Maggio 2010,di Maria Eletta Martini

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Maggio 2010,di Maria Eletta Martini
La parità che conquistammo da clandestine
L’emancipazione delle donne nel fuoco della Resistenza. Il ricordo di una protagonista
Ho vissuto la Resistenza nella provincia di Lucca, attraversata da Forte dei Marmi alla Garfagnana dalla Linea gotica che
vide la liberazione del capoluogo il 5 settembre del 1944 e quella della Garfagnana il 25 aprile del 1945. Un lungo inverno
di “guerra” che seguiva una estate di “fuoco” per essere il retroterra, in mano a tedeschi e fascisti, della V armata ferma
sull’Arno, a Pisa. A questa esperienza io arrivai, con una educazione “controcorrente” respirata nella mia famiglia. Mio
padre “popolare”, assessore al comune di Lucca negli anni ‘20 fu cacciato dai fascisti nel ’23. L’anno in cui Mussolini
sciolse i consigli comunali, e nominò i podestà in luogo dei sindaci. Intanto, la famiglia cresceva: arrivammo a sei fratelli e
sorelle. In casa si parlava di tutto, con linguaggio graduato all’età di ciascuno: mio padre per tanti problemi, paziente, ma
deciso insegnava cose spesso alternative a quelle apprese a scuola. L’arcivescovo di Lucca, nel dicembre del ’23 – un
caso non frequente – nominò papà presidente della giunta diocesana dell’Azione cattolica e i rapporti col fascismo non
furono facili. Poi sapemmo tutto, noi più grandi, del perché papà era contro la guerra, della caduta di Mussolini il 25 aprile
perché «dovevamo conoscere ». E un giorno papà mi disse in segreto che si era costituito da tempo il Cnl a Lucca, che lui
ne faceva parte, e che sarebbe stata utile una “staffetta”, capace di ricordare a memoria messaggi e tenere tutto segreto
«anche con la mamma». La cosa mi inorgoglì e cominciò il mio avanti indietro in bicicletta, prezioso mezzo di
comunicazione, oppure a piedi.
Ero una ragazza “privilegiata”, e avevo tante amiche, della scuola, delle associazioni cattoliche, le cui mamme che non
sapevano cose che io sapevo, e me le trovai consapevolmente vicine quando, dopo l’8 settembre, ospitammo e
“rivestimmo” con abiti borghesi i ragazzi sbandati militari a Lucca che non volevano essere soggetti ai tedeschi. O quando
mio fratello e un suo amico furono arrestati a scuola. Subirono un duro interrogatorio, e non solo: tornarono a casa rapati a
zero per essere riconosciuti. O quando andavamo a portare cibo, oggetti per la toilette, biancheria per cambiarsi a uomini di
cui non sapevamo né il nome né la professione, ma che erano stati “prelevati” da tedeschi e fascisti. Sapevo che mie
amiche, coraggiose, crocerossine e suore, aiutavano i molti “rastrellati” chiusi nella Pia Casa. A queste donne penso si
riferisse Ferruccio Parri, subito dopo la Liberazione, quando scrisse: «Le donne sono state la Resistenza». Da noi, l’abitare
a ridosso di azioni militari oscillanti metteva le popolazioni civili in particolari difficoltà, convivendo atti di guerra e insieme
volontà di vivere normalmente. Per questo, senza minimamente sottovalutare l’importanza, delle donne “combattenti”,
preferisco parlare delle donne “senza armi”, non solo perché con loro ho condiviso le mie esperienze, ma anche perché
dimostrano che la lotta di liberazione non è azione riconducibile a un numero importante, ma limitato di donne e uomini che
avevano combattuto con le armi, ma si trattava di un movimento ampio perché aveva coinvolto armati e non armati, gente
di ogni condizione sociale. Davvero, «la Resistenza non fu iniziativa di pochi», ma un movimento popolare. Noi donne
avevamo vissuto in anni in cui i fascismo aveva attuato una politica di progressivo tentativo di ricondurci nel “privato”. Ma ci
rendemmo conto che le motivazioni interiori vanno al di là dei giudizi politici. Le donne si ribellarono a ciò che accadeva
sotto i loro occhi, ritenendo “non giusto”, prima ancora che politicamente valutabile, ogni sopruso. Nessuno ha mai potuto
valutare il numero di donne, giovani e anziane, mogli, madri e suore che in quei lunghi mesi collaborarono normalmente
silenziose e pazienti perché finissero le prepotenze, le minacce.
Alcune morirono, tutte soffrirono.
