kesh 17 - lettere soggin ventura

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kesh 17 - lettere soggin ventura
Lettere a Keshet
Caro Bruno,
non è la prima volta che dopo avere letto la rivista, mi riprometto di scriverti. Ma oggi ho deciso
che se non prendo la tastiera del computer in mano, non scriverò mai.
Questo n° 3/4 di Keshet mi ha interessato in modo particolare. Ci sono alcuni articoli che fanno
vibrare corde significative anche a noi, minoranza valdese, in questo Paese conformista sull’unica
corda religiosa dominante. Va bene che sono stati tolti dalla liturgia del venerdì santo i “perfidi
ebrei”, ma mi domando che senso ha la preghiera per la conversione dei medesimi, come
giustamente ha fatto notare Renzo Gattegna in una sua nota. Del resto, diceva Piero Stefani in una
recente conferenza, è stata attenuata la riprovazione per gli ebrei ma è rimasta nella liturgia in latino
del venerdì santo la riprovazione per gli “eretici” e, come sai, in quella espressione sono compresi
genericamente i protestanti. Purtroppo non sono riuscita a trovarne il testo e così la citazione è un
po’ a senso.
Ma vengo nel merito di alcuni articoli. L’articolo di Giuseppe Franchetti mi evoca il disastro dei
fondamentalismi di qualsiasi colore religioso siano. Mi è venuto in mente quel pazzo di pastore
battista americano che voleva bruciare il Corano... Certo i haredim citati rappresentano un pericolo
maggiore perché minano le basi dello stato d’Israele. Questo articolo si collega con le dovute
differenze al tuo sulla morte di Rabin. Non si è trattato anche in quel caso di pazzi fondamentalisti?
Ottima la presentazione di Giuliani sul libro di Grossman. Lo abbiamo letto Thommy e io e il
meno che si possa dire è che è veramente struggente e dimostra in modo esemplare la condizione di
vita e paura che si vive in Israele. Difficile rendersene conto se non ci si vive.
L’articolo che mi ha coinvolto di più è stato quello di Luca Zevi “Sulla difficoltà di essere ebrei
di sinistra”. È un’esperienza che abbiamo vissuto sulla nostra pelle e quella di diversi amici valdesi,
quando la sinistra italiana (compresi diversi militanti valdesi) si sono schierati pro-palestinesi e in
modo acritico contro gli israeliani. Due racconti di esperienze diverse di cui non ero a conoscenza:
Villa Emma e la tragica fine di Walter Benjamin ...
Volevo solo aggiungere due parole su "Lettere a Keshet". Non entro in merito alle osservazioni
che fa Sandro Ventura. Volevo solo dirti che io apprezzo molto la ‘laicità’ di Keshet che affronta
tanti argomenti ebraici di politica, di vita, di cultura ma in modo aperto e stimolante anche per chi
ebreo non è ...
Ricevi un augurio per il tuo impegno e cordiali saluti anche da parte di Thommy.
MARIA GIRARDET SOGGIN
* * * * *
Caro Bruno, cari amici di Keshet,
vorrei riprendere con questo mio intervento, il discorso sulla presenza ebraica al di fuori delle
Comunità e delle istituzioni a esse collegate, in particolare l’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane (UCEI), l’organismo ufficiale che dovrebbe rappresentare tutti gli ebrei italiani.
Come certamente sapete, nello scorso dicembre si è svolto il sesto congresso dell’UCEI, nel
corso del quale sono stati affrontati vari problemi dell’ebraismo italiano, fra cui la questione dei
rapporti con le realtà non ortodosse, e quindi anche con Shir Hadash di Firenze, della quale sono
stato un fondatore. Il congresso, da quanto ho potuto capire dalla lettura di Pagine ebraiche
(gennaio 2011), il giornale più diffuso dell’ebraismo italiano, non sembra avere dato alcun segno di
reale novità. La stessa rielezione del presidente dell’UCEI nella figura dell’avvocato Renzo
Gattegna di Roma rappresenta un forte segno di continuità in uno spirito di conservazione e
chiusura, senza alcuno spunto di reale rinnovamento e apertura. La politica sostanziale dell’UCEI
sembra come ingessata (in modo assai simile a quello che succede a livello politico nazionale),
orientata a dare sostegno a chi è più forte (soprattutto la comunità di Roma) a scapito delle
comunità medio-piccole e meno rappresentate, che, giocoforza, sono destinate a ridursi sempre di
più, fino alla totale scomparsa di quelle più piccole. Questa sensazione mi è stata confermata dalla
lettura di Ha-kehillà, il giornale del Gruppo di studi ebraici di Torino, che generalmente ha uno
spirito abbastanza critico e autonomo, rispetto a quanto viene deciso a Roma.
