Giovani dottori
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Giovani dottori
Giovani dottori MASSIMO CRESSONI Chiunque abbia la sfortuna di doversi far visitare in ospedale ha buone probabilità di essere esaminato da un giovane dottore che, nella maggioranza dei casi, è un medico specializzando. Chi invece è giovane e sano e in ospedale non ha motivo di andare, la sera dopo il lavoro, facendo zapping, si sarà imbattuto in un telefilm che ha per protagonisti dei giovani medici, dal dottor Carter di E.R. agli aiutanti del dr. House, passando per Gray’s Anatomy. Ma che cos`è uno specializzando? E che differenza c’è tra gli specializzandi del Policlinico di Milano (o degli ospedali italiani in generale) e i loro colleghi d’oltreoceano? Diciamo subito che uno specializzando è un laureato in medicina, abilitato all’esercizio della professione e iscritto all’Ordine dei Medici, ma che sta imparando una professione appunto “specialistica”: chirurgo, dermatologo, pediatra, anestesista... Il lungo percorso verso la professione medica comincia a 18 anni dopo gli esami di maturità, superando il test di ammissione alla facoltà di Medicina e Chirurgia che è a ”numero chiuso”. La Facoltà di Medicina si differenzia dagli altri percorsi universitari, che sono completamente slegati da quello che è il “mondo del lavoro”, perché lo studente verso il quarto/quinto anno di corso comincia a frequentare un reparto ospedaliero dove eventualmente preparerà la tesi e dove spera di entrare nella scuola di specialità. L’accesso alla scuola di specialità avviene per concorso, in quanto lo specializzando non solo dovrà imparare a fare pratica, ma riceve una borsa di studio per il lavoro che eserciterà all’interno dell’ospedale. La prova di accesso non è facile perché si tratta di un test a quiz con sessanta domande estratte da un database di cinquemila disponibili su internet ed una seconda prova con domande aperte: il numero dei posti è sempre inferiore a quello degli aspiranti. Dopo le celebrazioni per la vittoria concorsuale (!) cominciano quindi quattro o cinque anni in cui imparare il mestiere, cioè a fare il dottore. E come si impara a fare il dottore? Non c`è una risposta univoca o codificata. La legge italiana, genericamente, dice che lo specializzando deve acquisire tutte le competenze presenti in quel reparto, sempre sotto la supervisione di un medico strutturato interno all’ospedale. I telefilm americani ci descrivono dei giovani dottori che passano giorno e notte in ospedale curando tutte le patologie possibili. Le scuole di specializzazione americane sono rigidamente controllate, dovendo garantire la presenza dello specializzando a un’adeguata casistica e, affinché lo specializzando possa vedere questa casistica, deve praticamente vivere quattro anni in ospedale, spesso con orari talmente prolungati che un recente articolo di una famosa rivista medica ha lamentato gli incidenti d’auto capitati ai giovani dottori dopo turni di 36 ore... In Italia invece gli specializzandi sono tenuti agli orari normali dei medici interni e la varietà dei casi clinici che vedono dipende dal contesto ospedaliero in cui si trovano. Gli anni della specializzazione possono davvero costituire un’esperienza irripetibile nella formazione dello specialista. Imparare a fare il medico non vuole dire solo studiare astratte descrizioni di patologie sui libri, ma vedere queste patologie dal vivo e provare a curarle, “tenuti per mano” da una persona più esperta. La vita quotidiana tuttavia non è né poetica né eroica, anche perché i medici ospedalieri non ricevono alcun compenso economico per il tempo speso ad insegnare. La legislazione italiana ha riformato più volte lo stato giuridico degli specializzandi: nel 2007 esso è stato uniformato a quello dell’Europa unita, con un migliore trattamento economico, anche in termini di assicurazione o di maternità. Nessuna, tuttavia, tra le leggi e i decreti legislativi si è mai occupata chiaramente di chi deve insegnare. Per un chirurgo, ad esempio, fare da solo un pic- 39 colo intervento, come un’appendicectomia, richiede circa trenta minuti di lavoro. Guidare invece uno specializzando, mentre fa lo stesso intervento chirurgico, lo impegna anche un’ora o un’ora e mezza, e non tutti hanno la vocazione e la pazienza del “professore”. Insomma, il sistema può trasformare lo specializzando in un peso e non in una risorsa; oppure, peggio, in manodopera a basso costo. Nella realtà ciascuna scuola di specializzazione è autonoma: la mia esperienza personale è quella della Scuola di Specializzazione in Anestesia e Rianimazione, dove il giovane medico, nei primi due anni gira le diverse chirurgie: d’urgenza, vascolare, toracica, urologica... mentre il secondo biennio è dedicato alla terapia intensiva, neurologica e generale. In Italia, in ogni sala operatoria, c’è un anestesista anziano che, a piccoli passi, dà allo specializzando un grado maggiore di autonomia. Negli Stati Uniti invece, c’è un unico anestesista per più sale operatorie, ciascuna affidata ad un diverso specializzando. L’anestesista anziano è tenuto ad affiancare lo specializzando solo nei momenti salienti dell’intervento chirurgico: il gioco è quindi quello di sfasare gli interventi, in modo da poter essere presente in tutte le sale operatorie, quando è necessario. Da noi questo non è possibile, né per legge né per mentalità, anche se poi, paradossalmente, è possibile l’eccesso contrario: ho sentito raccontare, non in questo ospedale, di un ambulatorio di pediatria affidato interamente a specializzandi, con il medico poco disponibile, e solo per telefono. La cosa, oltre ad essere illegale, può mettere a rischio la salute dei pazienti. Eppure, quale specializzando che si schermisce dicendo “io sono specializzando, non posso farlo da solo!” rifiuterebbe l’offerta di un posto di lavoro, a tempo indeterminato, in quello stesso reparto? La vita ospedaliera dello specializzando presenta dunque luci ed ombre: ci sono stimoli, opportunità, cose nuove da imparare. Si comincia davvero a fare i medici: non è un caso che tutti i telefilm americani abbiano per protagonisti appunto giovani specializzandi. Ma anche le “ombre” non sono trascurabili, lo abbiamo visto. Forse, un riconoscimento economico dei medici che fanno attività di tutoraggio nei confronti degli specializzandi potrebbe migliorare le cose. Il medico “adulto” infatti, non dovrebbe vivere come una costrizione, come qualche volta 40 avviene, l’affiancamento allo specializzando. Infatti, assumersi la responsabilità anche della formazione sul campo di un altro medico non è sempre una cosa facile e conveniente. Eppure, anche senza “riconoscimenti” ufficiali, ci sono molti medici esperti che lo fanno con competenza e passione, come è accaduto di recente a mia madre che, essendosi rotta un braccio, è stata assistita da un medico ortopedico il quale, fasciandola con mano d’angelo, spiegava intanto a un giovane dottore come andava avvolto bene il bendaggio.