Lezione C1 Obbligazioni in generale 1

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Lezione C1 Obbligazioni in generale 1
Lezione C1
Obbligazioni in generale 1
Principi generali: fonti, buona fede, contatto sociale
Sommario: 1. La prima tappa dell’evoluzione della buona fede: da strumento di valutazione di comportamenti a strumento di integrazione del contratto. 1.1. Gli obblighi di protezione 1.1.1. Gli obblighi di protezione di interessi di soggetti terzi rispetto al contratto.
1.2. La complessità del rapporto obbligatorio e la sua natura bilaterale. 1.2.1. La consegna
di un assegno circolare in sostituzione del pagamento in denaro nelle obbligazioni pecuniarie (Cass., Sez. un., 18.12.2007, n. 26617). 2. La seconda fase della buona fede come limite funzionale all’esercizio del diritto. 2.1. L’exceptio doli generalis. 2.1.1. Casistica applicativa. 2.1.1.1. Il frazionamento giudiziale del credito unitario e l’abuso del diritto processuale
(Cass., Sez. un., 15.11.2007, n. 23726). 2.1.1.2. Altri casi. 3. L’ultima frontiera della buona fede: regola per valutare la validità dei contratti. 3.1. La buona fede oltre l’autonomia negoziale. 3.2. La violazione degli obblighi di informazione da parte dell’intermediario finanziario. 3.2.1. La tesi minoritaria. 3.2.2. La Cassazione confuta la tesi della buona fede come
regola di validità dei contratti. 3.2.2.1. La praticabilità del rimedio della risoluzione e la
preferibilità della strada risarcitoria. 3.2.2.2. Una responsabilità precontrattuale di nuovo conio. 3.2.2.3. Le Sezioni unite chiariscono ogni dubbio (Cass., Sez. un., 19.12.2007, n.
26724). 4. L’atipicità delle fonti apre la strada alla teoria del contatto sociale. 4.1. Il varo della
categoria in materia di responsabilità del medico dipendente di casa di cura per danni subiti dal paziente di quest’ultima. 4.2. Altre ipotesi di responsabilità da contatto sociale. 4.3.
Conclusioni: La responsabilità da contatto sociale e la mappa delle fonti nella lettura data
dalle Sezioni unite, sentenza 26.6.2007, n. 14712.
In questa prima lezione dedicata alle obbligazioni in generale si approfondiranno gli aspetti riguardanti la complessità del rapporto obbligatorio ed il sistema
delle fonti. In primo luogo si darà conto dell’importanza crescente della clausola
generale di buona fede, sottolineando il suo ruolo di strumento di integrazione degli obblighi contrattuali e di individuazione di condotte protettive, nonché approfondendo l’interessante dibattito sviluppatosi attorno alla possibilità che la buona fede funga da regola di validità del contratto. Successivamente l’analisi della
teoria del contatto sociale darà modo di evidenziare il superamento dell’antica
idea della rigorosa tipicità delle fonti previste dall’art. 1173, c.c., ed il labile confine che ormai separa la responsabilità contrattuale da quella aquiliana.
Obbligazioni in generale 1
1. La prima tappa dell’evoluzione della buona fede: da strumento di valutazione di comportamenti a strumento di integrazione del contratto
Il ruolo della clausola generale della buona fede ha rivestito nel dibattito
giurisprudenziale un’importanza sempre crescente, conoscendo essenzialmente una triplice evoluzione.
Nella prima fase, ormai consolidata, si è assistito alla trasformazione della
buona fede da mero criterio per la valutazione delle condotte a strumento di
integrazione degli obblighi discendenti dal contratto in capo alle parti tramite la determinazione e l’individuazione di condotte ulteriori.
Fino alla metà degli anni Settanta si pensava che le fonti di integrazione
del contratto fossero quelle enucleate dall’art. 1374, c.c., intitolato “integrazione del contratto” (ossia precisamente la legge, gli usi e l’equità) e che l’art. 1375,
c.c., concernente l’esecuzione del contratto secondo buona fede, ritenuto formalmente e sostanzialmente slegato dall’art. 1374, fosse una norma tesa a valutare la correttezza del comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto e non a stabilire quali sono gli obblighi diversi da quelli enunciati dal
contratto che devono essere osservati dalle parti.
Viceversa la simbiosi dell’art. 1374 con l’art. 1375 è diventata molto nitida
nell’evoluzione giurisprudenziale la quale ha portato a ritenere che l’art. 1375
è una delle principali fonti di integrazione del contratto, in quanto la clausola
di buona fede, letta alla luce del principio costituzionale di solidarietà ex art.
2 Cost., fa sì che le parti del contratto siano tenute non solo ad eseguire ciò che
è previsto nel contratto ed a tenere i comportamenti imposti, in via integrativa
(ex art. 1374), dalla legge, dagli usi e dall’equità, ma anche a porre in essere, ai
sensi dell’art. 1375, quelle condotte che, in base a correttezza, siano necessarie
per preservare in modo solidale l’utilità e l’interesse della controparte.
Dunque la parte nell’eseguire il contratto non si può porre in una dimensione egoisticamente protesa alla tutela del proprio interesse, ma deve adoperarsi solidaristicamente, entro i limiti di un sacrificio non apprezzabile (e per
questo esigibile in quanto non eccessivo), onde tutelare l’interesse della controparte. Il primo stadio evolutivo ci fa quindi percepire chiaramente come la
parte, nell’eseguire il contratto, oltre ad eseguire le prestazioni contrattuali e
quelle che si evincono dall’art. 1374, debba anche modificare le proprie prestazioni, porre in essere prestazioni non previste (v. la recente Cass., Sez. III,
15.2.2007, n. 3462, che ha ritenuto violato l’obbligo di buona fede oggettiva o
correttezza dal comportamento del vettore professionale il quale, nell’impossibilità di affrontare il viaggio di ritorno per le avverse condizioni metereologiche, aveva mancato di accordarsi con altro vettore “pur di non pagare qualche
soldo in più rispetto al costo del biglietto pagato dai passeggeri”, non consentendo conseguentemente ai medesimi di rientrare in serata sul continente e di
evitare il pernottamento di fortuna nel luogo di destinazione, privo di alberghi), tollerare le modificazioni delle prestazioni altrui che non incidano significativamente sul proprio interesse, adempiere a doveri di avviso e di informazione, anche se non assunti espressamente nel contratto, ed esercitare
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correttamente poteri discrezionali (vedi il potere disciplinare del datore di lavoro privato).
Una specifica tipologia di contenzioso in tema di obblighi di informazione concerne le cosiddette clausole di regolazione del premio, fattispecie nelle
quali a fronte di un contratto di assicurazione il premio viene stabilito anticipatamente a titolo provvisorio ed aggiornato sulla base di determinate informazioni che il cliente deve fornire all’assicuratore ai fini di una reale conoscenza del rischio su cui calibrare il premio. Le Sezioni unite (Cass., Sez. un.,
28.2.2007, n. 4631, in dispensa civile 13) hanno stabilito che nel caso in cui
l’assicurato non comunichi i dati necessari a regolare il premio non si verificherà il mancato pagamento del premio ai sensi dell’art. 1901, c.c. (e la conseguente sospensione della copertura assicurativa), ma la vicenda andrà vagliata secondo le regole che presiedono alla valutazione dell’adempimento delle
obbligazioni civili, e nella specie considerando il parametro della buona fede nell’esecuzione del contratto, individuando quali siano gli effettivi doveri
giuridicamente rilevanti e tenendo conto anche del tempo in cui il comportamento doveva essere tenuto.
Si capisce, in sostanza, non solo come la buona fede diventi uno strumento
teso a fissare le condotte dovute e non solo a valutarle, ma anche che detto canone, in quanto collegato ad una clausola generale caratterizzata da una naturale atipicità, rappresenti una fonte dal potenziale dirompente. Infatti, mentre
le fonti di integrazione di cui all’art. 1374 sono tipiche (almeno la legge e gli usi)
e generano comportamenti precisi, viceversa la buona fede, dotata di una potenzialità micidiale in quanto contenutisticamente elastica, impone tutti quei
comportamenti, non predeterminabili, che in concreto siano necessari per salvaguardare l’altrui sfera nei limiti di un proprio non apprezzabile sacrificio.
1.1. Gli obblighi di protezione
All’interno di questa prima fase un’ulteriore passaggio consegna alla buona fede il ruolo di strumento non solo volto ad imporre, in via integrativa, le
prestazioni necessarie per salvaguardare l’interesse contrattuale della controparte (ad esempio modificare la prestazione per consentire il soddisfacimento
dell’interesse che la controparte persegue come da contratto), ma anche capace di prescrivere condotte doverose ai fini della tutela di interessi dell’interlocutore estranei al contratto. Questa sfaccettatura della buona fede integrativa, che amplia la sua sfera di applicazione, fa sì che il debitore, quando esegue
il contratto, debba non solo tutelare al meglio l’interesse contrattuale della
controparte, ma anche impegnarsi a proteggere efficacemente interessi diversi ed ulteriori quali, in particolar modo, la sfera personale e la salute della controparte. Il contratto non può essere infatti occasione di danno per gli interessi extracontrattuali del proprio partner.
Allora la buona fede diventa lo strumento per partorire i cd. obblighi di
protezione, per tali intendendosi quegli obblighi comportamentali che sono
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finalizzati alla protezione della sfera personale, ovvero di un interesse che è
estraneo al nucleo essenziale degli interessi specificamente perseguiti con la
stipulazione contrattuale.
1.1.1. Gli obblighi di protezione di interessi di soggetti terzi rispetto al contratto
In seno a questa specificazione della buona fede emerge l’ulteriore vis
expansiva capace di attribuire agli obblighi di protezione la cura persino di
interessi di soggetti terzi rispetto al contratto; quindi la buona fede fa sì che
dal contratto discendano obblighi di protezione non solo di interessi diversi
da quello contrattualmente perseguito dalla controparte, ma anche di interessi di soggetti diversi dalla controparte con la limitazione che siano soggetti in
una c.d. relazione di prossimità (proximity) rispetto alla controparte stessa. La
vicinanza è allora tale da far sì che la prestazione contrattuale sia suscettibile
di porre a rischio la sfera di soggetti che gravitano nella sfera della controparte
ed usufruiscono della stessa prestazione. Il caso classico è quello del contratto
che viene stipulato con il medico dalla donna in stato di gravidanza (contratto ginecologico, su cui vedi Cass., 22.11.1993, n. 11503): questo contratto è con
effetti protettivi per il terzo, in quanto gli obblighi terapeutici sono finalizzati non solo alla protezione della sfera della controparte, cioè della donna in attesa, ma anche nei confronti del nascituro che verrà alla luce per effetto della
corretta esecuzione delle prestazioni contrattuali.
Tale ricostruzione, che annette alla buona fede integrativa il ruolo di fonte
di obblighi protettivi verso terzi (come tali legittimati a fare valere una responsabilità contrattuale per violazione di tali obblighi), non è condivisa da quanti reputano che il concetto di buona fede integrativa postuli per definizione
una lacuna (da colmare) che non può essere per principio ravvisabile con riferimento alla necessità di tenere condotte volte a tutelare la sfera di terzi estranei al contratto. Ne discende che la protezione dei terzi può trovare fondamento non nella clausola della buona fede, ossia in una scelta dell’ordinamento, ma
nella sola volontà pattizia, qualora, in sede di interpretazione del contratto, si
ravvisi la volontà, pur se non espressamente enunciata, di offrire ai terzi qualificati una protezione diversa e più intensa rispetto a quella ricavabile dalla
clausola generale del neminem laedere.
1.2. La complessità del rapporto obbligatorio e la sua natura bilaterale
Sempre sviluppando la valenza integrativa della buona fede tesa ad individuare non solo criteri di condotta, ma comportamenti oggettivi assurgendo a
valvola di integrazione maggiormente penetrante della stipulazione contrattuale, è d’uopo evidenziarne la sua natura bilaterale: la buona fede concerne
non solo i comportamenti tenuti dal debitore, ma anche quelli ascrivibili al
creditore. D’altronde, dalla lettura dell’art. 1175, c.c., il quale predica la cor
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rettezza di entrambe le parti nell’esecuzione del rapporto obbligatorio, già si
evince la caratteristica esaminata; la buona fede integra dunque il contratto
non solo nel senso di imporre al debitore prestazioni e doveri di protezione ulteriori e anche nell’interesse di terzi, ma anche nel senso di coinvolgere il creditore alla luce del fascio di obbligazioni connaturato alla complessità del rapporto obbligatorio.
Il rapporto obbligatorio non è mai semplice in quanto non si riduce al solo
fascio degli obblighi in capo al debitore ma, rivelando una complessità strutturale costante, impone sempre obblighi, mai preventivamente determinabili
in via astratta, in capo ad ambo i paciscenti.
Persino nel contratto con obblighi a carico di una sola parte ex art. 1333,
c.c., il creditore va allora considerato soggetto obbligato a tenere comportamenti collaborativi e solidaristici quand’anche dal contratto (che è solo apparentemente unilaterale) non si ricavi alcun obbligo specifico: le obbligazioni
non sono mai solo a carico del debitore, per cui anche il creditore che non ha
un obbligo prestazionale sancito nel contratto ha sempre il dovere di tenere i
comportamenti necessari per agevolare e tutelare nel modo più efficace possibile la sfera del debitore.
Questi doveri si specificano nel rendere più agevole l’adempimento fornendo le informazioni necessarie e la dovuta collaborazione, nonché tollerando le
modifiche che non incidano eccessivamente sulla sfera del creditore.
Si ha quindi un fascio di comportamenti tesi, per un verso, alla facilitazione dell’adempimento (specie ove il debitore abbia un interesse specifico all’adempimento non tutelabile con la sola mora del creditore) e, da altra prospettiva, ad evitare l’inadempimento. Detto ultimo profilo si ricava in modo
nitido dall’art. 1218, c.c., che esclude il nesso di causalità fattuale (o naturalistica o materiale), e quindi ogni danno risarcibile, ove l’inadempimento sia
dovuto ad una causa non imputabile al debitore che ben può identificarsi nel
comportamento ostruzionistico o non collaborativo del creditore. Sulla stessa lunghezza d’onda l’art. 1227, co. 1, c.c., sempre nell’affrontare il tema della causalità naturalistica o di fatto, chiarisce che il danno risarcibile è ridotto
proporzionalmente ove l’inadempimento abbia trovato una concausa efficiente, pur se non interruttiva ai sensi dell’art. 41, co. 2, c.p., nel comportamento
colposo del creditore.
L’obbligo del creditore di evitare o attenuare le conseguenze dannose dell’inadempimento è poi sancito, con riguardo al secondo stadio della causalità
(la causalità giuridica) dal secondo comma dello stesso art. 1227, letto nel senso di imporre, in base a buona fede, comportamenti anche positivi (ad esempio sostituire il veicolo incidentato per non interrompere l’attività lavorativa),
sempre nei limiti di un sacrificio che non diventi apprezzabile, onde limitare le
propagazioni dannose della condotta inadempitiva.
Concludendo, questa tappa dell’evoluzione della buona fede ci rende edotti del fatto che un rapporto obbligatorio non è mai semplice in quanto, in base alla buona fede integrativa, ha un’anima necessariamente bilaterale, con il
precipitato che, anche se gli obblighi prestazionali incombono solo su di una
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parte (come nel caso citato dell’art. 1333, c.c.), gli obblighi di correttezza comportamentale si riferiscono sempre ad entrambe le parti; il principio solidaristico costituzionale, letto anche alla luce del richiamo alla solidarietà contenuto nella Carta Europea dei diritti fondamentali, richiede infatti che anche
il creditore, nei limiti di un sacrificio che non sia eccessivo, non può attendere
passivamente la prestazione ma deve tenere comportamenti anche attivi tesi a
facilitarla evitando l’inadempimento nonché, ove pure inadempimento colpevole ci sia stato, ad evitare o a limitare, in base al secondo comma dell’art. 1227,
c.c., il perimetro del danno risarcibile.
1.2.1. La consegna di un assegno circolare in sostituzione del pagamento in denaro nelle obbligazioni pecuniarie (Cass., Sez. un., 18.12.2007, n. 26617)
Un’applicazione recente della natura bilaterale del rapporto obbligatorio
concerne la nota questione se un creditore di un’obbligazione pecuniaria possa rifiutarsi di ricevere in sostituzione del denaro, oggetto dell’obbligazione
pecuniaria ex art. 1277, c.c., un assegno circolare, ovverosia un titolo di credito (di sicuro realizzo, posto che la normativa bancaria prevede in questi casi la
certezza della copertura sulla scorta del deposito cauzionale presso la Banca
d’Italia ed il conseguente obbligo incondizionato della banca di pagare al soggetto a favore del quale è emesso l’assegno circolare e quindi legittimato alla
ricezione).
Fino ad un recente passato (Cass., Sez. III, 14.2.2007, n. 3254) si sarebbe
esclusa la fungibilità dell’assegno circolare rispetto al denaro in base ad una
triplice argomentazione: in primis in base alla considerazione che si configura una datio in solutum, la quale, ex art. 1197, richiede per la sua validità un’apposita pattuizione (essendo un contratto reale necessita di un accordo modificativo che non può essere imposto senza il consenso del creditore); in secondo
luogo perché in questo modo muterebbe il luogo dell’adempimento, oltre all’oggetto della prestazione, in quanto in assenza di una diversa pattuizione
l’obbligazione pecuniaria va adempiuta al domicilio del creditore (art. 1182,
co. 3) che nel caso di specie, invece, sarebbe sottoposto alla duplice alea dell’incertezza del realizzo e del sacrificio impostogli per recarsi in banca; infine
il sacrificio richiesto è legato ad un comportamento che non può essere imposto in base al principio di buona fede inteso nel senso tradizionale, e quindi limitativo, del termine.
Diversamente la giurisprudenza più sensibile (Cass., Sez. III, 19.12.2006, n.
27158) ha affermato che il principio di buona fede consente di reputare equipollente la consegna dell’assegno circolare a quella della somma di denaro,
considerando che, aldilà del dato formalistico, sulla base dei presupposti normativi sopra evidenziati, ciò che rileva è l’assoluta sicurezza del realizzo del
credito che l’assegno circolare garantisce; a ciò va aggiunto che ovviamente
la consegna dell’assegno in sostituzione del denaro si intende sempre pro solvendo e quindi l’estinzione dell’obbligazione avviene con il realizzo, ovvero
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con l’incasso in senso favorevole, e non con la consegna dell’assegno circolare. Quindi la sicurezza del mezzo di pagamento è rafforzata dalla circostanza
che l’obbligazione pecuniaria si estingue non all’atto della ricezione, ma all’atto del saldo e quindi del soddisfo reale del credito.
A questo punto, a meno che non emergano ragioni specifiche che inducano
a dubitare dell’autenticità dell’assegno circolare e considerato che il sacrificio
rappresentato dal recarsi in banca è obiettivamente modesto ed esula da quei
comportamenti attivi eccessivamente sacrificativi che non possono essere imposti in base a buona fede al creditore, la giurisprudenza più sensibile tende
a considerare contrario a buona fede il comportamento del creditore che rifiuti l’assegno circolare e che più in generale non tiene quei comportamenti
collaborativi che servono a facilitare la liberazione del debitore senza mettere significativamente a rischio la propria sfera di interesse.
La questione è stata oggetto di una recentissima pronuncia delle Sezioni
unite (Cass., Sez. un., 18.12.2007, n. 26617, in dispensa civile 1) volta a dipanare
il contrasto tra le sezioni semplici.
Ad avviso delle Sezioni unite, l’ammissibilità dell’estinzione dei debiti pecuniari con mezzi alternativi al danaro può sostenersi solo invocando un’interpretazione evolutiva dell’art. 1277, c.c., che superi il dato letterale e, cogliendone l’autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.
Deve pertanto convenirsi con le Sezioni unite, che l’espressione “moneta
avente corso legale nello Stato al momento del pagamento” significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al sistema valutario nazionale, senza
che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio, con la conseguenza che la moneta avente corso legale non è l’oggetto
del pagamento che è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro.
Con questa interpretazione dell’art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di pagamento, purché garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti e, cioè, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta.
Ad avviso della Corte “tale effetto sicuramente produce l’assegno circolare
con il quale, stante la precostituzione della provvista, tramite l’intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro con la messa a disposizione del creditore.
Il rischio di convertibilità e, cioè, l’eventualità che per qualsiasi ragione la
banca non sia in grado di assicurare la conversione dell’assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell’operazione”.
A tale conclusione non osta l’art. 1182, c.c., in materia di luogo dell’adempimento: ciò in quanto “l’obbligazione pecuniaria non è assimilabile all’obbligazione di dare cose fungibili, sicché non risulta perfettamente adattabile lo
schema di tale tipo di obbligazione, mentre assume rilevanza l’interesse del
creditore alla giuridica disponibilità della somma invece che al possesso dei
pezzi monetari. In questa prospettiva il concetto di domicilio del creditore non
coincide con il suo domicilio anagrafico soggettivamente riconducibile alla
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persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto”.
Può condividersi, infine, anche l’abbandono della regola di cui all’art. 1197,
c.c., posto che “lo schema della datio pro solvendo con l’applicazione della regola stabilita dall’art. 1197, c.c., rimane estraneo all’impiego del mezzo alternativo di adempimento in quanto la moneta avente corso legale non è l’oggetto del pagamento, costituito dal valore monetario o quantità di denaro, per cui
tale mezzo non è niente altro che una diversa modalità di adempimento”.
In conclusione le Sezioni unite relegano la buona fede e la correttezza entro un ambito spaziale più confacente alla loro natura di parametri valutativi
di comportamenti intersoggettivi.
Ad avviso della Corte infatti, tali parametri entrano in gioco solo qualora
si tratti di valutare un eventuale rifiuto da parte del creditore del mezzo di pagamento alternativo.
Infatti, mentre il pagamento offerto con lo strumento tipico (il danaro) non
è per definizione rifiutabile, il pagamento alternativo lo è “solo per giustificato
motivo che il creditore deve allegare ed all’occorrenza anche provare… in tal
caso la valutazione del comportamento del creditore va fatta in base alla regola della correttezza e della buona fede oggettiva”.
La buona fede e la correttezza, dunque, correttamente sono ricondotte nei
binari che son loro più consoni, configurandosi quali parametri di valutazione di un comportamento (in questo caso del creditore che rifiuti il pagamento),
dando eventualmente la stura a quel giudizio di illegittimità del rifiuto del pagamento offerto, che caratterizza l’istituto della mora credendi.
2. La seconda fase della buona fede come limite funzionale all’esercizio del
diritto
Le applicazioni della buona fede finora evidenziate sono in qualche misura contrassegnate da un minimo comune denominatore, ovvero il manifestarsi della buona fede quale strumento per imporre ad entrambe la parti comportamenti che, anche se non contrattualmente previsti, sono solidaristicamente
doverosi per la tutela dell’interesse della controparte o persino di terzi. La dimensione che, invece, ci si appresta ad esporre disegna la buona fede come
clausola protesa a limitare funzionalmente le pretese creditorie e, in generale, l’esercizio dei diritti (in applicazione estensiva del divieto degli atti emulativi scolpito, in tema di proprietà, dall’art. 833, c.c.). In questo senso la buona fede chiarisce, con ricadute giurisprudenziali particolarmente interessanti, che
un diritto non è mai illimitato, con la conseguenza che la titolarità dello stesso, e nella specie di un diritto di credito, non conferisce in nessun caso un potere incondizionato di porre in essere comportamenti formalmente consentiti; all’opposto, in base al principio di solidarietà e di buona fede oggettiva, un
diritto conferisce un potere che conosce sempre un limite funzionale dato
dalla ragione per cui l’ordinamento riconosce quel diritto: i comportamenti
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oggetto della posizione giuridica riconosciuta in base al tenore letterale della
norma sono solo quindi consentiti in quanto obbedienti alla ratio che giustifica la generazione e la tutela della posizione stessa, al contempo delimitandone i confini.
