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TIF EXTRA
Robert Littell
Il giovane Philby
romanzo
Traduzione dall’inglese di Olivia Crosio
FANUCCI EDITORE
Dello stesso autore abbiamo pubblicato:
I figli di Abramo
L’epigramma a Stalin
L’Oligarca
Prima edizione: luglio 2012
Titolo originale: Young Philby
© 2012 by Robert Littell
© 2012 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Robert Littell
Il giovane Philby
romanzo
Traduzione dall’inglese di Olivia Crosio
FANUCCI EDITORE
I personaggi principali di questo libro:
Yelena Modinskaya: analista dei servizi segreti sovietici incaricata di esaminare il dossier dell’Inglese, il n. 5581 della
Commissione per la sicurezza di Stato.
Litzi Friedman: attivista comunista di origini ungheresi,
agente del Centro Mosca di Vienna nel 1934, quando il cancelliere austriaco Dollfuss stroncò i movimenti socialisti e comunisti in Austria.
Harold Adrian Russell Philby: giovane marxista dell’università di Cambridge, soprannominato Kim come la leggendaria
spia di Kipling, che nel 1933 approdò a Vienna in cerca di avventura, una causa in cui credere, cameratismo, affetto, amore,
sesso.
Guy Burgess: brillante, sinistroide e anticonvenzionale compagno di studi di Kim al Trinity College di Cambridge, che provava un piacere viscerale a sbandierare la propria omosessualità.
Teodor Stepanovich Maly: rezident del Centro Mosca londinese che, con lo pseudonimo di Otto, reclutò l’Inglese, offrendogli un’alternativa clandestina a fare lo strillone al Daily Worker per i minatori analfabeti.
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Miss Evelyn Sinclair: la figlia zitella dell’ammiraglio, che
sapeva dov’erano le scatole con le lettere del padre morto ed
era considerata la memoria istituzionale dei servizi segreti di
Sua maestà.
Harry St John Bridger Philby: l’eccentrico padre di Kim
Philby, soprannominato l’Hajj, che si era convertito all’Islam
ed era andato a vivere in Arabia, ma si teneva in contatto con
i vecchi compagni di scuola a Londra.
Frances Doble: Bunny per gli amici, attrice canadese di cinema e teatro che aveva recitato in Scirocco di Noël Coward,
ma si realizzava veramente solo nei party dopo lo spettacolo
a base di champagne. Ardente monarchica, durante la Guerra civile spagnola sostenne Franco, convinta che avrebbe rimesso sul trono il suo amico re Alfonso relegato in esilio.
Miss Marjorie Maxse: ufficiale di reclutamento di lunga
data dei servizi segreti di Sua maestà e zitella ultrasettantenne in grado di fermare una carrozza trainata da cavalli con un
fischio, esageratamente diretta nel torchiare i nuovi potenziali agenti.
Anatoly Gorsky: l’uomo dell’NKVD che successe a Otto come rezident londinese e fece da tramite con gli agenti di Cambridge, tra i quali Kim Philby.
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Quello che dovremmo chiederci, suppongo, è se un ideale perde di
validità perché le persone che lo sostengono vengono tradite.
PAT BARKER, The Ghost Road
Prologo
Mosca, agosto 1938
Dove a Teodor Stepanovich Maly viene rifiutata una sigaretta
Dunque: La Y di Y. MODINSKAYA sul mio cartellino di identificazione sta per Yelena, che era anche il nome della mia defunta nonna materna, uno dei primi commissari donna nella
gloriosa Armata rossa, ai tempi della Rivoluzione. Ho trentatré anni. Fino alla mia recente riassegnazione come analista
dei servizi segreti, lavoravo come assistente alla ricerca nel
secondo Direttorato principale del Commissariato del popolo per gli affari interni, meglio conosciuto con le iniziali NKVD.
No, non sono sposata, a meno che non si accetti la formula del
tenente Gusakov secondo il quale ‘sono sposata con il mio lavoro’.
