I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi
Transcript
I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi
I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi* di Raffaele Colapietra Vi era forse Carlo Lauberg tra gli Scolopi, ed i loro allievi, che la mattina del 7 marzo 1788, dalle alte finestre posteriori del loro collegio chietino, la fondazione secentesca patrocinata dall’arcivescovo genovese Stefano Sauli nella quale aveva trovato conforto e rifugio (ed opportuna base mediatrice per i suoi contatti col ribelle Carafa di Castelnuovo) Francesco d’Andrea1 assistevano alla discesa del corteo funebre per l’interramento del marchese Romualdo de Sterlich, morto il giorno prima, dall’ampio e movimentato palazzo sulla sinistra alla sottostante chiesa di S. Francesco di Paola. La venuta di Lauberg, l’anno prima, ed i suoi scritti di aggiornato scientismo naturalistico e di garbata tradizione empiristica lockiana, tra la dedica ad Acton ed il ricordo di Genovesi2 non aveva fatto altro, in verità, che ratificare e suggellare il ruolo del tutto particolare che, nel corso degli anni Ottanta, e magari già prima, era stato ricoperto dagli Scolopi di Chieti, malgrado i posteriori forse immeritati sarcasmi del Galanti3 in un contrappunto precisamente con De Sterlich che sarebbe tutto da precisare e da chiarire in una chiave determinata4. _______________ * -Relazione letta al Convegno di Studi su: “Le istituzioni nel Mezzogiorno e l’opera di Francesco Ricciardi” tenuto a Foggia il 15 aprile 1993. Sullo stesso tema saranno pubblicate, in seguito, le relazioni dei dott. Antonio Vitulli e dei prof. Saverio Russo. 1 - Per una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti, insieme con una discussione delle tesi all’epoca prevalenti in proposito, non modificate sostanzialmente a tutt’oggi dall’ed. Ascione degli Avvertimenti ai nipoti, mi permetto di rimandare essenzialmente al mio vecchio articolo Le insorgenze di massa nell’Abruzzo in età mderna in “STORIA E POLITICA” Milano, 1980, V, pp. 557-642 e, 1981, 1, pp. 1-46 qui lV, 612-633 il cui contenuto ,è ripreso ne L’amabile fierezza di Francesco d’Andrea - Il Seicento napoletano nel carteggio con Gian Andrea, Poria, Milano, 1981, pp. 95-113 e, più stringatamente, in STORIA del Mezzogiorno diretta da G. Galasso e R. Romeo, VI Napoli, 1988, pp. 115-121. 2 - B. CROCE, La vita di un rivoluzionario Carlo Lauberg in Vite di avventura di fede e di passione, Bari, 1953, pp. 365 ss. per la venuta a Chieti del venticinquenne scolopio di origine vallone e per i suoi rarissimi scritti, personalmente posseduti dal Croce, ed editi prima del ritorno a Napoli a fine 1788, Analisi chimico fisica sulle pvprietà de’ quattro principali agenti della natura seguita da un saggio sulle principali funzioni degli esseri organizzati e Riflessioni sulle operazioni dell’umano intendimento entrambi con dedica al ministro Acton, all’ epoca all’apice della sua autorità. 3 - Nella relazione 25 marzo 1792 in G.M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a m di Franca Assante e Domenico Demarco, Napoli, 1969, pp. 479-512 passim. 4 - Mentre scrivo (primavera 1992) è in corso l’edizione dei carteggi letterari e filosofici di De Sterlich col Lami e col Bianchi, nonché con minori corrispondenti, a cura di Umberto Russo e dei suoi collaboratori, a cui io affiancherò l’esame, d’indole più specificamente proprietaria ed antropologica, intesi i termini con tutte le virgolettature 261 Resta il fatto che presso gli Scolopi aveva anzitutto studiato, sullo scorcio iniziale del decennio precedente, Antonio Nolli, nato nel 1755 da Camillo, barone di Tollo, e da Rosaria Petrini, una dama bergamasca la cui tenera amicizia con De Sterlich aveva dato molto da ridire, ed era stata comunque senza dubbio all’origine di un vincolo singolarmente stretto fra l’attempato patrizio ed il giovane virgulto di una famiglia di alto artigianato lombardo, trasferitasi nell’Abruzzo aquilano e poi nel chietino nel secondo Seicento, e che appunto con Camillo, morto nel febbraio 1777, aveva acquistato per 25 mila ducati dai De Ruggero, poco più di due anni innanzi, il ricco feudo nelle pertinenze della città5. Antonio si trovava all’epoca nella capitale, dopo gli studi universitari compiuti a Bologna, e, rientrato in patria, vi aveva ricoperto nel 1779 la carica di camerlengo, a Chieti investita di potestà e privilegi del tutto particolari nel panorama meridionale6 prodromo di ben più delicato e significativo ufficio, nell’ottobre 1788, all’indomani della scomparsa di De Sterlich (e di quella, di poco posteriore, e ben più de stabilizzatrice, di Filangieri), la presidenza della società patriottica istituita a Chieti da Nicola Codronchi in contemporaneità e coordinamento con gli altri due capoluoghi abruzzesi7. Senza che qui sia possibile entrare nel dettaglio di un’iniziativa così significativa e complessa, ci limiteremo ad osservare anzitutto che essa coinvolgeva a Chieti, fin dal suo esordio, in qualità di segretari del sodalizio, almeno un paio di importanti personaggi, il lancianese Vincenzo Ravizza, di vent’anni più anziano del Nolli, letterato ed erudito che aveva mandato a studiare agli Scolopi, e poi a Napoli, entrambi i suoi figli, Gennaro, che avrebbe ripreso autorevolmente nel primo Ottocento la tradizione erudita paterna 8 e Giuseppe, futuro segretario generale dell’intendenza di Abruzzo Citra dall’istituzione nel 1806, per oltre vent’anni fino alla morte nel 1828, e Tommaso Durini, del ramo cadetto dei baroni di Bolognano, che avrebbe avuto in Giuseppe Nicola, cugino del Nostro, un ben noto scrittore di cose economiche, collega di Tommaso come consigliere d’Intendenza sin dalle origini (quest’ultimo vi sarebbe rimasto fino alla morte, nel 1827, a segnare una continuità rimarchevole d’indirizzo murattiano-borbonica, analoga a quella di Giuseppe _______________ possibili, di un altro carteggio scoperto solo di recente, quello col cugino aquilano marchese Gaspare da Torres. Ma il problema degli Scolopi andrebbe impostato ed indagato su moduli assai diversi. 5 - G. BONO, Le ultime intestazioni feudali nei Cedolari degli Abruzzi, Napoli, 1991, p. 33. 6 - Si veda in merito la classica ed interessante trattazione, sottilmente polemica in senso anti aristocratico tanto da costargli la vita, in seguito anche alla successiva asperrima schermaglia con Niccolò Toppi (anche per questo, forse, i Nicolini di Tolto, dei quali stiamo per fare menzione, avrebbero tanto tenuto alla loro discendenza da lui), di G. NICOLINO, De auctoritate Camerarii Regiae Civitatis Theatinae, Ascoli Piceno, 1639. 7 - Sulla vicenda, che andrebbe ripensata e riconsiderata alla luce di quanto ci ha fatto conoscere A. PLACANICA Galanti e la Calabria saggio introduttivo all’edizione critica di G.M. GALANTI, Giornale di viaggio in Calabria (1792), Napoli, 1981, si vedano per il momento le puntualizzazioni tematiche e cronologiche di G. DE LUCIA, Le società economiche abruzzesi 1788-1845 già apparso in “ABRUZZO”, Pescara, 1967 e che ora si può rileggere in ABRUZZO borbonico - Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Vasto, 1984, pp. 105-140, qui pp. 108111. 8 - Si vedano fin d’ora di lui, per quanto attualmente ci concerne, e perché profondamente connesse con l’atmosfera culturale che viene tratteggiata nel testo, Notizie biografiche che riguardano gli uomini illustri della città di Chieti e domiciliati in essa, Napoli, 1830, con relativa appendice edita a Chieti nel 1834, da vedere alle pp. 36-38, 56-57 e 101-105 per le biografie rispettivamente di Antonio Nolli, Tommaso Durini, Vincenzo e Giuseppe Ravizza. 