Se il titolare tiene allora comportamenti formalmente consentiti dalla legge, ma per il perseguimento di finalità eccentriche rispetto a quelle in funzione delle quali l’ordinamento ha riconosciuto quello stesso diritto, e in particolare ove l’uso delle facoltà che la norma conferisce sia piegato a fini fraudolenti,
abietti o capricciosi, l’esercizio del diritto è abusivo e pertanto non meritevole
di protezione da parte dell’ordinamento: si crea in altri termini uno iato tra il
dato formale per cui il comportamento è consentito dalla legge, ed il dato funzionale per cui le finalità perseguite dal soggetto entrano in conflitto con il fine principe che, solo, giustifica la creazione del diritto e, con essa, la meritevolezza della sua tutela da parte del tessuto ordinamentale.
Le esposte coordinate, che mettono a nudo la soggiacenza del dato giuridico formale a superiori e sostanziali esigenze etiche, trova conferma anche nel
generale divieto di abuso del diritto elaborato dal diritto comunitario, di recente confermato, in materia fiscale, dalla sentenza della Corte di Giustizia,
Halifax, 21 febbraio 2006, in causa 255/02 (ove si è ben puntualizzato che va
considerata fiscalmente abusiva un’operazione che non abbia alcuna giustificazione economica diversa dal conseguimento, in via elusiva, di un vantaggio fiscale).
2.1. L’exceptio doli generalis
Un’applicazione interessante del divieto dell’abuso del diritto è l’exceptio
doli generalis, che nel diritto romano fu coniata per risolvere lo iato manifestatosi tra lo ius civile e l’aequitas, ovvero tra il diritto formale e quello pretorio, con la conseguenza che con l’exceptio doli generalis si consentiva di paralizzare, respingendone le domande, le azioni di chi teneva un comportamento
autorizzato in base allo ius civile, che ne perimetrava l’ambito, ma con finalità sostanzialmente fraudolente; in questo caso l’aequitas, prevalendo sullo ius
civile, consentiva di paralizzare l’actio fondata sulla legge formale attraverso
l’exceptio pretoria.
L’exceptio doli è quindi un’applicazione del divieto di abuso del diritto, in
quanto, in base a questo istituto, si consente di paralizzare una pretesa non suscettibile di accoglimento, in quanto espressione per l’appunto di un uso abusivo del diritto.
In particolare, tramite l’exceptio doli si considerano due categorie di abusi: il venire contra factum proprium e, più in generale, i casi di fini fraudolenti ed illeciti.
Il venire contra factum proprium si caratterizza nel comportamento di chi
esercita il diritto dopo aver tenuto una condotta univoca che abbia ingenerato l’affidamento della controparte in ordine alla sua volontà di non esercitar
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lo; non si ha quindi un’estinzione del diritto o una rinuncia formale allo stesso,
con ciò potendosi affermare che alla stregua dello ius civile quel comportamento è corretto perché si esercita un diritto che formalmente non è estinto,
però in base alla funzione limitatrice della buona fede il comportamento che
oggettivamente e univocamente ha denotato la volontà di non riscuotere il credito porta come conseguenza la qualificazione abusiva dell’esercizio del diritto contrastante appunto con il factum proprium e pertanto paralizzabile con
l’exceptio doli.
Di recente è intervenuta una significativa pronuncia della Cassazione
(Cass., Sez. I, 7.3.2007, n. 5273), la quale ha precisato che la exceptio doli generalis seu praesentis attiene al dolo esistente al momento in cui viene intentata
l’azione nel processo – diversamente dalla exceptio doli specialis seu praeteriti,
che concerne il dolo al tempo della conclusione del negozio – e costituisce rimedio generale, diretto ad impedire l’esercizio fraudolento o sleale dei diritti
di volta in volta attribuiti dall’ordinamento, che permette il rigetto di domande giudiziarie pretestuose o palesemente malevoli, intraprese, cioè, allo scopo di arrecare pregiudizio, contro ogni legittima ed incolpevole aspettativa altrui, qualora sussistano elementi oggettivi comprovanti che la parte ha agito in
violazione del criterio di buona fede e di correttezza, in contrasto con la finalità normalmente insita nell’esercizio del diritto di cui è titolare. In applicazione di tale principio principio, la Corte di Cassazione ha escluso che l’esercizio
dell’azione diretta ad ottenere l’inefficacia dei pagamenti effettuati nel corso
della procedura concorsuale, allo scopo di realizzare la par condicio creditorum, possa essere paralizzata mediante la exceptio doli generalis, trattandosi di
azione sorta a seguito ed in conseguenza dell’apertura di detta procedura, che
non può configurare esercizio fraudolento dei diritti derivanti dal contratto,
indipendentemente dall’atteggiamento soggettivo dell’imprenditore.
2.1.1. Casistica applicativa
La buona fede come strumento volto a limitare le pretese ed a non fornire tutela a diritti che siano esercitati in modo funzionalmente abusivo e perciò
contrastabili con l’exceptio doli generalis, genera una casistica applicativa molto ampia e di particolare interesse.
2.1.1.1. Il frazionamento giudiziale del credito unitario e l’abuso del diritto processuale (Cass., Sez. un., 15.11.2007, n. 23726)
Nel solco del ruolo della buona fede come limite alle pretese creditorie, sotto il profilo del divieto di abusare del diritto e quindi dell’esposizione all’exceptio doli generalis, si segnala la decisione delle Sezioni unite (Cass., Sez. un.,
15.11.2007, n. 23726, in dispensa civile 1) in materia di frazionamento artificioso del diritto in più processi.
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Secondo l’orientamento prevalente (Cass., Sez. un., 10.4.2000, n. 108) sino
al decisum delle Sezioni unite del 2007 in assenza di espresse disposizioni, o
di principi generali desumibili da una interpretazione sistematica, il creditore di una determinata somma, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, può chiedere giudizialmente, anche in via monitoria, un adempimento
parziale, in correlazione con la facoltà di accettarlo, attribuitagli dall’art. 1181,
c.c., con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere che risponde
ad un interesse meritevole di tutela del creditore stesso senza sacrificare in alcun modo il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni. Sennonché il
predetto orientamento ha suscitato perplessità in una frangia minoritaria della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. I, 8.8.1997, n. 7400; Cass., Sez. III,
21.5.2007, n. 11794, ordinanza di rimessione alle S.U.), che ha evidenziato le inconguenze fatte proprie dalla recentissima pronuncia delle Sezioni unite.
La Corte ritiene dunque di operare un revirement valorizzando da un lato la
regola di correttezza e buona fede e dall’altro il principio del “giusto processo”
sancito dall’art. 111 della Costituzione.
Sotto il primo profilo si ritiene che il criterio della buona fede presieda ad
ogni fase del rapporto obbligatorio, compresa quella giudiziale, cosicché il creditore anche nella fase patologica non può aggravare la posizione del debitore alterando il giusto equilibrio degli interessi contrapposti. Ed infatti il frazionamento dell’azione giudiziale inciderebbe negativamente sul debitore “per
il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare
per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, sia per il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di
un giudicato pregiudizievole) cui il debitore dovrebbe sottostare, a fronte della
moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie”.
In secondo luogo la Corte evidenzia come un simile comportamento processuale del creditore si risolva in un abuso del processo: il frazionamento giudiziale di un unico rapporto cozzerebbe con la logica del giusto processo da un
lato per il potenziale conflitto di giudicati collegati allo stesso rapporto e dall’altro il moltiplicarsi di giudizi violerebbe il principio della “ragionevole durata del processo” scolpito nell’art. 111 della Costituzione.
2.1.1.2. Altri casi
Si segnalano inoltre i seguenti casi di particolare interesse:
la concessione abusiva del credito che evidenzia la condotta abusiva della banca che erogando il credito disinterresandosi della solvibilità del creditore, facendosi scudo della presenza del garante, non tiene conto degli interessi della controparte (Cass., 21.2.2006, n. 3761). Sussite infatti in capo alla banca
l’obbligo di controllare la solvibilità del debitore al fine di tutelare i terzi operatori economici ed il corretto funzionamento del mercato che potrebbero essere lesi dalla sopravvivenza artificiosa di un operatore decotto (Cass., Sez. un.,
28.3.2006, n. 7030);
11
Obbligazioni in generale 1
l’escussione delle garanzie a prima richiesta ove rilevi un comportamento
riprovevole del creditore, che usa lo schermo della garanzia autonoma (che gli
permette di escutere senza che gli vengano opposte le eccezioni relative al rapporto principale) non per il fine suo proprio di facilitare appunto l’escussione
del credito, bensì per perseguire un fine illecito e fraudolento (Cass., 17.3.2006,
n. 5997);
l’esercizio irragionevole del potere discrezionale, in particolare del datore
di lavoro nelle promozioni e nella valutazione dei dipendenti (Cass., 19.4.2006,
n. 9049);
le cosiddette tirannidi della maggioranza della società, cioè i casi di deliberazioni societarie adottate dalla maggioranza al solo fine di arrecare un
danno ai soci di minoranza e quindi con un intento confliggente rispetto alle ragioni del riconoscimento dei poteri della maggioranza (Cass., 11.6.2003, n.
9353) o, da una diversa visuale, il comportamento abusivo del socio di minoranza che impugni sistematicamente le delibere della maggioranza non tanto
per far valere vizi legati alla propria sfera, quanto per paralizzare la vita societaria e, quindi, perseguendo anche in questa prospettiva un obiettivo contrastante con i fini che stanno alla base del riconoscimento della legittimazione
ad impugnare al socio di minoranza (Cass., 11.12.2000, n. 15592);
il ritardo nell’esercizio del diritto che evoca quel venire contra factum proprium di cui si sono delineate precedentemente le coordinate fondamentali
(Cass., 15.3.2004, n. 5239).
3. L’ultima frontiera della buona fede: regola per valutare la validità dei contratti
L’ultima evoluzione della buona fede concerne la sua funzione di regola di
validità dei contratti.
Sin qua si è osservato come il ruolo della buona fede sia essenzialmente teso a valutare se i comportamenti delle parti siano conformi al contratto o ad
imporre comportamenti che, sebbene non derivino dal contratto, discendono
dalla buona fede stessa.
Sul piano sanzionatorio la violazione del canone di buona fede, nella sua
dimensione tradizionale di regola tesa alla valutazione della correttezza comportamentale o all’imposizione di comportamenti doverosi, comporta essenzialmente due rimedi.
La sanzione cardinale per la violazione di una regola che impone comportamenti non può che essere il risarcimento del danno cagionato dal comportamento illecito: se si tiene un comportamento contrario a buona fede si ha
quindi la violazione di un obbligo sanzionabile sul piano della responsabilità
precontrattuale o contrattuale a seconda che si tratti di condotta che precede
la stipula del contratto o ne viola le prescrizioni; alla responsabilità si affianca
ovviamente, nel secondo caso, la risoluzione del contratto se l’inadempimento
è qualificabile come grave ex art. 1455, c.c.
12
Lezione C1
La seconda sanzione è la paralisi, con l’exceptio doli generalis, dell’azione
che concreti l’esercizio di un diritto abusivo a cui non può essere fornita tutela
alla luce della buona fede intesa come limite alle pretese creditorie.
In uno sforzo volto ad ampliare ulteriormente la sfera applicativa della buona fede ci si è allora interrogati sulla possibile configurabilità di un’ulteriore
sanzione tesa ad invalidare la stipulazione del contratto che sia il frutto di condotte contrarie a buona fede.
3.1. La buone fede oltre l’autonomia negoziale
L’ammissibilità di questo rimedio affiderebbe allora alla buona fede non
più un ruolo di controllo delle condotte doverose al fine di portare a compimento l’assetto di interessi partorito dall’autonomia negoziale spesa nel contratto; ma, all’opposto, una funzione antagonistica rispetto all’autonomia negoziale, tesa cioè a verificare non le condotte necessarie per darvi attuazione
compiuta (in un’ottica che vede la buona fede come strumento che aiuta l’autonoma negoziale a spiegare i suoi effetti), ma la congruità dell’assetto di interessi plasmato con l’atto di autonomia (in una logica che vede la buona vede come
strumento di contrasto di un’autonoma negoziale che produca frutti iniqui od
ingiusti). Ebbene, la dottrina più innovativa reputa di elevare la buona fede a
strumento di controllo dell’autonomia negoziale e, quindi, di sindacato sulla
conformità del contratto, in quanto tale, al precetto di buona fede; la buona
fede assurge, dunque, a regola di validità del contratto la cui violazione comporta la nullità virtuale della stipulazione, ex art. 1418, co. 1, per violazione
della norma imperativa che impone condotte corrette in sede di stipulazione. L’ingresso nell’ordinamento di uno strumento di tal fatta porterebbe a ricadute pratiche di non poco momento se solo si pensi, ad esempio, che varrebbe
a tacciare di invalidità il prodotto dell’autonomia negoziale che partorisca uno
squilibrio nell’assetto dei diritti e degli obblighi capace di favorire la parte forte rispetto a quella debole; e tanto specie se si considera che la portata generale
della clausola di buona fede le conferirebbe un ruolo di norma imperativa dalle potenzialità applicative pressoché illimitate.
A sostegno di questa interpretazione evolutiva si segnala la presenza di alcuni casi codificati nei quali la legge dà rilevanza espressa alla buona fede e
alla giustizia contrattuale ai fini della validità del contratto.
Sono ipotesi nelle quali per scelta legislativa il contratto è nullo, o comunque inefficace, se il suo contenuto è iniquo ed ingiustificatamente squilibrato a favore di una parte ed in danno dell’altra a causa dell’influenza negativa
spiegata sul contenuto del patto dalla violazione dell’obbligo di correttezza con
condotte integranti abuso della posizione egemone.
L’art. 36 del Codice del consumo infatti sanziona con la nullità di protezione le clausole abusive che innescano un significativo squilibrio a danno di una
parte e a vantaggio dell’altra; nella specie l’ordinamento sanziona la violazione
della c.d. procedural justice, ovvero l’ingiustizia non del contratto in quanto ta13
Obbligazioni in generale 1
le (substantive justice), ma in quanto frutto di una abuso perpetrato dalla parte
più forte (il professionista) ai danni dell’antagonista più vulnerabile (il consumatore). Infatti, la stessa operazione negoziale intrapresa tra due professionisti o tra due consumatori (tra parti quindi non asimmetriche) non sarebbe sindacabile; questa diventa invece sindacabile in quanto frutto di una relazione
asimmetrica in cui, senza una vera trattativa individuale paritetica, si registra
un utilizzo distorto della posizione di maggiore forza contrattuale del professionista nei confronti del consumatore. L’ordinamento riconosce invece rilevanza alla substantive justice nell’usura. Nella nuova configurazione dell’usura
(su cui v. lezione 4), dopo la legge 108/96, che civilisticamente si è tradotta nella riscrittura dell’art. 1815, c.c., un mutuo è considerato usurario quando (e solo per il fatto che) gli interessi superano la soglia dell’usura come perimetrata
con le rilevazioni periodiche di cui all’art. 2 della stessa legge 108/96. L’ordinamento ha allora abbracciato ormai una nozione meramente oggettiva dell’usura, in cui il negozio viene qualificato come ingiusto (usurario) sol che quantitativamente sia inaccettabile in base alla soglia dell’usura.
A fronte di questi casi specifici nei quali la legge sanziona con la nullità la
violazione della regola di correttezza e di giustizia contrattuale che si traduca in un programma iniquo e contrario alla buona fede, viene da chiedersi se
queste disposizioni vivano in splendida solitudine ovvero siano espressione di
un principio di portata più generale, con la conseguenza che vanno considerate come nulle (o perlomeno inesigibili e quindi inefficaci ex bona fide), aldilà
dei casi specifici, anche quelle clausole o quei contratti che siano palesemente iniqui e fortemente squilibrati. Questo approdo innovativo va ovviamente delimitato per non risultare già ad una prima analisi inaccettabile: le basi
normative su cui fondare infatti l’idea di un sindacato sull’ingiustizia in sé rimangono allo stato dell’arte non sufficientemente salde (solo l’usura) ed allora
sarebbe preferibile dirottare l’analisi sui casi in cui nel corso delle trattative vi
sia stata la violazione del canone della procedural justice in rapporti asimmetrici concretizzatasi in un prodotto ingiusto a causa dell’abuso della condizione di maggiore forza di una parte ai danni della condizione di debolezza della
controparte. E tanto anche in omaggio alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che dedica un intero capo (Capo IV) alla “solidarietà”; nonché ai principi del diritto europeo dei contratti (segnatamente art. 1:102), che,
danno sfogo ad una prepotente contaminazione tra regole di comportamento e regole di validità, elevando buona fede e correttezza alla soglia di norme
imperative capaci di consentire un sindacato intrinseco e penetrante sul cuore
dell’autonoma negoziale, sfatando il mito della sua insindacabilità.
3.2. La violazione degli obblighi di informazione da parte dell’intermediario finanziario
Il tema che ci occupa è particolarmente importante nel caso di violazione
degli obblighi di informazione che il legislatore, sulla scorta dell’art. 23 del d.
14
Lezione C1
lgs. 58/98 (T.U. in materia di intermediazione finanziaria) e degli articoli collegati (art. 28 in particolare) del regolamento di attuazione Consob 11522/98, impone all’intermediario finanziario nei confronti del cliente in ordine ai rischi
connessi alle operazioni finanziarie sia prima di stipulare il contratto quadro
di consulenza e gestione del portafogli sia prima di effettuare le singole operazioni esecutive del contratto quadro (l’acquisto di singoli prodotti o derivati finanziari in esecuzione del contratto quadro).
Occorre infatti chiedersi qual è la sorte del contratto quadro e dei singoli
ordini di acquisto dei prodotti finanziari acquistati dall’intermediario in esecuzione del contratto quadro allorquando vi sia una carenza informativa nei
confronti dell’acquirente consumatore-investitore che non gli abbia consentito di soppesare i rischi connessi all’operazione.
Le opzioni oscillano tra la possibilità di ritenere che la violazione dell’obbligo di informazione doverosa evidenzi una mera violazione delle regole comportamentali imposte dalla buona fede, ponendo quindi solo un problema di
responsabilità-risarcimento; e la tesi che configura una violazione delle regole
di validità del contratto nella misura in cui il consumatore ha visto inquinata la
sua decisione sull’an della stipulazione a causa di un deficit informativo che ha
inficiato il procedimento di formazione della volontà. Ad avviso di tale seconda opzione, in questo caso, la norma che impone obblighi informativi, specialmente in relazioni asimmetriche e per prodotti altamente rischiosi, rientrerebbe tra le norme imperative ex art. 1418, co. 1, c.c., la cui violazione è sanzionata
con la scure della nullità virtuale dell’atto di autonomia negoziale.
3.2.1. La tesi minoritaria
L’orientamento minoritario afferma che quando c’è una relazione di forze
asimmetriche non sia possibile distinguere tra regole comportamentali e regole attizie, ovvero tra regole che concernono la correttezza del comportamento
ex bona fide e regole che concernono la validità della stipulazione contrattuale. Infatti, laddove vi siano relazioni di disparità la violazione della regola di
buona fede informativa, fa sì che venga deviata l’autonomia negoziale e che
la parte debole, influenzata dall’altrui preponderanza, si determini a stipulare un contratto che non avrebbe stipulato o che non avrebbe stipulato a quelle condizioni. Quindi la violazione di questa regola si traduce in una spendita non corretta dell’autonomia negoziale che contamina fatalmente anche la
validità del prodotto della stessa, in quanto l’atto è viziato dalla non piena coscienza dell’an e del contenuto.
Aggiungono i sostenitori di questa teoria che questa forma di contaminazione tra il profilo del comportamento e quello della validità è evidente in una
serie di casi nei quali il legislatore, in sintonia con le sirene europee, sanziona
con la nullità il contratto perché frutto di un comportamento scorretto nel procedimento di formazione, con ciò volendo enucleare una base normativa salda
su cui fondare l’idea che la violazione di obblighi di correttezza comportamen15
Obbligazioni in generale 1
tale non sia attratta solo dalla disciplina in tema di responsabilità, bensì anche,
in caso di condizionamento dell’autonomia negoziale, da quella in tema di invalidità dei contratti. Si citano così:
l’art. 3 della legge 287/90 (antitrust) secondo cui è nullo il patto o il negozio
che sia consequenziale alla violazione del divieto di abuso di posizione dominante, dove la violazione di un obbligo di correttezza comportamentale partorisce una questione non di responsabilità, ma di invalidità della pattuizione;
l’art. 9 della legge n. 192/1998 (sulla subfornitura) che sanziona con la nullità il patto che concreti la violazione del divieto di abuso di dipendenza economica;
l’art. 7 del d. lgs. 231/2002, in materia di transazioni commerciali, che considera nulle le pattuizioni tra il creditore ed il debitore professionali che fissino
in modo iniquo il tasso di interesse o i termini di pagamento:
il combinato disposto degli artt. 2 e 6 del d. lgs. 122/2005, concernente i
contratti aventi ad oggetto gli immobili da costruire, che sancisce la nullità dei
contratti aventi ad oggetto immobili da costruire che siano stati stipulati in assenza delle adeguate informazioni sull’operazione negoziale in fase precontrattuale o nel testo del contratto.
Anche sul versante giurisprudenziale, si aggiunge, si è assistito all’utilizzo
del principio in esame al fine di sancire la nullità del contratto:
nel caso dell’art. 35 del Codice del consumo che impone che le clausole nei
contratti tra il consumatore ed il professionista devono essere chiare e comprensibili imponendo un obbligo che concerne l’informazione contrattuale
sul piano della trasparenza e della decodificabilità del contenuto del contratto (Trib. Firenze, 19.4.2005);
una parte della giurisprudenza di merito ha considerato nullo il contratto
avente per oggetto la multiproprietà (art. 71 del Codice del consumo) laddove
manchi (o non sia stato preceduto) delle informazioni necessarie (Trib. Firenze, 2.4.2004; contra, peraltro, Trib. Parma, 14.7.2005).
