vicesindaco Laura Castelletti e il presidente dell’area vasta della Provincia di Brescia Pierluigi Mottinelli. «Forse loro sono stati più fortunati» ha concluso il segretario della Fiom
Bertoli. Ma nella sua full immersion nella Brescia produttiva il presidente del Consiglio non
ha avuto tempo nemmeno per gli incontri istituzionali. Giusto per tre stabilimenti, in poco
meno di tre ore. Poi la corsa verso l’aeroporto e il volo per Roma.
Del 4/11/2014, pag. 31
CHI ASPIRA OGGI A DIVENTARE OPERAIO?
NADIA URBINATI
LA BATTAGLIA sul lavoro che sta dividendo il Pd è più di una contesa sulla
rappresentanza politica dei lavoratori. Il 25 ottobre scorso ha messo in scena una
spaccatura che è più che politica, e che per questo peserà sui destini del Pd, come ci ha
tra l’altro mostrato il sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato domenica scorsa su
Repubblica. La contrapposizione tra Landini/Camusso e Renzi, tra Piazza San Giovanni e
la Leopolda, mostra una divisone interna alla rappresentazione del lavoro, alla percezione
sociale del ruolo e dell’identità dei lavoratori. È l’esito del declino del lavoro industriale che,
non va dimenticato, ha marciato insieme al declino della Guerra fredda, alla fine del
mondo diviso. La dimensione globale dei mercati e la decadenza del valore sociale del
lavoro stanno insieme e si riflettono nella diaspora e trasformazione della sinistra.
Il secondo dopoguerra è nato su fondamenti molto strutturati, a livello nazionale e
internazionale. Un mondo diviso ha significato per alcuni decenni una limitata possibilità
per il capitalismo occidentale di attingere all’immensa riserva di mano d’opera offerta dalle
aree più povere del mondo. Su quei confini si è costruita la cultura dei diritti dei lavoratori
occidentali e la forza delle loro organizzazioni sindacali. I cui cardini erano tenuti insieme
dalla filosofia lavorista, dall’idea che il lavoro fosse certamente fatica e necessità ma che
l’azione politica e associata avrebbe avuto il potere di renderlo prassi e condizione di
emancipazione. Lavoro prometeico come forza creatrice di beni materiali e immateriali,
tanto per la sinistra marxista quanto per quella socialdemocratica. La condizione operaia,
se non la meta più agognata, era certamente dignitosa e perfino nobile. Questa
rappresentazione è stata per buona parte del Novecento condivisa da giovani e non
giovani, da uomini e donne. Ora non lo è più.
52
Chi oggi aspira a diventare operaio? Chi coltiva l’utopia del lavoro produttivo come
opportunità per ridisegnare i rapporti di forza nell’azienda e fuori? Il globo senza interni
steccati è un luogo maledetto per il lavoro, perché qui vince chi offre mano d’opera a
basso costo e possibilmente con scarsa professionalità e senza diritti. La globalizzazione
da un lato ha aperto le porte ai mercati e alla diversità delle preferenze, dei gusti e delle
culture, e dall’altro ha aumentato il numero dei concorrenti che si confrontano non più solo
all’interno di un mercato nazionale protetto da barriere legali e/o culturali, ma nell’arena del
mercato globale. In questa dimensione aperta si verifica l’attacco ai lavoratori “protetti”,
non solo da parte degli amministratori delegati ma anche di altri lavoratori.
