un libro di paolo rossi sull`idea del mangiare tra bisogno

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un libro di paolo rossi sull`idea del mangiare tra bisogno
ANNO XLIX - N. 155
mercoledi' 16 marzo 2011
SPECIALE CULTURA
UN LIBRO DI PAOLO ROSSI SULLʼIDEA DEL MANGIARE
TRA BISOGNO, DESIDERIO E OSSESSIONE
Paolo Rossi, professore emerito nellʼUniversità di Firenze e membro dellʼAccademia dei
Lincei, è uno storico delle idee e della “lunga durata”, abituato a sottolineare anche i “moti
pendolari” della storia. Eʼ con questo approccio che ha scritto uno stimolante libro intitolato
“Mangiare”, edito da “Il Mulino” (2011).
Chi coltiva esclusivamente una visione edonistica del cibo, senza curare altri aspetti
fondamentali che ad esso si legano, forse non troverà soddisfacente la lettura del volume
perché lʼautore non racconta solo le storie fatte di cose piacevoli ma anche quelle piene di
orrori che si configurano, a volte, come inimmaginabili. Tutti noi non vorremmo vederle
mescolate quando si parla del cibo, ma purtroppo sono dannatamente intrecciate; e
questo libro ci dà la misura di quanto siano legate indissolubilmente tra loro. La lettura è,
tuttavia, avvincente perché il testo è molto documentato, a partire dalle testimonianze
dirette di chi si è trovato o si trova a vivere le esperienze drammatiche che vengono
descritte.
Il tema della fame primeggia perché ancora oggi quasi un miliardo di persone nel mondo
sono denutrite. Ma il problema non riguarda solo quella parte del pianeta dove non cʼè cibo
a sufficienza. Anche da noi, che fortunatamente viviamo dove il cibo è in abbondanza,
sʼincontrano persone per le quali il mangiare è fonte di preoccupazione quotidiana: ci sono
quelle che, per sfamarsi, frugano nella spazzatura e ci sono giovani persone per le quali il
mangiare costituisce un nemico a cui opporre uno strenuo, distruttivo e totale controllo.
Vengono così raccontati gli studi sullʼinedia come malattia che conduce alla morte, sia
quelli condotti su volontari, come lʼ”Esperimento Minnesota”, sia quelli ricavati dalle
memorie di medici che vissero lʼatroce esperienza del ghetto di Varsavia, nel 1940,
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quando gli ebrei residenti vennero ermeticamente rinchiusi entro unʼarea di 14 chilometri
quadrati. E descrivendo gli studi sulle carestie del Novecento, in Ucraina e in Cina, nonché
quelli sulle deportazioni nei lager nazisti e nei gulag sovietici, lo storico conclude che la
tragedia della fame è stata di certo strutturalmente connessa al mondo dei campi di
concentramento, ma molto spesso è stata comunque il frutto di errate o incaute scelte
politiche.
Oltre ai capitoli sul cannibalismo e il vampirismo, ampio spazio è dedicato ai disturbi
alimentari e alle malattie del benessere. Prima di tutto lʼobesità, diventata ormai una vera e
propria epidemia, che colpisce i paesi ricchi ma anche quelli emergenti. Lʼautore riporta le
conclusioni del recente lavoro del neuroscienziato André Holley, in cui si afferma che
“dopo mezzo secolo di ricerche e dopo aver speso centinaia di migliaia di dollari per
demonizzare i grassi nellʼalimentazione, la scienza della nutrizione non è riuscita a provare
che una dieta con pochi grassi può aiutare a vivere a lungo”; e questo perché “di fronte a
fatti così complessi come quelli che caratterizzano la nutrizione, non ci è concesso di
affidare lʼindagine a un solo ramo del sapere”. Occorre, in sostanza, mettere insieme più
discipline e assumere un approccio olistico per fronteggiare la malattia. E questo ancora
non si fa.
Più drammatico è il caso dellʼanoressia, una malattia mentale che si accompagna ad una
vera e propria propaganda volta a diffonderla tra le nuove generazioni. Eʼ forse lʼunico
caso di apologia di un morbo. Ci sono, infatti, decine di siti web che incitano i giovani al
controllo totale del cibo come mezzo di autoaffermazione. Inoltre, il mondo della moda
adotta modelli di bellezza che si fondano sullʼidea dellʼessere magri a tutti i costi. I mezzi di
comunicazione di massa hanno assunto come valori esclusivi della nostra società la
bellezza e lʼefficienza fisica e diffondono questo messaggio con unʼaggressività e volgarità
senza misura. Si è in tal modo verificata una sorta di saldatura tra modelli culturali di vita e
forme patologiche. Negli ultimi decenni, una folla di filosofi, antropologi, psicologi,
psicanalisti e psichiatri ha insistito sugli effetti deleteri provocati dallʼimmagine di un corpo
emaciato che viene divinizzato fino a configurarsi come unʼentità da raggiungere posta ad
unʼinfinita distanza e, per questa ragione, mai raggiungibile. Nonostante tale impegno –
conclude sconsolato lʼautore – nel mondo della moda non diventano ancora decisive e
vincenti quelle posizioni che si richiamano a problemi etici o a faccende che riguardano la
coscienza o la responsabilità che si assume davanti agli altri.