Nel caso, oggetto della nostra analisi, di acquisto di titoli finanziari non
preceduto dall’obbligo di informazione, imposto dall’art. 23 del d. lgs. 58/98
e dall’art. 28 del regolamento Consob 11522/98, non poche sentenze di merito, anche recentissime, hanno affermato che la violazione dell’obbligo di informazione dell’intermediario sui rischi dell’operazione integra la violazione
di una norma imperativa che non concerne solo la fase precontrattuale, ma
anche la decisione sull’an del contrarre dando la stura ad una nullità virtuale per violazione di norma imperativa che eleva la buona fede imposta nel corso delle trattative da regola di correttezza comportamentale a regola di validità del contratto. Tra le tante si segnala Trib. Firenze, 18.1.2007, n. 229, secondo
cui “I principi di condotta imposti a carico degli intermediari finanziari dalla legge speciale, imprimono ai comportamenti dovuti una logica che non può
essere letta riduttivamente, nel quadro della disciplina del mandato e, quindi, nell’ottica di un semplice inadempimento contrattuale. Infatti se a questa
figura giuridica si può per taluni aspetti riferirsi, questo deve essere fatto tenendo presenti quei contenuti normativi che, connotandola attribuiscono al16
Lezione C1
la fattispecie elementi differenziatori individuati nella complessità di obblighi
posti a carico dell’intermediario. La prospettiva da cui muove la disciplina del
testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria e nella quale sono confluite regole già vigenti e regole di nuova coniazione, riguarda, in generale, la regolamentazione del mercato finanziario con particolare
attenzione alla tutela degli interessi pubblici sottesi alle regole. La protezione
offerta agli investitori è considerata solo di riflesso. In conclusione l’obbligo di
correttezza e quello di trasparenza non hanno solo una dimensione protettiva con specifico riferimento alla formazione della volontà e del convincimento, ma assurgono a un ruolo attivo di conformazione del rapporto, spostandosi
così nella definizione di un modello ottimale ed efficiente di scambio del mercato. Ne consegue, pertanto, che il comportamento dell’istituto di credito non
va valutato sotto il profilo personale del cliente ma in generale secondo un parametro di tutela garantito dal legislatore. Nell’ottica dei contratti bancari e in
genere dei contratti di massa occorre assumere il concetto di informativa al rilievo giuridico che, una volta, era assegnato a quello della trattativa. Così come
la libertà di trattativa è stata ritenuta un concetto fondamentale nella formazione del consenso (al punto di prevedere una compiuta ed esauriente disciplina dei vizi del volere) così ora bisogna garantire la completa e specifica informazione del contraente. Se le modalità di contrattazione hanno portato a un
depotenziamento della trattativa, il contratto diventa esso stesso strumento e
veicolo di informazione e, in tale ottica, va valutata la sua liceità, arrivando a
configurare una contrattualizzazione delle informazioni precontrattuali, che
può spingersi fino a configurare un onere di conformità dell’oggetto del negozio alle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte
nella pubblicità”.
3.2.2. La Cassazione confuta la tesi della buona fede come regola di validità dei
contratti
La strada ermeneutica fin qui esposta ha subito un arresto ad opera della
Cassazione, Sez. I, con la sentenza 28.9.2005, n. 19024 (vedi dispensa civile 1),
seguita da ultimo da Trib. Catania, 23.1.2007, Trib. Bari, 27.2.2007 e Trib. Trani, 6.3.2007, n. 159.
La pronuncia ridimensiona l’espansione della buona fede affermando che
la violazione del canone della correttezza precontrattuale, segnatamente
con riferimento al precetto che impone il clare loqui nel settore degli intermediari finanziari, pone un problema non di validità dell’atto, ma di reazione ad una scorrettezza comportamentale non sanzionabile con la nullità del
contratto.
Le considerazioni svolte dalla Cassazione toccano sia profili generali del sistema contrattuale che aspetti tipici del settore della intermediazione finanziaria. In primo luogo si rilegge il concetto di norma imperativa, la cui violazione, ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., sancisce la nullità del contratto in assenza
17
Obbligazioni in generale 1
di una diversa sanzione. La Cassazione afferma infatti che se è indubitabile la
qualificazione della clausola di buona fede precontrattuale, specie in relazioni
asimmetriche, in termini di norma imperativa non derogabile, è altresì indubitabile che non si tratta di prescrizione appartenente alla famiglia delle norme imperative considerate dall’art. 1418 ai fini della sanzione della nullità virtuale.
L’art. 1418, co. 1, nell’imporre tale sanzione alla violazione di norme imperative non diversamente sanzionate, non può che riferirsi, infatti, a quelle
norme imperative che vietano il contratto sul piano della struttura, del contenuto, della forma nonché della legittimazione a stipularlo; viceversa non
appartengono all’area del comma 1 dell’art. 1418 quelle norme imperative che
vietano il comportamento scorretto nella parte precontrattuale senza entrare
nel merito della stipulazione in quanto tale.
In dettaglio l’intermediario che non fornisce le informazioni necessarie
(ovvero le fornisce in maniera incompleta ed insufficiente) viola una norma
che non sancisce il divieto del contratto, ma stigmatizza un comportamento
precontrattualmente scorretto in applicazione della regola generale di cui all’art. 1337, c.c.
Ciò è anche avvalorato dalla possibilità che nel caso in cui l’esito dell’acquisto del prodotto finanziario, nonostante la mancata informazione sia positivo, ovviamente non vi sarebbe alcuna lesione sanzionabile. Quindi il contratto in sé non è vietato perché può essere persino vantaggioso, ciò che è vietato
è il modo con cui si arriva al contratto, ovvero il comportamento precontrattuale nel senso stretto del termine. Mutuando una terminologia civil-penalistica si tratta di norme riconducibili alla categoria dei “reati in contratto” e
non dei “reati contratto”, ossia a casi in cui la norma imperativa (in questo caso non penale, ma comunque proibitiva) vieta comportamenti personali nella contrattazione ma non tocca l’atto che da quel comportamento precontrattuale è stato prodotto.
A questo principio generale che ridimensiona la portata della nozione di
norma imperativa ex art. 1418, c.c., escludendone l’area della buona fede informativa ed in generale dei comportamenti precontrattuali, ed includendovi
solo le norme imperative che vietano il contratto imponendo precetti che concernono la struttura, il contenuto e la forma, si aggiunge l’osservazione che nel
d. lgs. 58/98 la sanzione della nullità (di protezione, e quindi azionabile dal
sol cliente: art. 23, co. 3) è comminata testualmente per violazione delle norme imperative che vietano il contratto (perché manca la forma scritta ex art.
23, co. 1, o sia corredato da una non ammissibile relatio agli usi per la determinazione del corrispettivo ex art. 23, co. 2). Perciò è coerente con il principio
generale esposto il dato che le norme settoriali sanzionano con la nullità solo vicende concernenti violazioni di norme (artt. 23, commi 1 e 2) che vietano il contratto sul piano formale e strutturale e non su quello della disinformazione.
In coerenza con tali coordinate l’art. 23, ultimo comma, d. lgs. 58/98 chiarisce che l’acquirente del prodotto danneggiato per effetto della violazione de18
Lezione C1
gli obblighi dell’intermediario è esonerato dalla prova della violazione stessa
che si considera presunta, giovandosi del beneficio dell’inversione dell’onere
della prova scolpito in via generale dallo stesso art. 1218, c.c. Sarà quindi l’operatore a dovere dimostrare di aver assolto agli obblighi, compresi quelli informativi, ed il cliente sarà viceversa legittimato alla semplice deduzione della
violazione.
Questa norma è rilevante in quanto, nel trattare della violazione degli obblighi in capo all’intermediario, ivi compresi quelli informativi, si esprime
in termini di risarcimento. Confrontando questa norma con quelle che invece sanciscono la nullità per divieti afferenti alla forma ed alla struttura della
pattuizione, è allora sistematicamente chiaro come la legge affronti sul terreno della mera responsabilità, arricchita dall’inversione dell’onere della prova a
vantaggio del cliente in applicazione rafforzata dell’art. 1218, la violazione degli obblighi di correttezza precontrattuale o post-contrattuale, ossia delle regole di condotta. Viceversa la nullità concerne solo i casi di violazione di norme imperative che vietano l’atto in quanto tale (sul piano della forma o della
struttura).
Infine è d’uopo osservare che la sanzione della nullità, oltre ad essere asistematica e contraddetta da scelte legislative che muovono nel settore specifico
in direzione opposta, è da un lato eccessiva e dall’altro lato non necessaria.
È eccessiva perché la nullità è per definizione una sanzione che opera senza elasticità ed in modo meramente automatico, con la conseguenza di produrre l’inefficacia originaria del contratto per ogni violazione di un obbligo informativo (anche se minimale e non condizionante rispetto alla stipula) senza
alcun giudizio di proporzionalità sulla rilevanza e sugli effetti della trasgressione. Con l’aggravante di sancire la nullità radicale del contratto a monte e dei
negozi a valle. Viceversa le sanzioni alternative sono più elastiche e consentono di valutare in concreto qual è la rilevanza della violazione e quali le sue
conseguenze. Ad esempio la sanzione dell’annullabilità, volendo inquadrare la
vicenda nell’errore indotto dall’informazione sbagliata, richiederebbe che l’errore sia essenziale e riconoscibile; quindi è rilevante la disinformazione che sia
anche efficiente, significativa e condizionante. Anche volendo applicare la soluzione della risoluzione per inadempimento è necessario che l’inadempimento sia grave. Applicando la sanzione della responsabilità è poi necessario che
la violazione abbia cagionato un danno e che quindi abbia avuto una rilevanza causale.
In secondo luogo la sanzione della nullità non è necessaria perché il consumatore subisce un danno economico pari alla differenza tra la somma investita e la somma recuperata al termine dell’operazione non andata a buon fine,
per ristorare il quale la nullità del contratto quadro o dei negozi a valle appare un rimedio non necessario: allo stesso risultato si può, infatti, addivenire sia
con l’azione di risoluzione per inadempimento, alla quale si accompagna anche il risarcimento ex art. 1453, c.c., sia con l’azione di risarcimento secca che
venga posta in essere senza transitare per la risoluzione. Questi rimedi consentono entrambi di sopperire alla conseguenza negativa di tipo economico
19
Obbligazioni in generale 1
che viene patita dal consumatore con un giudizio che sia basato su una valutazione proporzionale ed eziologica della rilevanza della violazione e della intensità delle sue conseguenze.
3.2.2.1. La praticabilità del rimedio della risoluzione e la preferibilità della strada risarcitoria
Scartata la nullità, e dovendosi limitare la via dell’annullabilità ai soli casi
in cui ricorrano gli estremi dei vizi della volontà in base al Codice civile, le strade percorribili sono a questo punto due:
a) la risoluzione per inadempimento del contratto a monte (con effetto caducante rispetto agli ordini di acquisto a valle) in quanto la realizzazione di un
acquisto a valle senza adeguata informazione concreta inadempimento degli
obblighi che, in base alla legge, derivano dal contratto quadro: alla risoluzione
si accompagneranno i consueti effetti restitutori e risarcitori ove vengano proposte le relative domande (così Trib. Catania, 23.1.2007, cit.);
b) il mero risarcimento del danno cagionato dal singolo ordine di acquisto rivelatosi dannoso a seguito dell’andamento negativo del titolo o derivato finanziario.
Bisogna osservare che la via del mero risarcimento risulta per molti versi preferibile.
La prima ragione è che l’onere della prova nel caso della risoluzione è più
difficile atteso che tale rimedio richiede non il mero inadempimento, ma la
gravità dello stesso. Anche a reputare che, dopo Cass., Sez. un., 30.10.2001, n.
13533, questa gravità può essere solo dedotta e non provata dal creditore, è
pur vero comunque che la controparte può vincere questa presunzione dimostrando che la violazione non ha una gravità tale da giustificare la rottura integrale del vincolo contrattuale. Se, infatti, dal contratto quadro è derivato l’acquisto di svariati titoli e per un singolo acquisto economicamente irrilevante è
stata fornita una informazione incompleta, nell’insieme dell’operazione questa violazione non può essere considerata un grave inadempimento dei vincoli discendenti dal contratto quadro.
Il secondo ostacolo alla risoluzione risiede nella possibilità che dal contratto quadro siano derivate per la maggior parte operazioni vantaggiose, perché
in questo caso le conseguenze dell’invalidità del contratto a monte rischiano,
specie ove ci sia l’eccezione o l’azione della controparte, di far cadere anche i
negozi a valle vantaggiosi in base al principio simul stabunt simul cadent.
In conclusione per il consumatore-acquirente la via della risoluzione che
invalidi il contratto quadro di consulenza professionale e di mandato all’acquisto dei titoli in base al comma 1 dell’art. 28 del regolamento Consob può essere difficile sul piano della prova e rischiosa sul crinale degli effetti.
Per superare questi ostacoli può essere viceversa preferibile la strada del
mero risarcimento che può essere invocato a due titoli: a titolo contrattuale
ovvero precontrattuale.
20
Lezione C1
Traguardando la fattispecie nella prospettiva del contratto a monte è chiaro che l’omessa informazione prima del negozio a valle configura la violazione
dell’obbligo discendente dal contratto a monte di fornire le informazioni prima dei singoli acquisti; considerando invece il negozio a valle l’omessa informazione precede la stipula del singolo negozio a valle e quindi va valutata come un comportamento precontrattualmente scorretto.
In entrambi i casi andrà risolto un problema di causalità, dovendosi dimostrare che se l’informazione fosse stata fornita vi sarebbe stata un’obiezione
all’acquisto del titolo a valle; è possibile allora che la prova sia difficoltosa allorquando, ad esempio, siano stati acquistati vari titoli senza eccepire la violazione dell’obbligo di informazione ed all’ennesima violazione si pretenda di
dedurre che nella specie all’informazione avrebbe fatto seguito un comportamento diverso da quello tenuto in precedenza.
Sul versante della quantificazione del danno, questo sarà ovviamente pari
alla differenza valoristica fra il denaro investito ed il valore residuato alla fine
dell’investimento in relazione alla perdita di quotazione del titolo stesso.
3.2.2.2. Una responsabilità precontrattuale di nuovo conio
Concludendo il tema che ci occupa va ulteriormente colta un’osservazione importante legata a questa pronuncia della Cassazione. Da un lato si assiste
ad una battuta d’arresto dell’ascesa della buona fede, in quanto la Corte afferma che se non ci sono norme specifiche ed eccezionali che inquinino il profilo
comportamentale con quello attizio, dando alla buona fede un ruolo sia di imposizione di comportamenti sia di prescrizione sulla validità dei contratti, la
regola generale è che le norme imperative che concernono la correttezza comportamentale precontrattuale o postcontrattuale vietano solo comportamenti
e, quindi, pongono un problema di sola responsabilità.
Sotto un diverso profilo va però aggiunto che la responsabilità precontrattuale che si configura quando non si dia un’informazione necessaria prima del
contratto, specie in relazioni impari e asimmetriche, è un tipo di responsabilità di nuova generazione e di grande rilevanza non solo sul piano teorico ma
anche su quello applicativo.
Si assiste infatti al superamento dell’idea secondo cui c’è responsabilità
precontrattuale solo quando la trattativa non sia andata in porto, nel senso che
la trattativa è fallita perché non si è arrivati al contratto oppure lo stesso è nullo ab origine, invalidato o risolto retroattivamente in un momento successivo;
idea che porta con sé il risarcimento nel limite dell’interesse negativo, ovvero
l’interesse a non perdere tempo in trattative infruttuose.
Invece la sentenza ci chiarisce che c’è responsabilità precontrattuale anche quando il contratto viene stipulato e la trattativa ha quindi prodotto i
suoi frutti (pur se ingiusti, e, per così dire, amari). Il contratto, ancorché valido,
è infatti ingiusto ed iniquo, perché ha un contenuto peggiore rispetto a quello
a cui si sarebbe addivenuti se l’informazione ci fosse stata. Il modello è quindi
21
Obbligazioni in generale 1
quello dell’art. 1440, c.c., considerata come norma generale (e non singolare),
la quale prevede che quando il dolo è incidente, cioè quando non ha riguardato l’an (causam dans) ma ha inquinato il contenuto, il contratto non è annullabile, ma è frutto di una condotta scorretta nel corso degli abboccamenti prenegoziali che produce un danno risarcibile a titolo precontrattuale.
Questa norma viene dunque elevata expressis verbis dalla Cassazione a
principio generale in base al quale cioè ogniqualvolta c’è un comportamento
scorretto nella trattativa che non si traduca in un contratto inutile o mancato,
ma in un contratto valido, efficace (però dannoso in quanto ingiusto ed iniquo)
si produce sempre una responsabilità precontrattuale.
La conseguenza di questa apertura della responsabilità precontrattuale si
riverbera sul parametro per la misurazione del danno che non sarà più il danno negativo, quindi l’interesse a non perdere tempo in trattative inutili, ma –
sulla falsariga del modello tedesco della Erfullungsinteresse – il danno positivo
differenziale collegato alla violazione dell’interesse a non subire imposizioni
ingiuste sul piano del contenuto del contratto, pari alla differenza tra i vantaggi e le conseguenze economiche che il contratto stipulato produce e quelli che
il contratto avrebbe prodotto se fosse stato stipulato senza essere inquinato
dal comportamento scorretto. Va in altri termini risarcito l’ipotetico interesse
positivo che sarebbe sorto se il regolamento contrattuale fosse stato definito in
assenza del fattore che ha perturbato la formazione della volontà.
3.2.2.3. Le Sezioni unite chiariscono ogni dubbio (Cass., Sez. un., 19.12.2007, n.
26724)
Nel momento in cui sembrava consolidarsi l’orientamento maggioritario
così come descritto nei paragrafi precedenti, fa irruzione l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite (Cassazione, Sez. I, 16.2.2007, n. 3683) con cui si chiede
di far luce sul contrasto interpretativo concernente la possibilità che la violazione degli obblighi gravanti sulle parti nel corso delle trattative contrattuali, ed in specie la violazione degli specifici obblighi di informazione che la legge pone a carico degli intermediari finanziari nei confronti dei propri clienti,
determini la nullità dei successivi contratti per violazione di norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., soluzione a cui il Collegio rimettente aderisce a chiare lettere.
Le Sezioni unite con pronuncia del 19.12.2007, n. 26724 (in dispensa civile 1) ribadiscono che il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del
contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni
specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non
è giustificato.
Gli ermellini confermano dunque la perdurante validità del tradizionale
insegnamento per cui la violazione delle norme di comportamento, “tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altri22
Lezione C1
menti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del
generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti
sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel
senso che non è idonea a provocarne la nullità”.
Afferma la Corte che se è vero che nella moderna legislazione (soprattutto
comunitaria) si assiste ad uno sbiadire della tradizionale distinzione tra norme di validità e norme di comportamento conseguente ad un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto “un conto è una tendenza altro conto è un’acquisizione”.
Ponendo le basi delle proprie convinzioni sui principi codicistici la Cassazione, poi, si chiede se non sia il caso di effettuare un’ulteriore indagine tesa a
stabilire se un principio di segno diverso possa individuarsi nel particolare settore dei contratti dell’intermediario finanziario, pervenendo con le medesime
argomentazioni viste nel par. 3.2.2 alla soluzione negativa.
La violazione da parte dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario delle norme comportamentali che prescrivono
doveri d’informazione del cliente (ove non siano integrati gli estremi di un vizio della volontà invalidante sotto il profilo dell’annullabilità) sarà fronteggiabile con il rimedio risarcitorio a titolo di responsabilità precontrattuale ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione
del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le
parti (sempre che non siano integrati gli estremi di un vizio della volontà invalidante sotto il profilo dell’annullabilità). Anche in questo caso sono confermate le considerazioni svolte dalla Cassazione nel 2005 (v. par. 3.2.2.2) relative alla
configurazione di tale responsabilità “non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta
ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio,
ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in
violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto”.
La violazione dei doveri dell’intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d’intermediazione assumerebbe invece i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: “giacché quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da
norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità
postulati dall’art. 1455, c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d’intermediazione finanziaria in corso”. È interessante osservare come le Sezioni
unite nel negare espressamente che la violazione di norme comportamenta23
Obbligazioni in generale 1
li (fondate sulla buona fede) possa dare luogo alla nullità del contratto hanno
modo di precisare che “il dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la
certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite”. L’affermazione sembra voler delimitare in maniera nitida i confini della buona fede
quale strumento creativo del giudice teso all’“autointegrazione” dell’ordinamento. È evidente, infatti, che un indiscriminato rinvio all’opera creativa della giurisprudenza tramite lo strumento dei principi generali rende quanto mai
difficile ai consociati l’individuazione delle condotte giuridicamente dovute,
in spregio della certezza del diritto. Un primo argine, sul piano rimediale, alla
capacità integrativa della buona fede è segnato dunque, nella visione della corte, dalle regole di validità del negozio, per le quali deve prevalere l’esigenza della certezza dei rapporti giuridici sulle esigenze di integrazione delle inevitabili
lacune che si presentano nell’ordinamento (e che i principi generali tendono a
colmare non in via astratta ma con riferimento alle singole fattispecie concrete, tramite l’opera creativa della giurisprudenza).
La violazione dei precetti derivanti nel caso concreto (per via del fenomeno creativo di matrice giurisprudenziale) dal principio generale di buona fede
sarà allora sanzionabile solo mediante gli strumenti rimediali della responsabilità o della risoluzione, ma mai potrà riverberarsi sulla validità del negozio
(sub specie di nullità).
4. L’atipicità delle fonti apre la strada alla teoria del contatto sociale
Affacciandoci all’area della responsabilità per inadempimento contrattuale, che sarà trattata ampiamente nella prossima lezione C3, giova segnalare alcuni approdi consolidati che coinvolgono profili riguardanti l’atipicità delle
fonti di rapporti obbligatori.
È noto che la responsabilità contrattuale costituisce la sanzione per l’inosservanza di un obbligo specifico: a fronte dell’orientamento tradizionale, secondo cui la suddetta forma di responsabilità deriva soltanto dall’inadempimento di obbligazioni contrattuali mentre la responsabilità aquiliana sanziona
la violazione di tutti gli obblighi diversi, riassunti nella formula del neminem
laedere, si ritiene, da parte della più recente dottrina e giurisprudenza, alla luce del principio di atipicità delle fonti delle obbligazioni di cui all’art. 1173, c.c.,
che la responsabilità contrattuale consegua anche alla violazione di doveri
specifici che trovano fonte non già in un contratto ma direttamente nell’ordinamento giuridico, in forza di un “contatto sociale qualificato”.
Tra gli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico ex art. 1173, c.c., infatti, dottrina e giurisprudenza individuano anche il contatto sociale qualificato. L’espressione “contatto sociale”
indica un rapporto socialmente tipico, che ingenera nei soggetti coinvolti un
obiettivo affidamento, in ragione del fatto che si tratta di un rapporto “qualifi24
Lezione C1
cato” dall’ordinamento giuridico, il quale vi ricollega una serie di doveri specifici di comportamento attivo.
Si pensi, al riguardo, alla relazione che si instaura tra il paziente ed il medico, sul quale grava, a prescindere dalla sussistenza di un contratto, un obbligo
(specifico) di cura che tende alla tutela del diritto fondamentale alla salute: in
tali ipotesi il soggetto che ha subìto la violazione del dovere specifico non può
considerarsi alla stregua di un extraneus rispetto all’agente, in base al mero dato formale della mancanza di un vincolo contrattuale.
Peraltro, sul criterio da seguire per stabilire a quali condizioni, e nei confronti di quali soggetti, una relazione socialmente tipica dia luogo all’applicazione del regime della responsabilità da inadempimento, e in quali casi resti
invece a tal fine irrilevante, non è possibile rinvenire un orientamento interpretativo rigoroso nelle limitate applicazioni giurisprudenziali, peraltro relative a fattispecie del tutto peculiari, quali la responsabilità del medico dipendente da una casa di cura, la responsabilità della banca per false informazioni,
la responsabilità del docente e dell’istituto scolastico per autolesioni del minore e la responsabilità della P.A. per i danni cagionati nell’attività provvedimentale ed in sede procedimentale.