Sì, sì, siete tra i pochissimi ad aver intuito che fu una dura
prova anche per me. Inutile dire che lo fu per il condannato (è
questo il punto, giusto?), ma non ero mai stata dove interrogano i criminali di Stato, né tantomeno avevo avuto colloqui
con loro pochi minuti prima dell’esecuzione. Un mese e una
settimana e mezza prima mi avevano consegnato i diciassette scatoloni di cartone contenenti il dossier 5581 (ciascuno
con le scritte rosse TOP SECRET e COMMISSIONE PER LA SICUREZZA
DI STATO DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DELL’URSS) e da allora avevo passato quasi tutte le mie ore di veglia a esaminarli: risme
di rapporti su fogli protocollo da o sull’Inglese; fasci di tele13
grammi tra la Rezidentura e il Centro Mosca londinesi, divisi
per mese e tenuti insieme da spessi elastici di gomma; valutazioni della bona fides dell’Inglese fatte dagli analisti che avevano esaminato il dossier prima di me. Nonostante passassi
quindici ore al giorno alla scrivania, ero riuscita a prendere
visione solo di due terzi dei documenti. Per quanto riguarda
le conclusioni, in teoria la mia opinione era ancora suscettibile di cambiamenti, ma avevo già trovato delle incongruenze
nel rapporto steso dal mio immediato predecessore prima
che lo deportassero in un campo di lavoro in Siberia. Il capo
della mia sezione nel quinto dipartimento del secondo Direttorato principale, il tenente Gusakov, mi accompagnò fino
sulla soglia della stanza degli interrogatori. Ho un ricordo di
lui che allunga il braccio per scoprire l’orologio finito sotto il
polsino inamidato. «Ha mezz’ora, sottotenente Modinskaya.
Non un minuto di più. Non possiamo far aspettare i compagni nella cripta.»
Una guardia aprì la porta della stanza. Era un locale stretto
e spoglio, con il soffitto alto. Quando fui dentro, lo sentii richiudere a chiave. La stanza era pregna di un odore forte e
sgradevole. Da una finestrella in alto sul muro, poco più di
una fessura, filtrava una luce color cenere pesante come piombo. Mi parve di cogliere uno stridore di freni a pattino mentre
i tram si fermavano in piazza Dzerzhinsky fuori dalla prigione di Lubjanka per prelevare quelli che smontavano dal turno di notte. Via via che i miei occhi si abituavano alla semioscurità, cominciai a distinguere la figura di un uomo su uno
sgabello a tre gambe. Era alto, magro, addirittura macilento,
con la barba lunga, trasandato, e indossava una giacca classica sformata sopra una camicia bianca sporca abbottonata su
un collo scheletrico. Aveva degli stentati baffetti triangolari e
capelli incolti e arruffati. Portava scarpe senza lacci e non aveva calzini. Fui sollevata quando vidi che polsi e caviglie erano
legati.
Mi sistemai sull’unico altro pezzo di mobilio, una seggiola
di legno dallo schienale dritto, di quelle che si trovano in ogni
onesta cucina sovietica. Mi schiarii la gola per attirare l’attenzione del prigioniero che continuava a fissare il vuoto. Lui pre14
se atto della mia presenza rabbrividendo e la sua testa guizzò
di lato, in un saluto impacciato. «Le chiedo di scusarmi» mormorò.
«Come ha detto?»
«L’ultima cosa che mi aspettavo era essere interrogato da
una donna. Quando sono venuti a prendermi in cella, ero sicuro che fosse arrivata la mia ora e... me la sono fatta nei pantaloni. Mi hanno rotto il naso durante l’interrogatorio, e ho
perso il senso dell’olfatto, ma a giudicare dall’espressione delle guardie che mi hanno scortato qui devo puzzare come un
animale.»