262 Ravizza) e più tardi sottointendente a Vasto ed a Penne, intendente di Teramo e consigliere di Stato 9. Non solo: ma l’attività della società patriottica si apriva, sullo scorcio finale del 1788, con la presentazione di una memoria di un giovane concittadino lancianese dei Ravizza, l’avvocato venticinquenne Pasquale Liberatore10 il quale, con la concretezza nervosa che gli sarebbe stata riconosciuta ed elogiata in morte da un ben noto scritto del Mancini, sul cui intervento torneremo a suo tempo, poneva l’accento sulle cause dell’arretratezza economica della provincia, l’ignoranza dei proprietari, la mancanza di buoi da lavoro, la brevità degli affitti, “l’abusivo consumo dei grano d’India”, una tematica perfettamente armonizzata, insomma, con le prospettive del Codronchi, e che non a caso, i li a tre anni, sarebbe stata largamente riecheggiata nel Galanti. Si accingeva intanto a partire per Napoli, a completarvi gli studi, un giovanissimo precocissimo vassallo del Nolli (avrebbe compiuto diciassette anni il 30 settembre 1789, partenza verificandosi il 3 novembre successivo) che grazie ad una versatilità singolare improvvisatore in rima avrebbe ricordato l’episodio con un sonetto indirizzato alla madre Teresa De Horatiis11 ed allo zio e protettore, l’abate Luigi Nicolini12. Si trattava lo si è compreso già dall’accenno a Tollo, anche a prescindere da quest’ultima esplicita indicazione, di Nicola Nicolini, che quarant’anni più tardi, prendo spunto dal necrologio di uno degli esponenti di spicco di quel cenacolo di giovani d’eccezione che negli anni Ottanta si era raccolto intorno a De Sterlich, ed al dioscuro insostituibile della generazione post genovesiana, Melchiorre Delfico, il marsicano Franco Saverio Petroni, da lui appena incontrato dialetticamente, per così dire, quale indente di Chieti, dopo una carriera tipica di tutta questa generazione medesima, ormai _______________ 9 - I Durini richiamano ben più prestigiosamente dei Nolli all’ambiente milanese e lombardo, donde in effetti provenivano quali grossi mercanti all’Aquila ed a Chieti già nel primo Seicento, il fondaco suggellato dal feudo a danno degli aquilani Branconio, ed in una localizzazione che non va ambientalmente sottovalutata, al pari di quella di Tollo, quest’ultima al centro della migliore zona vinicola abruzzese facente capo ad Ortona, Bolognano, falde della Maiella a controllo del passaggio dei Pescara a S. Clemente a Casauria. 10 - Lo ricorda egli stesso, e ne riassume il contenuto, in P. LIBERATORE, Pensieri civili economici sul miglioramento della provincia di Chieti umiliati al regal trono, II, Napoli, 1806, 8-11, l’opera di fondamentale importanza su cui avremo modo di tornare con ampiezza, e nella quale si fa parola sia del sostanziale fallimento, perché sottoposte a Napoli, delle scuole normali d’agricoltura istituite nella circostanza, sia della presentazione nel 1791 di una seconda memoria sul commercio, che anch’essa viene sintetizzata dall’autore. Si ricordi che nel 1788 al Nolli si affiancavano nella società patriottica Francesco Valignani, che s’intitolava duca d’Alanno quale crede defunta consorte Anna Leognani Ferramosca (in realtà il feudo sarebbe andato alla loro figlia Giovanna, e per essa al di lei marito Michele Bassi, nipote di Francesco Saverio arcivescovo di Chieti fino alla morte nel 182 1, più tardi primo sindaco di Chieti ed intendente all’Aquila ed a Capua) ed una dozzina di altri soci, sulla base di un No regio di 250 ducati annui. La menzione dei Bassi, infine, già generale dei Celestini, ed il cui trentennale i ed articolato governo epíscopale meriterebbe uno studio specifico, ci richiama ad un suo confratello, Francesco Saverio Durini, fratello di Tommaso, anch’egli allievo degli Scolopi, più tardi vescovo dei Marsi e di Aversa, un ambiente, quello tardosettecentesco dei Celestini, che non andrebbe perso di vista, sia per i suoi co ntatti con De Sterlich (Gutierrez, Ciavarella) sia soprattutto per l’eredità del Galiani senior, il soggiorno teatino del cui fratello Matteo, com’è fin troppo noto, aveva occasionato la nascita abruzzese di Ferdinando. 11 - Appartiene alla famiglia il sacerdote Cesare, a lungo segretario perpetuo della Società Economica di Abruzzo Citra, del quale dovremo far parola tra breve. 12 - Vedilo in N. NICOLINI, La musa di famiglia memorie domestiche, Napoli, 1849, p. 9. 263 identificatasi tout court col riformismo murattiano 13 ne tracciava un ritratto indimenticabile, a partire appunto dal Delfico, che, poco più che quarantenne, rappresentava una sorta di transizione tra l’ortodossia genovesiana di De Sterlich ed i nuovi tempi di Filangieri (proprio dalla proposta di quest’ultimo per l’affitto sessennale del Tavoliere, l’estrema sua fatica riformistica, avrebbe preso le mosse, sempre nel 1788 da cui siamo partiti, il Delfico per il suo Discorso ultraprivatistico e modernamente proprietario, con in prospettiva il Palmieri) e nella casa chietina del giovane Nolli formava il suo incanto, meno per le conoscenze, che vastissime, come ognuna, e svariatissime erano in lui, che per la sobrietà nel fame uso, per l’intelligenza onde giudicava gli uomini e le cose, e per quella sua perpetua serenità onde, o lieto o triste il presente, ce lo dipingeva sempre nella ridente prospettiva d’un felice avvenire. Accanto a lui, appunto, il pupillo di De Sterlich men rispettivo, più fervido d’ingegno, più pronto e decisivo ne’ giudizi, più impaziente di freno e poi ancora il barone Durini, Giuseppe Nicola, “d’indole più placida”, i fratelli Ravizza “di assai facil natura”, lui, il Petroni, e finalmente il coetaneo e l’amico con cui fin dal 1787 si era trasferito a Napoli, sui vent’anni entrambi, a consigliere saviamente come _______________ 13 - Nato nel 1766, un anno prima di De Thomasis, di cui stiamo appunto per far parola nel testo, ad Ortona dei Marsi, nella valle dei Giovenco, e perciò nella contea di Celano, all’epoca feudo dei romani Sforza Cesarini (un legame, questo con Roma, che si riproporrà per un altro dei nostri protagonisti, Pasquale Borrelli, ponendo un problema plurisecolare, e non soltanto culturale, che andrebbe affrontato organicamente) il Petroni era stato subito chiamato nell’agosto 1806 come segretario generale del primo intendente Pietro De Sterlich, figlio di Romualdo, a Teramo, dove aveva rappresentato, con i successivi intendenti francesi, una continuità “nazionale” napoletana sulla quale torneremo più avanti, ancora con le parole suggestive di Nicolini, fino al 1812, allorché era stato traslocato in Terra di Lavoro, prima come sottointendente a Piedimonte e poi ancora quale segretario generale a Capua, dove aveva incontrato come intendente il Bassi duca d’Alanno di cui appena si è fatta menzione, proveniente dall’Aquila. Incaricato in Terra di Lavoro della divisione dei demani del Matese, in un chiaroscuro tutto da precisare con Biase Zurlo, che curava il versante molisano del massiccio, Petroni era passato nel 1814 in Calabria Ultra come intendente al posto del vecchio amico De Thomasis, ed aveva provveduto al delicatissimo compito di dividere l’ampia provincia nelle due ripartizioni i cui capoluoghi venivano fissati a Catanzaro, nuovamente al posto di Monteleone, ed a Reggio. Mantenuto, anche qui sintomaticamente, in servizio dall’amministrazione borbonica sino