Per chi è parte del mondo del lavoro, il lavoro con diritti è sempre più spesso un lusso e
perfino un privilegio. Per chi non è parte del mondo del lavoro, il lavoro è sempre più
spesso un non valore. Il lavoro manuale si fa non solo meno pagato e meno meritevole di
diritti, ma anche meno dignitoso, e anzi oggetto di una rappresentazione sociale
penalizzante e umiliante. È spesso visto come sinonimo di sconfitta sociale perché le
aspettative dei giovani sono di avere una carriera, una professione magari precaria
inizialmente, raramente di diventare operai. Il creatore di futuro, il Prometeo dei decenni
passati non fa parte del loro immaginario perché le preferenze e le aspirazioni favorite dal
mondo globale sono essenzialmente individualiste e associate alla gratificazione
personale immediata. È la realizzazione individuale, psicologica e monetaria, e il
riconoscimento sociale che danno valore all’occupazione. Fatte le dovute eccezioni (come
l’orgoglio dell’operaio specializzato nelle aziende meccaniche dell’Emilia) l’operaio
corrisponde nella vulgata popolare a una condizione in molti casi di ripiego o perfino di
sconfitta personale. Questa è del resto la rappresentazione che i media alimentano. Anche
per questa ragione, il lavoro non trova facile e omogenea collocazione in una sinistra che
vuole essere targata giovane. Come ci ha mostrato Diamanti, per la maggior parte di chi
oggi si orienta verso il Pd, il lavoro non ha valore simbolico se non è carriera e segno di
riconoscimento sociale.
La dissociazione nel Pd è quindi tutt’altro che di poco conto. Non riguarda tanto un modo
“vecchio” o “nuovo” di essere della sinistra come forse conviene sostenere per ragioni
propagandistiche. Riguarda la formazione, si potrebbe dire, di due classi sociali, di una
gerarchia, dentro il mondo del lavoro: da un lato il lavoro per chi non ha realizzato sogni di
carriera (la categoria dei lavoratori dipendenti o degli operai); dall’altro un lavoro associato
alla carriera e alla mobilità verso l’alto (a questa i giovani aspirano). È una gerarchia tra
lavoratori, e interna al mondo del lavoro, quella che si misura e cerca rappresentanza
politica nella battaglia che sta dividendo il Pd.
Del 4/11/2014, pag. 3
Andate e delocalizzate: il governo vi
applaudirà
L’ESEMPIO DEL MINISTRO GUIDI: LA SUA DUCATI ENERGIA, DOPO UN
CONTRIBUTO PUBBLICO DI 750.000 EURO, HA APERTO UNO STABILIMENTO IN
CROAZIA
Di Giorgio Meletti
53
Non dev’essere un caso se il governo Renzi ha in squadra una delle più lucide teoriche
della delocalizzazione, il ministro dello Sviluppo economico (dovunque si sviluppi, par di
capire) Federica Guidi. Già anni fa l’imprenditrice emiliana spiegava: “Per restare
competitivi dobbiamo avere un basso costo del prodotto. Quindi un basso costo della
manodopera. In Italia il costo varia dai 18 ai 21 euro, in Croazia è di poco superiore ai tre,
in Romania è inferiore a un euro”. Infatti la sua Ducati Energia aprì uno stabilimento in
Croazia, con un contributo finanziario di circa 740 mila euro della finanziaria pubblica
Simest. Bersagliata da rabbiose interrogazioni di M5S e Lega Nord, la scorsa primavera,
la ministra non si scompose: “Non è una delocalizzazione ma un’operazione finalizzata a
mantenere la presenza di Ducati Energia in un settore pesantemente aggredito da
produttori del Far East asiatico”.
