La crisi nell`europa dell`est

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La crisi nell`europa dell`est
FOCUS
Aprile 2009
Katinka Barysch
www.europressresearch.eu
RE
LA CRISI NELL’EUROPA DELL’EST
Il 6 aprile si è saputo che il Fondo monetario internazionale avrebbe
suggerito ai paesi dell’Europa centrale e orientale di adottare l’euro, se
necessario anche in modo unilaterale e senza aderire ai rigidi criteri monetari
dell’eurozona. Una sollecitazione – secondo quanto trapelato da un rapporto
scritto a marzo – che doveva servire a mettere in guardia sul fatto che alcuni dei
nuovi Stati membri della UE sono ancora gravemente a rischio di tracollo
economico e finanziario. La maggior parte delle economie di questi paesi è già in
una fase di profonda recessione. Le esportazioni sono al collasso e le banche
locali – la maggior parte delle quali possedute dalle principali banche dell’Europa
occidentale – sono in condizioni di estrema vulnerabilità; gli intestatari di mutui e
le imprese sono in grande affanno per restituire i prestiti ottenuti. Da quando
molti di questi mutui sono stati contratti in euro o in franchi svizzeri, la
svalutazione delle monete dei paesi dell’Est ha notevolmente accresciuto i rischi
di inadempienza.
L’adozione dell’euro in tempi rapidi sarebbe una garanzia contro ulteriori
svalutazioni. Economicamente sarebbe una buona opportunità per i piccoli paesi
baltici che hanno già iniziato a vincolare le proprie monete all’euro; ma non lo
sarebbe per quei paesi, come Ungheria e Polonia, dove tassi di cambio flessibili
potrebbero essere necessari per rilanciare la competitività nelle esportazioni. In
ogni caso, un’adozione unilaterale dell’euro è impossibile sul piano politico, dal
momento
che
i
paesi
dell’eurozona
e
la
Banca
centrale
europea
sono
tassativamente contrari.
Ci sono tuttavia altre cose che l’UE sta facendo per aiutare gli Stati
membri più recenti. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale,
l’“Europa emergente” (che include i paesi balcanici e la Turchia) deve trovare
quest’anno quasi 500 miliardi di dollari per rinegoziare i termini del debito estero
e finanziare il disavanzo. Almeno un quarto dovrebbe venire dai grandi creditori
internazionali, come il FMI e l’UE. L’Unione Europea ha già elevato il proprio
fondo per le emergenze dai 12 miliardi di euro del 2008 ai 50 attuali (66 miliardi
di dollari). E ha già utilizzato una parte di questo denaro per cofinanziare grossi
prestiti all’Ungheria, alla Lettonia e, più recentemente, alla Romania, sotto gli
auspici del FMI.
I paesi europei hanno promesso un contributo di 100 miliardi di dollari per
triplicare le risorse del Fondo monetario internazionale, come concordato al
vertice del G20, e lo hanno fatto avendo in mente soprattutto i paesi dell’Europa
centrale e orientale. Quando si tratta di fondi per le emergenze l’UE fa bene ad
operare attraverso il Fondo monetario internazionale, senza cercare di sostituirsi
ad esso. La Commissione (l’organo esecutivo della UE che amministra i fondi per
le
emergenze)
economiche
non
ha
condizionali
infatti
che
molta
di
solito
esperienza
si
nell’imporre
adottano
nei
le
grandi
clausole
prestiti
internazionali. Il FMI, invece, ha sia l’esperienza che le risorse.
Nel frattempo gli europei sono costretti a focalizzarsi su altre questioni:
ovvero ridurre i rischi nel settore bancario dei paesi dell’Est e mantenere aperto il
mercato. Due degli ingredienti principali dello strepitoso successo economico
dell’Europa
centrale
e
orientale
dagli
anni
Novanta
in
poi
erano
stati
l’integrazione nel libero mercato della UE e la liberalizzazione finanziaria. Proprio
questo processo di apertura sembra ora aver lasciato i paesi dell’Est in condizioni
di forte vulnerabilità di fronte alla recessione economica globale.
Dagli anni Novanta questi paesi hanno aperto il sistema delle obbligazioni
internazionali, favorito l’ingresso di compagnie estere e venduto molte delle loro
banche ai grandi colossi finanziari di Austria, Belgio, Germania, Italia e Svezia.