al fatale, e per tanti versi discriminante 1821, Petroni era stato intendente di Basilicata e di Abruzzo Ultra Primo (Teramo) salvo essere richiamato da Ferdinando 11, nel 1831, all’intendenza di Chieti, dove appunto Nicolini lo aveva incontrato nell’assumere la carica di presidente di quel consiglio generale. Le parole che riportiamo o riassumiamo nel testo sono infatti tratte dal N. NICOLINI, Discorso pronunciato all’apertura del consiglio generale della provincia di Chieti nel dì 1° maggio 1835 in risposta al discorso dell’intendente Francesco Saverio Petroni, Napoli, 1835, e più precisamente dall’appendice contenente la biografia del Petroni, scomparso settuagenario di lì a qualche mese, biografia che sarebbe stata ripresa ed ampliata da Nicolini in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI”, Napoli, l’intelligente iniziativa di Pasquale de Virgiliis di cui torneremo a far parola a suo tempo, nel fascicolo gennaio-giugno 1838, pp. 166-183, donde felicemente cita (e citererno anche noi, qui di seguito) G. DE LUCIA, La cultura abruzzese nel periodo borbonico già in “ABRUZZO”, Pescara, 1968 ora in ABRUZZO borbonico... cit. pp. 23-42 qui pp. 26-27. 264 giureconsulti più che a fervidamente arringare quali avvocati, Giuseppe de Thomasis da Montenerodomo, uno di quei feudi di periferia nei quali l’aristocrazia illuminata, nella circostanza il principe di Caramanico, sul quale non è certo il caso qui di dilungarsi, lasciava più vivi e fiorenti che mai gli “abusi” di antica e magari retorica memoria (ma tutto l’argomento meriterebbe di venir rimeditato a dovere) giovane di alta mente, grave, poco sofferente, e di pronta quanto placabile ira, tutto inteso fin d’allora alla scienza dell’uomo e de’ suoi rapporti sociali14. Da questo lieto e già prestigioso sodalizio l’adolescente Nicolini si distaccava per godere nella capitale delle musiche alla moda di Cimarosa e di Paisiello, circa le quali si confida con lo zio Luigi in occasione del carnevale 1790, ma anche, più sostanziosamente, per prepararsi ad arringare a Castel Capuano, dove esordiva, non ancora ventenne, il 16 aprile 1792, dinanzi all’auctoritas leggendariamente terrifica del Sacro Consiglio, su una piattaforma storicomatematica dell’interpretazione del diritto Sol poche linee Euclide, e poche rime Dettommi Clio che induce a riflettere15. Mentre infatti, nonostante le sue profferte di rigore più o meno moralistico, Nicolini si abbandonava per lunghi anni a Napoli alle seduzioni dell’improvvisazione poetica, che lo avrebbero introdotto nel clima cortigiano al più alto livello 16 a Chieti la tradizione della “sapienza” di Lauberg tra gli Scolopi era tutt’altro che spenta, e l’avrebbe rievocata di ri a qualche anno 17 col consueto fervore il più giovane di quei sodali, Pasquale Borrelli, _______________ 14 - La vicenda degli abusi feudali, come è noto, occupa buona parte della monografia dedicata a Montenerodomo in appendice a B. CROCE, Storia del regno di Napoli, Bari, 1953, pp. 317-356 sulla base di uno scritto specifico del Nostro, che era stato segnalato da E. GRILLI, Giuseppe De Thomasis la vita e le opere in “RIVISTA POLITICA E LETTERARIA” Roma, maggio 1900 estratto di pp. 36 e pubblicato da Croce col titolo Sulla terra di Montenerodomo in Abruzzo in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, XLIX, 1919 (particolarmente a De Thomasis sono dedicate le pp. 315-320 della Storia ecc. nell’edizione 1925, che ho sott’occhio, e sulla quale torneremo). Egidio Grilli, la cui pluridecennale devozione a De Thomasis è restata purtroppo senza esiti apprezzabili, prima delle irreparabili distruzioni cagionate dalla seconda guerra mondiale (si ricordi comunque di lui, ad indispensabile integrazione del lavoro precedente, Giuseppe De Thomasis in Atti e memorie, II, del CONGRESSO STORICO ABRUZZESE-MOLISANO, Casalbordino, 1935, pp. 577603) ricorda un incontro napoletano dei Nostro nel 1783, e quindi a sedici anni, con Ferdinando Galiani, che ha suggestionato R. FEOLA, Dall’illuminismo alla Restaurazione - Donato Tommasi e la legislazione delle Sicilie, Napoli, 1977, p. 251 fino a definire De Thomasis “attento discepolo” dell’abate, ma sul quale né egli né lo scrivente saprebbero dire di più. 15 - N. NICOLINI, La musa difamiglia, cit. pp. 10 e 23. 16 - Ibidem p. 26, e più avanti a p. 7 degli schiarimenti biografici posti in appendice, per il suo esordio estemporaneo alla reggia, il 7 luglio 1797, di ritorno da Foggia, dove Maria Carofina, alla quale il Nostro era stato presentato da Giuseppe Saverio Poli, il famoso scienziato molfettese, lo aveva chiamato ad improvvisare dinanzi all’arciduchessa Maria Clementina, durante il soggiorno della Corte in quella città per le nozze dell’erede al trono. 17 - P. BORRELLI, Principi di zoaritmia scoverti da Pasquale Borrelli e preceduti da un ragionamento istorico su la modema medicina matematica, Napoli, 1807, pp. 12-13 (l’accenno allo scolopio Aquila come erede della “sapienza” di Lauberg è nella biografia che del Borrelli sarebbe stata tracciata dal citato Cesare de Horatiis in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1840, pp. 106-112). 265 nato nel giugno 1782 a Tornareccio, uno dei tanti feudi abruzzesi del gran connestabile Filippo Colonna principe di Paliano e duca dei Marsi, che alla metà degli anni Novanta era salito anche lui a Chieti a fare il suo noviziato tra gli Scolopi: La geometria e l’algebra, timidamente introdotti fra i monti aprutini da un uomo capacissimo di misurarne il vigore e dilatarne la stima, presentavano in essi appena appena l’aurora del giorno matematico. Quest’uomo era Paolo Aquila, uno scolopio di Rivello in Basilicata, del quale purtroppo sappiamo pochissimo, e solo assai recentemente, grazie alla benemerita attenzione dedicatagli da Carmelita Della Penna quale estensore della relazione per Abruzzo Citra della statistica murattiana 18 e, poco prima, da Domenico Demarco nella medesima prospettiva19. Accanto a lui, nella Chieti di fine Settecento, che col 1790 aveva assistito ai primordi di un’attività teatrale, e soprattutto ad una riforma municipale grazie alla quale era stato abolito il “dispotismo” del camerlengo e del decurionato a vita, un nutrito stuolo di amici, come Tommaso Maria Verri, il distinto letterato vicario vescovile di Ortona, e di condiscepoli più o meno brillanti del Borrelli, a cominciare dal compaesano Vincenzo Daniele, che sarebbe finito rettore del liceo dell’Aquila, e poi il Gaetani lettore di filosofia e matematica nel collegio di Vasto, il Berardini suo collega ad Ortona, il chietino Vincenzo De Ritis, il vastese Benedetto Betti, filologo e filosofo, l’abate Coletti di Atri, l’altro teramano, di Mosciano, medico e matematico, Giuseppe Saliceti. Tutto questo mondo aveva una sua precisa e circoscritta connotazione culturale, che ancora Pasquale Borrelli si preoccupa di definire20 allorché si appella agli Scolopi di Caravaggio, dai quali era stato ospitato a Napoli nel 1798, per dimostrare che all’epoca egli non avea letto né Rosseau né Voltaire ma aveva esposto in conclusioni solenni i principi matematici della filosofia naturale di Newton, e conosceva egli gli offici di Cicerone. _______________ 18 - C. DELLA PENNA, Aspetti della vita sociale ed economica dell’Abruzzo marittimo nella statistica murattiana, Chieti, 1990, che arricchisce con opportuna documentazione le parafrasi delle relazioni di Giovanni Thaulero e Paolo Aquila. Ne risulta che quest’ultimo espletò il suo compito fra l’ottobre 1811 ed il giugno 1813, con un’attenzione ai salari agricoli, al disboscamento, alla situazione sanitaria e cosi via, che farebbe pensare ad una qualche forma di collegamento con i precedenti Pensieri del Liberatore, sui quali ci soffermeremo tra breve. 