Rosaria Rizzo - Comune di Guagnano

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Rosaria Rizzo - Comune di Guagnano
Rosaria Rizzo
La stazione
I passi rapidi sull’asfalto erano l’unico suono che si udiva nel viale costeggiato da
salici piangenti che portava alla stazione. Somigliavano al ticchettio di un
pendolo che ritmicamente segnava il tempo che la separava dall’arrivo del treno
delle 15:00.
L’afa di agosto evaporava dall’edificio rosso sbiadito verso il quale si stava
dirigendo, e solo a distanza ravvicinata la scritta “Stazione di Guagnano” si
materializzò in tutta la sua nitidezza.
Attraversò l’arco d’ingresso in vetro e si fermò nel mezzo dello stanzone dove
c’erano lo sportello della biglietteria e, di fronte, una panca di legno.
Lucia fece fatica ad abituarsi alla diversa intensità di luce. Passò dal bagliore
alla penombra in soli due passi che ruppero il silenzio di quel vuoto. Mentre
sciolse il nodo del fazzoletto che portava in testa anche d’estate per proteggersi
dal caldo, strizzò gli occhi e si guardò lentamente intorno come se avesse bisogno
di tempo prima di adattarsi all’oscurità.
Il frinito delle cicale d’agosto si amplificò nella sala e il soffio del vento di
scirocco le fece svolazzare lo scamiciato che lei prontamente bloccò poggiando le
mani sulle cosce e, nonostante i suoi 67 anni, con un passo lesto raggiunse la
panca per sedersi.
Si ricompose e, senza distrarsi dal suo intento, prese dalla tasca il borsellino
nero, lo sistemò sulle gambe come se fosse un fermacarte, aprì la chiusura a
scatto e, dopo aver riposto il fazzoletto ripiegato con garbo, tirò fuori un foglio
che, insieme a pochi soldi arrotolati, era l’unica cosa che custodiva.
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Sul pezzo di carta erano annotati gli orari dei treni, che lesse con un
impercettibile movimento delle labbra, come quando recitava il Rosario.
Alzò gli occhi e si accorse che la biglietteria era deserta, allora allungò il collo
per spiare se oltre il vetro ci fosse compare Uccio.
La stanzetta, aldilà dello sportello, appariva spoglia. Nell’angolo spiccava un
ventilatore acceso e il suo ciondolare da destra verso sinistra e viceversa faceva
alzare a intervalli regolari le pagine del librone aperto sul tavolo. Il cappello blu
con visiera appeso all’attaccapanni aveva l’aria di essere inchiodato lì da tempo
immemore. Lucia ebbe l’impressione di trovarsi in un luogo dove un’esplosione
atomica aveva raso al suolo ogni vita, fotografando l’unico momento in cui le
cose erano in movimento: il vecchio PC sulla scrivania, la tastiera per l’emissione
di biglietti, il respiro del bigliettaio.
La vetrata che dava sull’unico binario era spalancata e lasciava scorgere i raggi
del sole che bruciavano le traversine nere rendendo i binari ancora più desolati.
Rimanendo seduta, Lucia si trascinò sulla panca spostandosi verso la porta per
vigilare sull’arrivo del treno.
Già molte altre volte era stata in quel posto, ci andava il 12 di ogni mese come
spinta da un ordine supremo che la obbligava a non mancare, per nessuna
ragione, all’appuntamento. Per farsi ritrovare intatta, si vestiva sempre allo
stesso modo, solo in inverno si copriva con il cardigan verde e il cappotto nero.
Conosceva la stazione come se l’avesse progettata lei stessa. Un giorno, con lo
sguardo, era riuscita a misurare l’ampiezza della sala d’attesa contando i lastroni
di marmo picchiettato del pavimento. Con il passare degli anni, aveva assistito
allo sbiadirsi del poster affisso all’ingresso raffigurante la piazza del paese con la
chiesa barocca dell’Assunta. Ma la cosa che più la incuriosiva erano le scritte
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degli amori partiti e gli scarabocchi degli studenti indolenti equamente
distribuiti sui muri un tempo bianchi.
Compare Uccio, il bigliettaio, dopo aver controllato i dispositivi di scambio dei
binari per il treno delle 15:00, noiosamente si avviò verso il suo ufficio. Spesso si
chiedeva a cosa servisse una stazione in un posto come quello creato forse da un
Dio che, distratto a rincorrere i destini del mondo, aveva dimenticato di
completare l’opera. Credeva fosse innaturale una stazione in un paese abituato
dalla storia a muoversi prima con i carretti e poi con le corriere. Il treno è
viaggio, distanza, scoperta e i Guagnanesi non sarebbero mai andati molto
lontano perché il loro unico viaggio era quello che, da secoli, percorrevano
all’alba per andare nei campi.
Anche lui si muoveva lentamente, proprio come l’interregionale obbligato a
fermarsi lì due volte al giorno.
Fece ritorno nel bugigattolo di sei metri quadri dove trascorreva la sua vita da
impiegato delle moderne Ferrovie dello Stato. Trascinando i suoi pensieri
sempre uguali, si ritrovò nell’antro maledetto consumato dagli anni che toglieva
l’aria: l’afa di agosto soffocava anche le pale del ventilatore in piedi alle spalle
della sua postazione.
La porta che dava sui binari faceva riscontro con la fessura del vetro dello
sportello sul quale ormai da 30 anni si rifletteva il suo viso.
