L`origine del talento: il piccolo artista antico

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L`origine del talento: il piccolo artista antico
L’origine del talento: il piccolo artista antico
CRISTINA COMENCINI
«Alors, bien en dehors de toute ces préoccupations littéraires et ne s’y rattachant en rien, tout à coup
un toit, un reflet de soleil sur une pierre, l’odeur d’un chemin me faisaient arrêter par un plaisir
particulier qu’il me donnaient, et aussi parce qu’ils avaient l’air de cacher, au-delà de ce que je
voyais, quelque chose qu’ils invitaient à venir prendre et que malgré mes efforts je n’arrivais pas à
découvrir… Certes ce n’était pas des impressions de ce genre qui pouvaient me rendre l’espérance
que j’avais perdue de pouvoir être un jour écrivain et poète, car elles étaient toujours liées à un objet
particulier dépourvu de valeur intellectuelle et ne se rapportant à aucune vérité abstraite. Mais du
moins elles me donnaient un plaisir irraisonné, l’illusion d’une sorte de fécondité et par là me
distrayaient de l’ennui, du sentiment de mon impuissance que j’avais éprouvés chaque fois que
j’avais cherché un sujet philosophique pour une grande ouvre littéraire» (Proust).
Parlare di verità astratte in relazione alla letteratura è sempre stato per me un esercizio
impossibile. Alla base di questa inadeguatezza c’è sicuramente una carenza personale; non credo di
essere, al contrario di molti miei colleghi, una persona di grande intelligenza. Non fraintendetemi, non
faccio questa affermazione per modestia; l’intelligenza, la facoltà di ragionare astrattamente su una
questione e di intenderla, mi paiono virtù umane ammirevoli ma non così fondamentali per il nostro
mestiere. Di fronte a questioni poste in modo astratto mi prende lo stesso sentimento di noia, di
impotenza che Proust descrive nel passo della Recherche che ho appena citato. Un vuoto dell’anima o
se volete l’amara sensazione di un limite personale invalicabile.
Per lungo tempo, per tutta l’infanzia e gran parte dell’adolescenza, ho sperimentato una seria
difficoltà nella comprensione del mondo che mi circondava attraverso l’uso dell’intelligenza. Le
relazioni umane mi parevano ingarbugliate e confuse se cercavo di ordinarle secondo degli schemi
astratti e così mi risultava molto difficile parlare in modo comprensibile delle mie esperienze. Le parole
mie e degli altri non riuscivano mai a tradurre le avventure della vita. Mentre qualcuno mi parlava, mi
distraevo continuamente, guardavo con attenzione il suo viso, i gesti che accompagnavano le parole, gli
sguardi. Ascoltavo le frasi come parole di una canzone straniera. Io stessa parlavo in modo confuso,
iniziavo le frasi a metà, senza soggetto, talvolta senza predicato. Mia madre mi fermava subito, prima
che mi inoltrassi in ragionamenti intricati, richiamandomi alle elementari regole del discorso:
«Soggetto, predicato e complemento!»
Torniamo dunque, prima che io mi senta una perfetta idiota come mi succedeva a scuola, a
parlare di una cosa che è concreta come una mela, una casa, un albero: la letteratura. Le parole hanno
cominciato a farmi comprendere il mondo quando, nei romanzi che leggevo e poi, più tardi, nelle storie
che ho raccontato io stessa, sono diventate mattoni per costruirne un altro, altrettanto concreto e
certamente più afferrabile di quello che chiamiamo reale. Capire qual è il rapporto tra questi due
universi, la relazione che esiste tra loro nella mia esperienza di scrittrice, potrebbe essere un modo non
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troppo astratto di rispondere. Per sapere cosa diventa la letteratura nell’epoca dell’istantaneità, bisogna
prima riflettere sulla relazione tra mondo reale e quello costruito dalla scrittura.