19 - La “statistica” del regno di Napoli nel 1811 a cura di Domenico Demarco, Roma, 1988, p. LXXII. Aquila era venuto a Chieti appena ventiseienne, nel 1795, e vi si sarebbe trattenuto fino alla morte, quarant’anni più tardi (il nome non figura negli accuratissimi elenchi di T. PEDIO, Dizionario dei patrioti lucani, vol. V, Bari, 1991, dove vi sono bensì i Dall’Aquila, ma sono di Calvello). È da ricordare che Aquila sarebbe stato a più riprese presidente della Società Economica, e che il primo suo cenno biografico ed elenco degli scritti sono in G. TRAVAGLINI, Religione e storia, Pescara, 1932, pp. 230-231, senza peraltro che si riesca a seguire bene il nesso fra il retroterra schiettamente matematico, e perciò scientifico e filosofico, delineato da Borrelli, e la successiva attività compilativa, informativa e riformistica in senso lato. 20 - Memoria storica sulla condotta politica di Pasquale Borrelli in SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA, ms. XXX A 9 ce. 118-127 dove si fa cenno anche della liberazione a furor di popolo che lo scrittore aveva ottenuto nel ‘99 a Sanseverino dinanzi alle masse di Barrella che lo avevano arrestato. 266 E c’è da credergli, con l’analogo esempio eloquente di Nicola Nicolini il quale, indotto dalle burrasche giacobine e sanfediste, e più dalle incertezze della prima restaurazione, a riparare in patria (lo fa infatti soltanto nel giugno 1800, nei giomi di Marengo e dell’occupazione napoletana di Roma) vi si dedica significativament ed espressamente, risiedendo tra l’altro a Vacri, nel feudo tradizionale dei Valignani, a studi danteschi e vichiani che caratterizzeranno con forza la linea culturale della sua età matura, con la più volte asserita e difesa fratellanza d’armi tra filologia e filosofia: E qualor pur ricado in basso loco Tra gli empi dell’Inferno e degli Annali La Scienza Nuova e il Paradiso invoco... Voi (scil. le Muse) fra l’ire civili al patrio tetto Mi riduceste illeso: e a Dante e a Vico Gli ozi miei deste in guardia e l’intelletto 21. Tacito è dunque a tutte lettere, e con lui le nequizie del dispotismo (e dell’anarchia) il nemico da battere: e perciò non è meraviglia che, tra una meditazione e l’altra, l’ottimo Nicolini torni alla prediletta improvvisazione poetica, e vi tomi per celebrare la pace, che gli sta per restituire Napoli e l’arringo forense, non solo la pace internazionale di Firenze, nei suoi risvolti per tutt’altro che trascurabili di circolazione rinnovata delle merci e delle idee, quanto soprattutto la pace interna, che non può non fondarsi appunto, in via preliminare, sul debellamento dell’anarchia. Viene fuori così La pace poemetto in verso sciolto di D. Nicola Nicolini per il dì 24 giugno di S. Giovanni Battista nome che porta S.E. il signor marchese Rodio preside e comandante delle armi in provincia di Teramo che il maggiore Giuseppe Clary fa mettere a stampa precisamente nel capoluogo aprutino con dedica al Rodio come opera “del celebre vate estemporaneo D. Nicola Nicolini” a glorificazione del quale si evocano in folla Anacreonte, Orazio, Virgilio, Petrarca, l’Alighieri e, sintomaticamente buon ultimo, il Gessner. Don Nicola, quanto a lui, data il suo poemetto Torre dei Passeri 22 giugno 1801, mentre sta tornando a Chieti reduce da Pietranico, alle falde del Gran Sasso, dove si è imbattuto in Rodio, il primo preside recatosi di persona in quelle alpestri contrade, ed ivi amministrante patriarcalmente giustizia nel bel mezzo di una processione, come si narra diffusamente nel poemetto, e da Castiglione a Casauria, dove era avvenuto il primo incontro col giovane eroe, poi accompagnato dal Nostro a Pietranico, ospiti entrambi della marchesa Maria Anna Marciano Simonetti Depetris Fraggianni, la cui figurina suonante al piano fa da delizioso suggello per tutta l’arcadica scenetta. Ma, naturalmente, la pace non è soltanto l’Arcadia, così come Dante e Vico non servono soltanto alla metodologia interpretativa del diritto. Nicolini lo afferma a chiare note: Oh Astrea figlia del Ciel! tu sola formi Il desio delle genti: e se di Pace Tu compagna non sei, vive ancor Marte In false forme _______________ 21 - N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit. pp. 28 e 30, sonetti datati, rispettivamente, Vacri 10 maggio e Chieti 30 ottobre 1801. 267 come appunto in Abruzzo, dove era “surto un mostro infernal” il quale, in mezzo ad altri affini spaventevoli atteggiamenti, al tuono Che già dal Po fremer si udia, ei l’ire Ralluma alto ululando.... Ma ecco che sopraggiunge Rodio e il mostro è spento. Salve, o Alcide novello... un’immagine scontatissima, quest’ultima, ma che pure non possiamo fare a meno di riscontrare identica in Nicola Palma22 Rodio fu l’Ercole che distrusse tanti mostri e per questo titolo la provincia gli ha una obbligazione infinita a sancire il respiro di sollievo con cui tutto il moderatismo abruzzese accolse la repressione degli strascichi dell’anarchia sanfedista, una volta chiusa in parentesi, per così dire, la persecuzione antigiacobina. Ma in Nicolini, l’abbiamo detto, c’è anche altro, c’è la preoccupazione, viva dai tempi tempestosi di Latouche-Tréville e di Nelson, dell’indispensabilità della pace marittima per garantire le città costiere, a cominciare dalla capitale, dai pericoli dell’apparizione improvvisa di una flotta ostile, e specialmente per ripristinare il rapporto con l’Europa ormai da gran tempo minacciato o interrotto: E tu dell’arti nudritor... Industre padre, che trasformi e cangi Il superfluo in ricchezza, ed il selvaggio In colto cittadin, languente cadi Tu, o Com-mercio infelice: ed ogni colpo Che si vibra sul mar, fere il tuo petto. Vi erano per la verità altri colpi da cui guardarsi, come quelli di cui si lagna Pasquale Borrelli, divenuto nel frattempo, appena ventenne, professore straordinario presso l’ospedale di S. Giacomo degli Spagnoli, nel proemiare nel 1803, con dedica al cappellano maggiore Agostino Gervasio, ai suoi Principia Zoognosiae medicinam physicae legibus scientifica methodo superstruentia concinnata ad usum domestici auditorii allorché denunzia polemicamente23 la persecuzione subita da falsi teologi naturali recentium systematum, imo veritatis, patriaeque hostes, obscuriorum epocharum barbariem stuite revocantes. In realtà, molti anni più tardi, nella piena e tarda età ferdinandea, tomando su questo periodo immediatamente precedente al decennio, tanto Borrelli quanto Nicolini, nella _______________ 22 -L. COPPA ZUCCARI, L’invasione francese negli Abruzzi 1798-1810, II, Aquila, 1928,749, doc. CDLXXXV annotazioni alla cronaca dei Tullj. 