S. Malle - Confindustria
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S. Malle - Confindustria
Silvana Malle – Intervento al seminario Centro Studi Confindustria Il mio intervento sarà un po’ differente da quelli che mi hanno preceduto e riguarderà soprattutto la situazione dei paesi emergenti, delle economie emergenti e quanto queste possono contare come potenziale per uno sbocco di mercato da parte dell'Italia, ma anche come futuri partners nelle attività economiche. Nella mia divisione dell’Ocse analizziamo in dettaglio soprattutto tre grandi economie emergenti: la Cina, la Russia e il Brasile; ma lavoriamo anche su altri paesi minori, di interesse per quanto riguarda le economie dei paesi Ocse. Uno dei punti di questo incontro mi è sembrata la preoccupazione riguardo al futuro, le incertezze, i rischi che ci sono e così via. Forse vale la pena, brevemente, di soffermarci su quella che è stata l’esperienza di quindici anni di trasformazione in Europa orientale e centro orientale per vedere che cosa è successo a queste economie alla luce degli investimenti che in esse si sono delocalizzati e dell’effetto che questi hanno portato. Per la prima parte, il mio intervento riguarderà questo breve percorso, storico ormai, questi quindici anni per vedere che cosa è successo. All’inizio sono state le privatizzazioni che hanno attirato gli investimenti stranieri. Questi investimenti si sono indirizzati verso settori manifatturieri, con l’obiettivo immediato di ridurre i costi di produzione. E in particolare con l’obiettivo immediato di sfruttare i più bassi costi di lavoro in questi paesi. L’obiettivo quindi non era tanto quello di conquistare i mercati. I mercati erano minimi, come piccoli erano anche i paesi. L’obiettivo era riuscire a produrre in questi paesi una parte almeno della produzione che potesse così essere ottenuta a più basso costo. Questa tendenza si è rafforzata nel tempo. In quasi tutti i paesi dell’Europa centro-orientale la percentuale di esportazioni che deriva dall’investimento estero è cresciuta. E in maniera più notevole è cresciuta nelle quattro repubbliche dell’Europa centrale, che sono già diventate paesi membri dell’Ocse fra il 1994 e il 1995 e già adesso fanno parte dell’Unione Europea. È importante notare che la percentuale di esportazioni nel 2004, dovuta all’investimento estero, è di circa il 70% nella Repubblica Ceca; del 75% in quella Slovacca; in Ungheria del 90%. A fronte delle esportazioni che questi paesi sono in grado di fornire, grazie agli investimenti stranieri - e parte di questi investimenti stranieri sono anche italiani - c’è una forte domanda anche di importazioni. Se andiamo a vedere nelle bilance commerciali, in passato queste erano deficitarie mentre adesso alcune sono deficitarie, altre sono in pareggio. Ma ogni offerta di esportazione richiede anche una domanda di importazioni. Domanda di importazioni che viene soprattutto dai paesi più avanzati dell’Europa. Il problema che alle volte si vede soltanto in senso negativo delle delocalizzazioni da parte dei nostri paesi di alcune fasi della produzione, perché la maggior parte di queste delocalizzazioni sono outsourcing, dovrebbe essere visto anche da un altro punto di vista. Considerando cioè il fatto che l’investimento straniero trascina con sé una domanda di importazioni dai paesi dai quali proviene. Questo non riguarda necessariamente lo stesso settore, può riguardare altri settori. È un dato di fatto che i paesi dell’est europeo si sono dotati di tecnologie moderne grazie alla loro importazione soprattutto dai paesi dell’Europa occidentale - e ancora continuano ad importare dei semilavorati che poi utilizzeranno per prodotti finiti da esportazione. Che cosa sta succedendo recentemente nell’Europa centro-orientale? Quello che osserviamo è che c’è una stagnazione, anche una riduzione dell’occupazione. Mentre nei primi anni di 1 Roma 14 dicembre 2004 Silvana Malle – Intervento al seminario Centro Studi Confindustria delocalizzazione degli investimenti ciò aveva contribuito a fare aumentare l’occupazione in questi paesi, adesso si nota un freno all’aumento dell’occupazione nelle imprese in cui sono inseriti investimenti stranieri. E questo ci induce a pensare che c’è uno sforzo da parte degli investitori stranieri di aumentare la produttività. Perché? Perché cominciano ad aumentare i costi del lavoro. Quindi, i vantaggi che c’erano all’inizio nella delocalizzazione di alcune fasi della produzione in questi paesi si stanno perdendo: i costi del lavoro aumentano rapidamente e aumenteranno ancora più rapidamente nei paesi che sono diventati ormai paesi membri dell’Unione Europea. Quali sono allora le opzioni che si pongono agli investitori stranieri? Una prima decisione può essere delocalizzarsi ulteriormente ed è qualche cosa che stiamo osservando in questa regione. Investimenti in alcuni settori che si erano delocalizzati in Ungheria, passano adesso in Romania, oltre che in Bulgaria e forse anche in alcuni paesi della Comunità degli Stati Indipendenti, cioè i paesi