Capii che si sforzava di dominare le emozioni. Lo vidi alzare le mani ammanettate, ma dato che aveva la testa china
non riuscii a vedere se si asciugava le lacrime dagli occhi o il
sudore dalla fronte o la saliva dagli angoli della bocca.
«Mi dispiace incontrarla in circostanze così spiacevoli» dissi, pensando che, esprimendogli la mia disponibilità, avrei
creato un’atmosfera più favorevole per il nostro colloquio. «Vedo che porta la fede. Sua moglie l’ha accompagnata, quando è
stato richiamato a Mosca?»
«Le è stato ordinato di tornare con me. Non aveva previsto...» Il prigioniero si schiarì la gola. «Ha considerato propaganda capitalista le voci di epurazioni tra i ranghi dell’NKVD.
Secondo lei, in quanto comunisti convinti, non avevamo niente da temere.»
«Dove si trova adesso sua moglie?»
«Speravo me lo dicesse lei.»
«Nelle trascrizioni del suo processo non è nemmeno nominata.»
«Una notte, poco dopo il mio arresto, ho sentito una donna chiamarmi da una cella lontana. Mi è parso di riconoscere
la voce di mia moglie.» Alzò gli occhi. «La prego, mi aiuti.»
Mi girai dall’altra parte. «Lei è stato condannato come nemico del popolo da un tribunale speciale. Non posso fare niente
per aiutarla.»
«Crede davvero che sia una spia fascista?»
«Ho letto la sentenza. Ha confessato di lavorare per la divisione Abwehr dell’alto comando della Wehrmacht.»
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«Ero sotto tortura. La confessione mi è stata estorta. Ho confessato quando non sono più riuscito a sopportare il dolore.
Mi dia almeno una sigaretta» aggiunse in un sussurro roco.
Riempire la stanza di fumo di tabacco avrebbe risolto almeno uno dei miei problemi. Peccato che fosse contro il regolamento. «Non è permesso» risposi.
«Nei Paesi civili ai condannati a morte è concessa l’ultima
sigaretta» protestò disperato.
Avrei voluto coprirmi il naso e la bocca con un fazzoletto
profumato e respirarci attraverso. «Non abbiamo molto tempo» gli dissi.
«Vuole dire che io non ho molto tempo.»
«Era lei il rezident a Londra quando è stato reclutato l’Inglese» continuai, leggendo da una delle mie schede. «Telegramma cifrato n. 2696 dalla Rezidentura di Londra al Centro Mosca, giugno 1934: ‘Abbiamo reclutato il figlio di uno stimato
arabista britannico noto per essere amico intimo del monarca
saudita Ibn Saud e sospettato di legami con i livelli più alti dei
servizi segreti britannici.’ Il telegramma è firmato con il suo
nome in codice: Mann.»
Il prigioniero alzò subito lo sguardo. Le orbite sembravano
rientrate nel teschio e gli occhi erano curiosamente privi di vita, come se fossero morti prima dell’esecuzione. Era possibile
che la luce li avesse abbandonati prima che la vita abbandonasse il corpo? «Perché torniamo sempre sull’Inglese?» stava
dicendo il condannato. «Io non ho mai mosso un dito senza il
consenso del Centro.»
«Il consenso del Centro si basava sulla sua valutazione della situazione» gli ricordai.
«La mia valutazione della situazione è stata influenzata dalla necessità del Centro di reclutare agenti in Gran Bretagna.»
«Quante volte ha incontrato l’Inglese?»
«Ho perso il conto.»
«La risposta esatta è nove.»
«Perché mi fa domande di cui conosce già la risposta?» Il
prigioniero scosse la testa, furioso. «Come rezident, e soprattutto di agente di contatto dell’Inglese, era procedura di routine che io lo incontrassi a intervalli regolari.»
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«Lo descriva.»
«I particolari sono tutti nei miei rapporti per il Centro.»
«Vorrei sentire la descrizione dalle sue labbra.»