23 - P. BORRELLI, Principia... cit, pp. VIII-IX. 268 prospettiva essenziale della continuità e dello sviluppo sulla quale avremo modo di tornare più volte, avrebbero sottolineato la solidità del momento politico e culturale, temperato le ombre, presentato il tutto come semplice, e robustissima, fase preparatoria ai successivi, pressoché naturali, risultati riformistici. Scriveva Borrelli, nel novembre 1832, in una circostanza particolarmente impegnativa e per sé stesso e per il personaggio trattato 24 che il Giampaolo arciprete di Ripalimosani presso Campobasso aveva ribadito e sancito il ruolo degli ecclesiastici nelle riforme, sia con la sua “morale mistica”, sia col suo appoggiare la metafisica alla fisica, e col conseguente rifiutare, pur non esaurendo nella sensazione la sua prospettiva gnoseologica, quelle distinzioni affollate e ricercate e sottili le quali, a luogo di chiarire, assiepan lo spirito sicché bene aveva fatto Giuseppe Bonaparte a chiamarlo nel Consiglio di Stato, poiché stimò sanamente che a consigliare il sovrano non occorresse che il senno, e non già quello degli avi, che son polvere ed ombra, ma il proprio. Ed incalzava Nicolini, a proposito dell’amico Petroni25 e del clima che aveva accompagnato il suo noviziato nel quindicennio 1790-1805, che era pure, lo sappiamo, sostanzialmente il suo: Tutto spirava repressione degli abusi feudali, ripristinamento dell’unità e della forza legale nelle amministrazioni municipali, equità nella ripartizione de’ dazi, restituzione all’agricoltura de’ demani sottrattine dal pregiudizio e dall’orgoglio, bonificazione delle terre paludose, abolizione de’ passi e de’ dritti proibitivi, svolgimento il più ampio e consentaneo alla pubblica utilità de’ rapporti della pastorizia d’Abruzzo con la coltura del tavoliere di Puglia. Non solo: ma a dire del Borrelli26 i metodi antecedenti al 1806 erano “alcune volte più semplici e meno dispendiosi de’ moderni”, e si collocavano sulla via regia che, addirittura dallo “spirito della disciplina” di Accursio e dall’estro di Dante, esempio insigne della “forza pensante che ispira i poeti”, aveva condotto a Galileo col suo “spirito osservatore e geometrico”, alla filologia di Vico, all’indulgenza di Beccaria, ed infine al “Cosmopolismo scientifico” di Antonio Genovesi, il quale non solo “non ascese alle acute e nebbiose sommità dei priorismo" avendo reso la logica "capitale delle scienze” e non _______________ 24 - P. BORRELLI, Elogio dedicato alla memoria del cavaliere Paolo Nicola Giampaolo dal suo successore nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli Pasquale Borrelli e letto nella seconda tornata del novembre 1832 (cito dalla seconda edizione riveduta e corretta, Napoli, 1836, pp. 10, 16, 23, 26). 25 - Leggiamo sempre il testo del “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE E ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1838, p. 171. 26 - Ibidem gennaio-giugno 1840 pp. 21-27 intervento 4 febbraio 1840 del Borrelli all’Accademia delle Scienze intorno alle considerazioni del marchese di Pietracatella sulle opere pubbliche delle Due Sicilie. 269 “ergastolo isolato”, ma si rese benemerito per aver promosso le riforme dei principi anziché quelle dei popoli, dal momento che le une procedono “blandendo” e le altre “devastando”27. Pasquale Liberatore non era stato esattamente, a suo tempo, in quell’ordine d’idee, mentre Antonio Nolli, il solo, insieme con lui, dei “novatori” degli anni Ottanta rimasto in Abruzzo Citra a misurarsi con la seconda, e più modesta generazione, il padre Aquila ed i suoi allievi al di fuori di Borrelli, per intenderci, girava l’Europa col fratello Giustino, dopo aver avuto "molta parte in conservar la quiete" tra le burrasche del Novantanove, per dirla con Gennaro Ravizza, a studiare nuove tecniche agricole, ed in particolare l’introduzione di prati artificiali, anche questo un tenersi in riserva, insomma, che l’avrebbe abilitato non a caso ad assumere la presidenza della giunta esecutiva incaricata di amministrare il gettito della censuazione e della fondiaria all’indomani immediato della legge 21 maggio 1806 sul Tavoliere di Puglia, nonché della cassa d’amministrazione a questo scopo istituita, in attesa di succedere a Giuseppe Poerio quale secondo intendente di Capitanata27 bis . Proprio quella legge, che sanciva le vedute proprietarie e privatistiche di. Melchiorre Delfico nel 1788, l’anno dal quale abbiamo preso le mosse, induceva presumibilmente Liberatore, nel giugno-luglio 1806, a dare l’ultima mano ai suoi Pensieri ed a metterli a stampa, con un breve cenno in appendice a prendere atto della legge del 6 agosto abolitrice della feudalità. Anche Borrelli stava lavorando in quei mesi ai suoi Principi di zoaritmia, che sarebbero stati pubblicati ai primi dell’anno successivo, con una dedica “all’ombra di Rosina Scotti” ed un ricordo dello zio Marcello, annoverato tra i “forti immolati per la mano della barbarie” che non ci interessano esclusivamente in chiave patetica e patriottica: Ricevi, o figliuola della virtù, se non i primi i più teneri omaggi del talento e del cuore... I primi le sono stati resi dall’attuale giudice del tribunale straordinario della Calabria Pasquale Liberatore28 ne’ suoi eruditi, sensatissimi e patriottici Pensieri civili economici. La provincia di Chieti debbe ad essi i migliori progetti di riorganizzazione29. _______________ 27 -P. BORRELLI, Su’ principali restauratori della civiltà italiana discorsi dedicati al settimo congresso degli scienziati italiani, Mendrisio, Lampati, 1845, soprattutto pp. 64 e 68. 27 bis - Nel frattempo Nolli era stato nominato per brevissimo tempo preside di Teramo, di cui in seguito avrebbe rifiutato di diventare intendente, lasciando l’ufficio al suo antico e più giovane amico e concittadino Pietro De Sterlich figlio del marchese Romualdo (G. CIVILE, Appunti per una ricerca sull’amministrazione civile delle provincie napoletane in “QUADERNI STORICI: Notabili e funzionari nell’Italia napoleonica”, Bologna, gennaio-aprile 1978, p. 235). 28 - A. DE MARTINO, Antico regime e rivoluzione nel regno di Napoli crisi e trasformazione dell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, p. 139 fissa al 10 novembre 1806 la data della nomina ma parla di presidenza, mentre la testimonianza di Borrelli avvalora il cenno biografico di R. AURINI, Dizionario bibliografico della gente d’Abruzzo, III, Teramo, 1952 e ss., 129-136 che fissa a Matera la sede del tribunale. 29 - I Principi di zoaritmia non sono altro che un’applicazione più o meno adattata della teoria dell’eccitabilità di Brown alla filosofia di Condillac. Notevole, benché canonica, a p. 20, l’evocazione di Genovesi “il distruttore della barbarie patria” che sembra confermare Borrelli nella linea moderata caratteristica di Nicolini, mentre Liberatore avrebbe aderito più animosamente a certi “estremismi” di Filangieri, come meglio vedremo nel testo, e qui di seguito in nota. 270 In realtà era proprio quest’ultima, nel senso tutto francese e moderno del termine, al centro dell’esordio di Liberatore, a confermare non solo la prontezza con cui egli recepiva le novità del 1806 ma anche e specialmente l’analogia di presupposti e di obiettivi sulla quale si era preparato a recepirle: Nell’imminente organizzazione che vanno a ricevere le nostre provincie, quella di Chieti osa far pervenire i suoi voti fino ai piedi dei rigeneratore della nazione napoletana. Ché in verità di rigenerazione, e radicale, si trattava, a cominciare dal codice, in uno stato di cose le mille miglia distante dalle rievocazioni ottimistiche di Borrelli e di Nicolini (sulla strenua e coraggiosa militanza di quest’ultimo in favore della continuità prima e dopo il 1806 avremo modo di soffermarci ampiamente) che viceversa anche il tardo Liberatore non avrebbe mai fatto proprie30 fermo nella raffigurazione di un regno di Napoli la di cui legislazione è formata da quell’immenso complesso di casi presso che tutti particolari, che mette capo nella grandezza e nelle vicende del Lazio, nel vario dispotismo de’ Cesari, nella diversa barbarie