Fino ad ora i paesi UE di recente ingresso sono riusciti ad evitare grandi crisi
bancarie, ma i cittadini si lamentano del fatto che i tagli ai crediti operati dalle
banche occidentali verso le consociate nell’Europa dell’Est stanno peggiorando le
loro condizioni. Alcuni temono che se una banca madre si viene a trovare in serie
difficoltà potrebbe ritirare i propri capitali dalle sedi sussidiarie nell’Est per coprire
il deficit interno; o che potrebbe svendere queste sussidiarie; oppure, se non si
fa avanti nessun compratore, lasciarle fallire. Se una banca consociata
nell’Europa dell’Est fosse sul punto di fallire, la responsabilità del suo salvataggio
dovrebbe essere condivisa e ripartita. I paesi occidentali non hanno impedito alle
loro banche di effettuare prestiti all’estero in modo irresponsabile; e, dal canto
loro, alcuni paesi dell’Est hanno stupidamente permesso ai singoli e alle imprese
di fare incetta di prestiti in valuta estera. L’Unione Europea è molto adatta a
predisporre il tipo di cooperazione necessaria per realizzare piani di salvataggio
bancario a livello transnazionale. Il denaro proveniente dai pacchetti-emergenze
del FMI e della UE può essere utilizzato per ricapitalizzare le banche in Ungheria
e altrove. Mentre le altre istituzioni europee, come la Banca europea per la
ricostruzione e lo sviluppo, stanno aiutando con capitali freschi.
È fondamentale che i ricchi paesi dell’Europa occidentale resistano alla
tentazione del protezionismo. Infatti, per molti dei nuovi Stati membri le
esportazioni ammontano al 80-90% del prodotto interno lordo (per gli USA la
quota è del 12%) e fino ad oggi il più grande mercato per tutti questi paesi è
stato
l’eurozona.
Pertanto,
qualsiasi
forma
di
protezionismo
nell’Europa
occidentale colpirebbe duramente i paesi dell’Est. I nuovi Stati membri non solo
si sono aperti ai commerci internazionali, ma sono diventati parte integrante di
un sistema produttivo “pan-europeo”, specie nel settore automobilistico. La
produzione di automobili in quest’area è infatti raddoppiata tra il 2000 e il 2007,
dal momento che le case automobilistiche occidentali hanno trasferito lì le attività
produttive. E siccome la domanda nel settore automobilistico è crollata a livello
globale, l’effetto a catena è stato quello di rallentare o bloccare la produzione
industriale nei paesi dell’Europa dell’Est. Lì oggi sono in molti a chiedersi se sia
stato saggio avviare una così stretta integrazione economica coi mercati globali
sui quali, però, essi non operano alcuna forma di controllo. Nel medio periodo
l’Europa centrale e orientale potrebbe ancora beneficiare del tanto necessario
consolidamento del settore automobilistico Le industrie automobilistiche, infatti,
continueranno a spostare la produzione dove è più conveniente e nei paesi EU di
recente ingresso il costo del lavoro è ancora fermo al 20-40% rispetto a quello
della Germania e degli altri paesi dell’Europa occidentale. Così quando il
presidente francese Nicolas Sarkozy ha detto che le industrie automobilistiche
francesi potranno aspettarsi degli aiuti dallo Stato solo a patto di riallocare la
produzione in patria, la cosa ha suscitato proteste e indignazione nell’Europa
dell’Est. Sarkozy si è visto costretto a ritirare la propria offerta e la Commissione
europea ha fatto finora un buon lavoro nel difendere l’integrità del mercato
unico. Ma il rischio del protezionismo resta ugualmente.
I primi mesi del 2009 hanno visto disordini in Lettonia, Lituania e
Bulgaria. Sono caduti i governi in Lettonia, Ungheria e Repubblica Ceca dietro
l’accusa di aver gestito male la crisi economica. Benché sembri piccolo il rischio
di sommovimenti politici su vasta scala, tuttavia ci sono segnali di forte
malessere sociale in tutta l’area centro-orientale. Il pericolo vero è che i paesi
dell’Est – se lasciati soli con i loro problemi finanziari e costretti a fronteggiarsi
col protezionismo di alcuni paesi della UE – potrebbero cominciare a mettere in
discussione il proprio modello di sviluppo, fondato sulla liberalizzazione e
sull’integrazione dei mercati. Se l’Unione Europea gestirà male la crisi economica
nei paesi dell’Est, da questa importante regione potrebbero emergere prospettive
di sviluppo fortemente ridotte, leader politici euroscettici e lavoratori che
smettono di trasferirsi nei paesi occidentali.
Katinka Barysch - Centre for European Reform