Inspirò rumorosamente dalle narici. «L’Inglese è nato nel
secolo sbagliato. È uno degli ultimi romantici. Ingenuo, forse,
idealista. È soprattutto un antifascista. Considera Stalin l’unico baluardo contro Hitler, il comunismo l’unico baluardo contro il fascismo.»
«Secondo lei è prima di tutto comunista o antifascista?»
«L’Inglese venne reclutato nel ’34. All’epoca l’approccio del
Centro consisteva nell’enfatizzare la linea antifascista del movimento comunista internazionale, invocare un fronte unito
contro la minaccia hitleriana. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che reclutassimo agenti guidati in prevalenza da ideali antifascisti.»
«Malgrado le sue origini? Il padre ultraconservatore con
contatti in Arabia Saudita, le radici altoborghesi, l’educazione
elitaria a Cambridge?»
«Scoraggiare! Al contrario, furono proprio le sue origini ad
attirare in primo luogo la mia attenzione. Vidi il potenziale per
una missione di infiltrazione a lungo termine. Avevamo camionate di lavoratori comunisti con l’accento dei quartieri est
di Londra, avevamo dei minatori di Newcastle che recitavano
il Manifesto del partito comunista al matrimonio delle figlie, ma
nessuno di loro era in grado di sostenere una conversazione in
un club per gentiluomini. Come ci si poteva aspettare che si
infiltrassero all’interno degli organi di Stato o dei corpi diplomatici, o ancora meglio nei servizi segreti britannici?»
«Il fatto che sia stato lui a cercarla, invece che lei a cercare
lui, non ha fatto sorgere il sospetto che fosse in contatto con i
servizi segreti britannici, una spia da infiltrare nei nostri servizi segreti?»
«Non nego che, tornato da Vienna, si presentò al quartier
generale londinese della Commissione centrale del Partito
comunista britannico...»
Consultai un’altra delle schede che avevo in grembo. «Al
numero 16 di King Street.»
Parve stupirsi della mia familiarità con il dossier. «Al nu17
mero 16 di King Street, esatto. Dichiarò di volersi iscrivere al
Partito.»
Il prigioniero aveva rimestato in una delle molte incongruenze nel rapporto del mio predecessore. «È scarsamente credibile che chi entra dalla porta principale nella sede della Commissione centrale non venga fotografato dagli agenti britannici e
inserito nella lista dei sorvegliati. In questo caso, l’Inglese avrebbe avuto ben poche probabilità di infiltrarsi negli organi di
Sua maestà. Ameno che...»
Fu il prigioniero a terminare la frase: «...A meno che il suo
vero scopo non fosse infiltrarsi nei nostri organi di Stato per
confondere le acque.» Cercò di accavallare le gambe, ma i ceppi alle caviglie glielo impedirono. «I compagni della Commissione centrale londinese gli spiegarono che dovevano effettuare dei controlli, prima di ammetterlo nel Partito, e gli dissero di
tornare dopo sei settimane. Sulla mia scrivania arrivò un fascicolo con il suo nome. Effettuai io i controlli. A Cambridge era
stato membro della malfamata Società socialista. I suoi amici
più cari e i suoi conoscenti erano tutti come lui, di sinistra. Appena ottenuta la laurea, era stato a Vienna per partecipare alla
rivolta filocomunista contro il potere autoritario di Dollfuss.
Lei saprà di certo che fu uno dei più fidati agenti del Centro
Mosca a Vienna, Litzi Friedman, a proporre il suo nome ai nostri vertici. Il suo rapporto lo descriveva come un marxista convinto che l’Unione Sovietica fosse il motore di un movimento
di liberazione su scala mondiale. Idolatrava l’Homo sovieticus,
era convinto che grazie al comunismo sarebbero sorti una Gran
Bretagna più sana e un mondo migliore. Il Centro mi mandò a
Vienna per assistere a una delle riunioni quindicinali della
Friedman con il suo agente di contatto sovietico. Ero presente
quando propose la candidatura dell’Inglese. Disse che sarebbe stato un ottimo agente. Le parlai di nuovo a Londra, dopo
che era fuggita da Dollfuss e da Vienna. Insistette ancora sull’antifascismo dell’Inglese, sul suo desiderio di unirsi alle forze
del comunismo internazionale. Il Centro Mosca vagliò tutti i
dettagli quando acconsentì che la Rezidentura londinese avviasse le procedure di reclutamento.»