de’ nuovi conquistatori, nelle pie frodi chiesastiche, nella conculcatrice politica vi-ceregnale31, nel cieco ni coerente impero de’ re, e nell’ammasso indigesto di usi eterogenei e di giudizi sovente contradditori secondo la dimostrazione fornita, una volta per tutte, da Melchiorre Delfico, la cui stroncatura della giurisprudenza romana il Nostro non si sarebbe peraltro sentito di condividere sino in fondo32. Il codice, dunque, quanto alla cui coerenza col sistema politico napoletano Liberatore si astiene da ogni decisione, rimettendosi a Giuseppe e riservandosi in tal modo implicitamente il suggerimento di modifiche che avrebbe caratterizzato il saggio del 1814. _______________ 30 - In questo senso è da leggersi P. LIBERATORE, Filangieri vindicato dalle ingiurie di M. Lerminier in “FILOLOGIA ABRUZZESE”, Napoli, giugno-agosto 1836, pp. 23-28 e 7889 (è il primo fascicolo di quello che in seguito sarebbe stato il “GIORNALE”, Napoli, di De Virgiliis, e l’intervento di Liberatore riproduce una memoria letta alla Pontaniana). Nel contestare le tendenziose interpretazioni dello scrittore francese, e prima di lui, naturalmente, di Constant, il Nostro si preoccupa, rifacendosi significativamente al classico parallelo con Beccaria ed all’elogio 1788 di Donato Tommasi, di collocare Filangieri su una linea che risale a Vico, ma che inserisce anche quest’ultimo in una tradizione scaturita da Bruno e da Campanella, anticipatrice di Montesquieu nello studiare il diritto “colla fiaccola della storia” secondo quanto suggerito dall’Aulisio fino a Giuseppe Pasquale Cirillo ed appunto a Filangieri, che perciò precede anche Savigny e si apparenta degnamente a Muratori nel rifiutare le aberrazioni del diritto romano. “Un dritto tutto nuovo - conclude Liberatore, quasi condensando all’ombra di Filangieri quella che potrebbe chiamarsi la filosofia del 1806 - proclamò egli che fosse necessario, profittando delle lezioni de’ nostri padri in.ciò che fosse conveniente allo stato delle nazioni... allontanandosi egualmente dalla servile pedanteria di coloro che niente vogliono mutare e dall’arrogante stranezza di coloro che vorrebbero tutto distruggere”. 31 - È questo, s’intende, un ormai consolidato luogo comune, su cui vedremo tornare con eloquenza, ed in occasione solenne, il Nicolini. 32 - P. LIBERATORE, Introduzione allo studio della legislazione del regno delle Due Sicilie, Napoli, 1832, pp. 32-33. 271 Per il momento, nel 1806, e prima della legge del 6 agosto, il problema pressante è quello della feudalità, a proposito del quale Liberatore preferisce attestarsi sulla linea di Filangieri e Palmieri, recupero dell’aristocrazia come ordo a sostegno della monarchia ma non privilegiato, conservazione di titoli, rendite e ordini cavallereschi, l’honneur, insomma, tanto caro a Montesquieu, ma niente diritti feudali “odiose usurpazioni e mezzi atroci di oppressione” secondo quanto già si è cominciato sistematicamente a fare per iniziativa del Di Gennaro duca di Cantalupo: Non sono il nemico del baronaggio, né mi lascio trarre dalla corrente de’ publicisti moderni i più accreditati, che pel bene universale ne declamano l’abolizione... Io non so se nella costituzione che forse avremo rimarranno i feudi, ma... dovrebbero assolutamente riunirsi allo Stato le giurisdizioni... per togliere quell’odiosa differenza tra città demaniali e terre baronali che tanto distrugge la politica eguaglianza. Liberatore aveva l’occhio alla sua Lanciano ed alla causa più che secolare contro gli Avalos marchesi del Vasto, un municipalismo appassionato che più avanti gli avrebbe suggerito di proporre la riapertura del porto di S. Vito, la restituzione della fiera, soprattutto l’installazione di un tribunale di prima istanza, che nel gennaio 1809 si sarebbe eretto addirittura in forma di magistratura d’appello, non sappiamo fino a qual punto per interessamento dei personaggi chietini dei quali ci stiamo occupando (ma della provincia, nessuno del capoluogo!) e solo nel maggio 1817 si sarebbe trasferito all’Aquila33. Per il momento, a parte l’excursus storico su Lanciano, culminante con Championnet, che l’aveva dicharata “centrale della provincia”, una soluzione amministrativa che il Nostro non vedrebbe di malocchio in bilanciamento a Chieti, le istanze riformistiche generali sono le più assillanti, da quelle giudiziarie ed amministrative (gratuita amministrazione della giustizia, abolizione della venalità degli uffici con risarcimento, unificazione della giurisdizione locale con pronta eliminazione di quella doganale, eleggibilità dei giudici da parte di un parlamento universale comunitario opportunamente rinnovato e dinamizzato) alle riforme dell’istruzione, accentrate su università provinciali, ed a quelle finanziarie, miranti a proporzionare i tributi alle capacità abolendo il focatico e concentrandosi sulla fondiaria e sulla liquidazione dei demani “avanzo delle barbarie de’ nostri padri” al pari dei diritti proibitivi, a cominciare da quello delicatissimo del sale. _______________ 33 - Nel 1806, infatti, Liberatore prevedeva Chieti quale sede della gran corte civile, e perciò capoluogo giudiziario dell’intero Abruzzo. Queste sue proposte, d’altronde, non temperavano l’assidua polemica, che si direbbe di eredità galantiana, e che, ancora una volta, non si sarebbe trovata mai in Nicolini, contro la “turba immensa di legali cavillosi”, un’espressione di Cose patrie in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoli, luglio 1838, pp. 3-15 dove si deplora anche l’abbandono della strada Frentana per Palena a Roccaraso, sulla quale, come vedremo, tre anni prima si era intrattenuto Nicolini. Già nei Pensieri, peraltro, è plasticamente, e qui si direbbe sulla traccia di Genovesi, vivissima la polemica contro il pagliettismo, e più latamente lo pseudo culturalismo improduttivo, allorché si parla di Agnone e del suo “splendore non atteso” in mezzo ad una natura straordina-riamente ingrata per difficoltà di comunicazioni, l’arte del rame donde scaturisce “il denaro, e seco tutti comodi della vita” salvo peraltro “quei bravi artefici” cominciare a trascurarla “e, vedendo la gran considerazione del passato governo per gli oziosi (sic!), sono in procinto di passare alla classe de’ medesimi, col procurare a’ figli le lauree, e far consumare il frutto de’ loro sudori nella capitale”: e poco prima aveva scritto incisivamente, 272 Quanto specificamente ad Abruzzo Citra, l’intervento governativo avrebbe dovuto aver di mira l’identificazione delle “sorgenti della ricchezza” nell’agricoltura, nelle arti e nel commercio, allo scopo di “rapprossimar gli estremi al più che sia possibile”, secondo l’ammonimento di Rousseau. La forbice tra l’emigrazione bracciantile e la scarsezza dei raccolti, l’insicurezza delle campagne donde l’impossibilità di una colonizzazione razionale, la mancata utilizzazione delle acque del Sangro e dell’Aventino per i lanifici di Palena e della zona contermine, le prepotenze feudali che impediscono il completamento della litoranea della Puglia e soprattutto il passaggio dei fiumi, insieme con le rivalità municipali, tutto ciò tratteggia per Abruzzo Citra un quadro largamente prevedibile ma non per questo meno suscettibile d’interventi particolari, che Liberatore sostanzia nella rivitalizzazione della struttura confraternale in forma di “compagnie agrarie” o altrimenti assistenziali, appoggiate dai monti frumentari, nella canalizzazione del Pescara, in una rete organica di ponti34. I