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SERGIO
FERRARIS
Science journalist
Ieri e domani
L'ecologia alla prova del clima.
Resilienze incrociate di fronte alle crisi
A mio padre Pino Ferraris, a cui devo buona parte di
queste riflessioni.
Immaginate il magazzino di un negozio d'alimentari della provincia vercellese degli
anni sessanta, immersa tra le risaie. Buio, freddo e polveroso. E ora immaginate un
bambino di cinque anni che sale su un sacco di farina e raggiunge a stento un
interruttore, di quelli rotondi in ceramica con il filo in tessuto attorcigliato che collega
una lampadina, giallastra, di bassa potenza appesa a un bocchettone d'ottone. Il
bambino accende la luce e si nasconde dietro alle scatole. E ancora. Ascoltate i passi
pesanti di un uomo robusto che arriva e spegne la luce, dicendo qualcosa in dialetto
stretto, tornando al lavoro. Io ero quel bambino e l'uomo mio nonno. Era un gioco per
me, ma è anche il mio primo ricordo dell'energia e ora, pensandoci, è stata anche la
prima "buona pratica" della mia vita. Si tratta di un gesto che molti liquiderebbero
con ragioni economiche, la bolletta per intenderci, ma non è così. Il gesto di mio
nonno che si ripeteva per decine di volte ogni volta che visitavo i miei nonni, aveva
radici più profonde. L'ho capito solo dopo, riflettendo sull'ecologia. Ed era il contesto
del gesto che lo inquadrava nella sua ricchezza. Era un atto che affondava le proprie
radici nella cultura contadina dell'epoca, la quale aveva ben presente il concetto di
limite legato alla natura, alle risorse e alla fatica umana. Era un gesto dettato
dall'esperienza della guerra, intesa come fenomeno devastante al di fuori del controllo
degli individui, ma anche un gesto di consapevolezza verso il futuro, del "mettere da
parte per migliorare" e quindi di ridurre con attenzione certosina gli sprechi. Ed è una
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storia di successo. I genitori di mio padre, con questa logica, riuscirono ad agganciare
"l'ascensore sociale" e a diventare piccolissima borghesia. Loro, una mondina e un
falegname, mandarono al Liceo Salesiano Valsalice di Torino. Quello delle elite
borghesi del dopoguerra frequentato dalla famiglia Agnelli, mio padre che diventò
uno dei tre laureati del paese. La loro parola chiave era: "Futuro" e dal loro
investimento intergenerazionale traggo frutti anche io e i miei figli, oggi, a sessanta
anni di distanza.
Pensare il futuro
E "Futuro" era una parola chiave all'epoca condivisa. Furono in molti, in quegli anni a
interrogarsi e a immaginare, o meglio a pensare nel presente, il futuro. A pochi passi
dal vercellese, a Ivrea, un industriale di nome Camillo Olivetti, lo progettava il futuro
con nuovi prodotti, ma specialmente disegnando una relazione inedita e innovativa tra
industria e tessuto sociale, mentre al di là dell'oceano una coraggiosa scienziata,
Rachel Carson, dava alle stampe "Primavera silenziosa", sfidando l'industria chimica
statunitense, per chiedere non il bando dei fitofarmaci, ma il loro utilizzo
responsabile. E ancora, qualche anno più tardi, nel 1972, arriva "Il rapporto sui limiti
dello sviluppo" voluto dal Club di Roma che svela l'impossibilità di una crescita
illimitata ed esponenziale, seguito nel 1979 dalla "Dichiarazione dei diritti delle
generazioni future" voluta dal Comandante Jacques-Yves Cousteau, uno che il nostro
Pianeta l'ha conosciuto bene. É una dichiarazione che rappresenta un salto etico sotto
il profilo antropologico senza pari. Immaginare i diritti dei "non ancora esistenti" di
coloro che non conosceremo, quando il nostro cervello è abituato a gestire il passato e
il presente è stato un salto qualitativo di enorme portata che ha prodotto l'ecologia
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così come l'abbiamo conosciuta. Il Protocollo di Montreal e quello di Kyoto,
rispettivamente per il bando delle sostanze lesive dello strato d'Ozono e per limitare il
Riscaldamento globale, sono stati due punti cardine, d'arrivo e di partenza, attraverso
i quali il "Futuro" ha iniziato a dettare l'agenda al presente. Ma si è trattato di un
percorso incompleto, specialmente per ciò che riguarda il clima, perché all'analisi
ecologica non è stata adeguatamente "saldata" un'altrettanto forte analisi sociale.