«Secondo il dossier 5581, fu lei stesso a reclutarlo.»
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Annuì, disperato. «Organizzai l’incontro in pieno giorno,
su una panchina di Regent’s Park. La Friedman aveva preso le
sue precauzioni, al suo arrivo era sicura di non essere stata pedinata.»
«Poi?»
Le labbra del prigioniero si contorsero in un sorriso forzato. «Lui credeva che il motivo dell’incontro fosse la sua richiesta di unirsi al Partito. La sera prima mi ero scritto tutto quello che gli avrei detto, come il copione di un radiodramma.
Recitai alla perfezione il ruolo che mi ero dato. ‘Se vuoi unirti
al Partito, ovviamente verrai accolto a braccia aperte’gli dissi.
‘Passeresti le tue giornate a vendere il Daily Worker nei quartieri popolari, ma sarebbe sprecato, perché lei ha talento.’ Sembrava sorpreso dalle mie parole. «‘Quale talento?’ domandò.
‘Hai la cultura, l’aspetto e i modi di un intellettuale’ risposi.
‘Potresti facilmente mescolarti all’alta borghesia senza destare
sospetti. Se vuoi dare un contributo significativo al movimento antifascista, la semplice appartenenza al Partito comunista
non è sufficiente. La scelta della clandestinità che ti propongo
presenta delle difficoltà, persino dei pericoli. Ma la ricompensa in termini di soddisfazione personale sarà immensa e
il contributo al destino delle classi operaie decisivo. Vieni da
Cambridge, e questo da solo potrà aprirti le porte del giornalismo, degli ambienti diplomatici, forse persino dei servizi segreti di Sua maestà. Ti unirai a noi nella lotta contro il fascismo internazionale?’»
Fuori dalla Lubjanka, gli operai avevano cominciato a usare i martelli pneumatici per smantellare la pavimentazione
stradale. Mi tornò in mente un professore all’accademia che ci
aveva parlato dell’efficacia di spezzare gli interrogatori con
lunghi silenzi. All’epoca non avevo capito bene cosa intendesse dire, ma ora sì. I silenzi potevano risultare utili soprattutto
in situazioni come questa, quando la fine dell’interrogatorio
sarebbe coincisa con l’esecuzione del prigioniero. Era nel suo
interesse tirarla per le lunghe. Così tenni a freno la lingua, gli
occhi fissi sulle bobine del registratore vicino alla mia sedia. Il
silenzio si prolungò e lui diede segni di ansia. Si agitò sullo
sgabello e alzò i polsi ammanettati per passarsi le dita di una
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mano tra i capelli. Quando finalmente parlai, lo vidi sollevato,
impaziente di rispondere.
«L’Inglese sapeva chi era lei, quando gli fece la sua proposta?» domandai.
«Gli dissi solo che poteva chiamarmi Otto.»
«Sapeva per chi lavorava? Mi lasci riformulare la domanda. Sapeva per chi fingeva di lavorare?»
La parola ‘fingeva’lo fece sussultare. «Non ero nuovo al delicato compito di reclutatore. Restai giustamente sul vago. Gli
parlai del fronte antifascista, dei lavoratori di tutto il mondo
uniti contro i loro sfruttatori. Ma l’Inglese non era uno sprovveduto. Anche se era troppo discreto per dirlo apertamente,
non poteva avere dubbi sul fatto che rappresentassi il Centro
Mosca, l’Unione Sovietica.»
«Cosa accadde dopo che gli propose di lavorare per lei?»
«Accettò, seduta stante.»