Pensieri costituivano la testimonianza concreta, tangibile, della maturità con cui la classe dirigente formatasi in Abruzzo Citra nell’ultimo quindicennio del Settecento era in grado di recepire, assimilare e soprattutto far rapidamente fruttificare le sollecitazioni del nuovo regime. Perciò esso si avvalse con prontezza, ed al più alto livello, della sua collaborazione, Nolli e Liberatore, l’abbiamo visto, rispettivamente in Capitanata ed in Calabria, donde l’avvocato lancianese sarebbe passato nel 1808 procuratore generale alla gran corte criminale dell’Aquila, dove avrebbe lasciato fama duratura di rigore35, Borrelli nel 1807 alla segreteria della commissione feudale e due anni più tardi a quella della prefettura di polizia, che gli avrebbe procurato un’ardua convivenza col ministro Maghella ed il trasloco, con pratico danno finanziario, alla gran corte civile di Napoli36, Nicolini rimasto avvocato dei poveri alla conquista francese e solo nel novembre 1808, a quanto pare contro la sua volontà, designato alla procura generale della gran corte criminale di Terra di Lavoro, il De Thomasis, infine, subito nell’ottobre 1806 sottintendente di Sulmona, e dopo pochi mesi, nel luglio successivo, intendente di Calabria Ultra. _______________ mostrando di aver già assimilato a dovere il vichismo di Filangieri: “Non più la filosofia e la storia sono le basi della scienza legale”. 34 - Ho citato e riassunto dai Pensieri civili economici sul miglioramento dellaprovincia di Chieti umiliati al regal trono, Napoli, 1806 soprattutto 1, 1-3, 16-27 passim, 31-32, 51, 60-77 passim, 85 ss., 92, 116-125 passim e II, 4, 38-39. 35 - Se ne rende interprete ancora in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENTE LETTERE ED ARTI”, Napoli, aprile 1840 pp. 41-47 il ben noto sacerdote liberale ed educatore sulmonese Leopoldo Dorrucci, in un profilo biografico di Liberatore che ricorda il suo cancellierato, nel 1798, alla doganella di Abruzzo Citra, da lui così acremente stigmatizzata nei Pensieri, dove avrebbe avuto modo di conoscere Pasquale Borrelli. 36 - A queste vicende, senza che qui sia possibile, s’intende, approfondire né tanto meno documentare l’argomento, accenna la citata Memoria con lo specificare che Borrelli avrebbe combatutto lo spionaggio, eliminato il delitto di Stato ed i provocatori e macchinatori di cospirazioni politiche, con la conseguente frequenza di condanne a morte più o meno arbitrarie. La repressione del contrabbando, l’istituzione di un consiglio medico e la sistemazione igienica delle carceri sono altre benemerenze rivendicate in Bibliografla di Pasquale Borrelli, Koblentz, 1840, pp, 6-7, mentre F. NICOLINI, Nicola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del secolo XIX, Napoli, 1907, p. XXXVIII accenna all’inflessibilità di Pietro Colletta e di altri magistrati militari nei cui confronti Nicolini aveva 273 L’atmosfera del trapasso sarebbe stata rievocata col consueto fervore, trent’anni più tardi, nell’agosto 1835, nell’Elogio dedicato alla memoria di Amodio Ricciardi che Pasquale Borrelli pronunziava in casa di Giuseppe Poerio sintetizzando l’esperienza dì una generazione in quella di uno dei suoi più cospicui e rappresentativi esponenti proprio in quell’ordine giudiziario e più latamente giuridico che è il protagonista del nostro discorso37: Innanzi di spiegare presso questo collegio (scil. la magistratura) le proprie funzioni, era uopo formarlo. Era uopo bandire, senza punto irritare, le antiche abitudini: era uopo farne sorgere gradatamente delle nuove, senz’aver l’aria d’imporle: era uopo insegnare, senza prender giammai la fisonomia del maestro: ed a forza di lodare il poco era uopo spingere destramente gli animi al molto. In opera si disagevole e la soverchia lentezza e la fretta soverchia avrebbero potuto essere fatali all’amministrazione della giustizia. Indamo il saper legale avrebbe avuto l’ambizione di giunger da sé solo al fine prefisso. Era mestieri congiungergli quella modestia disinvolta che, senza urtar l’amor proprio, istruisce e dirige: quella purità d’intenzione che disarma la calunnia: quell’amor di giustizia che sorprende ed edifica, pur quando dispiace. Quasi contemporaneamente ad Amodio Ricciardi, come sappiamo, scompariva il Petroni, e qui era il Nicolini38 a calare nel concreto dell’attività quotidiana del, responsabile di un’amministrazione periferica ciò di cui Borrelli aveva delineato la “filosofia”: Sue furon la divisione territoriale, la formazione de’ decurionati e de’ consigli distrettuali e provinciali, la istituzione de’ collegi e delle scuole primarie, la forma e la ripartizione della coscrizione militare e de’ tribunali, le prime traccie delle strade interne, le prime linee di separazione tra l’amministrativo e il giudiziario nella provincia39, le prime applicazioni delle leggi abolitrici della feudalità e de’ dritti proibitivi. _______________ dovuto competere in un’atmosfera di tensione analoga a quella di Borrelli, tensione che viene ampiamente ridimensionata in A. DE MARTINO, Antico regime... cit. p. 134. 37 -L’Elogio, stampato in opuscolo nello stesso 1835 presso la stamperia dell’Aquila, è oggi riprodotto, privo di note, in A. RICCIARDI, Memoria sugli avvenimenti di Napoli nell’anno 1799 edizione critica a cura di R. Lalli, Campobasso, s.d., pp. 111-120. È il caso di ricordare che il Ricciardi, molisano di Trivento, di ricchissima famiglia originaria dell’altra sponda, quella abruzzese, del Trigno, era uno dei tanti magistrati richiamati in ufficio da Ferdinando II dopo un decennio di decadenza a seguito dell’elezione a deputato nel 1820, che faceva seguito alla nomina a procuratore generale presso la gran corte civile di Napoli nel 1808 (il Ricciardi si era ritirato a Torino, e già lì era entrato autorevolmente nella magistratura subalpina), a consigliere di Cassazione nel maggio 1812, presidente nella gran corte civile appena trasferita all’Aquila nel giugno 1817, intervallati questi ultimi uffici dalla presidenza del consiglio generale di Molise. La citazione del testo è a p. 10 dell’opuscolo. 38 - Facciamo sempre, e conclusivamente, capo a “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETFERE ED ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1838, p. 174, lo stesso fascicolo, si noti, nel quale, alle pp. 115-123, era apparsa una prima Bibliografia di Giuseppe De Thomasis a firma P.C. (Pasquale Castagna) contenente il famoso aneddoto dell’inginocchiamento reciproco a cui il Nostro avrebbe costretto un postulante calabrese, poi ripreso dal Croce e divenuto pressoché emblematico della gravitas del De Thomasis. 39 - Si tratta, l’abbiamo visto, di Teramo, dove Petroni era stato segretario generale dal 1806 al 1812. 