4.1. Il varo della categoria in materia di responsabilità del medico dipendente di
casa di cura per danni subiti dal paziente di quest’ultima
Ed è proprio con riguardo alla prima delle fattispecie appena richiamate
che la giurisprudenza di legittimità ha delineato il nuovo istituto del contatto sociale qualificato. Invero, l’obbligo di cura del sanitario può trovare fondamento in un contratto diretto con il paziente, in una fonte legale o provvedimentale (es. ordinanze contingibili e urgenti), oppure nel rapporto di lavoro
alle dipendenze di una struttura sanitaria pubblica o privata. In quest’ultimo
caso il paziente stipula con la casa di cura un contratto atipico, denominato
contratto di spedalità o di assistenza, e viene affidato (o sceglie egli stesso di affidarsi) ad un medico dalla stessa dipendente (vedi da ultimo, su detto contratto Cass., Sez. III, sentenza 13.4.2007, n. 8826). È dunque evidente la dicotomia
sussistente tra la parte formale del contratto di cura e il soggetto che effettivamente esegue la prestazione pattuita, con la conseguenza che sulla natura della
responsabilità del medico dipendente è fiorito un significativo dibattito.
L’orientamento tradizionale ravvisava in capo al medico dipendente dalla
casa di cura una responsabilità di tipo extracontrattuale per i danni cagionati
dalla sua attività diagnostica o terapeutica, essendo il medico estraneo al rapporto contrattuale intercorso tra la stessa casa di cura e il paziente.
A sostegno dell’assunto la tesi tradizionale evidenziava in primis che la responsabilità contrattuale presuppone la necessaria esistenza di un contratto, il
quale a sua volta implica, ai sensi dell’art. 1321, c.c., un accordo, cioè un incontro di volontà tra proposta e accettazione, accordo che nel caso di specie non è
intervenuto tra paziente e medico, ma solo tra il primo e la struttura ospeda25
Obbligazioni in generale 1
liera. Spesso, inoltre, chi si rivolge ad un ospedale viene curato da una équipe
di medici, i quali vengono scelti dalla struttura stessa, sulla base delle disponibilità, dell’orario, del tipo di intervento, con la conseguenza che il paziente
non ha neanche la facoltà di scelta del medico che lo avrà in cura. Soltanto con
l’ospedale, quindi, il paziente instaura un rapporto effettivo, mentre i medici
curanti devono essere considerati dipendenti dell’ente o – come ha precisato la
giurisprudenza – organi di esso, idonei pertanto ad imputare atti ed effetti all’ente stesso, che è il solo responsabile contrattuale verso il paziente.
Il medico, poi, effettua la prestazione perché è legato all’ente ospedaliero
da un rapporto di pubblico impiego, non già in virtù di un vincolo contrattuale che lo lega al paziente, e non potrebbe, quindi, neanche volendo, svincolarsi
dal dovere di curare il paziente stesso.
Del resto la tesi tradizionale richiamava principi ormai consolidati, alla
stregua dei quali chi contrae con un imprenditore a mezzo dei suoi rappresentanti ha un rapporto contrattuale diretto con il solo imprenditore, che quindi risponde del fatto dei suoi dipendenti ex art. 1228, c.c.; e chi contrae con un
rappresentante volontario munito di procura può agire contrattualmente solo
verso il rappresentato, residuando una eventuale responsabilità del rappresentante solo ex art. 2043, c.c. Non vi sarebbe dunque alcun motivo per derogare ai
principi de quibus in tema di responsabilità del medico.
Infine, la extracontrattualità dell’illecito del medico dipendente non ostava all’applicazione analogica degli artt. 1176, co. 2, e 2236, c.c., poiché, come
ha evidenziato la Suprema Corte nella sentenza n. 11440/1997, “la ratio di questa norma consiste nella necessità di non mortificare l’iniziativa del professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà e ricorre, pertanto, indipendentemente dalla qualificazione dell’illecito”.
La tesi tradizionale ha tuttavia prestato il fianco a una serie di penetranti
rilievi critici. In primo luogo, pur in assenza di un contratto in senso formale,
il medico dipendente dalla casa di cura non può essere considerato, rispetto al
paziente, un quisque de populo che senza titolo si ingerisce nella sfera giuridica altrui: nel momento in cui il medico viene designato ed il consenso è prestato dal paziente a lui personalmente sorge un rapporto in virtù del quale il medico è tenuto ad osservare gli stessi obblighi cui sarebbe tenuto in base ad un
contratto diretto; il contenuto del comportamento dovuto resta invariato, posto che la regola dell’arte impone una diligenza altissima in ogni caso.
In secondo luogo, è stato evidenziato che l’art. 2043, c.c., ha ad oggetto i soli comportamenti causativi di un danno, ossia i comportamenti peggiorativi,
lesivi, offensivi, non consentendo dunque di sanzionare i comportamenti meramente non migliorativi.
Inoltre, l’inquadramento della responsabilità del medico sub specie di responsabilità aquiliana reca un concreto vulnus all’effettività della tutela somministrata al paziente, in ragione del regime più rigoroso in punto di prescrizione e di onus probandi che da tale inquadramento discende.
Conseguentemente si è cercato in dottrina e giurisprudenza di superare i
limiti dell’impostazione tradizionale, riconducendo in vario modo la respon26
Lezione C1
sabilità del medico dipendente dalla struttura ospedaliera nell’ambito della responsabilità contrattuale.
Secondo una parte della giurisprudenza sia la responsabilità del medico
che quella dell’ente ospedaliero avrebbero natura contrattuale di tipo professionale, trovando entrambe un fondamento unitario nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria. L’assunto sarebbe suffragato dalla norma
costituzionale secondo cui “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti
pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo stato e agli enti pubblici” (art. 28 Cost.). Si è osservato,
in primo luogo, che la responsabilità dell’ente gestore del servizio è diretta, in
quanto l’attività del medico dipendente è ad esso direttamente riferibile in virtù del principio dell’immedesimazione organica (art. 28 Cost.), e, in secondo
luogo, che la responsabilità del medico è, come quella dell’ente pubblico, di tipo contrattuale, atteso che entrambe trovano fondamento nell’esecuzione non
diligente della prestazione del sanitario. Si tratta, tuttavia, di un’impostazione non condivisibile, poiché l’art. 28 Cost. si limita a prevedere che “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili… degli atti compiuti in violazione di diritti” senza specificare la natura
– contrattuale o aquiliana – di tale responsabilità. Inoltre, non dirimente si palesa il rilievo del fondamento (o radice) comune della responsabilità dell’ente e
del medico, posto che la natura della responsabilità discende dalla natura della norma violata e non dalla condotta, per cui la medesima condotta può ben
essere imputata in base a diversi titoli.
Secondo un orientamento dottrinale il rapporto tra medico, paziente e casa di cura andrebbe ricondotto nello schema del contratto a favore di terzo, valorizzando il rapporto che intercorre tra casa di cura e medico dipendente. È,
tuttavia, agevole constatare che il paziente non è soltanto un terzo che ha titolo a richiedere l’esecuzione della prestazione, in quanto è egli stesso parte
del contratto concluso con l’ente ospedaliero. Pertanto, il soggetto danneggiato non fa valere il contratto (di lavoro) esistente tra il sanitario e la casa di cura, ma il diverso contratto da lui concluso con quest’ultima avente ad oggetto
la prestazione sanitaria, oppure propone un’azione di responsabilità extracontrattuale per lesione del diritto alla salute. Del resto, nel momento in cui l’ente
ospedaliero e il medico stipulano il contratto il paziente non è ancora determinato, sicché non può acquistare nell’immediato alcunché.
Identiche ragioni ostano alla riconducibilità del rapporto de quo alla figura
del contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo: a parte la dubbia valenza generale della figura, non è possibile qualificare come terzo un soggetto che comunque stipula un contratto con la casa di cura, diventando, dunque,
parte in senso stretto (non terzo protetto).
È del 1999 il revirement della Cassazione in tema di responsabilità medica:
con la sentenza n. 589 la Suprema Corte prende le distanze dall’impostazione
tradizionale secondo cui la responsabilità contrattuale presuppone necessariamente un contratto in senso formale, affermando che la tesi della responsa27
Obbligazioni in generale 1
bilità aquiliana, nel considerare il medico designato dall’ente ospedaliero come l’autore di un qualsiasi fatto illecito, “sembra cozzare contro l’esigenza che
la forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale”. La Cassazione evidenzia che tale tesi “riduce invero al momento terminale, cioè il danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come
rapporto, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure
del medico e il medico accetta di prestargliele”. Il medico non può essere considerato, rispetto al paziente affidato alle sue cure, un quisque de populo, soggetto soltanto al dovere di neminem laedere gravante su ciascun consociato,
perché “a questo tipo di operatore professionale la coscienza sociale, prima ancora che l’ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere, e cioè
il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua
professionalità, ma giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia
che ne deve contrassegnare l’attività in ogni momento”. Inoltre, se la responsabilità del medico fosse di tipo extracontrattuale, essa sarebbe configurabile
solo nel caso di lesione della salute del paziente, non invece allorché quest’ultimo non realizzi il risultato positivo che secondo le normali tecniche sanitarie avrebbe dovuto raggiungere, posto che il paziente non ha in tal caso subito
un danno rispetto alla situazione quo ante. La Corte di Cassazione ha dunque
concluso nel senso che la responsabilità del medico designato dalla struttura sanitaria non ha natura aquiliana, recependo l’orientamento dottrinale secondo cui sullo stesso graverebbe una responsabilità contrattuale nascente da
“un’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto”, “poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall’arte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo
di prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non facendo,
la quale dà origine a responsabilità contrattuale”.
I giudici di legittimità ricorrono quindi alla figura dell’“obbligazione senza
prestazione”, fondata sul “contatto” sociale tra il medico che presta la sua attività professionale all’interno della struttura ospedaliera e il paziente che ad
essa si rivolge: quando il paziente, che ha stipulato un contratto con la casa di
cura, viene affidato dalla stessa alle cure di un medico, a sua volta legato all’ente ospedaliero da un contratto di lavoro dipendente, sorge un contatto sociale qualificato, ossia un rapporto contrattuale di fatto, che obbliga il medico a
tenere gli stessi comportamenti specifici cui sarebbe tenuto se fosse egli stesso parte del contratto con il paziente. Al fine di non revocare in dubbio l’assunto consolidato secondo cui l’obbligo di prestazione discende per definizione da
un contratto, la Suprema Corte ha affermato, da un lato, che tale contatto sociale non genera doveri di prestazione ma solo doveri di protezione e, dall’altro, che tali doveri di protezione sono tuttavia ontologicamente identici ai doveri di prestazione.
La sentenza accoglie dunque la controversa categoria del “rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale”: la Suprema Corte muove dal principio di atipicità delle fonti delle obbligazioni, dalla formulazione aperta dell’art.
1173, c.c., il quale, stabilendo che le obbligazioni derivano da contratto, da fat28
Lezione C1
to illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico, consente di inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango
costituzionale, che trascendono le singole proposizioni legislative; la Corte valorizza anche le ipotesi legislativamente previste di efficacia di taluni contratti nulli (art. 2126, co. 1, c.c.; art. 2332, commi 2 e 3, c.c.) ed i casi di rapporti che
nella previsione legislativa sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto
vengono istituiti senza una base negoziale, talvolta grazie al semplice “contatto sociale”.
Recentemente, con sentenza n. 10297/2004, poi confermata da altri arresti
della Cassazione, tra cui la sentenza n. 7997/2005, la Suprema Corte ha ribadito, sul solco della pronuncia n. 589/1999, la natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente, valorizzando a tal fine la teoria del contatto
sociale: “L’obbligazione del medico dipendente dall’ente ospedaliero nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul contatto sociale, ha natura contrattuale (Cass., 22.12.1999, n. 589). La responsabilità sia del
medico che dell’ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione ha dunque natura contrattuale ed è quella tipica del professionista, con la
conseguenza che trovano applicazione il regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto alla ripartizione dell’onere della prova e i principi delle
obbligazioni da contratto d’opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza e al grado della colpa”.
4.2. Altre ipotesi di responsabilità da contatto sociale
Come si è accennato, il ricorso all’istituto del contatto sociale si rinviene
anche in relazione a fattispecie diverse. Tra i casi più controversi di responsabilità da contatto sociale deve annoverarsi la responsabilità precontrattuale.
Non vi è infatti unanimità di vedute sul regime applicabile alla violazione degli
obblighi di correttezza nelle trattative, anche se la tesi ancora in auge opina nel
senso che si tratterebbe di un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale.
In dottrina, tuttavia, guadagna sempre maggiori consensi la tesi opposta, secondo cui la responsabilità precontrattuale è attratta nell’alveo della responsabilità contrattuale: i soggetti delle trattative non sono tra loro estranei,
ma sono avvinti da un “contatto” sociale che può dirsi qualificato – in quanto
oggetto di una diretta considerazione da parte dell’ordinamento giuridico – e
che impone a ciascuno taluni obblighi di comportamento, anche attivo, volti
alla salvaguardia dell’interesse perseguito dall’altra parte.
Controverso è anche l’inquadramento della c.d. responsabilità per false
informazioni sub specie di responsabilità contrattuale o extracontrattuale. Ci
si riferisce ai casi in cui un soggetto, normalmente un istituto di credito, fornisce informazioni commerciali e finanziarie sulla solvibilità e sulla credibilità
di un cliente, informazioni sulla base delle quali il destinatario valuta la convenienza di una determinata operazione economica. Il problema ovviamente
non si pone nell’ipotesi in cui il soggetto che richiede le informazioni sia legato
29
Obbligazioni in generale 1
all’istituto di credito da un rapporto contrattuale; il dibattito sulla natura della responsabilità riguarda infatti i casi in cui non sussiste alcun contratto tra
il soggetto danneggiato e il soggetto che fornisce false informazioni (così, per
esempio, nell’ipotesi di cui all’art. 164 del d. lgs. 24.2.1998, n. 58, che sancisce la
responsabilità della società di revisione per i danni arrecati ai terzi a causa della non veridicità delle informazioni contenute nella revisione dei bilanci delle società quotate).
La tesi più risalente, ancorata al dato formale della inesistenza di un contratto con il danneggiato, ravvisa nella fattispecie de qua un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, anche nel caso in cui il danneggiante sia tenuto a
specifici doveri posti direttamente dalla legge.
Non sembra condivisibile neanche la tesi opposta, secondo cui la responsabilità per false informazioni ha in ogni caso, anche in quello specificamente
previsto dal d. lgs. n. 58/1998, natura contrattuale.
Tale impostazione riposa sul rilievo secondo cui l’operatore professionale
non può non essere consapevole del fatto che le informazioni e le certificazioni da lui rilasciate non sono destinate soltanto al soggetto con cui ha un vincolo contrattuale (o, nel caso sopra citato, alla società del cui bilancio si tratta), ma
sono fisiologicamente destinate anche ai terzi, e che esse orientano significativamente le valutazioni e le scelte di tutti gli operatori del mercato. Parte della
dottrina ha ricondotto la fattispecie nello schema del contratto con effetto protettivo nei confronti di terzi, poiché gli operatori che ricevono false informazioni, sulla base delle quali adottano decisioni erronee e dannose, pur non essendo titolari di un rapporto contrattuale, non possono considerarsi estranei alla
sfera giuridica dell’agente, in quanto sono titolari dei diritti che il contratto mirava a proteggere. Una soluzione mediana è stata infine patrocinata da chi ritiene che si possa parlare di contratto con effetto protettivo nei confronti del terzo
almeno quando il contratto di base sia specificamente finalizzato ad una determinata operazione economica con un terzo, conosciuto in modo determinato.
Si pensi al caso in cui un istituto di credito chieda di conoscere le garanzie immobiliari del soggetto che aspira ad ottenere un finanziamento, il quale si rivolga ad una società di consulenza per ottenere una perizia che attesti il valore
del proprio patrimonio immobiliare. Secondo parte della dottrina, pur in mancanza di un contratto tra il consulente e l’istituto di credito, la società di consulenza risponde in via contrattuale nei confronti dell’istituto di credito per le false informazioni: la società di consulenza, legata da un vincolo contrattuale al
soggetto che aspira ad ottenere il finanziamento, è infatti perfettamente a conoscenza del fatto che i dati che attesta sono finalizzati a quella determinata
operazione economica; il terzo è quindi preventivamente noto e non può considerarsi estraneo al rapporto contrattuale. Pertanto l’istituto di credito, in quanto portatore del bene giuridico che il contratto doveva proteggere secondo un
canone di correttezza, sarà legittimato a far valere la responsabilità contrattuale della società di consulenza che abbia fornito informazioni non veritiere. In
tal caso viene applicato il criterio della cd. proximity, o della prossimità del terzo, di cui si avvale la giurisprudenza anglosassone al fine di estendere l’ambito
30
Lezione C1
di operatività della responsabilità contrattuale anche alla posizione di soggetti estranei alla pattuizione contrattuale in tutti i casi in cui comunque, alla luce delle circostanze concrete, tale posizione sia caratterizzata da un particolare
grado di prossimità rispetto agli interessi presi in considerazione nel contratto.
Altra fattispecie in relazione alla quale si registra il ricorso alla teoria del
contatto sociale da parte di un cospicuo orientamento dottrinale e in recenti decisioni giurisprudenziali riguarda la responsabilità della P.A. per i danni cagionati dall’attività amministrativa illegittima: secondo la tesi più recente tale responsabilità ha natura contrattuale, non già aquiliana (cfr. Cass., Sez.
I, 10.1.2003, n. 157). Posto che le due forme di responsabilità si distinguono per
il dovere giuridico violato, si evidenzia che l’amministrazione è tenuta, nello svolgimento della propria attività di cura degli interessi pubblici, a rispettare non già, e non solo, un dovere generico di non ledere l’altrui sfera giuridica,
ma una serie di obblighi comportamentali specifici, anche attivi, posti direttamente dalla legge. Inoltre, il soggetto che subisce un danno a causa dell’attività
amministrativa non può essere considerato un quisque de populo rispetto all’amministrazione, in quanto con l’instaurazione del procedimento amministrativo sorge tra l’amministrazione e il privato una relazione specifica qualificata, volta alla protezione di beni giuridici facenti capo a quest’ultimo. Tale è
il c.d. contatto amministrativo.
Come accennato, la tesi che configura la responsabilità della P.A, per lesione di interessi legittimi come responsabilità contrattuale per inadempimento
di obblighi di protezione nascenti da un contatto qualificato ha ottenuto recentemente l’autorevole avallo della Suprema Corte, che, con sentenza n. 157/03,
ha superato le posizioni espresse nella storica sentenza n. 500/99. La Cassazione rileva che “nel dibattito sull’eterno problema del risarcimento da lesione di
interesse legittimo s’insinua probabilmente oggi, a differenza che in passato, il
disagio di misurare il contatto dei pubblici poteri con il cittadino secondo i canoni del principio di autorità, della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, e in definitiva emerge l’inadeguatezza del paradigma della responsabilità aquiliana”.
Con la legge n. 241 del 1990 i principi di efficienza e di economicità dell’azione amministrativa e di partecipazione del privato al procedimento amministrativo sono diventati criteri giuridici positivi. Come evidenzia la Cassazione, il contatto del cittadino con l’amministrazione è oggi caratterizzato da
uno specifico dovere di comportamento nell’ambito di un rapporto che, in virtù delle garanzie che assistono l’interlocutore dell’attività procedimentale, diviene specifico e differenziato. L’interessato non è più semplice destinatario
passivo dell’azione amministrativa, ma dall’inizio del procedimento diviene
il beneficiario di obblighi che la stessa sent. n. 500/1999 identifica nelle “regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione pubblica deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”. Secondo
la Cassazione, l’interesse al rispetto di queste regole, che costituisce la vera essenza dell’interesse legittimo, assume un carattere del tutto autonomo rispet31
Obbligazioni in generale 1
to all’interesse al bene della vita: l’interesse legittimo si riferisce a fatti procedimentali; questi a loro volta investono il bene della vita, che resta però ai
margini, come punto di riferimento storico.
Come afferma la Suprema Corte, “il fenomeno, tradizionalmente noto come lesione dell’interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento alle
regole di svolgimento dell’azione amministrativa, ed integra una responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale nella misura in cui si
rivela insoddisfacente, e inadatto a risolvere con coerenza i problemi applicativi dopo Cassazione 500/99/SU, il modello, finora utilizzato, che fa capo all’art.
2043, c.c.: con le relative conseguenze di accertamento della colpa”. Peraltro,
aggiunge la Cassazione, “l’inquadramento degli obblighi procedimentali nello
schema contrattuale, come vere e proprie prestazioni da adempiere secondo il
principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1176, c.c.), è proponibile, ove
si voglia sperimentare un modello tecnico-giuridico operativo di ricostruzione
della responsabilità amministrativa, solo dopo l’entrata in vigore della legge n.
241/1990 (che, fra l’altro, all’art. 11, co. 2, rende applicabili agli accordi partecipativi i principi codicistici in materia di obbligazioni e contratti)”.
Sul tema si rinvia alla tattazioen specifica che sarà svolta nella lezione amm.
6. Recentemente, le Sezioni unite della Cassazione, con sent. 27.6.2002, n. 9346,
hanno fatto riferimento, sia pure in un obiter dictum, alla moderna categoria
della responsabilità da contatto sociale qualificato in tema di responsabilità
dell’insegnante di scuola per le lesioni inferte dal minore a sé stesso (cd. autolesioni, vedi anche lezione civle. n. 11). Chiamate a pronunciarsi sulla questione se la presunzione di responsabilità posta dall’art. 2048, co. 2, c.c., a carico
dei precettori trovasse applicazione anche per il danno cagionato dal minore
a se stesso, le Sezioni unite risolvono in senso negativo il contrasto giurisprudenziale registratosi sul punto, evidenziando che l’art. 2048, c.c., è “norma di
propagazione della responsabilità, in quanto, presumendo una colpa in educando o in vigilando, chiama a rispondere genitori, tutori, precettori e maestri
d’arte per il fatto illecito cagionato dal minore a terzi: la responsabilità civile
nasce come responsabilità del minore verso i terzi e si estende ai genitori, tutori, precettori, maestri d’arte”.
Esclusa l’applicazione dell’art. 2048, c.c., le Sezioni unite, pur non avendo
la questione formato oggetto di giudizio nelle fasi di merito, hanno precisato
che la responsabilità dell’insegnante per il danno cagionato dall’alunno minorenne a se stesso deve essere ricondotta non già nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, con conseguente onere per il danneggiato di fornire la
prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito di cui all’art. 2043, c.c.,
bensì nell’ambito della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del regime probatorio di cui all’art. 1218, c.c. La Suprema Corte esclude
l’ipotizzabilità di una responsabilità di carattere aquiliano sul rilevo che” tra
precettore ed allievo si instaura pur sempre, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale il precettore assume, nel quadro complessivo dell’obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla
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Lezione C1
persona”. Sebbene un rapporto formalizzato sussista solo tra genitori ed istituto scolastico, da un lato, e tra quest’ultimo e insegnante, dall’altro, il contatto
sociale qualificato consente di valorizzare tutti quegli specifici obblighi di protezione che l’insegnate assume implicitamente nei confronti dell’allievo, non
solo, dunque, quelli tipici della sua professionalità, attinenti alla preparazione culturale e professionale, ma anche quelli inerenti agli obblighi di vigilanza sul comportamento degli allievi, in modo da evitare che l’allievo possa compiere atti di autolesione.