«Senza la minima esitazione?»
«Esatto.»
«Non le parve strano che non avesse incertezze, che non
chiedesse tempo per valutare i rischi e le conseguenze della
sua decisione?»
«Feci appello all’avventuriero che c’era in lui, oltre che all’idealista. Lo invitai a aderire al progetto bolscevico di imporre l’ordine proletario a scapito del caos capitalista. Gli offrii un’esistenza significativa, uno dei fattori che motivò me
quando accettai di lavorare per il Centro. Forse anche lei ha
firmato per ragioni simili. Ripensando a quel primo incontro
a Regent’s Park, non mi sorpresi affatto quando vidi l’Inglese
accettare con entusiasmo.»
Decisi di provocare il prigioniero nella speranza di distrarlo
da quello che era chiaramente un resoconto preparato con cura. «Dal punto di vista del Centro, il reclutamento dell’Inglese
va visto sotto una luce molto più sinistra. Com’è possibile che
sia un agente bona fide, quando la persona che lo ha reclutato è
una spia tedesca condannata a morte?»
«Ragiona come un cane che si morde la coda» replicò lui.
«Come osa insultare una cekista!»
Il mio scoppio d’ira parve divertirlo. «Tra poco avrò una
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pallottola di grosso calibro nella nuca. Non perderò certo il
sonno per aver insultato un cekista.»
Aveva ragione e decisi che non avevo nulla da guadagnarci a prendermela. «Non ha risposto alla mia domanda» osservai senza più alzare la voce. «Lei, rezident londinese dell’NKVD
e agente di contatto dell’Inglese, non è il solo traditore della
patria. Anche il suo predecessore alla Rezidentura, Ignaty Reif,
nome in codice Marr, altro sostenitore della candidatura dell’Inglese, ha tradito ed è stato mandato a morte. E il mese scorso ha disertato un altro degli agenti di contatto sovietici dell’Inglese...» scartabellai tra le schede finché trovai quella che
cercavo «Alexander Orlov, nome in codice lo Svedese.»
«Lo Svedese ha disertato?»
«Il suo vero nome era Leon Feldbin. È un israeliano, operativo nel Sud della Francia. È sparito»
«Orlov era un bolscevico onesto. Aveva partecipato alla Rivoluzione e poi era stato mandato sul fronte polacco con l’Armata Rossa. Fu lo stesso Feliks Dzerzhinsky a introdurre Alexander nell’apparato dell’intelligence. Se vi sembra che abbia
disertato, considerate la possibilità che stia partecipando a
un’operazione del Centro per depistare i servizi nemici.»
«Inutile dire che ho consultato i miei superiori. La defezione di Orlov non rientra in nessuna operazione. Sapeva che
l’Inglese era stato reclutato dal nostro NKVD perché aveva avuto tra le mani molti dei suoi rapporti. Eppure a tutt’oggi l’Inglese non è ancora stato arrestato. I fatti parlano da soli.»
Il condannato si accasciò sullo sgabello, scuotendo incredulo la testa. «Lei non tiene conto dei risultati che l’Inglese ottenne nella sua missione in Spagna, durante la Guerra civile.»
«Doveva lavorare sotto copertura, spacciandosi per un giornalista. Le istruzioni erano di assassinare il leader fascista Franco, ma non fece nulla per portare a termine la missione con successo, e non me ne sorprendo. Come non mi sorprende che lei,
ora smascherato come agente assoldato dai tedeschi che sostenevano Franco e il suo esercito nazionalista, nei suoi rapporti
difendesse l’Inglese nonostante avesse fallito.»
«Erano ordini assurdi. L’Inglese era stato addestrato solo
per raccogliere informazioni. L’istinto e il talento richiesti per
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lo spionaggio classico non preparano un agente a sporcarsi le
mani. Inoltre uno straniero armato non sarebbe mai riuscito
ad avvicinarsi al Generalissimo, figuriamoci ad assassinarlo.