LE MIGLIAIA di lavoratori che stanno perdendo il posto perché il loro lavoro viene
riallocato a colleghi di Paesi più competitivi sono le vittime della delocalizzazione, e hanno
poco da stare allegri. Perché delle variegate accezioni negative del termine (da
“carognata” a “male inevitabile”) al governo Renzi non ne piace nessuna. La
delocalizzazione gli piace proprio. Non c'è caso che li commuova. Per dire, il comune di
Roma mette in gara l’appalto per il call center 060606, la società romana Al - maviva che
lo gestiva perde la gara e 280 addetti dipendenti il lavoro. A risultato acquisito, un mese fa,
si è scoperto che il bando non prevedeva l’obbligo di assorbire il personale, ma soprattutto
di svolgere il servizio a Roma. Sono notizie quotidiane, grandi e piccole. A Ferragosto ha
chiuso la Bronte Jeans di Catania, gruppo tessile che produceva per grandi marchi come
Benetton e Diesel, 175 posti di lavoro in fumo, altrettante assunzioni pronte a scattare in
Vietnam, in Bangladesh o in Cina. I sindacalisti dei tessili siciliani hanno subito chiesto un
tavolo al ministero dello Sviluppo economico, dove c’è un interlocutore credibile e
informato, la Guidi appunto, che sa a memoria i minimi salariali dei cinque continenti e
almeno non alimenterà vane illusioni. Se ne vanno a frotte. Non solo la Moncler, ma anche
altri storici marchi del made in Italy vanno altrove per risparmiare. Hanno delocalizzato le
calze Omsa, le tute da moto Dainese , la caffettiere Bialetti, le scarpe Geox , le
attrezzature da sci della Rossi. Producono da sempre all’estero la Tod's di Diego Della
Valle e la Benetton . Quest’ultima un anno e mezzo fa ha perso molti collaboratori nel
crollo del Rana Plaza, la fabbricona tessile alla periferia di Dacca, in Bangladesh, dove
sono morte 1134 persone e però 2400 circa si sono salvate. Le varie multinazionali
coinvolte hanno litigato sui risarcimenti e, nessuno volendo fare la prima mossa, nessuno
ha versato il pattuito. Il Bangladesh, a dispetto dei crolli delle fabbriche sulla testa di chi
lavora, rimane stracompetitivo. Nonostante un recente aumento del 77 per cento, il salario
dei 3,6 milioni di lavoratori tessili (quasi tutte donne) non supera i 50 euro al mese. Di
fronte a tanto orrore, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha trovato il modo di
argomentare che la delocalizzazione è una mano santa se ci aiuta a evitare che il suddetto
orrore entri nelle nostre fabbriche. Meglio chiuderle. Lo ha detto per celebrare il Primo
maggio. Dopo aver premesso che “non bisogna pensare all’imprenditore solo come uno
sfruttatore”, ha teorizzato: “Non sono disposto a far restare in Italia le imprese a ogni
costo. Se hanno intenzione di danneggiare i lavoratori, territorio e ambiente possono
andare altrove”. L’idea di Poletti è la cosa più di sinistra che c’è nel governo Renzi.
L’imprenditore non è uno sfruttatore ma se lo fosse, per deprecabile ed estremo caso,
delocalizzi al più presto. Meglio disoccupati che sfruttati, e via di mezzo evidentemente
non c’è.
IL PREMIER INVECE, non venendo dalla paludata scuola comunista di Poletti, è proprio
entusiasta della delocalizzazione. In Cina, a giugno scorso, ci ha regalato impagabili
perorazioni, come quella declamata a Shangai: “Chi viene ad investire all’estero non è un
fuggitivo. Si è dato della delocalizzazione un significato solo negativo. Ma così si è
54
scoraggiata l’apertura al mondo del Paese”. Le migliaia di persone che perdono il lavoro
non hanno capito ciò che Renzi in Cina ha compreso con chiarezza, tanto da bollare come
“polemiche stucchevoli” il lamento dei nuovi disoccupati: “Con i ricavi all’estero le aziende
italiane portano business e posti di lavoro alle filiali in Italia”. Naturalmente nessun
esempio concreto è stato portato a supporto dell’ardita suggestione. Anche perché
passando dal generale al particolare cambia tutto, come sa il deputato renzianissimo
Michele Anzaldi, alle prese con la delocalizzazione della pasta Garofalo. Non sapendo
come conciliare l’umore dei pastai presto disoccupati con quello del capo, ne è uscito con
una contorsione che illumina la difficoltà dei politici di fronte ai prezzi della crisi: “Se, come
ha detto il premier Matteo Renzi, non sarebbero accettabili interventi governativi di
carattere nazionalistico, è invece quanto mai opportuno tutelare l’identità delle nostre
produzioni”. Adesso è tutto più chiaro.
55