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CONVERSAZIONE GALANTE
Di Franco BrusaDue anziani fratelli vivono in una villa di campagna; lei è vedova e ha due figli lontani, lui è scapolo, ha fa=o fortuna, amato, viaggiato, composto canzoni; la vita scorre tranquilla, fino all’arrivo di due giovani aman- che sconvolgono con la loro presenza vitale, l’a=empata coppia. Ricordi, rimpian-, dolori sopi-; via via i due ragazzi “recitano” per il oro ospi- interpretando di volta in volta persone scomparse, amici perdu-, amori dimen-ca-, tradi-, idealizza-. Anna rivede in Michele il figlio Andrea. Rommy si trasforma d‘un tra=o ai suoi occhi nel marito morente di un male incurabile. Lo stesso Rommy sovrappone alla grazia di Marina il fascino di una Isabella, amata e perduta…
Non voglio essere visto come un addolorato cantore, non ho la minima intenzione di fare dell’elegia; il tempo è stato spesso considerato una mia ossessione ed è in realtà il tessuto che sta dietro alle mie opere. Corrodere, annullare, vanificare le cose, è lo strumento con cui esprimiamo la paura di non esserci. Avanzando inesorabile, il tempo pone in evidenza i problemi di cui mi occupo: l’inconsistenza della vita che non è mai vissuta in pieno, il dubbio stesso di esistere. QuesB sono i temi che più mi suggesBonano. Franco BrusaB
Maurizio Porro – Corriere della Sera, 18 novembre 1986 Al milanese Franco Brusa-, visto e interrogato durante un rapido passaggio nella “sua” ci=à, il piacere e l’onore di debu=are, proprio a Milano, il prossimo febbraio con la sua nuova commedia Conversazione galante, che viene a sos-tuire, per la compagnia Proclemer-­‐FerzeO dire=a da Missiroli, l’idea di recitare quest’anno “Amore tra le rovine”, una strana love story scri=a dal canadese James Cos-gan e dalla quale era stato ricavato un adorabile film di Cukor con Katharine Hepburn e Laurence Oliver.
Considerando i tempi di Brusa=, scri?ore e regista che “cova” i suoi progeD a lungo e li filtra a?raverso le inesorabili prove e controprove del tempo, questo ritorno al teatro, soltanto due anni dopo La donna sul le+o con Edmonda Aldini, è una mossa in an=cipo, quasi una sorpresa. Meglio chiederglielo. Questa conversazione galante è stata un’occasione, un’idea improvvisa dalla quale non si è più liberato o un lavoro su commissione?
B: Posso indicare almeno due mo-vazioni: il desiderio di scrivere una commedia che potesse avere la stessa leggerezza intensa cui mi sembrava d’essere arrivato quando scrissi – proprio per il Corriere – un ar-colo sul mio ul-mo viaggio in America. E l’essere ogge=o di pressioni da parte di a=ori come la Proclemer e FerzeO, di un regista come Missiroli e di un produ=ore come Ardenzi. E’ sempre molto s-molante il sen-rsi – o il credersi – ama-.
Quelle di Brusa= non sono mai commedie propriamente realis=che, aggirano l’ostacolo dire?o a?raverso ricordi, metafore, viaggi premio nel passato. Ma allora quale =po di Italia, secondo lei, esce dal suo teatro e da questo nuovo testo in par=colare?
B: Due commedie mie si riferiscono abbastanza apertamente alla realtà italiana. Pietà di novembre, scri=a addiri=ura dieci anni prima che esplodesse il fenomeno del terrorismo, era il ritra=o di un giovane mediocre che, nella disperata ricerca di un’iden-tà, approda al deli=o poli-co. Le rose del lago, scri=a in uno dei periodi di più squallidi della nostra vita pubblica, era il ritra=o gro=esco di una società che sembrava avviata all’autodistruzione senza volerlo, senza accorgersene e senza grandezza. Le altre commedie – e anche film come Pane e cioccolata o DimenBcare Venezia – sono italiani in quanto ne è italiano l’autore. Io non so quale -po di Italia esca dalle mie commedie. Un paese molto contraddi=orio, immagino, come chi le ha scri=e.
Che =po di linguaggio parla il teatro italiano di oggi?
B: il teatro italiano di oggi -­‐ almeno quello che riesce ad affiorare – è così esiguo che è molto difficile definirlo. E’ già tanto riuscire a captarne il respiro, figuriamoci poi quando si tra=a di definirne il linguaggio. Ad ogni modo, secondo me, il vero eterno problema del linguaggio, non è quello di essere più meno tradizionale, più o meno radicato in culture regionali, più o meno influenzato da espressioni o mode straniere. Ma di essere sopra=u=o un linguaggio teatrale, ada=o a cioè a uno spe=acolo fa=o per essere parlato da a=ori e seguito da un pubblico. Questo è ciò che conta, ed è purtroppo qualcosa che non può essere né insegnata, né imparata. Ci sono sta- e ci sono mol- scri=ori di primissimo ordine che non sono mai riusci- ad essere realmente scri=ori di teatro, loro disperato ed infelice amore. Non ne possedevano, per l’appunto il linguaggio, così naturale invece a Molière, a Cecov o a De Filippo. Lei scrive un teatro per a?ori ma?atori o per un pubblico ma?atore?
B: Vorrei essere interpretato fedelmente e possibilmente capito. Non so a chi ci si debba rivolgere in par-colare per o=enere questo. Suppongo a persone che sappiano svolgere con scrupolo il loro ruolo, sia esso quello di parlare o di ascoltare.
Per La donna sul le+o lei insisteva sul conce?o di “gioco”. Per Conversazione galante la ricerca della leggerezza è ancora una mo=vazione essenziale?
B: io credo che ogni autore, commediografo, romanziere, ma anche pi=ore o scultore – col passare degli anni cerchi di essere sempre più dire=o, semplice, e in defini-va, “leggero”. Ciò che conta è leggero – diceva Nietzsche – “la verità cammina su piedi delica-”. Sì questo è ciò in cui credo oggi.
E forse domani non lo crederà più
B: pazienza. Mi contraddirò.
Anche con il cinema era stato preveggente, a volte. Il buon soldato an=cipava una disillusione di cui oggi si parla molto, e tragicamente. Quale sarà il suo prossimo film?
B: Ho ormai accantonato dopo anni perdu- per incredibili pas-cci produOvi il film “americano” di cui si è tanto parlato e ho firmato un impegno per un film Lo zio indegno. E’ la storia allegra e feroce della relazione impossibile fra un uomo molto ben integrato e un essere ignobile e infan-le, cui però è stato affidato dal cielo il messaggio indecifrabile e misterioso della poesia. L’idea di ritornare dietro la macchina da presa mi rende molto felice. Guido Davico Bonino – La Stampa, 13 marzo 1987
(…)
E’ una commedia di ammirevole grazia e levità, in cui di con-nuo reale e fantas-co s’alternano, in cui la malinconia del presente è spesso risca=ata dalla luce rasserenante della memoria. Drammaturgo di scri=ura finissima, Brusa- anche in quest’ul-mo copione (il sesto per la cronaca) tesse l’elegia dell’esistenza troppo presto e invano trascorsa, della vita che si dissolve nel baluginare delle occasioni perdute.
(…)
Maestro di leggerezza, Brusa- è in questo spe=acolo benissimo assecondato dalla regia di Missiroli, che non forza mai i toni di una così elegante par-tura, ma la traduce semmai in una calcolata giostra di effeO e trovate, in-nte appena, qua e là nel rosso sangue di uno strazio più vivo, quasi l’assillo di un dolore più secco e pungente.