Non crede che, una volta catturato, il sicario avrebbe confessato di essere un agente sovietico, il che avrebbe portato a un
grave incidente diplomatico. Germania e Italia, entrambe fervide sostenitrici di Franco, avrebbero potuto dichiarare guerra all’Unione Sovietica. Solo un individuo completamente
fuori dalla realtà può aver dato un ordine simile.»
Avevo tra le mani la scheda giusta, e fui in grado di citarne
il contenuto senza bisogno di leggere. «L’ordine partì dal compagno Stalin. Secondo lui, se il leader fascista Franco fosse stato eliminato, gli eserciti nazionalisti e i loro sostenitori cattolici sarebbero stati piegati e avrebbero trionfato i repubblicani.»
La stanza angusta adesso era invasa dalla luce del giorno.
Vidi le labbra del prigioniero tremare. Dopo un momento disse: «In questi anni, l’Inglese ci ha fornito molte informazioni
preziose, tutte verificate.»
«Certo. Nei loro rapporti gli agenti infiltrati devono fornire informazioni attendibili, per ottenere credibilità e far passare per buone anche le informazioni fasulle. Lei, da agente
dell’Abwehr, non inviava forse al Centro informazioni attendibili sui piani di battaglia tedeschi e sulle loro priorità per
quanto riguardava gli armamenti, al solo scopo di farci bere
anche un certo numero di informazioni fasulle?»
«La sfido a citare un solo esempio di informazioni fasulle
che posso avervi passato.»
Mi strinsi nelle spalle. Non stavamo andando da nessuna
parte. «Si era fatto garante per l’Inglese e ci passava come affidabili tutte le informazioni che lui inseriva nei suoi rapporti.»
Raccolsi le schede su cui avevo annotato le domande. Il prigioniero se ne accorse. «Non se ne vada, la prego» disse con
voce rauca. «Devo parlare con lei il più a lungo possibile.»
«Mi hanno concesso mezz’ora.»
Estrasse una scatola di cerini dal taschino della giacca. «Ho
scritto all’interno una breve nota al compagno Stalin. Se gliela fa avere, non sarà ancora troppo tardi per me. Lui ricorderà di certo Teodor Stepanovich Maly, i servizi che ho reso al
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partito durante la rivoluzione, la mia devozione allo Stato. E
ordinerà ai giudici di rivedere il verdetto.»
«Le matite sono proibite ai prigionieri» trovai necessario
rammentargli. «Questa è una grave infrazione delle regole e
potrebbe avere conseguenze gravi.»
Il condannato si trascinò verso di me, impacciato dalle catene alle caviglie. Mi tese i cerini. «Lei è la mia sola speranza» sussurrò.
Mi imbarazza dirlo, ma mi precipitai alla porta. Ho un vago ricordo di aver bussato. Sentii con sollievo girare la chiave
nella toppa. Quando aprirono, inspirai a pieni polmoni l’aria
stantia del corridoio e trovai il tenente Gusakov con i compagni saliti dalla cripta, uomini ben piazzati con dei grembiuli di
pelle macchiati sopra le uniformi dell’NKVD, intenti a fumare
sigarette girate a mano. Veder uscire una donna dalla stanza
degli interrogatori li meravigliò.
«Portatela via» borbottò uno di loro. «Questo non è posto
per una donna.»
«Ameno che non sia lei la condannata al massimo della pena» disse con un ghigno un altro compagno, un tipo basso con
il cranio rasato. Gli altri distolsero imbarazzati lo sguardo.
Il tenente Gusakov fece un brusco cenno con la testa e si avviò verso l’ascensore. «Maly ha gettato qualche luce sulle incoerenze del suo predecessore?» domandò a me che gli camminavo dietro. Si fermò a guardarmi. «L’Inglese. Da che parte
sta?»
«Le prove finora indicano che è un agente britannico» risposi. «Il condannato non ha detto niente per convincermi del
contrario.»
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