La tesi del contatto sociale è stata recentemente accolta dal Tribunale di
Milano, con sentenza del 19 gennaio 2004: “Nel giudizio di responsabilità, nel
caso di danno dell’alunno a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non hanno natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che – quanto all’istituto scolastico – l’accoglimento della domanda
di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni,
anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso; e che – quanto
al precettore dipendente dell’istituto scolastico – tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo
si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto
scolastico e dell’insegnante, è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218, c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato
nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né
alla scuola né all’insegnante. Tale principio è applicabile anche a quelle fattispecie in cui non risulta affatto accertata la dinamica del sinistro: o per le particolari difficoltà probatorie del caso concreto o perché lo stesso infortunato non
sia in grado di descrivere compiutamente quanto accaduto (come nel caso di
incidenti ai danni dei bambini frequentanti la scuola materna)”.
Come si evince dalle decisioni giurisprudenziali analizzate, l’adesione alla
teoria del contatto sociale sposta, dunque, fattispecie tradizionalmente presidiate dalla responsabilità aquiliana nell’alveo della responsabilità contrattuale, con le note conseguenze di ordine applicativo in punto, tra l’altro, di onere
della prova e di termine prescrizionale.
4.3. Conclusioni: La responsabilità da contatto sociale e la mappa delle fonti nella lettura data dalle Sezioni unite, sentenza 26.6.2007, n. 14712
La Cassazione (con sentenza del 6.10.2005, n. 19512) ha infine considerato come responsabilità da contatto sociale, ex art. 43 L. assegni, quella della
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Obbligazioni in generale 1
banca che paghi l’assegno circolare a persona diversa dal beneficiario del titolo anche in mancanza di un contratto, ovvero in violazione dell’obbligo paracontrattuale discendente dal contatto sociale. La tesi è stata confortata da ultimo dalla sentenza delle Sezioni unite con la sentenza 26.6.2007, n. 14712, in
dispensa civile 1.
Ci interessa in questa sede sottolineare i punti essenziali della decisone
nella parte in cui si accede ad una lettura nuova della mappa delle fonti ex art.
1173, c.c.
“Pur non senza qualche incertezza, in un quadro sistematico peraltro connotato da un graduale avvicinamento dei due tradizionali tipi di responsabilità, anche la giurisprudenza ha in più occasioni mostrato di aderire a siffatta concezione della responsabilità contrattuale, ritenendo che essa possa
discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (non già
di contratto, bensì) di semplice contatto sociale, ogni qual volta l’ordinamento
imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento. Cosi, ad esempio, è stato attribuito carattere contrattuale non soltanto
all’obbligazione di risarcimento gravante sull’ente ospedaliero per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un medico operante nell’ospedale, ma anche all’obbligazione
del medico stesso nei confronti del paziente, quantunque non fondata sul contratto ma sul solo contatto sociale, poiché a questo si ricollegano obblighi di
comportamento di varia natura, diretti a garantire la tutela degli interessi che
si manifestano e sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (cfr.
Cass., n. 9085 del 2006, Cass., n. 12362 del 2006, Cass., n. 10297 del 2004, Cass.,
n. 589 del 1999 ed altre conformi); e natura contrattuale è stata riconosciuta
anche alla responsabilità del sorvegliante dell’incapace, per i danni che quest’ultimo cagioni a se stesso in conseguenza della violazione degli obblighi di
protezione ai quali il sorvegliante è tenuto, sul presupposto che quegli obblighi
derivino da un rapporto giuridico contrattuale che tra tali soggetti si instaura
per contatto sociale qualificato (cfr. Cass., n. 11245 del 2003).
Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi
altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato
soggetto (o di una determinata cerchia di soggetti).
In quest’ottica deve esser letta anche la disposizione dell’art. 1173, c.c., che
classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le
obbligazioni da contratto (da intendersi nella più ampia accezione sopra indicata) da quelle da fatto illecito. Si potrebbe in verità anche sostenere ed è stato
sostenuto che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta, e che le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici preesistenti ricadono nell’ulteriore categoria degli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità
34
Lezione C1
dell’ordinamento giuridico, cui pure la medesima norma allude. Piuttosto che
obbligazioni di natura contrattuale le si dovrebbe insomma definire obbligazioni ex lege.
La questione sembra avere, in verità, un valore essenzialmente classificatorio, giacché in linea generale il regime cui sono soggette tali obbligazioni ex
lege non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto.
Ma, comunque, tenuto conto del carattere assai vago della definizione adoperata per individuare siffatta ulteriore categoria di obbligazioni (essendosi peraltro i redattori del vigente Codice civile espressamente rifiutati sia di ripetere
la preesistente espressione di obbligazioni derivanti dalla legge, sul presupposto che tutte le obbligazioni si fondano sulla legge, sia di evocare le antiche figure del quasi contratto e del quasi delitto, prive di un reale contenuto determinato), e considerate le difficoltà in cui la stessa dottrina si è sempre trovata
nell’interpretare questa espressione normativa (che taluno non ha esitato a definire “sgangherata”), appare probabilmente preferibile circoscriverne la portata alle sole obbligazioni che con sicurezza ne costituiscono la base storica:
quelle integranti la cosiddetta responsabilità da fatto lecito – in primis la responsabilità derivante dalla gestione di affari altrui o dall’arricchimento privo
di causa la quale né presuppone l’inesatto adempimento di un obbligo precedente (di fonte legale o contrattuale che sia) né dipende da comportamenti illeciti in danno altrui.
Da tali premesse si ricava la natura contrattuale della responsabilità della
banca negoziatrice di assegni bancari (o circolari), la quale abbia pagato detti assegni in violazione delle specifiche regole poste dal primo comma dell’art.
43 l. assegno, nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno: prima di
tutti il prenditore, ma eventualmente anche colui che ha apposto sul titolo la
clausola di non trasferibilità, o colui che abbia visto in tal modo indebitamente utilizzata la provvista costituita presso la banca trattaria (o emittente), nonché, se del caso, questa stessa banca.
Induce a ciò la considerazione che quelle regole di circolazione e di pagamento dell’assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur certamente
svolgendo anche un’indiretta funzione di rafforzamento dell’interesse generale alla regolare circolazione dei titoli di credito, appaiono essenzialmente volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati: ciascuno dei quali ha ragione di confidare sul fatto che l’assegno
verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la legge prevede, la cui concreta attuazione, proprio per questo, è rimessa ad un banchiere, ossia ad un
soggetto dotato di specifica professionalità a questo riguardo.
Ed è appena il caso di aggiungere che tale professionalità del banchiere si
riflette necessariamente sull’intera gamma delle attività da lui svolte nell’esercizio dell’impresa bancaria, e quindi sui rapporti che in quelle attività sono radicati: giacché per lo più si tratta di rapporti, per così dire, asimmetrici, per la
corretta attuazione dei quali il banchiere dispone dì strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti interessati non hanno. Dal che appunto
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Obbligazioni in generale 1
dipende, per un verso, l’affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento, da parte del banchiere, dei compiti inerenti al servizio bancario e, per
altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere medesimo incorre nei
confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa, egli non osservi le regole al riguardo prescritte dalla legge.
La previsione del secondo comma del citato art. 43, in virtù della quale colui che paga malamente l’assegno non trasferibile ne assume responsabilità,
letta in combinazione con le norme dettate dal comma precedente in ordine
ai soggetti in favore dei quali l’assegno deve essere pagato, sta appunto a significare che la responsabilità del banchiere dipende dalla violazione di quelle norme. È bensì vero che l’ordinamento conosce anche casi di responsabilità aquiliana contemplati da norme specifiche, che costituiscono attuazione
del principio generale posto dall’art. 2043, c.c., ma deve pur sempre trattarsi
di situazioni nelle quali la responsabilità si manifesta primariamente nell’obbligo risarcitorio. Qui, invece, in capo al banchiere presso cui l’assegno non
trasferibile è posto all’incasso sorge, prima d’ogni altro, un obbligo professionale – derivante dalla sua stessa funzione, in considerazione della quale la legge stabilisce, appunto, che l’assegno possa esser girato per l’incasso solo ad un
banchiere di far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso.
E la responsabilità deriva appunto dalla violazione di un siffatto obbligo di
protezione, che opera nei confronti di tutti i soggetti interessati alla regolare circolazione dei titolo ed al buon fine della sottostante operazione: obbligo
preesistente, specifico e volontariamente assunto. Il che, per le ragioni dianzi chiarite, necessariamente conduce fuori dall’ambito della responsabilità
aquiliana, non permette di configurare un caso di responsabilità ex lege (intesa come responsabilità da atto lecito) e porta invece a concludere per la natura (lato sensu) contrattuale della responsabilità ricadente sulla banca a norma
del citato art. 43, co. 2, l. assegno.”
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Dispensa C1
Obbligazioni in generale
Principi generali: fonti, buona fede, contatto sociale
INDICE
A. BUONA FEDE
1. Consegna di un assegno circolare
a. Cassazione civile, Sez. un., 18.12.2007
2. Frazionamento artificioso del diritto in più processi
a. Cassazione civile, Sez. un., 15.11.2007, n. 23726
3. Violazione degli obblighi informativi e validità del contratto
a. Cassazione civile, Sez. I, 16.2.2007, n. 3683 (ord.)
b. Cassazione civile, Sez. un., 19.12.2007, n. 26724
B. CONTATTO SOCIALE
a. Cassazione civile, Sez. un., 26.6.2007, n. 14712
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Dispensa C1
A. BUONA FEDE
1. Consegna di un assegno circolare
a. Cassazione civile, Sez. un., 18.12.2007
Nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali
non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno
circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel
secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l’estinzione dell’obbligazione con l’effetto liberatorio del debitore si
verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell’inconvertibilità dell’assegno.
(Omissis)
2. Il motivo pone la questione se nelle obbligazioni pecuniarie abbia efficacia estintiva solo il pagamento in moneta contante, oppure anche mediante consegna di assegni circolari.
La questione si risolve in quella se il creditore possa rifiutare senza giustificato motivo il pagamento che il debitore intenda effettuare con assegni circolari e pretendere che
avvenga con la corresponsione di denaro contante, pena l’inadempimento e gli effetti
conseguenti di “mora debendi”.
Il tema dell’indagine è quindi il carattere obbligatorio della modalità del pagamento con dazione di moneta avente corso legale e correlativamente la rifiutabilità di mezzi alternativi di pagamento.
La soluzione presenta notevole interesse, considerato che nell’esperienza pratica ed
ancor più nel mondo degli affari l’estinzione della maggior parte delle obbligazioni pecuniarie e della quasi totalità di quelle di importo rilevante avviene con assegni circolari o mezzi alternativi di pagamento.
3. Secondo l’orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza di questa
Corte l’invio di assegni circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento
di somme di denaro si configura come datio in solutum o più precisamente come proposta di datio pro solvendo, la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del
creditore (che può manifestarsi anche con comportamento concludente) ovvero dalla
sua accettazione che è ravvisabile quando trattenga e riscuota l’assegno; in tale ipotesi
la prestazione diversa da quella dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell’esito della condizione “salvo buon fine” o “salvo incasso”
inerente all’accettazione di un credito anche cartolare, in pagamento dell’importo dovuto in numerario.
3.1. L’orientamento risale alla sentenza 22.7.1973, n. 2200, ed è stato seguito dalle
sentenze 14.4.1975, n. 1412; 3.7.1980, n. 4205; 5.1.1981, n. 24; 16.2.1982, n. 971; 8.1.1987, n.
17; 19.7.1993, n. 8013; 3.2.1995, n. 1326; 3.4.1998, n. 3427; 21.12.2002, n. 18240; 10.2.2003,
n. 1939; 10.6.2005, n. 12324; 14.2.2007, n. 3254.
La sua più completa espressione è nella sentenza 10.6.2005, n. 12324, il cui “iter” argomentativo si articola nelle seguenti proposizioni.
Il dato letterale dell’art. 1277, co. 1, c.c., comporta che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale; sebbene l’assegno sia bancario che circolare costi-
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Dispensa C1
tuisca, a differenza della cambiale, mezzo di pagamento, la consegna o trasmissione di
esso, salva diversa volontà delle parti, si intende fatta pro solvendo e non “pro soluto” con
esclusione dell’immediato effetto estintivo del debito; l’invio di assegno circolare in luogo della somma di denaro configura violazione sia degli artt. 1277 e 1197, c.c. (rappresentando una datio pro solvendo in assenza di consenso del creditore) che dell’art. 1182, c.c.
(secondo il quale l’obbligazione avente ad oggetto denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore) in quanto comporta la sostituzione del domicilio del creditore con
la sede dell’istituto bancario presso cui è riscuotibile l’assegno; l’art. 1277, c.c., è norma
derogabile che cessa di operare, rendendo inapplicabile il principio secondo cui il creditore di somme di denaro non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito anche se assistiti da particolari garanzie di solvibilità dell’emittente come gli assegni circolari, quando esista una manifestazione di volontà espressa o presunta del creditore in
tale senso; non si può ritenere che la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento in contanti, estingue l’obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare la sua collaborazione ai sensi dell’art. 1175, c.c., in quanto la collaborazione è dovuta solo per ricevere
l’oggetto della prestazione e non un oggetto diverso; i principi sopra esposti valgono se
il debito pecuniario non supera l’importo di euro 12.500; se lo supera vige una particolare disciplina (d.l. 143/1991 convertito in L. 197/1991) che conserva, tuttavia, piena valenza all’art. 1227.
3.2. Il concetto fondamentale è che l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria avviene attraverso il trasferimento della moneta contante attuato con la consegna materiale di pezzi monetari nelle mani del creditore.
L’obbligazione pecuniaria è assimilata al debito di dare una quantità di cose fungibili (i pezzi monetari).
La titolarità della disponibilità monetaria è collegata al possesso e la sua circolazione importa la dazione di pezzi monetari considerati quali cose da trasferire in proprietà al creditore.
Come è stato osservato, l’adempimento con denaro contante realizza l’attribuzione
della moneta al creditore con gli strumenti del terzo libro del Codice civile attraverso le
categorie del possesso e della proprietà.
4. Secondo altro orientamento assolutamente minoritario nella giurisprudenza di
questa Corte la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro, estingue l’obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all’adempimento dell’obbligazione a norma dell’art. 1175, c.c.
Sono espressive di questo orientamento le sentenze 16.2.1998, n. 1351; 7.7.2003, n.
10695.
L’orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari in ragione delle
modalità di emissione assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma
di denaro indicata. Sebbene essi non siano denaro né possano svolgerne la funzione, la
facilità della circolazione e la sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere
contrario a buona fede e quindi illegittimo il loro rifiuto da parte del creditore.
Pertanto, se il creditore non ha un apprezzabile interesse a ricevere il denaro contante né ha ragione di dubitare della regolarità ed autenticità degli assegni, la consegna di essi estingue l’obbligazione di pagamento sia pure con la clausola implicita del buon fine.
L’obiezione che il creditore deve recarsi presso la banca per riscuotere l’assegno,
mentre di regola ha diritto di ricevere la prestazione al suo domicilio, è superata con
il riferimento alla crescente considerazione sociale degli assegni circolari e con il fatto
che normalmente il creditore ha un conto bancario sul quale deposita denaro e titoli.
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Dispensa C1
4.1. La valutazione si sposta dal comportamento del debitore a quello del creditore
ed ha come oggetto la verifica della legittimità del rifiuto del pagamento a mezzo assegno circolare alla luce del principio della correttezza e della buona fede oggettiva.
Il principio, desunto dall’art. 1175 (che impone l’obbligo di comportarsi secondo le
regole della correttezza) e dall’art. 1375, c.c. (che stabilisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede), costituisce il limite oltre il quale il rifiuto del creditore
diventa illegittimo ed il pagamento con assegno circolare spiega efficacia solutoria salvo buon fine.
Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell’obbligazione pecuniaria il principio della correttezza e della buona fede nella prospettiva di adeguare il dato normativo alle esigenze della realtà concreta dove la circolazione del denaro
a mezzo assegni circolari garantisce maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un
aggancio a substrati fisici.
4.2. In dottrina si è osservato che sulla base del criterio della correttezza dell’adempimento si possono raggiungere i medesimi risultati dell’ordinamento tedesco che al §
362 del BGB stabilisce il principio che il rapporto obbligatorio si estingue quando la prestazione dovuta ha efficacia per il creditore e, cioè, quando si è definitivamente consolidata nel patrimonio dello stesso; questo principio ha consentito alla giurisprudenza tedesca di affermare che il pagamento eseguito mediante mezzi alternativi (nel caso
mediante bonifico bancario) diventa definitivamente efficace per il creditore quando la
somma di denaro entra nella sua piena e libera disponibilità (BGH 28.10.1998 in Neue Juristiche Wochenschrift, 1999, 210).
4.3. Costituisce riflesso dell’orientamento minoritario l’affermazione contenuta
nella sentenza di questa Corte 6.9.2004, n. 17961, secondo la quale l’assegno circolare è
considerato a tutti gli effetti equivalente al denaro contante, per cui il pagamento effettuato tramite la consegna di tale assegno estingue immediatamente l’obbligazione.
Si tratta, peraltro, di un “obiter” privo di supporto giustificativo.
Contiene una chiara esposizione dell’orientamento la sentenza 19.5.2006, n. 11851,
laddove rileva che questa Corte non ha affermato che l’assegno circolare costituisce un
mezzo di pagamento, ma soltanto che il rifiuto di esso nei rapporti tra debitore e creditore può essere contrario al principio di buona fede, stante la sicurezza del buon fine ed il
minimo aggravio per il creditore, pur senza prendere posizione sulla questione ed anzi
confermando che l’assegno circolare rimane un titolo di credito con tutte le conseguenze che ne derivano in base alla legge sulla circolazione del titolo.
Condivide l’orientamento minoritario la sentenza 19.12.2006, n. 27158, secondo la
quale, se è vero che la consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante, è altrettanto vero che, costituendo l’assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo alcun pericolo di mancanza della provvista presso la banca obbligata al pagamento, la “datio” di tale assegno secondo gli usi
negoziali, come è prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o, comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente idonea ad estinguere l’obbligazione senza che
occorra un preventivo accordo delle parti in tale senso o il rilascio di una quietanza liberatoria.
5. Nella dottrina più recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro
contante è l’unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va “scardinata” e va riconosciuta efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta, come l’assegno circolare, dovendosi intendere
per “somma di denaro” la funzione ideale del mezzo monetario.
In questo ambito si distingue fra moneta scritturale incentrata sulle scritturazioni
bancarie, che riposa in definitiva sulla garanzia che offrono le banche, ed altri sistemi
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Dispensa C1
di pagamento, come la cambiale, precisandosi che l’effetto satisfattorio si realizza con la
creazione della disponibilità monetaria a favore del creditore.
L’idea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto
reale sui pezzi monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.
Nella prospettiva della smaterializzazione il principio nominalistico (in base al
quale il debitore si libera dal proprio debito con una quantità di moneta corrispondente
a quella “nominalmente” dovuta a prescindere dalle variazioni del suo potere di acquisto) riguarda la disciplina dei mezzi di pagamento e, cioè, la determinazione della quantità della somma da offrire in pagamento e non la qualità dei mezzi di pagamento.
La linea di tendenza è verso l’eliminazione degli spostamenti di moneta contante,
oltre che per esigenze di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l’impiego di notevoli quantità di numerario), perché la custodia, la circolazione e lo scambio
attraverso moneta contante sono valutati inefficienti ed insicuri specialmente per importi rilevanti.
L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di
consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all’estinzione del debito, nella quale le parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza.
Ove avvenga con mezzi diversi, l’adempimento si può considerare efficace e liberatorio solo quando realizza i medesimi effetti del pagamento per contanti e, cioè, quando
pone il creditore nelle condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, senza
che rilevi se la disponibilità sia riconducibile ad un rapporto di credito verso una banca
presso la quale la somma sia stata accreditata.
Si è osservato che nell’ordinamento manca una regola di parificazione della moneta
avente corso legale a quella scritturale; tale regola si può, però, desumere da un’abbondante legislazione speciale che si inserisce nella generale tendenza alla decodificazione
caratteristica dell’epoca attuale.
6.1. Nell’interpretazione della normativa codicistica sul sistema di pagamento dei
debiti pecuniari non si può prescindere dai numerosi interventi legislativi infittitisi negli ultimi tempi che hanno introdotto sistemi alternativi, rendendoli frequentemente
obbligatori.
In questo ambito assumono particolare rilievo il d.l. 3.5.1991, n. 143, convertito con
modificazioni in L. 5.7.1991, n. 197, che pone il divieto di effettuare pagamenti mediante trasferimento di denaro contante e titoli al portatore per somme superiori ad euro
12.500, ed il d. l. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni in L. 4.8.2006, n. 248, secondo cui i compensi in denaro per l’esercizio di arti e professioni sono riscossi esclusivamente mediante assegni non trasferibili o bonifici o altre modalità di pagamento
bancario o postale nonché mediante sistemi di pagamento elettronici, salvo che per importi inferiori ad euro 100.
A seguito di questi interventi l’area di applicazione della normativa codicistica si è
a tal punto ristretta che il sistema di pagamento da essa previsto è diventato addirittura marginale.
Né vale l’osservazione che siccome il d.l. 143/1991 conserva valenza all’art. 1277, c.c.,
il creditore ha il diritto di pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, sia pure attraverso l’intermediario abilitato che subentra nella posizione del debitore (Cass.,
10.6.2005, n. 12324), in quanto la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi sistema alternativo di pagamento, con la precisazione che il rischio di convertibilità e, cioè, l’eventualità che la banca non sia in grado di garantire la conversione in moneta legale dipende in definitiva dal grado di affidabilità della banca.
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Dispensa C1
6.2. La disciplina del sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie è contenuta negli artt. 1277, 1182, 1197, c.c.
6.3. Come già detto, l’interpretazione dell’art. 1277 privilegiata dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte è che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente
corso legale nello Stato ed il creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento,
compreso l’assegno circolare che pure è assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.
In dottrina si è osservato che l’art. 1277 non riguarda le modalità di pagamento, ma
il sistema valutario nazionale e la necessità, quindi, che i mezzi monetari impiegati si
riferiscano ad esso, evidenziando che secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore cui l’ordinamento attribuisce la funzione di unità di misura dei valori
monetari o secondo una concezione più raffinata “ideal unit”, astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.
6.4. Considerato che nell’ambiente socio-economico l’assegno circolare e quello
bancario costituiscono mezzi normali di pagamento; che la circolazione del denaro tende a realizzarsi con strumenti sempre più sofisticati affrancati dalla consegna materiale
di numerario per ragioni di sicurezza e velocizzazione dei rapporti; che collateralmente
alla disciplina codicistica è cresciuta una legislazione che ha introdotto sistemi alternativi di pagamento, rendendoli spesso obbligatori, si impone un’interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell’art. 1277 che superi il dato letterale e, cogliendone l’autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.
6.5. Si ritiene, pertanto, che l’espressione “moneta avente corso legale nello Stato al
momento del pagamento” significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al
sistema valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio.
Ed in altri termini la moneta avente corso legale non è l’oggetto del pagamento che è
rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro.
6.6. Con questa interpretazione dell’art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di
pagamento, purché garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per
contanti e, cioè, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta.
Tale effetto sicuramente produce l’assegno circolare con il quale, stante la precostituzione della provvista, tramite l’intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro con la messa a disposizione del creditore.
Il rischio di convertibilità e, cioè, l’eventualità che per qualsiasi ragione la banca non
sia in grado di assicurare la conversione dell’assegno in moneta legale rimane a carico
del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell’operazione.