della ex Unione Sovietica, in cui i costi del lavoro sono ancora molto bassi. Si pensi che adesso i costi di lavoro in Romania sono il 40% di quelli che si hanno in Ungheria, quindi molto più bassi rispetto ai costi delle economie avanzate europee. Un’altra decisione è quella semplicemente di uscire dal paese e dimenticare la regione. Se si esce dal paese e si dimentica la regione si guarda ancora più lontano e si guarda verso le economie asiatiche. In alcuni paesi, però, quello che si osserva - ed è forse il fenomeno più interessante per quanto riguarda l’investitore straniero - è un “approfondimento” dell’investimento. Un investimento ulteriore in quelli che sono i settori di media ed alta tecnologia. Questo lo osserviamo soprattutto nella Repubblica Ceca e in Ungheria. E lo osserviamo da parte di un forte investitore straniero in questi paesi che è la Germania. La Germania, che ha investito in questi settori di media ed alta tecnologia, trova adesso più convenienza nel continuare ad investire, quindi approfondire la produzione in questi settori, grazie a quello che è un fattore rilevante in questi paesi, cioè la dotazione di capitale umano. Nell’ultimo rapporto che è appena uscito di Pisa, il Program International .. Assessment che viene fatto nell’Ocse, che alcuni di voi probabilmente avranno visto, si nota che il capitale umano, il livello di educazione, di istruzione in tutti questi paesi dell’Europa centrale (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e così via) è molto più elevato che non quello italiano. E in particolare in quelle che sono le scienze fisiche, matematiche e così via. La dotazione di capitale umano probabilmente conterà ancora in futuro per un approfondimento degli investimenti stranieri in questi paesi. Per quanto riguarda altri paesi, ho ricordato prima che alcuni investimenti si stanno già spostando verso i paesi più lontani, paesi emergenti, grossi paesi. In questi paesi c’è un duplice vantaggio. Quello dell’outsourcing innanzitutto, che avevamo già visto nei paesi dell’Europa centrale e orientale; ma c’è anche il vantaggio di insediarsi in paesi che sono in una fase di rincorsa produttiva ed economica nei confronti dei nostri paesi. Paesi il cui reddito aumenta fortemente ogni anno e che quindi possono diventare mercati di sbocco dei nostri prodotti, o comunque dei prodotti degli investitori stranieri in questi paesi. Alcuni paesi dell’Asia in particolare (Giappone, Corea e così via) sono i paesi primi investitori in Cina, stanno già testando il mercato cinese cercando di vendere in esso le loro produzioni e non soltanto di esportarle. Voglio dire, incidentalmente, che lì si incontrano dei problemi. Problemi che forse anche qualcuno di voi, che ha degli investimenti in Cina, avrà incontrato. Sono i problemi di agganciarsi con le catene di distribuzione cinesi. In particolare questo c’è stato fatto presente in molti incontri che abbiamo 2 Roma 14 dicembre 2004 Silvana Malle – Intervento al seminario Centro Studi Confindustria avuto con produttori giapponesi e coreani. Sì è facile produrre, sì il costo del lavoro è molto basso, sì ci sono dei vantaggi anche fiscali per gli investitori stranieri in Cina, ma quando i produttori stranieri cercano di vendere le merci prodotte in Cina con i loro investimenti nel mercato cinese, si trovano di fronte a molti ostacoli. Il primo ostacolo è quello della catena di distribuzione che è ancora controllata dall’economia di stato. Inoltre, le barriere commerciali fra le varie regioni, le varie province della Cina. Quindi è ancora un mercato che sta facendo i conti con molti problemi istituzionali e con grosse difficoltà di percorso. Avevo preparato alcune slide, che però non utilizzerò perché il tempo a disposizione è breve. Vorrei soltanto richiamare alcune domande che ci si pone nell’Ocse, ma che tutti ci poniamo riguardo a queste grosse economie emergenti. Quanto affidabili sono queste economie? Quali sono i rischi di crisi? Noi abbiamo visto economie emergenti nell’Asia negli anni ’80 e ’90 e abbiamo visto la crisi asiatica del 1997. Abbiamo visto la crescita delle economie dell’America del Sud e abbiamo visto il crollo del Brasile nel 1999, con una ripresa molto lenta. Abbiamo visto la trasformazione della Russia e di altri paesi dell’ex Unione Sovietica. Trasformazione che ha preso molto tempo e si sono cominciati a vedere i segni di ripresa in Russia nel 1998, o meglio fra la fine del ’98 e l’inizio del ’99, ma soprattutto nel 2000 con l’aumento del prezzo del petrolio. Quanto sono solide queste economie? Queste sono le domande che ci poniamo perché, come è stato detto anche prima, queste economie sono molto importanti nell’aumento del volume del commercio internazionale. La Cina nell’aumento del volume conta quest’anno per il 40%. Quindi è importante che queste economie tengano, perché tenendo esse terranno anche le nostre economie che, come abbiamo visto dai relatori precedenti, soffrono di loro specifici problemi. Vorrei dire una cosa sulla Cina. Secondo le nostre previsioni la