L’ispirazione o più semplicemente il talento che consiste nell’invenzione letteraria nasce secondo
me nell’infanzia. Immaginiamo: all’inizio il bambino ha potenti sensazioni legate ai luoghi «…un toit,
un reflet de soleil sur une pierre, l’odeur d’un chemin». Queste sensazioni non sono né buone né
cattive; l’infanzia più terribile e quella più protetta sono miniere di immagini personali. In seguito
queste visioni potenti, simili a camere senza porte di un palazzo in costruzione, si popolano di persone
conosciute solo dal bambino: un uomo che somiglia al padre perché ha gli stessi baffi ma parla con la
voce del maestro di scuola; una donna con le calze smagliate e i capelli grigi incontrata una volta per
strada, una bambina pallida che gli ha fatto ciao da una finestra. Per giorni, raggomitolato nel letto
cuccia della sua stanza o in qualsiasi luogo proprio che gli adulti gli concedono, il bambino sognerà di
loro; li farà muovere in altrettanti universi fantasticati come fa ogni giorno quando gioca con la
bambola o con il mostro preferito. Ma questi personaggi esistono solo nella sua mente, solo in lui; non
si toccano, non si possono mostrare. Non potrà condividere questo gioco con nessuno. Dovrebbe
raccontare troppo, descrivere sensazioni, luoghi, colori, odori, volti. Si vergogna anche di parlarne con
altri: chi potrebbe mai credergli? Non ha nulla di concreto in mano per dimostrare che quel mondo
esiste; che basta chiudere gli occhi o solo serrarli un po’ perché spazzi via senza rimpianti quello che
condivide ogni giorno con gli altri.
Sono anni in cui si desidera la paura e qualcuno che ci aiuti a uscirne per poi poter di nuovo
attraversarla. Il bambino raccoglie gli oggetti che casualmente gli sono capitati davanti (in questo forse
si riduce l’opera dei genitori) e li trasforma in un mondo proprio che gli adulti si affaticano a capire e
che lui difende da ogni intrusione. Attinti dal mondo reale, questi luoghi e questa gente senza nome,
frutto di collage, di contrasti, di forme che si mutano una nell’altra diventano i primi luoghi inventati, i
primi personaggi del romanzo di ognuno. Ma sono anche gli stessi invisibili e eterni abitanti dei
romanzi scritti. Ogni scrittore ha i propri: figure e spazi che tornano in ogni romanzo, che lo firmano;
qualche volta come amuleti sono nascosti nel testo, e riusciamo a scovarli solo se amiamo e
conosciamo quel particolare scrittore più dei nostri amici, dei nostri familiari. Questi amuleti
provengono secondo me dal palazzo della nostra infanzia e forse sono le chiavi misteriose
dell’ispirazione. La formazione di queste, chiamiamole così, miniere di immagini, sembra dunque il
materiale primario della scrittura; vengono attinte dalla realtà e trasformate nel tempo in una memoria
involontaria, per usare le parole di Proust, simile a uno scrigno ricoperto di sabbia, rotolato a profondità
abissali. La potenza di queste visioni è sconvolgente: immaginate sculture tanto riuscite da invocare la
vita come il Mosè di Michelangelo, puzze e odori inebrianti che la favola più riuscita delle Mille non è
capace di evocare, passioni d’amore e d’odio che rendono sentimentali la tragedia greca e farebbero
piangere d’invidia Shakespeare.
Ho sempre pensato che se un bambino potesse scrivere un romanzo nel momento dell’accumulo
di questo materiale incandescente, scriverebbe forse il romanzo più straordinario che sia mai stato
scritto e sarebbe poi incenerito dalle sue stesse frasi. Accade qualcosa di simile ai bambini prodigio e
agli artisti che realizzano le loro opere prima dei vent’anni. Queste visioni, come dicevamo prima, non
hanno nome, non vengono nominate dal bambino che le fabbrica e le evoca senza l’intermediazione
delle parole. Qualche volta, non più piccolissimo, proverà forse a raccontarne una piccola parte a
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qualcuno. Allora inizierà il suo racconto senza soggetto (non ero poi l’unica) in un dialogo come
questo:
Bambino: Nel fiume prendeva i pesci con le mani e li mangiava crudi, mangiava anche gli occhi
aperti che lo guardavano...
Madre: Chi faceva questo?