Ma quello che mi sta più a cuore, come membro di una congregazione ebraica progressiva, è
quella parte del congresso che è stata dedicata a una relazione sulle realtà non ortodosse (cioè noi),
nell’assenza di una nostra rappresentanza. Nel precedente congresso UCEI (luglio 2006), erano stati
presenti ai lavori alcuni nostri rappresentanti, ma questa volta, da quanto ho potuto sapere, non c’è
stato infatti nessun osservatore o portavoce ufficiale delle congregazioni conservative o progressive,
segno questo di una ridotta fiducia nella possibilità di un utile dialogo (che implica riconoscimento
e rispetto reciproci). È stato però presentato un articolato rapporto, redatto da una commissione
consiliare presieduta dal rabbino Luciano Caro e dalla vice presidente Claudia De Benedetti. Il fatto
che si sia parlato di noi, in nostra assenza (mi verrebbe da dire in contumacia), la dice lunga sulla
reale volontà di dialogo. L’immagine che esce dalla relazione è quella di una realtà molto variegata,
ma segnata da “una certa debolezza e fragilità”, costituita da una decina di gruppi:
1. Lev Chadash di Milano, con attività anche a Roma e Torino
2. Beth Shalom, Milano
3. Or Chadash, Torino
4. Shir Hadash, Firenze
5. Mevakshe Derech, Roma e Pisa
6. Keshet, Milano
7. Beth Toledot, Roma
8. Omosessuali, Veneto
9. Bnai Isac, Catania
10. Attività di Barbara Ajello, Calabria
La commissione rileva una “sostanziale debolezza organizzativa”, e una “distribuzione assai
disomogenea” rispetto alla popolazione ebraica italiana, e rileva l’assenza di gruppi modernisti a
Genova, Bologna, Trieste, Livorno, Ancona, città queste con un’antica presenza ebraica
organizzata. Di fatto, secondo questa relazione, l’unica realtà che viene riconosciuta come “più
consistente, anziana e organizzata”, e anche come “la più seria” è Lev Chadash, che “si caratterizza
negli ultimi anni per lo sforzo di trovare relazioni col corpo dell’ebraismo italiano”, e “si propone di
essere la più vicina all’ebraismo italiano”. Qui sembra che ci troviamo in presenza di una
commissione esaminatrice che dà i voti ai maturandi, e l’unica che sembra cavarsela, con uno
stentato sei, è Lev Chadash di Milano. Non viene dato nessun risalto all’apporto culturale che
queste nuove esperienze comportano, e sulla questione di fondo che l’ebraismo progressivo pone:
quanto è possibile nel mondo di oggi, in Italia, conciliare ebraismo e modernità? Quali nuove forme
organizzate la presenza ebraica italiana può proporre oggi, per uscire da una rigida conservazione
dell’esistente?
Siccome credo che abbia interesse, riporto per esteso quello che riguarda Shir Hadash di Firenze
e Beth Shalom di Milano.
“S.H. e Beth Shalom nascono soprattutto come organizzazioni ebraiche di ebrei anglosassoni
residenti in Italia e arrivati nel nostro Paese già appartenenti al mondo reform. L’uso della lingua
inglese, un minhag molto diverso da quello italiano, la presenza di rabbini americani (di solito ...
pensionati ospitati in Italia per qualche mese) contribuiscono a confermare questa opinione, anche
se si sono dimostrate capaci di attrarre qualche ebreo italiano. Nel corso degli anni queste
organizzazioni non hanno mostrato interesse al modello comunitario come lo intendiamo in Italia.
Sono congregazioni che si ritrovano soprattutto in occasione delle feste maggiori, in particolare
quella milanese in un grande albergo del centro della città, più che per trasmettere contenuti
religiosi, per condividere una socialità ebraica nella tradizione americana. Per questa ragione lo
sforzo didattico e istituzionale è stato basso, e non vi è stato un tentativo di trovare un rapporto non
polemico con l’ebraismo italiano organizzato. Le due comunità hanno come punto di forza dei
buoni legami internazionali (WUPJ, ma anche Benè Brith International) e una certa impressione di
buona società internazionale che le circonda: Un po’ come per tutto l’ebraismo riformato
anglosassone, quel che prevale non è una cultura religiosa qualificata, ma piuttosto un’appartenenza
familiare che si coniuga con un rapporto ritenuto personale e poco soggetto alle regole tradizionali
con la sfera del sacro, e un posizionamento politico più vicino ai democratici americani e dunque
poco sensibile al tema delle relazioni con Israele. Il loro siddur è assai diverso da quello ortodosso,
e la loro idea della trasmissione dell’ebraismo ammette oltre alla matrilinearità anche
l’appartenenza patrilineare.
In conclusione bisogna pensare che questi gruppi siano probabilmente destinati a durare, ma ad
avere uno scarso impatto sulla situazione italiana, perché essi non si rivolgono specialmente a
questa, e perché la loro cultura è assai diversa da quella dell’ebraismo italiano, o anche alle ragioni
per cui l’ebraismo può oggi attrarre interesse religioso o culturale."