I "piccoli" cambiamenti climatici
Il risultato è sotto agli occhi di tutti. Nel 2013, a sedici anni dall'avvio del Protocollo
di Kyoto, con prove scientifiche schiaccianti circa l'origine antropica del
Riscaldamento globale, continuiamo a procedere nell'emissione di gas serra
nell'atmosfera, seguendo percorsi pericolosi. Non mi soffermo sui dati circa la
concentrazione di CO2, sullo scioglimento dei ghiacciai, sulla desertificazione della
fascia equatoriale, tutti esempi macroscopici, ma voglio invece parlarvi di un
"piccolo" fatto accaduto dieci anni fa vicino a noi: la canicola in Francia del 2003. E
non mi interessa, ora, se la canicola francese sia o no collegata al Riscaldamento
globale. É accaduto ed eravamo impreparati. Punto. Il fenomeno, infatti, lo descrive
con efficacia lo storico Pascal Acot nel suo libro "Catastrofi climatiche e disastri
sociali" nel quale la canicola del 2003 occupa la parte centrale del primo capitolo.
Qualche dato: nell'agosto di quell'anno i 35 °C vengono superati nel 70% del
territorio francese, le temperature massime medie sono superiori di 2 °C rispetto alle
estati più calde e le minime notturne a Parigi non sono mai scese sotto ai 23 °C.
Risultato: 14.802 morti ufficiali tra il 1 e il 20 agosto, registrazione governativa che
lascia perplessi perché l'ondata di caldo è stata più ampia, dal 15 luglio al 20 agosto,
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come ha affermato nel suo rapporto sulla canicola l'Istituto di sorveglianza sanitaria
francese. E su ciò, già ci sarebbe da discutere. Ma ora due domande. É stata una
fatalità? No. Si poteva prevenire? Si. I dati di Acot sotto questo profilo sono
schiaccianti. Andiamo a Parigi. Nella municipalità l'aumento del tasso di "decessi
eccedenti" la media è stato del 127% contro il 171% delle banlieue limitrofe. «Forse
nelle banlieue fa più caldo?» si chiede Acot. No si vive peggio, le condizioni abitative
sono più precarie ed essendoci più disoccupazione si va meno in vacanza. Ma anche
Parigi, vista la numerosità degli alloggi insalubri, sovraffollati e scomodi ha avuto il
doppio del tasso di mortalità rispetto al resto della Francia che è stato molto più
elevato rispetto a quello del vicino Belgio. La ragione? Secondo Acot la spiegazione
risiede nel fatto che il sistema delle case di riposo belga è migliore. Ecco i dati. Nei
cinque anni prima del 2003 il Belgio ha medicalizzato 25.000 posti letto nelle case di
riposo e il rapporto tra pazienti e personale è più alto che in Francia. Esercizio
contabile? No, ma facciamo comunque i conti, anzi facciamoli fare ad Acot. «Per
idratare 60 pazienti di una casa di riposo - ci dice lo storico - in un giorno servono 14
ore di lavoro supplementare, ossia l'impiego di due infermieri a tempo pieno». I
risultati della triste contabilità dei tagli alla sanità li lascio a voi. Ma non è solo
l'aspetto dell'assistenza per così dire "fisica", quella legata all'assistenza in tempo
reale che è importante. Sempre Acot, infatti, cita il caso di Marsiglia, dove la canicola
è stata intensa, ma sono stati seguiti protocolli, anche e specialmente d'informazione e
prevenzione, migliori, con il risultato che il tasso di morti eccedenti è stato del 17,5%.
Ho scelto quest'esempio per affrontare il tema del dibattito perché rappresenta il
nesso, nella relazione causa effetto circa il Riscaldamento globale tra i più atipici, ma
anche tra i più vicini a noi. La sanità, infatti, con tutto il suo bagaglio di problemi
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legato ai costi, e quindi ora anche alla crisi, viene associata all'ambiente solo quando
ci sono connessioni lineari e dirette, con eventi eccezionali, come nel caso dell'Ilva, di
Chernobyl, dell'Acna di Cengio, di Fukushima o di Porto Marghera, ma il
collegamento tra sanità, clima, condizioni di vita delle persone e crisi è sfuggente,
nonostante l'evidenza ed è, quindi, più difficile da trovare nelle agende sia dei media,
sia della politica.