6.7. Occorre precisare che lo schema della datio pro solvendo con l’applicazione della regola stabilita dall’art. 1197, c.c., rimane estraneo all’impiego del mezzo alternativo
di adempimento in quanto la moneta avente corso legale non è l’oggetto del pagamento,
costituito dal valore monetario o quantità di denaro, per cui tale mezzo non è niente altro che una diversa modalità di adempimento.
Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che sistemi
diversi di pagamento, imposti per somme superiori a 12.500 euro, non siano ammessi
per somme inferiori.
6.8. La raggiunta conclusione non trova ostacolo nell’art. 1182, c.c., sul luogo dell’adempimento.
Vale in proposito considerare che l’obbligazione pecuniaria non è assimilabile all’obbligazione di dare cose fungibili, sicché non risulta perfettamente adattabile lo schema di tale tipo di obbligazione, mentre assume rilevanza l’interesse del creditore alla
giuridica disponibilità della somma invece che al possesso dei pezzi monetari.
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Dispensa C1
In questa prospettiva il concetto di domicilio del creditore non coincide con il suo
domicilio anagrafico soggettivamente riconducibile alla persona fisica, ma deve essere
oggettivizzato e può individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso
la quale il creditore ha un conto.
6.9. Mentre se il debitore paga in moneta avente corso legale il debito pecuniario di
importo inferiore ad euro 12.500 o per il quale non sia imposta una diversa modalità di
pagamento, il creditore non può rifiutare il pagamento e l’effetto liberatorio si verifica al
momento della consegna della somma di denaro, se il debitore paga con assegno circolare o con altro sistema che assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il
creditore può rifiutare il pagamento solo per giustificato motivo che deve allegare ed all’occorrenza anche provare; in questo caso l’effetto liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.
La valutazione del comportamento del creditore va fatta in base alla regola della
correttezza e della buona fede oggettiva.
7. Il contrasto va, pertanto, risolto nel senso che “nelle obbligazioni pecuniarie, il cui
importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa
modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente
corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva;
l’estinzione dell’obbligazione con l’effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo
caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio
dell’inconvertibilità dell’assegno”.
(Omissis)
2. Frazionamento artificioso del diritto in più processi
a. Cassazione civile, Sez. un., 15.11.2007, n. 23726
Il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario è contrario alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di
solidarietà di cui all’art. 2 Costituzione, e si risolve in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda).
(Omissis)
3. Può quindi passarsi all’esame della questione di massima devoluta a queste Sezioni unite.
La quale, qui, per altro, rileva unicamente con riguardo alla pronuncia del G. di p.
sulle spese – per il profilo della loro mancata attribuzione alla Autocori, per sua parziale
soccombenza – e non anche alla statuizione di accoglimento, e di presupposta ammissibilità dell’esame, delle domande di pagamento frazionato del credito, in ordine alla quale non è stata proposta impugnazione incidentale da parte dell’odierna resistente.
4. Con la sentenza n. 108 del 2000, in sede di composizione di precedente contrasto, queste Sezioni unite si sono, per altro, già pronunziate, in senso affermativo, sul tema della frazionalità della tutela giudiziaria del credito. Ritenendo, in quella occasione,
“ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento, par-
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Dispensa C1
ziale, con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non
sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni”.
5. Nel rimeditare questa soluzione – come sollecitato con la su riferita ordinanza di
rimessione – il Collegio ritiene ora però di non poterla mantenere ferma, in un quadro
normativo nel frattempo evolutosi nella duplice direzione, sia di una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede – siccome specificativa (nel contesto del rapporto obbligatorio) degli “inderogabili doveri di solidarietà”, il cui adempimento è richiesto dall’art. 2 della Costituzione – sia in relazione al
canone del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 della Costituzione.
In relazione al quale si impone una lettura “adeguata” della normativa di riferimento (in particolare dell’art. 88, c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo
della “ragionevolezza della durata” del procedimento e della “giustezza” del “processo”,
inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che “giusto”
non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione
in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il
limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi.
5.1. Per il primo profilo, viene in rilievo l’ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, che a quella clausola generale attribuisce all’un tempo forza
normativa e ricchezza di contenuti, inglobanti anche obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale (cfr., sull’emersione di questa linea di indirizzo, Cass., Sez. I n. 3775/94; Id. n. 10511/99; Sez. un., 18128/2005).
Se, infatti, si è pervenuti, in questa prospettiva, ad affermare che il criterio della
buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi (cfr., in particolare, nn. 3775/94 e 10511/99 citt.), a maggior
ragione deve ora riconoscersi che un siffatto originario equilibrio del rapporto obbligatorio, in coerenza a quel principio, debba essere mantenuto fermo in ogni successiva fase, anche giudiziale, dello stesso (cfr. Sez. III, n. 13345/06) e non possa quindi essere alterato, ad iniziativa del creditore, in danno del debitore.
Il che, però, è quanto, appunto, accadrebbe in caso di consentita parcellizzazione
giudiziale dell’adempimento del credito. Della quale non può escludersi la incidenza,
in senso pregiudizievole, o comunque peggiorativo, sulla posizione del debitore: sia per
il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato
inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il residuo [come propriamente nel
caso esaminato dalla citata Sez. un., n. 108/00 cit., in cui la richiesta di pagamento per
frazione era finalizzata ad adire un giudice inferiore rispetto a quello che sarebbe stato
competente a conoscere dell’intero credito], sia per il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il debitore dovrebbe sottostare, a fronte della moltiplicazione di (contestuali)
iniziative giudiziarie, come nel caso dei processi a quibus.
Non rilevando in contrario che il frazionamento del credito, come in precedenza affermato, possa rispondere ad un interesse non necessariamente emulativo del creditore
(come quello appunto di adire un giudice inferiore, più celere nella soluzione delle controversie, confidando nell’adempimento spontaneo da parte del debitore del residuo debito), poiché – a parte la pertinenza di tale considerazione alla sola ipotesi (di cui alla
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Dispensa C1
sentenza 108/00) del frazionamento non contestuale – è decisivo il rilievo che resterebbe comunque lesiva del principio di buona fede, nel senso sopra precisato, la scissione
del contenuto della obbligazione operata dal creditore, per esclusiva propria utilità con
unilaterale modificazione aggravativa della posizione del suo debitore.
Ad evitare la quale neppure è persuasiva, infine, la considerazione che “il debitore
potrebbe ricorrere alla messa in mora del creditore, offrendo l’intera somma”, non essendo tale soluzione praticabile ove, come possibile, il debitore non ritenga di essere tale.
5.2. Oltre a violare, per quanto sin qui detto, il generale dovere di correttezza e buona
fede, la disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del rapporto (sia
pur nella fase patologica della coazione all’adempimento), in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve automaticamente anche in abuso dello stesso.
Risultando già per ciò solo la parcellizzazione giudiziale del credito non in linea con
il precetto inderogabile (cui l’interpretazione della normativa processuale deve viceversa uniformarsi) del processo giusto.
Ulteriore vulnus al quale deriverebbe, all’evidenza, dalla formazione di giudicati
(praticamente) contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie collegate allo stesso rapporto.
Mentre l’effetto inflattivo riconducibile ad una siffatta (ove consentita) moltiplicazione di giudizi ne evoca ancora altro aspetto di non adeguatezza rispetto all’obiettivo, costituzionalizzato nello stesso art. 111, della “ragionevole durata del processo”, per
l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata.
5.3. L’esaminato primo motivo del ricorso va quindi respinto, enunciandosi, in ordine alla questione di massima ad esso sotteso, il principio (con il quale risulta in linea la
sentenza impugnata) per cui è contraria alla regola generale di correttezza e buona fede,
in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Costituzione, e si risolve in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario.
(Omissis)
3. Violazione degli obblighi informativi e validità del contratto
a. Cassazione civile, Sez. I, 16.2.2007, n. 3683
È rimesso alle Sezioni unite il contrasto giurisprudenziale concernente la questione se
la violazione degli obblighi gravanti sulle parti nel corso delle trattative precontrattuali, ed
in specie la violazione degli specifici obblighi di informazione che la legge pone a carico degli intermediari finanziari nei confronti dei propri clienti, determini la nullità dei successivi contratti per violazione di norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c.
8. Con riferimento al primo motivo di ricorso, osserva il collegio che il principio
enunciato dalla Corte d’Appello di Torino (v. il precedente punto 5a) è conforme ad un
orientamento espresso da questa Corte e secondo il quale “la nullità del contratto per
contrarietà a norme imperative, ai sensi dell’art. 1418, c.c., co. 1, postula che siffatta violazione attenga ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e quindi l’illegittimità della condotta tenuta nel corso
delle trattative per la formazione del contratto, ovvero nella sua esecuzione, non determina la nullità del contratto, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali sia in contrasto, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista anche
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Dispensa C1
in riferimento a tale ipotesi”, con la conseguenza che è da escludere “che l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, concernente contratti
aventi ad oggetto la compravendita di valori immobiliari, cagioni la nullità del negozio,
poiché essi riguardano elementi utili per la valutazione della convenienza dell’operazione e la loro violazione neppure da luogo a mancanza del consenso” (Cass., 29.9.2005,
n. 19024. In senso conforme, Cass., 9.1.2004, n. 111, secondo cui la “violazione, da parte della banca, dell’obbligo di fornire preventivamente adeguate informazioni al cliente non è in alcun modo riconducibile ad un’ipotesi di nullità dei contratti”. Sul punto, in
modo analogo, si veda anche Cass., 18.10.1980, n. 5610, per la quale “la disposizione dell’art. 1337, c.c. – che impone alle parti l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello
svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto… è norma meramente precettiva o imperativa positiva, dettata a tutela ed a limitazione degli interessi privatistici nella formazione ed esecuzione dei contratti, e non può, perciò, essere inclusa tra le
“norme imperative”, aventi invece contenuto proibitivo, considerate dall’art. 1418, co. 1,
c.c., la cui violazione determina la nullità del contratto anche quando tale sanzione non
sia espressamente comminata”).
8.1. I principi enunciati si pongono però in contrasto con un diverso orientamento
di questa Corte, secondo cui – sul presupposto che “in presenza di un negozio contrario a norme imperative, la mancanza di un espressa sanzione di nullità non è rilevante ai fini della nullità dell’atto negoziale in conflitto con il divieto, in quanto vi sopperisce l’art. 1418, co. 1, c.c., che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e
disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagna una previsione di nullità” e tenuto conto che “il carattere inderogabile delle disposizioni della L. 2.1.1991, n. 1, che prevedono la necessità dell’iscrizione all’albo delle
società di intermediazione mobiliare, previo accertamento da parte della CONSOB della sussistenza di una serie di requisiti, deriva dalla natura, pubblica e generale, degli interessi con esse garantiti, che concernono la tutela dei risparmiatori “uti singuli” e quella del risparmio pubblico come elemento di valore dell’economia nazionale” – “è affetto
da nullità assoluta il contratto di swap (da annoverare tra le attività di intermediazione
mobiliare disciplinate dalla suddetta legge) stipulato, in contrasto con la stessa, da un
intermediario abusivo, atteso l’interesse dell’ordinamento a rimuovere detto contratto
per le turbative che la conservazione di esso è destinata a creare nel sistema finanziario generale” (Cass., 7.3.2001, n. 3272. Sulla nullità del contratto di “swap” stipulato dopo l’entrata in vigore della L. 2.1.1991, n. 1 da soggetto diverso dalla SIM, o da una società d’intermediazione mobiliare non iscritta al relativo albo, in quanto contrario a norme
da ritenersi imperative, perché dirette a tutelare l’interesse di carattere generale alla regolarità dei mercati e alla stabilità del sistema finanziario, v. anche Cass., 15.3.2001, n.
3753; 5.4.1001, n. 5052).
8.2. In particolare, in difformità dall’orientamento espresso dalle pronunce indicate
al precedente punto 8., le sentenze da ultimo richiamate affermano i seguenti principi:
8.2.1. la nullità del contratto può derivare anche dalla violazione di norme imperative che non attengano ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura ed al contenuto del contratto, ma che pongano limiti all’autonomia negoziale delle
parti sotto il profilo delle qualità soggettive di determinati contraenti e dell’esistenza di
specifici presupposti, (nella specie, mancanza nel soggetto svolgente attività di intermediazione mobiliare delle caratteristiche della SIM o dell’iscrizione nell’apposito albo);
8.2.2. è irrilevante, in caso di contrarietà del negozio a norme imperative, la mancata previsione normativa di un’espressa sanzione di nullità, sopperendo a tale mancanza
il disposto dell’art. 1418, co. 1, c.c., (“il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge non disponga diversamente”), che fissa un principio generale
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Dispensa C1
rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagna una previsione di nullità.
8.3. In realtà frequenti sono i casi giurisprudenziali di dichiarazione della nullità del
contratto per violazioni di norme imperative non attinenti al contenuto del negozio, oppure concernenti la mancata attuazione di adempimenti preliminari o le modalità esecutive del rapporto contrattuale.
8.3.1. Si è così affermato che è nullo, ai sensi dell’art. 1418, c.c., il contratto di agenzia
commerciale stipulato con un soggetto non iscritto nel ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio, per violazione della norma imperativa di cui alla L. 3.5.1985, n. 204,
art. 9, non derogabile da parte dei contraenti in quanto rivolta alla protezione non solo
degli interessi della categoria professionale degli agenti, ma anche degli interessi generali della collettività (Cass., 4.11.1994, n. 9063; 18.7.2002, n. 10427). Nello stesso senso è
stata dichiarata la nullità per contrarietà a norma imperativa del contratto di mediazione stipulato con il legale rappresentante di una società non iscritta nell’albo dei mediatori, in violazione della L. 3.2.1989, n. 39, art. 8 e del D.M. 21.12.1990, n. 452, art. 11 (Cass.,
18.7.2003, n. 11247; 15.12.2000, n. 15849).
8.3.2. Con riferimento al d.l. 6.6.1956, n. 476, art. 2, convertito nella L. 25.7.1956, n.
786, nella parte in cui fa divieto ai residenti in Italia di compiere qualsiasi atto idoneo a
produrre obbligazioni tra essi e i non residenti senza l’autorizzazione ministeriale, così fissando, per ragioni di ordine pubblico attinenti all’esigenza di evitare esodo di capitali, una prescrizione assoluta e inderogabile, si è ritenuto affetto da nullità insanabile per contrasto con una norma imperativa di legge, ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c.,
l’atto costitutivo di una di dette obbligazioni assunto in mancanza di autorizzazione,
restando irrilevante che il medesimo fatto sia sanzionatale anche in via amministrativa in applicazione dell’art. 15 del citato decreto (Cass., Sez. un., 2.6.1984, n, 3357; Cass.,
22.6.1990, n. 6336; 7.9.1992, n. 10260; 17.1.1996, n. 365; 10.5.2005, n. 9767; 19.9.2006, n.
20261).
8.3.3. Con riferimento a diversa fattispecie relativa ad operazioni sottoposte alla disciplina valutaria, si è ritenuto che fosse vietato alla banca accettare mandati di pagamento all’estero congegnati in modo tale da escludere qualsiasi controllo della banca
mandataria circa la legittimità valutaria dell’operazione, con la conseguenza della nullità, per contrasto con norme imperative, di mandati conclusi senza l’assunzione da parte della banca di alcuna garanzia che il trasferimento di valuta all’estero avvenisse nella
ricorrenza delle condizioni imposte inderogabilmente dalla normativa vigente in materia (Cass., 8.7.1983, n. 4605).
8.3.4. In relazione alla L. 9.8.1982, n. 646, art. 21, contenente la normativa penale antimafia in materia di appalti pubblici e in forza del quale è vietato all’appaltatore di opere appaltate dalla pubblica amministrazione di concedere in subappalto o a cottimo, in
tutto o in parte, le opere stesse senza l’autorizzazione dell’amministrazione committente, è stata dichiarata, ai sensi dell’art. 1418, c.c., la nullità del subappalto stipulato in violazione di tale norma imperativa (Cass., 18.11.1997, n. 11450; 16.7.2003, n. 11131).
8.3.5. Con sentenza del 3.8.2005, n. 16281, questa Corte ha affermato che la norma di
cui al d. lgs. 30.12.1992, n. 502, art. 3, co. 7, come modificato dal d. lgs. 7.12.2003, n. 517,
art. 4, con la quale sono stati fissati i requisiti di specifica esperienza professionale del
soggetto che il direttore generale della ASL può scegliere come direttore amministrativo,
ha carattere imperativo, in quanto è preordinata alla finalità di assicurare a tale struttura sanitaria pubblica dirigenti di vertice di comprovata esperienza e capacità, con la
conseguenza che la violazione della norma suddetta determina la nullità del contratto di
lavoro stipulato con il soggetto designato, in quanto, attesa l’amplissima discrezionalità attribuita al direttore generale nell’individuazione dei suoi collaboratori con il ricorso
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allo strumento privatistico del rapporto contrattuale, solo la sanzione della nullità può
ritenersi idonea ad assicurare effettività alla prescrizione legale.
8.3.6. Anche la fattispecie incriminatrice della circonvenzione d’incapace prevista
dall’art. 643, c.p., (il cui scopo va ravvisato più che nella tutela dell’incapacità in sé e per
sé considerata, nella tutela dell’autonomia privata e della libera esplicazione dell’attività
negoziale delle persone in stato di menomazione psichica) deve annoverarsi tra le norme imperative la cui violazione comporta, ai sensi dell’art. 1418, c.c., oltre alla sanzione
penale, la nullità del contratto concluso in spregio della medesima (Cass., 23.5.2006, n.
12126; 27.1.2004, n. 1427; 29.10.1994, n. 8948).
8.4. Non rileva, ai fini dell’esclusione dell’evidenziato contrasto giurisprudenziale,
il fatto che, con riferimento ad alcune fattispecie di nullità contrattuali conseguenti alla mancanza in capo ad una delle parti della prescritta autorizzazione, la giurisprudenza abbia qualificato l’autorizzazione stessa come “requisito della relativa fattispecie”,
non soltanto attinente alla fase dell’adempimento del debito, ma anche inerente direttamente alla costituzione del rapporto obbligatorio (Cass., Sez. un., 2.6.1984, n. 3357;
Cass., 22.6.1990, n. 6336; 10.5.2005, n. 9767; 19.9.2006, n. 20261), perché, come sopra evidenziato, in altri casi la nullità del contratto è stata dichiarata ex art. 1418, c.c., per la
violazione di norme imperative concernenti l’attuazione di adempimenti preliminari,
o le modalità esecutive del rapporto contrattuale (v, sopra, i punti 8.3.3., 8.3.4. e 8.3.6.),
sia perché non sembra sottrarsi all’esigenza di un riesame critico, e comunque di un
approfondimento, l’affermazione secondo cui l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, non cagionerebbe la nullità del contratto, poiché
detti obblighi riguarderebbero solo elementi utili per la valutazione della convenienza dell’operazione e la loro violazione neppure darebbe luogo a mancanza del consenso (Cass., 29.9.2005, n. 19024).
8.4.1. Infatti l’enunciazione di principio da ultimo richiamata sembra non considerare che, come anche rilevato dalla dottrina, le norme di comportamento previste in un
regolamento contrattuale preconfigurato ex lege possono costituire regole di protezione
imposte all’intermediario non solo per colmare l’asimmetria informativa che presiede
al rapporto con l’investitore, motivate dall’interesse generale al corretto funzionamento e alla migliore efficienza del sistema economico, ma anche per attuare la trasparenza
del mercato, la quale, oltre ad incentivare l’ingresso di soggetti meno propensi ad effettuare investimenti rischiosi, mira ad informare il risparmiatore dei punti essenziali del
contratto, affinché questi possa controllare quali siano le prestazioni poste a suo carico e quali le controprestazioni che la banca è obbligata ad effettuare, con inevitabile incidenza – con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio – degli
obblighi informativi posti a carico dell’intermediario finanziario sul complessivo contenuto del regolamento contrattuale.
8.5. Sotto altro profilo, giova rilevare che l’orientamento espresso dalla pronuncia di
questa Corte n. 19024 del 29.9.2005 (v. il precedente punto 8.) si ispira con evidenza al
tradizionale principio, condiviso anche in dottrina, della non interferenza delle regole di
comportamento con quelle di validità del negozio, nel senso che la violazione dei doveri di
comportamento – che attengono alla vicenda del rapporto obbligatorio tra le parti – non
incide sulla validità dell’atto, ma produce conseguenze esclusivamente sul piano risarcitorio, laddove le regole di validità, attenendo ai requisiti di struttura della fattispecie negoziale, mirano alla disciplina dell’atto e dei suoi effetti rilevanti per l’ordinamento e prevedono oneri dal cui mancato assolvimento deriva l’improduttività di effetti giuridici.
8.5.1. Tuttavia una pluralità di indici pone in evidenza un tendenziale inserimento,
in sede normativa, del comportamento contrattuale delle parti tra i requisiti di validità del contratto:
48
Dispensa C1
a) In particolare, la L. 18.6.1998, n. 192, art. 9, nel disciplinare la fattispecie dell’abuso
di dipendenza economica, stabilisce la nullità del patto attraverso il quale detto abuso
si realizza, qualora ricorra il duplice presupposto delle condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie e della loro imposizione da parte di un’(impresa)
contraente nei confronti di un’altra che versi in uno stato di dipendenza economica.
b) In materia di contratti a distanza, con particolare riguardo al caso di comunicazioni telefoniche l’art. 53, co. 3, del codice del consumo (d. lgs. 6.9.2005, n. 206) stabilisce, a pena di nullità del contratto, che l’identità del fornitore e lo scopo commerciale
della telefonata devono essere dichiarati in modo inequivocabile all’inizio della telefonata.
c) Con riferimento ai contratti dei consumatori, la vessatorietà e la conseguente nullità della clausola restano escluse in caso di trattativa specifica sulla stessa e quindi in
presenza di uno specifico dato comportamentale (art. 34 del codice del consumo, cit.).
d) Il d. lgs. 9.10.2002, n. 231, art. 7, nello stabilire la nullità dell’accordo sulla data del
pagamento che risulti gravemente iniquo in danno del creditore, considera gravemente
iniquo, tra l’altro, l’accordo con il quale l’appaltatore imponga al proprio fornitore termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini ad esso concessi, così
attribuendo rilevanza ai fini dell’invalidità del negozio ad un comportamento (l’imposizione di una clausola) rilevante in sede di formazione dell’accordo.
e) Anche nella fattispecie relativa all’abuso di posizione dominante previsto dalla normativa antitrust di cui alla L. 10.10.1990, n. 287, art. 3, si configura il concorso di
condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose e della condotta impositiva di una
clausola.
8.5.2. Con riferimento alle richiamate fattispecie, non sembra che possa efficacemente obiettarsi che il comportamento illegittimo in sede di formazione del contratto
rilevi, ai fini della nullità, solo in quanto espressamente previsto dalla specifica norma
di legge, poiché, una volta messo in discussione il principio di non interferenza delle regole di comportamento con le regole di validità e ammesso che il comportamento della
parte possa rilevare ai fini della nullità del negozio, non sembra esservi ragione perché,
in presenza di comportamenti contrattuali che violino precetti che si ritengano imperativi, anche se non assistiti dalla esplicita sanzione di nullità, non possa trovare applicazione la disposizione dell’art. 1418, c.c., che configura un’ipotesi di nullità virtuale
rivolta a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione di precetti imperativi non si accompagni una espressa sanzione di nullità.