In un volantino che, clandestinamente a opera del Cnl, fu diffuso tra le “donne di Lucchesia” chiamate a impedire i
rastrellamenti che conoscemmo ripetutamente, si diceva: «Raggruppatevi, incitate le assenti a scendere per le strade,
strappate dalle mani dei tedeschi i vostri figli, i vostri mariti, i vostri concittadini». Un rapporto donna-uomo rovesciato:
potremmo dire “oltre la parità”. Una visione di famiglia allargata, si è parlato di virtù “femminili” abnegazione, spirito di
sacrificio. Virtù femminili, sì, ma anche grande senso civico. L’esempio eclatante per me è stato quello delle donne di
Carrara. La strategia militare tedesca prevedeva la distruzione della città. Le donne erano parte importante in tutti gli
ambienti: la realtà popolare, le “signore”, le suore. Furono capaci di fare cadere nel nulla l’ordine tedesco del 7 luglio che
già indicava la destinazione degli abitanti da sfollare: Sala Baganze, Parma. L’11 giugno molte donne si riunirono al
mercato dove, anche in giorni normali, motivi di reazione alla scarsità di cibo erano numerosi ed evidenti. Volarono le ceste,
e da piazza delle Erbe le donne si mossero verso la sede del Comando tedesco con un obiettivo preciso: protestare contro
l’ordine di lasciare la città. Avanzando, il gruppo diventava sempre più compatto, si aggiungevano anche i ragazzi. Si
fermarono compatte sotto il sole, davanti al comando tedesco, i repubblichini tenevano i mitra spianati, e i tedeschi avevano
piazzato una mitragliatrice dominando tutta la via. Quattro donne furono arrestate, provocando ulteriore esasperazione. I
commissari di Ps chiesero l’intervento del prefetto che arrivò nella sede del comando tedesco e dopo circa un’ora, annunciò
che, «per il momento l’ordine era sospeso». Le donne tornarono alle loro case, alle loro faccende quotidiane, le
mitragliatrici furono tolte. La città dopo fu gravemente e ripetutamente ferita ma non abbandonata: la strategia militare fu
piegata dalla forza inerme delle donne.
Durante i mesi duri dell’inverno le donne procurarono il cibo. Piero Calamandrei, scrivendo delle «donne apuane» ricordò
come esse ricavavano il sale dall’acqua del mare bollendola sulla spiaggia, e come il sale, portato attraversando la Cisa in
Emilia e nella Valle Padana, serviva da merce di scambio per avere alimenti. Per i loro viaggi ininterrotti, per l’arrampicarsi
sulle montagne trainando pesi in andata e in ritorno, per i loro vestiti scuri, le chiamò le “formichine”. (...) Nelle elezioni
amministrative del 1946 le donne votarono, e furono elette per la prima volta nella storia d’Italia, poi parteciparono
all’elezione dell’Assemblea costituente e al referendum. C’era in giro un po’ di scetticismo e preoccupazione: avrebbero, e
come, votato le donne? Si introdussero nel dibattito problemi di emancipazione e “diritti” negati in passato. Ma soprattutto si
voleva “impedire” che gli orrori della guerra si ripetessero. Un bel manifesto della Dc nel ’46, si rivolgeva così alle donne:
«Non avremmo avuto la guerra, se tu madre avessi potuto votare». La partecipazione al voto delle donne fu altissima.
Furono premiati i partiti politici che avevano sostenuto il loro diritto. Ventuno donne furono elette alla Costituente, e da lì
cominciò la lunga strada non solo, come si usava dire, per i “diritti delle donne” che la legislazione precedente aveva
negato, ma per affermare libertà, democrazia, giustizia. Con diversità di opinioni e metodi, ma uguali diritti, così anch’io mi
sono trovata in politica, e non ne sono più uscita. Ci accorgemmo subito noi donne, negli ambienti istituzionali, nel lavoro,
nella società, nella famiglia, che il “matriarcato di guerra” era finito, e il tentativo di rendere la nostra presenza in politica un
“diritto condizionato” era una diffusa tentazione maschile con cui dovevano fare i conti. I molti (troppi!) anni vissuti, con ruoli
diversi e sempre con molta partecipazione in parlamento, mi hanno insegnato che la fedeltà alle proprie idee ha come
corrispettivo il rispetto eticamente “obbligato” per le opinioni di tutti, “amando” il nostro tempo, pur con tutte le sue
contraddizioni. Ho presenti i periodi duri del terrorismo quando davvero pensavo che non ne saremmo usciti. Eppure
abbiamo continuato: perché la politica ha un grande fascino, sempre, anche quando fa soffrire. Oggi non ho responsabilità
politiche. Ma sono a disposizione di chi lo voglia. Soprattutto dei giovani, che vedo spesso, ai quali tento di trasmettere un
messaggio proprio a partire da quando, giovani, eravamo nella Resistenza, che nella politica, come nella vita, ci vogliono
idee, pazienza, tenacia, coraggio. Ma poi i tempi migliori verranno. È una speranza non psicologica, ma concreta, perché
già sperimentata.
(Estratto dal discorso tenuto nella celebrazione dell’8 marzo 2004 alla Camera dei Deputati)
di MARIA ELETTA MARTINI (tratto da www.europaquotidiano.it)