Bambino: Lui.
Madre: Chi lui?
Bambino: Uffa, non capisci niente.
Madre: Dimmi, ti ascolto.
Bambino: No, fa niente.
Il più bel dialogo in questo stile che sia mai stato scritto è quello tra Saint-Exupéry e il suo
piccolo principe. Ora che è cresciuto il bambino sente per la prima volta il bisogno di raccontare
qualcosa di questo mondo personale e nascosto, ma di nuovo non trova le parole. Non riesce a
comporre neanche un temino smilzo sugli esangui soggetti che gli propongono a scuola. E sente che
quei tesori senza nome lo stanno lasciando, colano giù a picco lentamente ma inesorabilmente. Non c’è
rete né pescatore che sappiano tirarli di nuovo alla superficie. Devono, è il loro destino, essere sepolti,
ruderi della civiltà più ricca e perfetta che sia mai esistita, devono essere dimenticati perché un
fortunato possa forse, un giorno, ritrovarli mutati dal tempo in frammenti sbeccati senza più i colori
originari, incrostati di salsedine, di conchiglie e di escrementi solidificati. Alcuni tesori si polverizzano
appena vengono alla luce e nessuno sarà più in grado di raccontarne la forma e l’uso che se ne faceva.
Ma altri, pazientemente assemblati e puliti dall’archeologo – pallido esecutore della creatività del
piccolo artista antico – ci suggeriscono l’età dell’oro da cui provengono, i fasti del loro passato.
Lo scrittore è per me l’archeologo e questo processo di accumulo non volontario, diluito nel
tempo, è l’origine della letteratura. Chiunque scrive ha a tratti orrore della suo talento, perché sente che
è un mestiere che si fonda sulla morte di qualcuno, del piccolo artista di un tempo, vero tessitore di
storie mirabolanti di cui i nostri romanzi non sono che un pallido reperto.
Perché il processo si metta in moto ci vogliono dunque la mente di un bambino, frammenti di
mondo e il tempo. In questo senso i mutamenti veloci della tecnologia, che riducono le distanze
geografiche, che sembrano annullare le differenze in nome di una comunicazione universale, non mi
paiono un vero pericolo per noi qui che abbiamo già compiuto questo prezioso percorso individuale.
Quello che dobbiamo chiederci è quali possibilità oggi il mondo reale dia o tolga ai piccoli scrittori di
domani.
Immaginiamo di nuovo. Un bambino nasce in una stanza attrezzata come un laboratorio perfetto:
giochi intelligenti che dovrà fare a un anno, a due, a tre anni sono già in ordine nel suo armadio accanto
ai vestiti giusti, comodi, che non gli impediranno i movimenti; medicinali per ogni più piccolo disagio
sono allineati su mensole bianche che odorano d’alcool. I genitori hanno già comprato per lui alcuni
libri adatti all’età, devono essere storie fantasiose ma rassicuranti; i bambini di queste favole sono
buoni, i loro genitori comprensivi ma spesso assenti. Tutto è stato predisposto per lui in modo che non
ci sia un solo istante della giornata in cui si senta solo, triste, inattivo.
Quando sarà più grande studierà le lingue, farà nuoto, computer, viaggerà. Il bambino ciuccia il
latte ed esamina con lo sguardo serio il laboratorio colorato e inodore che i suoi genitori hanno
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preparato per lui. Gattona per la casa, fissa immagini di altri in televisione, sui libri o i volti dei suoi
genitori che lo seguono ovunque. Ha sempre una grande attività intorno: gente che arriva, altra che
scappa via, tutto si avvicenda velocemente, come in televisione, quando si premono i pulsanti. Ha visto
esseri incredibili in televisione, alcuni parlano come lui, altri no. Fanno tutto sempre in fretta e a lui che
li fissa stupito viene voglia di non muoversi mai più. Gli pare che quegli esseri si muovano per lui.