Era nauseato da quel riflesso. Forse avrebbe dovuto cambiare la montatura dei
suoi occhiali. Sì, ne avrebbe comprata una di quelle solo lenti, così da far
risaltare i suoi occhi azzurri, retaggio di un passato normanno.
Diede un’occhiata intorno e riconobbe la scrivania consumata occupata dal
librone dei verbali e da un vecchio computer, l’attaccapanni sul quale da anni era
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appeso il cappello del capostazione che se ne era andato lasciandolo solo a
combattere con i binari, l’armadietto di metallo con la chiusura difettosa dove
riponeva i soldi dei biglietti, il portapenne marrone, orfano del tagliacarte, vuoto
come la sua carriera di ferroviere.
I suoi bisnonni raccontavano spesso del giorno in cui fu inaugurata la stazione
di Guagnano. Era la fine dell’800 e tutto il paese si riversò nello spiazzo
antistante l’ingresso dell’edificio rosso vermiglio.
Ai lati del piazzale, sui carretti, erano stipati bambini urlanti; nel mezzo,
invece, le autorità del posto, il medico condotto, l’avvocato, il maestro e, subito
dietro, i contadini che, ancora in bretelle e cappello in mano, accompagnati dalle
mogli e dalla discendenza di giovani braccianti maschi, pendevano dalle labbra
del primo cittadino. Le figlie femmine, intanto, costrette al braccio delle proprie
madri, approfittarono con lo sguardo di quell’evento per sedurre colui con il
quale successivamente fare la fujtina e maritarsi.
La banda finì di intonare l’inno nazionale e il sindaco, impettito nella fascia
tricolore, prima di tagliare il nastro decretò: «Cari concittadini, con questa opera
siamo entrati nel futuro! I trasporti veloci ormai sono parte della modernità alla
quale il nostro paese non può più sottrarsi!». Applausi fragorosi e acqua santa in
abbondanza schizzata a destra e a manca da don Carlo, il parroco.
Compare Uccio si sedette allo sgabello dello sportello e si accorse che la figura
esile sulla panca di fronte a lui era Lucia, che leggeva con le labbra un foglio
sgualcito dal tempo.
«Lucì! Ce sta faci?».
«Aspetto, cumpare Uccio».
«Ma perché oggi è 12?».
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«Sì, nauru picca e arriva lu trenu».
«Lucì, ma quante fiate t’aggiù dire ca nun a’ binire chiui?».
«Pircene? È cambiato l’orario?».
«No, cummara Lucì, l’orario è quiggiu. Cosimo e Antonio ca nun ci sunt!».
Lucia si alzò di scatto e con aria interrogativa si avvicinò esitante allo sportello.
«Ce ne sai? Chi te l’è dittu a tie?».
«Cieggiè me l’è dittu. Lu sacciu e basta».
Il treno delle tre di quel pomeriggio di agosto si fermò rumorosamente nella
stazione di Guagnano e non vomitò nessuno. Lucia lo fissò fino a che, dopo pochi
minuti, ripartì diretto nel cuore di quella terra tutta uguale. Così poggiò
nuovamente i suoi occhi sul bigliettaio, ne aveva disperato bisogno, e con un filo
di voce disse:
«E allora vengo la prossima fiata?».
«Sì, cummara Lucia, la prossima fiata».
«Sempre a st’ura?».
«Sine, sempre a st’ura».
«Cumpare Ucciu, allora mi ni bau?».
«Sì, Lucì, ane, babbanne! Ni idimu lu mese ca trase».
«Sorte noscia e se Dio vuole. Ciao, cumpare Ucciu».
«Ciao, cummare».
Lucia si fermò ancora un istante davanti alla porta d’uscita per sistemarsi il
fazzoletto in testa e, dopo averlo annodato sotto il mento, si incamminò verso
casa. I suoi tacchi, arresisi al destino, battevano sul selciato come delusi.
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Il bigliettaio era abituato a quella scena che si ripeteva ormai da molti anni, da
quando per lo stesso viale e con gli stessi passi, la vide presentarsi allo sportello
con suo marito e suo figlio. Avevano acquistato due biglietti per Lecce. Antonio
stava crescendo e quello era il suo primo giorno delle superiori, il padre l’avrebbe
accompagnato in città per insegnargli il tragitto. Lucia e Cosimo avevano grandi
progetti per quell’unico figlio le cui mani, visti i risultati scolastici, non si
sarebbero sporcate di vendemmia come le loro.
Lucia li salutò, sarebbe ritornata alla stazione alle tre per riprenderli.
«Cosimino, mi devi raccontare tutto, quando torni».
«Ohimmè, Lucia, sine… sine! Amu scire, ca sinò facimu tardi».
«Antonio, che la Madonna t’accompagni» sussurrò al ragazzo sistemandogli i
capelli.
«Grazie, mà, pure a tie».
«Lucì, torna a casa e stai attenta».
«Nu ti preoccupare, maritu miu. Andate, andate».
Mentre il treno si muoveva, Lucia mimò con le mani giunte l’ultima
raccomandazione.
«Antò, lu pane… intra la cartella!».
Ma il megafono gracchiante che annunciava la partenza e il fischio del treno
coprirono la sua voce. Si asciugò gli occhi di commozione con il fazzoletto che
teneva chiuso in pugno e andò via quando il treno scomparve in lontananza.
Quello sì che era il treno che conduceva verso il futuro.
Lucia ritornò alla stazione lo stesso giorno per riprendersi i suoi uomini, ma il
fischio stridente dei freni del treno delle 15.00 non glieli restituì mai più
ricacciandola per sempre nella sala d’attesa del suo dolore.
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