9. Il richiamato contrasto giurisprudenziale interno a questa Corte cade su di un punto essenziale per la decisione del presente giudizio ed investe una questione di massima di particolare importanza, sui quali è invece necessaria, a fini di certezza del diritto,
l’uniformità dell’orientamento giurisprudenziale, che può derivare soltanto da una definitiva pronuncia delle Sezioni unite, previo rinvio a nuovo ruolo del presente giudizio.
b. Cassazione civile, Sez. un., 19.12.2007, n. 26724
La violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo
di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente
condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le
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Dispensa C1
operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in
tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la
nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma
dell’art. 1418, co. 1, c.c.
(Omissis)
1. Il primo motivo del ricorso tocca la questione di diritto per la cui risoluzione sono
state investite le sezioni unite.
I ricorrenti, lamentando la violazione dell’art. 1418, c.c., e dell’art. 6 della legge
2.1.1991, n. 1, nonché vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, criticano la corte
d’appello per aver affermato che la violazione delle prescrizioni con cui il citato art. 6
impone determinati comportamenti agli intermediari finanziari nei riguardi dei propri
clienti, incidendo tali prescrizioni sul momento prenegoziale o su quello esecutivo ma
non sul contenuto del contratto, non potrebbe determinarne la nullità. Altrimenti – argomentano i ricorrenti – non sarebbe mai possibile far discendere la nullità del contratto dalla violazione di norme imperative che pongono limiti alla libertà delle parti con riferimento a situazioni esterne al negozio, come ad esempio quelle concernenti la qualità
dei contraenti o i presupposti e le procedure del contrarre; ma, viceversa, vi sono molteplici casi (per esempio: mancanza di autorizzazione allo svolgimento dell’attività d’intermediazione mobiliare, difetto di adempimenti preliminari in materia valutaria, e simili) in cui la violazione di norme non attinenti al contenuto del negozio è stata ritenuta
sufficiente a provocare la nullità.
La sentenza impugnata è poi anche censurata per avere erroneamente ritenuto che
le violazioni contestate alla banca riguardassero soltanto attività prenegoziali o esecutive di contratti già conclusi. Quelle violazioni invece – a parere dei ricorrenti – concernevano comportamenti incidenti sulla formazione del consenso delle parti, e quindi sul
contenuto dell’accordo che del contratto è uno degli elementi essenziali.
1.1.Prima di affrontare la questione controversa, giova premettere che, nell’ambito
del giudizio di merito, è stato accertato come le operazioni finanziarie dalle quali trae
origine il credito azionato in causa, poste in essere dal San Paolo su disposizione della Fincom e corredate dalle garanzie fideiussorie della Edilcentro e del sig. Grattarola,
rientrino, per il loro oggetto e per le loro modalità negoziali ed attuative, tra quelle cui
si applicava, al tempo dei fatti di causa, la disciplina della legge 2.1.1991, n. 1 (in seguito abrogata e sostituita prima dal d. lgs 23.7.1996, n. 415, e poi dal d. lgs. 24.2.1998, n. 58,
con successive modificazioni). Tale premessa, che appunto deriva essenzialmente da un
accertamento in punto di fatto circa le caratteristiche di dette operazioni, è ovviamente
destinata a restare ferma anche nel presente giudizio di legittimità.
1.2. Ciò posto, è utile brevemente ricordare che l’art. 6 della citata legge n. 1 del 1991
detta “principi generali e regole di comportamento” cui l’intermediario deve uniformarsi nei rapporti con il cliente. La norma, dopo aver enunciato il dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi di quest’ultimo (lett. a) e dopo
aver posto a carico dell’intermediario il preliminare obbligo di pubblicare e trasmettere un documento contenente informazioni circa le proprie attività e la relativa regolamentazione, nonché circa il proprio eventuale gruppo di appartenenza (lett. b), stabilisce che i diversi servizi alla cui prestazione l’intermediario si obbliga verso il cliente
debbono essere disciplinati da un contratto scritto (perciò destinato ad assolvere alla funzione c.d. di “contratto quadro” rispetto alle singole successive attività negoziali in cui l’espletamento di quei servizi si esplicherà), contratto di cui la stessa norma in-
50
Dispensa C1
dica il contenuto minimo necessario ed una copia del quale deve essere trasmessa al
cliente (lett. c). Segue poi una serie di regole legali, per la gran parte volte a disciplinare
la prestazione dei servizi ipotizzati nel contratto: l’intermediario deve preventivamente
acquisire, sulla situazione finanziaria del cliente, le informazioni rilevanti ai fini dello
svolgimento dell’attività (know your customer rule) (lett. d); deve tenere costantemente informato il cliente sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni delle operazioni e su
qualsiasi altro fatto necessario per il compimento di scelte consapevoli (lett. e); non deve consigliare né effettuare operazioni con frequenza non necessaria o di dimensioni
inadeguate alla situazione finanziaria del cliente (suitability rule) (lett. f); non può, salvo espressa autorizzazione scritta, effettuare con il cliente o per suo conto operazioni
nelle quali egli abbia, direttamente o indirettamente, un interesse conflittuale (lett. g);
deve dotarsi di adeguate procedure di controllo interno (lett. h). Siffatte regole di comportamento, in esecuzione di quanto previsto dalla disposizione della lettera a) sopra citata, sono state poi ulteriormente precisate dalla Consob con proprio regolamento (reg.
n. 5386 del 1991).
Dal “contratto quadro”, cui può darsi il nome di contratto d’intermediazione finanziaria e che per alcuni aspetti può essere accostato alla figura del mandato, derivano
dunque obblighi e diritti reciproci dell’intermediario e del cliente. Le successive operazioni che l’intermediario compie per conto del cliente, benché possano a loro volta
consistere in atti di natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo
del precedente contratto d’intermediazione. Gli obblighi di comportamento cui alludono le citate disposizioni dell’art. 6 della legge n. 1 del 1991 (non diversamente, del resto,
da quelli previsti dall’art. 21 del più recente d. lgs. n. 58 del 1998), tutti in qualche modo finalizzati al rispetto della clausola generale consistente nel dovere per l’intermediario di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interesse
del cliente, si collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto d’intermediazione finanziaria ed in altra parte nella fase esecutiva di esso. Attiene evidentemente alla fase prenegoziale l’obbligo di consegnare al cliente il documento informativo menzionato nella lettera b) della citata disposizione dell’art. 6, ed attiene sempre a
tale fase preliminare il dovere dell’intermediario di acquisire le informazioni necessarie
in ordine alla situazione finanziaria del cliente, come prescritto dalla successiva lett. d),
così da poter poi adeguare ad essa la successiva operatività. Ma doveri d’informazione
sussistono anche dopo la stipulazione del contratto d’intermediazione, e sono finalizzati alla sua corretta esecuzione: tale è il dovere di porre sempre il cliente in condizione
di valutare appieno la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni d’investimento o di disinvestimento, nonché di ogni altro fatto necessario a disporre con consapevolezza dette operazioni (art. cit., lett. e), e tale è il dovere di comunicare per iscritto l’esistenza di eventuali situazioni di conflitto d’interesse, come condizione per poter
eseguire ugualmente l’operazione se autorizzata (lett. g). Né può seriamente dubitarsi che anche l’obbligo dell’intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi, permanga attuale durante l’intera fase esecutiva del rapporto e si rinnovi ogni
qual volta la natura o l’entità della singola operazione lo richieda, per l’ovvia considerazione che la situazione del cliente non è statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo.
Attengono poi del pari al momento esecutivo del contratto i doveri di contenuto negativo posti a carico dell’intermediario: quelli di non consigliare e di non effettuare operazioni di frequenza o dimensione eccessive rispetto alla situazione finanziaria del cliente (lett. f).
1.3. I ricorrenti sostengono che, nella specie, il San Paolo ha violato alcune delle disposizioni sopra ricordate. L’istituto bancario, infatti, avrebbe suggerito, e poi diretta-
51
Dispensa C1
mente eseguito in veste di controparte, operazioni nelle quali aveva un interesse conflittuale con quello della cliente Fincom (con violazione, dunque, della lett. g del citato art.
6), ed avrebbe consigliato ed eseguito operazioni eccessivamente rischiose, se rapportate alla situazione patrimoniale della medesima Fincom (con violazione, dunque, della lett. f del medesimo articolo).
Su tale presupposto i ricorrenti affermano che i contratti mediante i quali il San
Paolo ha, di volta in volta, compiuto dette operazioni sono da ritenere nulli, in quanto
contrari a norme imperative, non potendosi condividere l’assunto della corte d’appello secondo cui la violazione delle norme sopra richiamate potrebbe generare, eventualmente, una responsabilità risarcitoria o esser causa di risoluzione dei contratti in questione, ma non anche determinarne la nullità ai sensi dell’art. 1418, c.c.
È specificamente su questo punto, come già accennato, che è stato sollecitato l’intervento in chiave nomofilattica delle sezioni unite.
Giova però preliminarmente chiarire, a tal proposito, che nel caso in esame non si
ravvisa la necessità di comporre un contrasto giurisprudenziale derivante dalla presenza di precedenti difformi decisioni delle sezioni semplici sulla questione di diritto appena riferita, perché le diverse decisioni menzionate nell’ordinanza di rimessione hanno
ad oggetto questioni diverse, nessuna della quali (ad eccezione di quella trattata nella
sentenza del 29.9.2005, n. 19024, di cui si dirà) investe specificamente il tema della presente causa. La circostanza che tutte o alcune tra tali precedenti sentenze possano, per
certi aspetti, risultare più o meno coerenti con principi di diritto sottesi ad altre pronunce non è sufficiente ad identificare un contrasto di giurisprudenza in senso proprio. Essa
è però certamente sintomo del fatto che ci si trova in presenza di una questione di massima e particolare importanza, appunto perché chiama in causa profili di principio: ciò
che, d’altronde, è confermato anche dall’incertezza affiorata sul punto nella giurisprudenza di merito.
Nel prosieguo della presente sentenza non ci si soffermerà perciò tanto sull’esame
dei singoli precedenti di questa corte in cui l’ordinanza di rimessione ha ravvisato il preteso contrasto di giurisprudenza, ma si affronterà direttamente la questione controversa, muovendo dall’unico precedente in termini già prima ricordato. Va da sé che le conclusioni cui si perverrà, nella misura in cui risulteranno idonee a fornire chiarimenti su
questioni di principio suscettibili altresì di riflettersi su decisioni aventi oggetto ed ambiti diversi, potranno giovare a meglio definire la giurisprudenza di questa corte in termini anche più generali.
1.4. Si deve certamente convenire – ed anche l’impugnata sentenza d’altronde ne
conviene – sul fatto che le norme dettate dal citato art. 6 della legge n. 1 del 1991 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse,
essendo dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari (come è ora reso
esplicito dalla formulazione dell’art. 21, lett. a, del d. lgs n. 58 del 1998, ma poteva ben ricavarsi in via d’interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente),
si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti.
Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di
una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario
col cliente. È ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di
conseguenze – e se ne dirà – ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la
nullità del contratto.
Innanzitutto, è evidente che il legislatore – il quale certo avrebbe potuto farlo e che,
nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo – non ha espressamente
stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase geneti-
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Dispensa C1
ca del contratto e produce l’effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si
tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude
il terzo comma dell’art. 1418, c.c.
Neppure i casi di nullità contemplati dal secondo comma dell’articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. È vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, e che il primo di
tali requisiti è l’accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell’intermediario sopra ricordati
siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso – se pur di essi si possa parlare – non determinano la nullità del contratto, bensì solo la
sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dagli artt. 1427 e segg., c.c.
Resta però da considerare l’ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la
nullità possa dipendere dall’applicazione della disposizione dettata dal primo comma
del citato art. 1418: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto perché contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dall’art. 6 della legge n. 1 del 1991.
1.5. La domanda che si è appena formulata ha ricevuto già una motivata risposta negativa nella menzionata sentenza n. 19024 del 2005, pronunciata dalla prima sezione di
questa corte, la quale, dopo aver affermato che la nullità del contratto per contrarietà a
norme imperative postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie
negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, ha escluso che l’illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella fase dell’esecuzione del contratto stesso possa esser causa di nullità, indipendentemente dalla
natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a meno che questa sanzione
non sia espressamente prevista. Donde la conclusione che né l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dall’art. 6 della legge n. 1 del 1991, né la violazione da parte
dell’intermediario del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente qualora abbia un interesse conflittuale (a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e l’estensione del suo interesse nell’operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all’operazione) sono idonee a cagionare
nullità.
L’ordinanza di rimessione chiama ora le sezioni unite a valutare se tali affermazioni, e l’impianto argomentativo ad esse sotteso, debbano o meno esser tenute ferme, anche alla luce di un esame sistematico che tenga conto di orientamenti giurisprudenziali manifestati da questa stessa corte in campi diversi, nonché delle tendenze legislative
emerse in questo ed in altri settori, dai quali potrebbero eventualmente scaturire indicazioni di segno contrario a quelle espresse in subjecta materia dalla sentenza n. 19024
del 2005.
1.6. Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da ultimo citata è costituito dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla
legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca
in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità.
Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del Codice civile è difficilmente contestabile. Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di com-
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Dispensa C1
portarsi secondo correttezza e buona fede – immanente all’intero sistema giuridico, in
quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 della Costituzione, e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) – il Codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell’atto
(come nel caso dell’annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai
eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorché l’obbligo dì comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo. E questo
anche perché il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite.
L’assunto secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per incidenza della
normativa europea), la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe tuttavia sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio
di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto non è sufficiente a dimostrare
il già avvenuto sradicamento dell’anzidetto principio nel sistema del Codice civile.
È possibile che una tendenza evolutiva in tal senso sia effettivamente presente in
diversi settori della legislazione speciale, ma – a parte la considerazione che molte delle disposizioni invocate a sostegno di questo assunto sono posteriori ai fatti di causa, e
non varrebbero quindi a dimostrare che già a quell’epoca il legislatore avesse abbandonato la tradizionale distinzione cui s’è fatto cenno – un conto è una tendenza altro conto è un’acquisizione. E va pur detto che il carattere sempre più frammentario e sempre meno sistematico della moderna legislazione impone molta cautela nel dedurre da
singole norme settoriali l’esistenza di nuovi principi per predicarne il valore generale e
per postularne l’applicabilità anche in settori ed in casi diversi da quelli espressamente
contemplati da singole e ben determinate disposizioni. D’altronde, non si è mai dubitato che il legislatore possa isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell’atto, ma ciò fa ricadere quelle fattispecie nella già ricordata previsione del terzo (non già del primo) comma del citato art.
1418. Si tratta pur sempre, in altri termini, di disposizioni particolari, che, a fronte della già ricordata impostazione del codice, nulla consente di elevare a principio generale e
di farne applicazione in settori nei quali analoghe previsioni non figurano, tanto meno
quando – come nel caso in esame – l’invocata nullità dovrebbe rientrare nella peculiare
categoria delle cosiddette nullità di protezione, ossia nullità di carattere relativo, che già
di per sé si pongono come speciali.
1.7. Quanto appena osservato, naturalmente, non esaurisce affatto il tema, perché
occorre ancora chiedersi se una regola diversa non viga proprio nello specifico settore del diritto dei mercati finanziari. Prima di rispondere a questo quesito, e restando
per un momento ancora sul piano dei principi generali, giova però aggiungere che tanto l’impugnata sentenza della Corte d’appello di Torino, quanto la più volte menzionata sentenza di questa Corte n. 19024 del 2005, sembrano individuare le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente in quelle che si
riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti. Ma – si obietta – la giurisprudenza ha in passato spesse volte individuato ipotesi di
nullità nella violazione di norme che invece riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura: per esempio, in caso di mancanza di una prescritta autorizza-
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Dispensa C1
zione a contrarre o di clausole concepite in modo da consentire l’aggiramento di divieti a contrarre (cfr., tra le altre, Cass., 19.9.2006, n. 20261; Cass., 10.5.2005, n. 9767; Cass.,
16.7.2003, n. 11131) o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti (cfr., tra le altre, Cass., 3.8.2005, n 16281; Cass., 18.7.2003, n. 11247; Cass., 5.4.2001, n.
5052; Cass., 15.3.2001, n, 3753; e Cass., 7.3.2001, n. 3272) oppure in caso di contratti le cui
clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti (cfr. Cass., 8.7.1983, n. 4605), ed inoltre in caso di circonvenzione d’incapace (cfr.
Cass., 23.5.2006, n, 12126; Cass., 27.1.2004, n. 1427; e Cass., 29.10.1994, n. 8948).
Tralasciando la circonvenzione d’incapace, con riferimento alla quale occorrerebbe
forse rimeditare se ed entro quali limiti l’illiceità penale della condotta basti a giustificare l’ipotizzata nullità del contratto sotto il profilo civile, tali esempi (ed altri analoghi
che si potrebbero fare) stanno certamente a dimostrare che l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto
dell’art. 1418, co. 1, c.c., è in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate
condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare
autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei
contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione
a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa
esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo.
Neppure in tali casi, tuttavia, si tratta di norme di comportamento afferenti alla
concreta modalità delle trattative prenegoziali o al modo in cui è stata data di volta in
volta attuazione agli obblighi contrattuali gravanti su una delle parti, bensì del fatto che
il contratto è stato stipulato in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire. E conviene
anche osservare che, pur quando la nullità sia fatta dipendere dalla presenza nel contratto di clausole che consentono o suggeriscono comportamenti contrari al precetto di
buona fede o ad altri inderogabili precetti legali, non è il comportamento in concreto tenuto dalla parte a provocare la nullità del contratto stesso, bensì il tenore della clausola in esso prevista.
1.8. Tanto chiarito, sul piano generale, è tempo di tornare alla domanda se, nello
specifico settore dell’intermediazione finanziaria, sia eventualmente riscontrabile un
principio di segno diverso, tale cioè da derogare al criterio di distinzione sopra tracciato tra norme di comportamento e norme di validità degli atti negoziali e da condurre ad
una differente conclusione.
La risposta dev’essere negativa.
In detto settore non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell’intenzione
del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d’informazione dell’altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti.
La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla previsione di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, contemplata dall’art. 16,
quarto comma, del d. lgs 19.8.2005, n. 190, per il caso in cui il fornitore ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo
da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del servizio. Ma,
55
Dispensa C1
oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione resta sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti caratteri di specialità, che non
consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio.
Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle norme dettate per
disciplinare l’attività ed i contratti delle società d’intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il legislatore abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di
nullità, afferenti alla forma ed al contenuto pattizio dell’atto (art. 8, ultimo comma, della legge n. 1 del 1991, ed ora all’art. 23, commi 1, 2 e 3, ed art. 24, ultimo comma, del d. lgs.
n. 58 del 1998), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull’intermediario in tema di informazione del cliente
e di divieto di operazioni in conflitto d’interessi o inadeguate al profilo patrimoniale del
cliente medesimo. Situazioni, queste ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in considerazione per i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha espressamente posto a carico dell’intermediario l’onere della prova di aver agito
con la necessaria diligenza (art. 13, ultimo comma, della legge n. 1 del 1991, ora sostituito dall’art. 23, ultimo comma, del d. lgs. n. 58 del 1998).
Né giova appellarsi alla valenza generale dell’interesse alla correttezza del comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne possono derivare sul buon
funzionamento dell’intero mercato. Alla tutela di siffatto interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo all’autorità pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei
singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur sempre
logicamente esser concepita in termini di nullità di protezione, ossia di nullità relativa
(come infatti indicano le citate disposizioni del d. lgs n. 58 e del d. lgs. n. 190, con riguardo ai casi in cui la nullità è effettivamente contemplata), e già questo, in difetto di qualsiasi norma che espressamente lo preveda, rende problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità configurata dal primo comma dell’art. 1418, c.c.
È significativo, d’altronde, che al descritto quadro normativo, per lo specifico profilo ora considerato, il legislatore non abbia mai avvertito la necessità di apportare modifiche di rilievo da quando fu emanata la legge n. 1 del 1991, nonostante le ripetute rivisitazioni di tale normativa sino al recentissimo del d. lgs. 17.9.2007, n. 164, che ha recepito
la direttiva n. 2004/39/Ce e che del pari si è astenuto dall’estendere l’esplicita previsione
di nullità alla violazione delle regole di comportamento contrattuale e precontrattuale
di cui si sta discutendo.
1.9. Così stando le cose, la tesi secondo cui il mancato rispetto dei surriferiti doveri comportamentali dell’intermediario nella fase prenegoziale o in quella attuativa del
rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla validità genetica del contratto stipulato con il
cliente, priva com’è di base testuale e di supporti sistematici, potrebbe nondimeno conservare una qualche plausibilità solo ove risultasse l’unica in grado dì rispondere all’esigenza – sicuramente presente nella normativa in questione e coerente con la previsione
dell’art. 47, co. 1, Cost. – di incoraggiare il risparmio e garantirne la tutela. Ma è evidente
che così non è, perché non può ragionevolmente sostenersi che la suaccennata esigenza implichi necessariamente la scelta, da parte del legislatore, del mezzo di tutela consistente proprio nel prevedere la nullità dei contratti nelle situazioni in discorso, così travolgendo sia il discrimine tra regole di comportamento e regole di validità sia quello tra
vizi genetici e vizi funzionali del contratto.
Richiamando la distinzione già prima tracciata tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d’intermediazione e quelli che si riferiscono
alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi come la violazione dei primi (ove non
si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l’annullabilità – mai comunque
56
Dispensa C1
la nullità – del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una
responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l’obbligo per l’intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l’avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce dalla migliore dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa Corte n. 19024 del 2005 – alla quale si
intende su questo punto dare continuità – la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia
valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento
scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente
consequenziale e diretto.
La violazione dei doveri dell’intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d’intermediazione può assumere i connotati di un vero e
proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacché quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati
ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue
che l’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza
dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di
gravità postulati dall’art. 1455, c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d’intermediazione finanziaria in corso.
Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia della tutela in
tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei cittadini, che negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure degli intermediari finanziari. Ma non si può
negare che gli strumenti di tutela esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi
la loro specifica conformazione giuridica compito del medesimo legislatore le cui scelte l’interprete non è autorizzato a sovvertire, sicché il ricorso allo strumento di tutela
della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è
giustificato.
1.10. Da ultimo, va preso in considerazione un ulteriore rilievo, su cui insistono particolarmente i ricorrenti, i quali sostengono che gli obblighi per l’intermediario di non
effettuare (oltre che di non consigliare) operazioni inadeguate alla situazione patrimoniale del cliente e di non effettuare operazioni in conflitto di interessi col cliente medesimo, rispettivamente contemplati dalle lettere f) e g) del citato art. 6, integrano veri e propri doveri di non fare, la cui violazione si traduce nella stipulazione di altrettanti
contratti vietati da norma imperativa: il che, per quanto sopra detto, dovrebbe colpire
alla radice gli atti vietati, rendendoli illeciti e perciò nulli.