Cambia il clima, cambiano le regole
Appare chiaro, quindi, come la questione climatica stia scombinando le carte anche e
sopratutto del pensiero ecologico, cosa che costringerà gli ecologisti ad affrontare,
per la prima volta, tematiche squisitamente sociali, legate per esempio al welfare, alla
sanità e al mondo del lavoro. E ciò è un bene. Il "collante climatico", ossia la
pervasività delle tematiche legate al clima, sia come cause, sia come effetti, impone
un salutare salto di qualità sul fronte delle politiche ecologiche, imponendo a tutti
coloro che a qualsiasi titolo si occupano d'ambiente di rinnovare radicalmente la
propria "cassetta degli attrezzi" per far fronte a quello che sarà un lungo periodo di
transizione caratterizzato dalla saldatura tra crisi sociale, economica ed ambientale.
Ossia una crisi strutturale che pochi economisti hanno il coraggio di definire
strutturale. Un dato su tutti a proposito di emissioni e risorse. La sola Cina consuma il
47% di tutto il carbone utilizzato nel mondo e ha in progetto di installare potenza per
24,9 GW - circa la metà della potenza di picco italiana - l'anno di carbone al 2030. E
parliamo solo della generazione elettrica.
Tempi lunghi, tempi veloci
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Quindi vediamo una crisi, ci andiamo incontro e cadono i fondamenti della crescita
così come la abbiamo conosciuta nella seconda metà del secolo scorso, con la loro
sorda indifferenza ai concetti stessi di limite, di tempo e d'entropia, eppure
sembriamo impotenti. Dobbiamo chiederci prima di tutto perché. Non ho risposte. Se
le avessi, o anche solo se fossi convinto di averle, probabilmente avrei già fondato
una di quelle patinate società di consulenza ambientale che vanno molto di moda, ma
posso tentare di stimolare una riflessione. Prima di tutto penso che si debba
considerare il fatto che, per dirla con Edgar Morin, che «coesistono tempi sociali
infinitamente lunghi e infinitamente rapidi» e con loro anche varia il raggio della
visione prospettica. Acot a questo proposito in una recente intervista a "La
Repubblica" aggiunge proprio a proposito dei tempi dell'agire: «il tempo della
politica e quello dell'ecologia non combaciano. La politica ha uno sguardo sempre più
corto, [...] gli effetti benefici di decisioni giuste si vedrebbero solo dopo molto tempo,
a causa delle inerzie ecologiche planetarie». La soluzione potrebbe essere quella di
chiedere, o magari imporre, alla politica delle azioni "impopolari" sul breve periodo,
ma virtuose sul lungo. Ma se il tempo della politica e quello dell'ecologia non
combaciano, è ovvio che stiamo chiedendo alla prima di "suicidarsi" per le
generazioni future, che oltretutto, lasciatemelo dire, non voteranno nella prossima
legislatura. Quindi è necessario, a mio modesto parere, agire su più fronti. La prima
questione è che si dovrebbe tornare a "studiare la fisica" ponendosi domande
sull'ecologia e sul futuro analoghe a quelle che si fecero i fisici atomici tra le due
guerre mondiali, sul ruolo della scienza, della tecnologia e del loro utilizzo da parte
della politica di fronte all'umanità. Potrebbe sembrare un discorso troppo alto,
teorico, ma al contrario è un approccio di base. Oggi viviamo in un periodo che gode
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di un'intensità energetica mai conosciuta in precedenza - usando il metro energetico
degli antichi romani possiamo dire che ogni giorno lavorano per noi 16 miliardi di
schiavi 24 ore su 24 - che consente, o meglio consentirebbe, di superare le crisi
mettendo a punto le pratiche necessarie alla transizione energetica e al posttransizione. Oggi le buone pratiche che puntano verso la sostenibilità, messe a punto
in varie parti del mondo rappresentano un primo embrione di quella che dovrebbe
essere una open-governance ecologica per un futuro migliore. Ma sia chiaro, non
sono possibili scorciatoie. Ogni "strumento" deve essere adattato al contesto nel quale
lo si applica e non esistono ricette valide per tutti i luoghi e per tutte le stagioni. Non
esistono scorciatoie, tanto care alla politica che tenta in tutti i modi di trovare
soluzioni semplicistiche, poco flessibili e di breve cabotaggio a problemi complessi.
Troveremo sul nostro cammino, spesso, soluzioni semplici a problemi complessi, ma
attenzione, perché arrivare alla semplicità per risolvere problemi complessi e
interconnessi, ormai presuppone un lavoro altrettanto complesso e anche in ecologia
vale il principio che più si conosce, più ci si sente ignoranti. Nel frattempo possiamo
iniziare a spegnere la luce, quando non ci serve. Questo già lo sappiamo fare.
Grazie dell'attenzione
Sergio Ferraris
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