Sorgono molte domande. Cosa si intende per “cultura religiosa qualificata”? Forse i rabbini
americani non danno sufficienti garanzie? Forse lo Hebrew Union College non dà sufficiente
preparazione? Quali sono le “regole tradizionali” che ci dovrebbero rapportare alla “sfera del
sacro”? Non è stato l’ebraismo, storicamente, un continuo divenire, in una continua ricerca di
adattare la fede e la tradizione alle nuove esigenze della vita quotidiana? Poi si fa anche confusione,
nella relazione, sull’aspetto politico, e sui rapporti con Israele, liquidando il discorso, parlando di
“posizionamento… vicino ai democratici americani, e dunque poco sensibile al tema delle relazioni
con Israele”. Questo discorso rivela la totale ignoranza sulla vita di questi gruppi, e in particolare di
Shir Hadash, dove ci siamo molto confrontati sulle posizioni da prendere riguardo alla politica dei
governi israeliani, in particolare dopo l’intervento militare a Gaza. Le posizioni all’interno del
gruppo sono state assai divergenti, e quindi si è deciso di non prendere posizione pubblica. Ogni
membro è libero, a livello personale, di esprimere le proprie opinioni ovunque, ma come
congregazione si è scelto di non prendere posizione. Un po’ come è accaduto in tutte le comunità
ebraiche del mondo.
C’è poi la critica al siddur riformato, che è pure il risultato di un lavoro, di una ricerca che ogni
nuova congregazione è tenuta a svolgere, partendo dalle proprie esigenze e motivazioni, nella scelta
delle tefilloth da dire in pubblico. Anche qui è un lavoro che si compie dal basso, e che non esclude
l’uso della lingua corrente, sia italiano o inglese, per rendere la tefillah più viva e comprensibile a
tutti, anche a chi conosce poco l’ebraico, e questo non riduce il livello di concentrazione e
partecipazione al culto, ma l’incentiva notevolmente.
C’è poi la questione della trasmissione matrilineare e patrilineare dell’ebraismo. È vero che in
molte congregazioni progressive viene data uguale importanza alle due trasmissioni. Mi sembra
però che questa uguale considerazione per i figli di matrimonio misto sia un punto di forza e non di
debolezza, soprattutto perché dà valore a un principio di uguaglianza, che, purtroppo, interessa poco
i rabbini più tradizionalisti. Ma ciò che più conta negli ambienti progressivi sono l’interesse per
l’ebraismo, la motivazione, la partecipazione, il coinvolgimento, lo studio e la preparazione
culturale. In una parola, l’identificazione col popolo e con la religione ebraica, e non
l’omologazione a essi.
Su questi aspetti, l’atteggiamento della commissione UCEI è stato condizionato, oltre che dalla
scarsa conoscenza della realtà progressiva, da presupposti svalutanti e squalificanti, di cui non c’è
alcun bisogno, se si vuole costruire un utile dialogo.
Riporto per esteso anche le conclusioni del rapporto.
“Senza uscire dal nostro compito possiamo sottolineare l’opportunità che in seguito
all’indagine... l’ebraismo italiano prenda atto del fatto che nel nostro Paese ormai le realtà non
ortodosse hanno un’esistenza non effimera e si dia delle linee guida per affrontarlo.
Ribadiamo che quelli che sono stati presentati qui sono accertamenti di fatti, che non vanno presi
come proposte o prese di posizione nei confronti delle realtà non ortodosse. Il compito di decidere
spetta ai vertici politici e religiosi dell’ebraismo italiano.”
Finalmente, si prende atto di una realtà, per ora piccola e debole, ma che sembra destinata a
durare, e magari a crescere, mentre questo non sembra poter succedere a molte realtà ebraiche
italiane, che sembrano destinate a una progressiva consunzione.
Per quanto riguarda la possibilità di aprire un vero dialogo, visto che questo impegno viene
rimandato ai “vertici politici e religiosi dell’ebraismo italiano” (tradizionale tecnica del rimandare,
quando non si vuole affrontare realmente una situazione), sono molto scettico sul buon esito di
questa prospettiva. Quei “vertici” mi sembrano così scollegati dalla loro “base”, anch’essa assai
esigua, e così invischiati nel mantenimento di posizioni rigide e immobili, che non credo possano
riuscire ad aprirsi a un vero dialogo con quelle forze che cercano nuove strade per il futuro.
Chi sia interessato a leggere il rapporto integralmente, lo può trovare nel sito dell’UCEI.
Credo sia opportuno aprire una riflessione su questi temi, e soprattutto che sia necessario attivare
un qualche organismo associativo che tenga in relazione le varie realtà progressive e possa anche
rappresentarle nelle sedi istituzionali.
Un caloroso abbraccio,
SANDRO VENTURA