A siffatto rilievo si deve però opporre che, come già in precedenza chiarito, il compimento delle operazioni di cui si tratta, ancorché queste possano a loro volta consistere
in atti di natura negoziale (ma è significativo che la norma le definisca col generico termine di “operazioni”), si pone pur sempre come momento attuativo di obblighi che l’intermediario ha assunto all’atto della stipulazione col cliente del “contratto quadro”. Il
divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d’interessi attiene, perciò, anch’esso – lo si è già notato – alla fase esecutiva di detto contratto, costituendo, al pari del
dovere d’informazione, una specificazione del primario dovere di diligenza, correttez-
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Dispensa C1
za e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Il modo stesso in cui la norma
è formulata e l’esplicito accostamento dei suaccennati doveri di informazione e di cura dell’interesse del cliente, nel compimento delle singole operazioni, denota come il
legislatore abbia qui sempre voluto contemplare obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, non già regole di validità del contratto (sia esso il contratto d’intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione); ed è
appena il caso di osservare che, sotto tal profilo, è del tutto irrilevante la circostanza che
l’operazione compiuta dall’intermediario sia consistita nel procurarsi da terzi i valori o
gli strumenti finanziari ordinatigli dal cliente oppure nel fornirli egli stesso, trattandosi
di varianti esecutive che non incidono sull’obbligo di diligenza cui l’intermediario è tenuto e che, ai fini del presente discorso, lasciano intatta la natura esecutiva dell’operazione da lui compiuta.
1.11. In conclusione, va perciò enunciato il principio per cui la violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone
a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario
può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra
le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa
in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti,
a norma dell’art. 1418, co. 1, c.c.
(Omissis)
B. CONTATTO SOCIALE
a. Cassazione civile, Sez. un., 26.6.2007, n. 14712
L’art. 43, l. assegni, stabilisce che l’assegno emesso con clausola di non trasferibilità può
essere pagato soltanto al prenditore o, a richiesta di costui, accreditato sul suo conto corrente, e che il prenditore non può perciò girarlo, se non ad un banchiere per l’incasso, fermo
il divieto per quest’ultimo di apporvi ulteriori girate. Le girate apposte in violazione della
clausola di non trasferibilità si hanno per non scritte e l’eventuale cancellazione della clausola per non avvenuta. Inoltre colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa
dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento essendo noto
che l’espressione “colui che paga”, adoperata dalla norma in esame, va intesa in senso ampio. Infatti essa si riferisce non solo alla banca trattaria (o all’emittente, in caso di assegno
circolare) ma anche alla diversa banca cui l’assegno sia stato girato per l’incasso da un proprio cliente e che lo abbia in favore di costui monetizzato (o accreditato sul suo conto corrente) per poi inviarlo alla stanza di compensazione. Ciò posto alla responsabilità di cui si
discute deve essere senz’altro riconosciuta natura contrattuale, benché non sia necessario a
tal fine postulare che la banca negoziatrice operi in veste di mandataria della banca sulla
quale grava l’obbligazione cartolare di pagamento e la relativa azione per il risarcimento
soggiace al termine di prescrizione ordinaria.
58
Dispensa C1
(Omissis)
4. Viene poi in questione l’eccepita prescrizione dei diritti di risarcimento di cui la
Fideuram si è in tal modo resa titolare, per poi azionarli nel presente giudizio; e si tratta
della questione che investe i principi di diritto sui quali si è manifestato nella giurisprudenza di questa corte il contrasto che ha determinato l’intervento delle sezioni unite.
Intorno ad essa ruotano, in modo specifico, il terzo motivo del ricorso proposto dal
sig. Pomelli ed il primo dei due profili di censura contenuti nel primo motivo di ricorso
dell’Antonveneta.
Nel primo di tali ricorsi viene denunciata la violazione dell’art. 43 del r.d. 21.12.1933,
n. 1736 (l. assegni), e si sostiene l’inesattezza di quanto affermato dalla corte d’appello
in ordine alla natura contrattuale della responsabilità della banca negoziatrice, per aver
consentito l’incasso di assegni non trasferibili a persone diverse dai beneficiari dei titoli. Non potendosi qualificare detta banca negoziatrice come sostituta della banca trattaria nell’adempimento della convenzione di assegno, la sua responsabilità a parere dei
ricorrenti ha invece carattere extracontrattuale, e la relativa azione è perciò soggetta alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2947, co. 1, c.c.; tanto più che l’ipotizzata falsificazione delle firme di traenza apposte sui titoli in questione esclude in radice la
configurabilità di qualsiasi rapporto contrattuale con la banca trattaria.
Nell’altro ricorso si sottolineano, anzitutto, le caratteristiche dei cosiddetti assegni
di traenza, diversi dagli assegni bancari di conto corrente, e se ne deduce che erroneamente la corte d’appello ha applicato, nella presente fattispecie, i principi della responsabilità contrattuale inerenti alla convenzione di assegno, i quali, viceversa, mal si attagliano a questo particolare tipo di assegni. Anche per questa ragione la responsabilità
addebitata nella fattispecie all’Antonveneta avrebbe dovuto esser ricondotta al paradigma della responsabilità aquiliana, e l’azione ex adverso esperita avrebbe quindi dovuto
esser dichiarata prescritta per decorso del quinquennio.
4. l. Esaminando: congiuntamente tali rilievi critici, è utile anzitutto puntualizzare
che il cosiddetto assegno di traenza è quello che una banca autorizza taluno a sottoscrivere appunto per traenza sulla banca stessa inviandogli a tal fine un modulo di assegno
appositamente predisposto con previsione di pagamento in favore del traente medesimo
o di altro eventuale soggetto indicato come beneficiario. La predisposizione e l’invio dell’assegno al previsto traente presuppongono, evidentemente, l’esistenza presso la banca
di una provvista (non importa se fornita all’origine dalla banca stessa o da terzi) di cui il
traente potrà disporre in favore proprio o di altro eventuale beneficiario indicato come
prenditore del titolo. Le peculiarità di tali titoli ed il fatto che come sottolinea la difesa della ricorrente Antonveneta essi possono di fatto assolvere ad una funzione corrispondente
a quella del bonifico a mezzo banca, non toglie che essi siano riconducibili al genus dell’assegno bancario, avendone tutte le caratteristiche, ivi compresa sia la naturale attitudine
ad esser trasferito mediante girata, sia la possibilità di limitare siffatta attitudine mediante l’apposizione sul titolo della clausola d’intrasferibilità. Il fatto poi che, a differenza dell’assegno di conto corrente, l’assegno di traenza non presupponga l’esistenza di una pregressa convenzione d’assegno, intercorrente tra la banca ed il proprio correntista, in forza
della quale la banca è tenuta ad onorare gli assegni emessi dal correntista entro i limiti
della provvista, poco rileva ai fini che qui interessano. Anche l’emissione dell’assegno di
traenza, infatti, necessariamente deve avere quale presupposto un rapporto contrattuale, ancorché privo delle caratteristiche di durata proprie del conto corrente bancario: rapporto che intercorre tra la banca e colui che ha fornito (o in favore del quale è stata fornita)
la provvista, onde quest’ultimo è autorizzato dalla banca a darle disposizione di pagamento e quella accetta d’inviare l’assegno al soggetto che lo sottoscriverà per traenza.
59
Dispensa C1
Alla circolazione ed al pagamento di un assegno siffatto, munito di clausola di non
trasferibilità, è dunque applicabile la disciplina stabilita dal legislatore in materia di assegno bancario non trasferibile.
4.2. L’anzidetta disciplina trova la sua collocazione nel già menzionato art. 43, l. assegni (applicabile anche all’assegno circolare, in virtù del rinvio operato dal successivo art. 86, co. 1), il cui primo comma stabilisce che l’assegno emesso con clausola di non
trasferibilità può essere pagato soltanto al prenditore o, a richiesta di costui, accreditato
sul suo conto corrente, e che il prenditore non può perciò girarlo, se non ad un banchiere
per l’incasso, fermo il divieto per quest’ultimo di apporvi ulteriori girate. Le girate apposte in violazione della clausola di non trasferibilità si hanno per non scritte e l’eventuale cancellazione della clausola per non avvenuta. Il secondo comma prosegue espressamente prevedendo che “colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal
prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento”.
Prima di affrontare il tema della natura (e del conseguente regime prescrizionale)
dell’indicata responsabilità, conviene ricordare che l’espressione “colui che paga”, adoperata dalla norma in esame, va intesa in senso ampio: non solo si riferisce alla banca
trattaria (o all’emittente, in caso di assegno circolare) ma anche alla diversa banca cui
l’assegno sia stato girato per l’incasso da un proprio cliente e che lo abbia in favore di
costui monetizzato (o accreditato sul suo conto corrente) per poi inviarlo alla stanza di
compensazione (cfr., tra le tante, Cass., n. 19512 del 2005). Tale conclusione corroborata dall’analogia con quanto previsto dall’art. 41, ultimo comma, l. assegni, che espressamente equipara a quella del trattario la responsabilità del banchiere presso il quale sia
stato posto all’incasso un assegno sbarrato è giustificata dal rilievo che non già la banca
trattaria (art. 38, l. assegni), bensì soltanto la banca negoziatrice è tenuta ed è concretamente in condizione di controllare l’autenticità della firma di colui che, girando l’assegno per l’incasso, lo immette nel circuito di pagamento.
È opportuno anche aggiungere subito che la responsabilità cui si espone il banchiere col pagamento dell’assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore non è
in alcun modo discriminata dall’apposizione sul titolo, ad opera di chi lo incassa, della
clausola “per conoscenza e garanzia” (o altra di tenore equivalente). La giurisprudenza
di questa corte è infatti ferma nel ritenere che il regime d’intrasferibilità degli assegni,
nei termini previsti dal citato art. 43, trasforma il titolo di credito in un titolo a legittimazione invariabile, con preclusione alla circolazione sia sul piano cartolare che con
riguardo alla cessione ordinaria (salvo la sola possibilità di effettuare la girata ad un
banchiere per il mero incasso), e che ciò sia incompatibile con l’inserimento nella circolazione dell’assegno di un soggetto ulteriore, il quale lo sottoscriva “per garanzia e conoscenza”, perché siffatta clausola verrebbe così utilizzata con funzione di girata piena
in favore del sottoscrittore contraddicendo la prescrizione dettata dal menzionato art.
43 (cfr. ancora, ex multis, Cass., n. 19512 del 2005, nonché Cass., n. 9103 del 2003 e Cass.,
n. 7633 del 2003). Ne deriva che, ai fini della regolarità dell’incasso del titolo e della conseguente responsabilità della banca (a prescindere dagli effetti che ne possano derivare
nel rapporto tra la banca medesima e colui che ha proceduto all’incasso), la clausola di
cui trattasi deve aversi per non apposta.
4.3. Tanto chiarito, si può senz’altro venire alla questione cui già si è più volte fatto
cenno: quella della natura della responsabilità che il citato art. 43 fa ricadere sulla banca che abbia negoziato un assegno munito di clausola di non trasferibilità in favore di
persona non legittimata.
Al riguardo, come già segnalato dall’ordinanza n. 11888 del 2006 della prima sezione, si rinvengono, nella giurisprudenza di questa corte, pronunce di segno diverso, talvolta riferite ad assegni bancari, altre volte ad assegni circolari, ma accomunate dal
60
Dispensa C1
problema (non uniformemente risolto) del l’individuazione della funzione svolta dalla
banca negoziatrice in rapporto alla posizione del prenditore ed alla posizione della banca debitrice cartolare.
Secondo alcune pronunce, la banca girataria per l’incasso di un assegno bancario
non trasferibile, oltre ad essere mandataria del prenditore girante, è altresì sostituta della banca trattaria nell’esplicazione del servizio bancario per quanto attiene all’identificazione del presentatore ed al conseguente pagamento cui la trattaria è obbligata nei
confronti del cliente. Lo si desume essenzialmente dall’impossibilità per la trattaria di
adempiere personalmente per la parte relativa all’identificazione del presentatore l’obbligazione assunta verso il cliente con la convenzione d’assegno; obbligazione che solo
la banca girataria è invece in grado di eseguire compiutamente, onde deve ritenersi che
lo faccia appunto in sostituzione della banca trattaria, venendo perciò anch’essa a trovarsi in rapporto con il traente, il quale, nell’ipotesi di pagamento male effettuato, può
esercitare contro la stessa banca negoziatrice l’azione contrattuale basata sulla convenzione di assegno, diretta alla ricostituzione dei fondi disponibili presso la banca trattaria per la somma corrispondente a quella indicata nell’assegno medesimo (in tal senso,
tra le altre, Cass., n. 6377 del 2000, Cass., n. 4187 del 1987 e Cass., 3928 del 1977). Nell’alternativa tra l’anzidetta azione contrattuale, spettante ai soggetti con i quali intercorre il rapporto bancario, e l’azione extracontrattuale che compete ai terzi comunque
danneggiati dall’irregolare pagamento del titolo ha ulteriormente affermato Cass., n.
6377/00, cit. non v’è spazio per nessuna forma diversa di obbligazione ex lege.
In altri casi si è invece ritenuto che la banca girataria per l’incasso di assegno non
trasferibile non possa qualificarsi una sostituta di quella trattaria nell’adempimento
della convenzione di assegno (e, quindi, in rapporto contrattuale con il traente) ma sia
soltanto rappresentante del girante, in nome e per conto del quale riceve il pagamento,
con la conseguenza che, qualora essa violi l’obbligo legale di pagare l’assegno non trasferibile soltanto ad uno dei soggetti indicati nel citato art. 43, sorge a suo carico una responsabilità extracontrattuale verso tutti coloro che possono essere pregiudicati dal pagamento a soggetto diverso, compreso il traente (in tal senso, tra le altre, Cass., n. 8005
del 2005, Cass., n. 12425 del 2000, Cass., n. 9902 del 2000 e Cass., n. 1087 del 1999), ancorché tale responsabilità possa esser destinata eventualmente a concorrere, in rapporto di
solidarietà, con quella contrattuale della banca trattaria verso il medesimo traente.
Per la natura extracontrattuale della responsabilità in questione si sono anche pronunciate le sezioni unite, con sentenza n. 12388 del 1992, al fine di farne discendere la
sussistenza, in quel caso, della giurisdizione italiana sulla base delle previsioni contenute nell’allora vigente art. 4, n. 2, c.p.c., e nell’art. 5, n. 3, della Convenzione di Bruxelles
del 27 settembre 1968 in tema di competenza giurisdizionale.
Ancor più di recente benché, questa volta, con riferimento ad un assegno circolare
Cass., 19512 del 2005 (poi seguita anche da Cass., n. 18543 del 2006) ha viceversa affermato che la responsabilità nella quale incorre in simili casi la banca girataria per l’incasso non ha natura né contrattuale né extracontrattuale. Alla prima configurazione si
oppone la totale estraneità della banca girataria sia alla convenzione d’assegno sia al
rapporto di emissione del titolo, oltre che la difficoltà di ricondurre anche l’emissione
dell’assegno circolare alla fattispecie del mandato conferito dal cliente alla banca; alla
seconda è di ostacolo il fatto che la responsabilità non discende qui dalla violazione di
una norma generale di condotta, bensì dall’inosservanza di un ben determinato precetto di legge, concepito in vista delle particolari caratteristiche professionali e funzionali
del banchiere. Donde la conclusione che l’obbligo, posto a carico del banchiere dall’art.
43, l. assegno, di pagare il titolo esclusivamente all’intestatario, costituisce un’obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173, c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a
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Dispensa C1
costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico, alla cui violazione consegue il diritto al risarcimento in favore del danneggiato, soggetto alla prescrizione ordinaria decennale.
4.4. Reputano le sezioni unite che alla responsabilità di cui si discute debba essere
senz’altro riconosciuta natura contrattuale, benché non sia necessario a tal fine postulare che la banca negoziatrice operi in veste di mandataria della banca sulla quale grava
l’obbligazione cartolare di pagamento.
4.4.1. È opinione ormai quasi unanimemente condivisa dagli studiosi quella secondo cui la responsabilità nella quale incorre “il debitore che non esegue esattamente la
prestazione dovuta” (art. 1218, c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui
l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell’accezione che ne dà
il successivo art. 1321, ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto
adempimento di un’obbligazione preesi¬stente, quale che ne sia la fonte. In tale contesto
la qualificazione “contrattuale” è stata definita da autorevole dottrina come una sineddoche (quella figura retorica che consiste nell’indicare una parte per il tutto), giustificata
dal fatto che questo tipo di responsabilità più frequentemente ricorre in presenza di vincoli contrattuali inadempiuti, ma senza che ciò valga a circoscriverne la portata entro i
limiti che il significato letterale di detta espressione potrebbe altrimenti suggerire.
Pur non senza qualche incertezza, in un quadro sistematico peraltro connotato da
un graduale avvicinamento dei due tradizionali tipi di responsabilità, anche la giurisprudenza ha in più occasioni mostrato di aderire a siffatta concezione della responsabilità contrattuale, ritenendo che essa possa discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (non già di contratto, bensì) di semplice contatto sociale, ogni
qual volta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento. Cosi, ad esempio, è stato attribuito carattere contrattuale non
soltanto all’obbligazione di risarcimento gravante sull’ente ospedaliero per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da
parte di un medico operante nell’ospedale, ma anche all’obbligazione del medico stesso
nei confronti del paziente, quantunque non fondata sul contratto ma sul solo contatto
sociale, poiché a questo si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire la tutela degli interessi che si manifestano e sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (cfr. Cass., n. 9085 del 2006, Cass., n. 12362 del 2006, Cass., n.
10297 del 2004, Cass., n. 589 del 1999 ed altre conformi); e natura contrattuale è stata riconosciuta anche alla responsabilità del sorvegliante dell’incapace, per i danni che quest’ultimo cagioni a se stesso in conseguenza della violazione degli obblighi di protezione ai quali il sorvegliante è tenuto, sul presupposto che quegli obblighi derivino da un
rapporto giuridico contrattuale che tra tali soggetti si instaura per contatto sociale qualificato (cfr. Cass., n. 11245 del 2003).
Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta
essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento
di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto (o di una determinata cerchia di soggetti).
In quest’ottica deve esser letta anche la disposizione dell’art. 1173, c.c., che classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le obbligazioni da
contratto (da intendersi nella più ampia accezione sopra indicata) da quelle da fatto illecito. Si potrebbe in verità anche sostenere ed è stato sostenuto che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta, e che
le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici pree-
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Dispensa C1
sistenti ricadono nell’ulteriore categoria degli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, cui pure la medesima norma allude.
Piuttosto che obbligazioni di natura contrattuale le si dovrebbe insomma definire obbligazioni ex lege.
La questione sembra avere, in verità, un valore essenzialmente classificatorio, giacché in linea generale il regime cui sono soggette tali obbligazioni ex lege non si discosta
da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto. Ma, comunque, tenuto conto
del carattere assai vago della definizione adoperata per individuare siffatta ulteriore categoria di obbligazioni (essendosi peraltro i redattori del vigente Codice civile espressamente rifiutati sia di ripetere la preesistente espressione di obbligazioni derivanti dalla legge, sul presupposto che tutte le obbligazioni si fondano sulla legge, sia di evocare
le antiche figure del quasi contratto e del quasi delitto, prive di un reale contenuto determinato), e considerate le difficoltà in cui la stessa dottrina si è sempre trovata nell’interpretare questa espressione normativa (che taluno non ha esitato a definire “sgangherata”), appare probabilmente preferibile circoscriverne la portata alle sole obbligazioni
che con sicurezza ne costituiscono la base storica: quelle integranti la cosiddetta responsabilità da fatto lecito – in primis la responsabilità derivante dalla gestione di affari altrui o dall’arricchimento privo di causa la quale né presuppone l’inesatto adempimento di un obbligo precedente (di fonte legale o contrattuale che sia) né dipende da
comportamenti illeciti in danno altrui.
4.4.2. Da tali premesse si ricava la natura contrattuale della responsabilità della banca negoziatrice di assegni bancari (o circolari), la quale abbia pagato detti assegni in violazione delle specifiche regole poste dal primo comma dell’art. 43, l. assegno, nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione
di esse, abbiano sofferto un danno: prima di tutti il prenditore, ma eventualmente anche colui che ha apposto sul titolo la clausola di non trasferibilità, o colui che abbia visto
in tal modo indebitamente utilizzata la provvista costituita presso la banca trattaria (o
emittente), nonché, se del caso, questa stessa banca.
Induce a ciò la considerazione che quelle regole di circolazione e di pagamento
dell’assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur certamente svolgendo anche
un’indiretta funzione di rafforzamento dell’interesse generale alla regolare circolazione dei titoli di credito, appaiono essenzialmente volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati: ciascuno dei quali ha ragione
di confidare sul fatto che l’assegno verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la
legge prevede, la cui concreta attuazione, proprio per questo, è rimessa ad un banchiere, ossia ad un soggetto dotato di specifica professionalità a questo riguardo. Ed è appena il caso di aggiungere che tale professionalità del banchiere si riflette necessariamente
sull’intera gamma delle attività da lui svolte nell’esercizio dell’impresa bancaria, e quindi sui rapporti che in quelle attività sono radicati: giacché per lo più si tratta di rapporti, per così dire, asimmetrici, per la corretta attuazione dei quali il banchiere dispone dì
strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti interessati non hanno.
Dal che appunto dipende, per un verso, l’affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento, da parte del banchiere, dei compiti inerenti al servizio bancario e, per
altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere medesimo incorre nei confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa,
egli non osservi le regole al riguardo prescritte dalla legge.
La previsione del secondo comma del citato art. 43, in virtù della quale colui che paga malamente l’assegno non trasferibile ne assume responsabilità, letta in combinazione con le norme dettate dal comma precedente in ordine ai soggetti in favore dei quali
l’assegno deve essere pagato, sta appunto a significare che la responsabilità del banchie-
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Dispensa C1
re dipende dalla violazione di quelle norme. È bensì vero che l’ordinamento conosce anche casi di responsabilità aquiliana contemplati da norme specifiche, che costituiscono
attuazione del principio generale posto dall’art. 2043, c.c., ma deve pur sempre trattarsi
di situazioni nelle quali la responsabilità si manifesta primariamente nell’obbligo risarcitorio. Qui, invece, in capo al banchiere presso cui l’assegno non trasferibile è posto all’incasso sorge, prima d’ogni altro, un obbligo professionale – derivante dalla sua stessa
funzione, in considerazione della quale la legge stabilisce, appunto, che l’assegno possa
esser girato per l’incasso solo ad un banchiere di far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso. E la responsabilità deriva appunto dalla violazione di un siffatto obbligo
di protezione, che opera nei confronti di tutti i soggetti interessati alla regolare circolazione dei titolo ed al buon fine della sottostante operazione: obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto. Il che, per le ragioni dianzi chiarite, necessariamente
conduce fuori dall’ambito della responsabilità aquiliana, non permette di configurare
un caso di responsabilità ex lege (intesa come responsabilità da atto lecito) e porta invece a concludere per la natura (lato sensu) contrattuale della responsabilità ricadente sulla banca a norma del citato art. 43, co. 2, l. assegno.
4.4.3. La conclusione cui si è pervenuti circa la natura della responsabilità di cui si
discute ha un’ovvia quanto immediata conseguenza in ordine al termine di prescrizione cui è soggetta l’azione di risarcimento proposta dal danneggiato.
Esclusa la natura aquiliana di detta responsabilità, è infatti evidente che nessuno
spazio può trovare, in un caso come questo, la disposizione dell’art. 2947, c.c., secondo cui il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. Resta invece applicabile, in difetto di
altra disposizione che più specificamente si attagli alla fattispecie, il regime della prescrizione ordinaria decennale stabilito dall’art. 2946, c.c., come statuito dall’impugnata sentenza.
(Omissis)
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