Saltano, si combattono, piangono, ridono e lui li sta a guardare. Ogni tanto accenna un sorriso stanco
perché sono buffi o si copre gli occhi perché li vede impauriti o imbarazzati per qualche loro segreto
svelato. Qualche volta cerca di raccontare ciò che accade loro in un dialogo come questo (lui dice
sempre il soggetto, il predicato e il complemento):
Bambino: Il guerriero ha una spada e con la spada combatte i nemici.
Madre: Non è bello combattere.
Bambino: A lui piace.
Madre: E a te?
Bambino: No.
Madre: Bravo.
In cuor suo, malgrado si adegui al pacifismo della madre, il bambino invidia il guerriero che sa
come e per chi combattere. Di notte prova a imitarlo ma non ci riesce. Ogni volta il guerriero si
presenta con il suo corpo e la sua testa che non si possono cambiare, audace, perfetto, pronto per il
combattimento, la spada lucente in pugno e l’armatura già infilata, sempre uguale, sempre sorridente. Il
bambino si sente così stanco. Scivola nel sonno e al mattino non ricorda se si è addormentato fissando
il guerriero che sfrecciava sullo schermo, e i suoi genitori lo hanno poi infilato nel suo lettino; oppure
se il sonno lo ha colto mentre sotto le coperte cercava di trasformarsi in lui senza successo.
Una notte, un temporale terribile spalanca all’improvviso la finestra della sua stanza ovattata
dove ogni rumore giunge lontano e attutito. Il bambino si tira su a sedere terrorizzato. Guarda l’acqua
sfrontata che entra a scrosci e forma immediate pozzanghere simili a quelle proibite del cortile di
scuola. Il cielo è rischiarato da fulmini viola. Il bambino spalanca gli occhi: sulle nuvole illuminate a
sprazzi ora vede forme umane e bestiali che si divorano, appaiono e scompaiono urlanti. La voce non
gli esce dalla bocca per chiamare i genitori. Trova la forza di alzarsi, attraversa la stanza bagnandosi i
piedi in un rivolo d’acqua gelata. Ora è fermo davanti al letto dei genitori: i fulmini viola illuminano un
corpo che ha quattro mani, quattro piedi, due teste. Il mostro ha gli occhi chiusi ma ride del suo terrore.
Il bambino scappa via. Scivola nella pozzanghera d’acqua della sua stanza e cade. L’acqua lo bagna e
si mischia alle lacrime; il tuono copre le sue urla. Ma è inutile urlare; il bambino è solo al mondo;
nessuno lo può sentire né condividere con lui quello che vede e sente; nessuno gli crederà.
Il bambino a poco a poco si calma, ascolta il rumore dell’acqua sul pavimento. Sembra il toc toc
prepotente di qualcuno che vuole entrare; nelle nuvole frementi prosegue il combattimento eterno dei
mostri; le foglie dell’albero della strada entrano nella stanza spinte dal vento e ricoprono il bambino
come tante mascherine di carnevale. Il bambino si addormenta e così, come nelle favole, ha salva la
vita; anche se i genitori e i medici si affanneranno nei giorni seguenti a curarlo per una brutta polmonite.
In quei giorni di febbre, nel letto saturo degli odori del suo corpo non troppo pulito (i genitori non lo
lavano perché hanno più paura che prenda freddo che dei germi), il mostro che dorme nel letto dei
genitori si muterà solo per lui in tuono e il tuono in un albero che nessuno ha mai visto e il fulmine in
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una spada solo sua con cui potrà, più audace e forte del guerriero che sorride sempre, sconfiggere i suoi
amici. E inizierà, dopo quella notte, a cercare la solitudine, a chiudersi nella sua stanza, incollando sulla
porta un foglio con su una scritta rossa: Non disturbare.
Forse sono ottimista pensando all’intervento provvidenziale del temporale. La tecnologia che
riduce gli spazi del caso e filtra le scorie del mondo è molto potente e muta velocemente come i virus
da cui ci dicono che siamo circondati. Però il piccolo artista antico è furbo e gli basta poco, qualche
piccolo frammento di realtà solo sua: «un toit, un reflet de soleil sur une pierre, l’odeur d’un chemin».
Gli va bene anche un pianeta deserto, se ha un fiore solo suo con cui dialogare.
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