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Unʼattenzione particolare il volume dedica anche al rapporto tra il digiuno e la religione,
richiamando i diversi riti di buddisti, induisti, musulmani, ebrei e cristiani. Nel riferire sulla
recente letteratura riguardante la vita delle sante e il loro rifiuto ascetico del cibo, si
condivide lʼopinione dello psichiatra Paolo Santonastaso, secondo il quale vanno evitate
semplificazioni grossolane ed erronee identificazioni, accostando le forme di digiuno della
prima età moderna allʼanoressia dei nostri giorni, perché i significati dei fenomeni non
sono facilmente separabili dai contesti. E si mette, inoltre, in risalto come nella Chiesa
cattolica la riduzione della pratica del digiuno a due sole giornate allʼanno - mercoledì delle
ceneri e venerdì santo – abbia aperto veri e propri crepacci nelle sue secolari mura se si
sono dovute registrare reazioni di segno opposto da parte dei teologi: di preoccupazione
quella di Enzo Bianchi, che vede nella scomparsa del digiuno il rischio per il credente di
una caduta nella capacità di confessare la propria fede anche attraverso il corpo; di
insoddisfazione quella di Adriana Zarri, che avrebbe voluto una più drastica eliminazione
della cultura penitenziale e un maggiore spazio nella letteratura religiosa alla dimensione
festosa delle mense, partendo dallʼidea di Cristo che si fa cibo e offre se stesso da
mangiare ai suoi discepoli sotto i segni del pane e del vino.
Eʼ qui che lʼautore sembra cogliere un filo sottile che lega il riemergere di due antichi temi:
quello del cibo come convivialità e quello della condanna dellʼimpresa umana volta al
controllo della natura. “Eʼ come se nel mondo del benessere – scrive Paolo Rossi – fosse
presente una nascosta forma di nostalgia per il mondo del malessere”. Eʼ in realtà il
rimpianto per i tempi felici che non ritornano, per lʼipotetica vita innocente e serena di
“primitivi” che nella realtà vivono molto duramente, muoiono giovani e vedono morire molti
dei loro figli. “Ancora una volta si realizza – osserva lʼautore richiamandosi a Odo
Marquard – quel frequente mutuo scambio tra fedi progressiste e angosce apocalittiche
(che sono spesso alla base del primitivismo) attraverso un meccanismo quasi automatico:
i vantaggi che la cultura concede allʼuomo dapprima vengono accolti con favore,
successivamente diventano ovvii, in ultimo, si scorge in loro il nemico. Sicché “proprio la
liberazione dalle minacce fa diventare minaccioso ciò che libera”, come la medicina, la
rivoluzione chimica e la stessa democrazia parlamentare. Eʼ allʼinterno di questi processi
culturali che si affermano convinzioni errate come queste: “un tempo si mangiava naturale”
oppure “per i nostri nonni e bisnonni il cibo era genuino e gustoso”. “Luoghi comuni che
dovrebbero crollare – rileva lo storico - di fronte ai dati e alle serie ricerche. Invece
resistono impavidamente”.
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I toni del libro sono qua e là polemici, ma il discorso è condotto con argomentazioni
stringenti richiamando spesso sia opere letterarie, teatrali e cinematografiche che studi
scientifici non solo e non tanto di storici, filosofi, sociologi e antropologi, ma soprattutto di
agronomi, chimici, biologi, neurobiologi e psicologi comportamentali. Il tutto partendo da
una descrizione puntuale di ciò che è “natura” e di ciò che è “cultura” e dimostrando come
la preparazione del cibo e il mangiare siano sempre una mediazione tra lʼuna e lʼaltra.
Ma cʼè un aspetto che non convince. Lʼattenzione crescente che nei paesi ricchi si riserva
al cibo, tanto da far ritenere ad una studiosa del fenomeno come Alessandra Guigoni che
lʼalimentazione sarà, nel
terzo millennio, uno dei grandi scenari dellʼantropologia, è
considerata da Paolo Rossi “qualcosa di molto simile ad unʼossessione”. Ed eccessiva
appare allo studioso anche lʼaffermarsi di una cultura locale del cibo. Ci si sarebbe
aspettati anche qui dallʼautore lʼindividuazione di uno di quei “moti pendolari” della storia
sottolineati per altri risvolti del problema alimentare: il ruolo dei mercati locali, della
convivialità, dei legami informali, dei beni collettivi e delle economie del dono, la loro
capacità di garantire forme reciprocamente solidali nel tenere insieme le comunità e di
contenere gli orrori della fame e la loro possibile rivitalizzazione in forme moderne per
offrire nuove opportunità alle odierne società del benessere. Ma tale rilievo ha come
attenuante la mancanza di studi storici al riguardo, se si fa eccezione per quelli condotti da
Paolo Grossi sui diritti collettivi. Al di là di queste lacune, il libro è utile per comprendere
che i grandi dilemmi posti dallʼidea del mangiare hanno bisogno per essere affrontati di far
interagire sfere diverse della conoscenza scientifica, scongiurando il pericolo di affidarsi a
credenze e a saperi nostalgici.
Alfonso Pascale
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