Cina è in grado di crescere ancora per una decina d’anni all’8-9%. Perché facciamo questa previsione? Sulla base di quello che è stato il percorso della Cina finora: abbiamo avuto già una decade di forte crescita. E sulla base di una stima di quello che è stato il controllo macro-economico del paese che è stato buono. Un buon controllo anche dell'inflazione che c’era ed era forte all’inizio degli anni ’90. Buon controllo anche fiscale finora, con un deficit del bilancio dello stato che è inferiore o quasi al 3%. E una serie di riforme strutturali che hanno attirato meno l’attenzione che non quelle in altri paesi dell’Europa centro–orientale e anche nella Russia, perché non sono state riforme impetuose, sono state riforme graduali. La Cina ormai si è dotata di tutta una serie di istituzioni che fanno parte dell’economia di mercato e che cominciano a funzionare; con difficoltà ma cominciano a funzionare. Un aspetto interessante della Cina è, per esempio, che ormai due terzi del prodotto industriale è un prodotto del cosiddetto settore privato. Ancora in Cina si stenta a qualificare il settore privato come tale, si parla di un’economia “non di Stato”. Ma nel nostro studio, che stiamo conducendo in questi mesi all’Ocse, abbiamo individuato tutta una serie di caratteristiche di questo cosiddetto settore non di Stato che ci consente infatti di dire che questo settore si muove come un settore privato. Risponde a incentivi privati. Risponde a dei vincoli privati e così via. Ed è un settore forte. Ecco perché mentre dieci anni fa ci si chiedeva se il tasso di crescita in Cina era un tasso effettivo o era un tasso falsificato dalle statistiche di stato, adesso ci si chiede ma questo tasso che è del 9 e più per cento di crescita nel 2004, non sarà forse del 10 o dell’11? Questo perché il settore privato è un settore che è sottostimato nelle statistiche ufficiali, quindi la Cina cresce in maniera impetuosa. Quali sono i rischi in Cina? Il rischio potrebbe essere quello di un atterraggio altrettanto impetuoso di questa economia in forte crescita. Da che cosa potrebbe derivare? Un aspetto che teniamo sotto osservazione è quello che riguarda l’inflazione. Ci sono delle spinte inflazionistiche 3 Roma 14 dicembre 2004 Silvana Malle – Intervento al seminario Centro Studi Confindustria abbastanza forti. Queste dipendono dal fatto che la Cina non ha ancora rivalutato il tasso di cambio. Non si sa se lo farà, non si sa quando lo farà. Quello che sappiamo è che di questo si discute nella Banca centrale cinese. Un giorno o l’altro questo tasso di cambio dovrà essere rivalutato, almeno per frenare queste spinte inflazionistiche che ci sono attualmente. Spinte che la Cina non ha voglia, non ha interesse a lasciare crescere perché si ricorda degli effetti nefasti che queste avevano avuto agli inizi degli anni ’90. Questo è un fattore di rischio. Bisognerà controllare questo fattore di rischio. L’altro fattore è la crescita degli investimenti. Gli investimenti sono cresciuti molto. Sono cresciuti non soltanto nel settore privato, ma sono cresciuti nel settore pubblico che ancora esiste. Che è un settore fortemente in perdita. Il 40% delle imprese statali cinesi è in perdita. Il 70% riesce appena a coprire i costi variabili e non copre il costo del capitale. Ma è un settore che esiste ancora. È il settore che più si indebita nei confronti delle banche. Le banche soffrono di questo indebitamento delle imprese statali perché i loro crediti sono in sofferenza e questo può condurre, in un prossimo futuro, a un aumento delle passività latenti di bilancio e a quel punto si vedrà che cosa la Cina sarà capace di fare. Nel contempo però la Cina ha ancora il vantaggio di avere costi di produzione molto bassi. Di attirare fortemente gli investimenti stranieri. Di essere un paese in forte espansione. Come si pone l’Italia di fronte alla Cina? Mentre la domanda di importazioni cinesi è aumentata del 38% nei primi nove mesi di quest’anno rispetto all’anno precedente, le esportazioni da parte dell’Europa sono aumentate del 30%. Quelle da parte dell’Italia soltanto del 23%. L’Italia perde terreno. Mentre la quota dell’Italia nel mercato cinese qualche anno fa era dell’1,6%, adesso è soltanto dell’1,1%. È interessante anche notare - e forse qui si potrebbe avere una risposta del perché - che l’Italia in un settore in cui era particolarmente forte, quello della vendita di attrezzature tessili, per la produzione di prodotti tessili, ha perso la propria posizione, mentre è andata molto avanti la Germania. È in forte espansione persino la Svizzera in questo settore della vendita di macchinario tessile. Mantengono le loro quote il Giappone e la Corea e avanzano altri paesi della regione. L’Italia quindi ha delle possibilità nell’economia cinese. È un mercato in espansione. Non ci pare, da questi pochi dati che ho riferito, che queste possibilità siano ad oggi completamente catturate, ma la potenzialità c’è. E c’è da aspettarsi che gli imprenditori italiani se ne accorgeranno ben presto. 4 Roma 14 dicembre 2004