274 L’uomo che aveva saputo meglio congiungere nella propria personale attività la poesia di Borrelli e la prosa di Nicolini, per così dire, era stato il loro amico e comprovinciale Giuseppe De Thomasis, quanto meno per quel che sappiamo di lui dall’abruzzese Egidio Grilli, in attesa che opportune ricerche ci facciano conoscere qualche cosa di più della sua successiva molteplice attività in Calabria e nella capitale40. Dall’ottobre 1806 al luglio 1807 sottintendente di Sulmona paese mancante di ogni risorsa, avvilito dalle passate sciagure, nel quale le piaghe dell’anarchia sono ancora fresche (il riformatore intransigente che è De Thomasis non parla, naturalmente, dell’abolizione del regime doganale e dell’avvio dell’affrancamento del Tavoliere, che aveva sovvertito alla lettera una vasta zona appenninica tradizionalmente e compattamente armentaria) egli avanzava infatti con immediata concretezza la proposta, che si sarebbe realizzata tra il marzo ed il luglio 1807, per la bonifica di circa 8 niíla ettari della conca peligna grazie alla riapertura ed al riassestamento dell’antichissimo canale di Corfinium, ora diventata Pentima, allo scopo di far rientrare dall’Agro romano la gioventù emigrata nella stagione invernale, e cosi sottrarla al brigantaggio. Coinvolgeva inoltre il De Thomasis la pubblica opinione con l’immissione di una sorta di assegnati mensili e con una serie di appalti particolari, il cui governo peraltro non poteva non rimanere affidato all’aristocrazia ex feudale, con le conseguenze e le vischiosità del caso. Quest’ultima clausola, ed il paternalismo tanto dei presupposti quanto delle finalità dell’impresa, s’inquadravano perfettamente e precocemente nella filosofia della continuità propria della monarchia amministrativa in Abruzzo a livello ambientale, ma che vedremo tra poco ragionata compiutamente da Nicolini nella sua cornice culturale, e nella più impegnativa delle circostanze. Essa s’irrobustiva, peraltro, nel sistema di De Thomasis volto alla formazione di una classe dirigente post gesuitica (a Sulmona c’era stata la Compagnia, non c’erano stati gli Scolopi, come invece, in Abruzzo, oltre che a Chieti, soltanto a Lanciano ed a Scanno) con un collegio regionale d’istruzione ed educazione istituito a Sulmona nel maggio 1807, affiancato da scuole di disegno e da una biblioteca, che sarebbero rimaste di massima sulla carta. Simile sorte sarebbe parimenti toccata all’ambizioso progetto per un’autentica università provinciale (si rammentino le analoghe idee di Liberatore), anch’esso comunque indicativo della necessità di prendere le cose da lontano, se s’intendeva riassestare lo sbandamento strutturale della società post armentaria, denunziato cosi drasticamente _______________ 40 - R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit. p. 251 reputa De Thomasis “uno dei fautori della ri forma del contenzioso amministrativo e in perfetta sintonia con l’opera riformatrice del ministro della Giustizia (scil Donato Tommasi) in questo campo” ma in realtà non riesce ad andare oltre Grilli (pp. 217 e 251) a parte alcune importanti precisazioni che si vedranno più avanti. È Grilli, infatti, che ci informa della corrispondenza con Murat durante la permanenza a Monteleone e delle dimissioni respinte dal sovrano nel febbraio-marzo 1809, prima cioè del ritorno in Abruzzo, nell’ottobre dello stesso anno, sul quale ci soffermeremo più avanti, sempre peraltro sulla traccia esclusiva del benemerito Grilli, che è altresì la fonte di ciò che si dice nel testo. 275 dall’insorgenza, e soprattutto dalla disoccupazione od emarginazione di migliaia d’individui e d’intere comunità e zone appenniniche, che intorno alla pastorizia si erano strutturate. Il 14 novembre 1808, mentre gli amici e conterranei Borrelli, De Thomasis e Liberatore lavoravano rispettivamente a Napoli, Monteleone ed Aquila, il Nicolini era nominato a S. Maria di Capua. All’infelice D’Astrea raggiunto dalla spada ultrice Scudo io finor, d’un Dio non senza aita, La stessa ultrice spada ecco ho brandita, Campion d’Astrea... Ma d’alto imposte, e non richieste, io prendo Le insegne sue.... Sembra sincerissimo, e significativamente sincero, in questo rammarico per lo scambio della toga d’avvocato con quella di magistrato, Nicola Nicolini in questo sonetto datato 7 gennaio 180941 lo stesso giorno del discorso d’insediamento quale procuratore generale nella gran corte criminale, stampato col titolo istruttivo ed eloquente Del passaggio dall’antica alla nuova legislazione nel regno delle Due Sicilie42 e che qui riassumiamo e citiamo nei suoi fondamentali, importantissimi concetti. Una successione di leggi, nella progressione assidua de’ bisogni civili e de’ lumi, dettandolo le cose stesse, le ha si portate a questo termine che noi, per isnodare ed applicare le leggi nuove, non faremo altro che richia-marle, con la storia legale alle antiche. Nicolini enuncia in esordio il postulato machiavelliano del “ritiramento a’ principi” che gli sarà sempre carissimo, ma vi affianca, nella prospettiva comune della continuità, il concetto tutto vichiano della “storia legale” che attende di essere schiarito nello svolgimento del discorso. Oggi si è fatta di tante leggi una sorta di revision secolare; ed il passaggio dalla vecchia alla nuova legislazione è assai meno sensibile di ciò ch’ogni volgare può scorgere... Nel regno dove nacque Filangieri nulla può esser nuovo di quanto andrò divisando... La legge penale, lungi dall’esser copia della legge penale francese, ha le sue prime disposizioni generali tratte dal Filangieri (è notevole questo discrimen analogo a quello di Liberatore, ma con un’accentuazione polemica e formalistica assai più risentita che in lui). E Nicolini prosegue, affrontando un tema sul quale Liberatore sarebbe stato assai meno ottimistico nei confronti del passato e Francesco Ricciardi, come ministro, legalisticamente intrattabile: _______________ 41 - Vedilo in N. NICOLINI, La musa di famiglia...cit. p. 32. 42 - Lo leggiamo nella seconda edizione, Napoli, 1840. 276 Noi dobbiamo celebrare nei giudizi i principi umanissimi che, sviluppati da’ nostri giuspubblicisti, temperavano appo noi quell’arbitrio il quale imperava nelle cause per l’applicazione delle pene. Senonché oggi ogni arbitrio è cessato: niun fatto può dichiararsi punibile se non è tale espressamente dichiarato dalle legge; niuna pena può essere applicata se non è dalla legge indicata qual sanzione espressa dell’infrazione. Sembra invece che Nicolini sottovalutati in certo senso ciò che con maggior fervore di novità aveva auspicato Liberatore nell’attesa legislazione francese La parte che può apparire più nuova è la giurisdizionale... Ridotte ad unità tutte le giurisdizioni, l’abolizione della feudalità, di questo flagello ignoto ai nostri paesi quando Capua era Capua (sic!), cospira meravigliosamente alla restaurazione della forza necessaria a’ giudizi prima di tornare, una volta dissoltisi i fantasmi della barbarie gotica, all’illustrazione di ciò che gli sta massimamente a cuore: Noi non cominciamo con la novella legislazione una novella civiltà ma proseguiamo in quella che si godeva (sic!), sciolti però dalle difficoltà del numero e contraddizione delle leggi43, distrigati dalle autorità incerte di oscuri scrittori, purgati nell’aperta luce di semplici e ben collegati e fecondi principi, certi di noi per forme sicure d’interpretazione, rendute intelligibili e popolari per la sostituzione del linguaggio universale d’Italia al gergo barbaro e basso insinuato nelle leggi e ne’ giudizi dalla ignoranza e da municipale mal inteso amor proprio 44. La civiltà di cui godeva il regno di Napoli è quella che viene sintetizzata nell’introduzione storica, ferma nel prendere le distanze, anche qui in sintomatico dissenso da Liberatore, dall’empietà e dallo scetticismo di Giordano Bruno, ma tenace nel rivendicare ad una linea costante dall’inevitabile Ciccio d’Andrea del Redi fino a Giuseppe Pasquale Cirillo, attraverso Niccolò Capasso, la riduzione ad unità quanto meno concettuale della legislazione del regno, grazie ad un diritto romano visto anche qui ben più favorevolmente che non da Liberatore, a non parlare di Delfico. Ed anche nella conclusione pare di poter vedere una certa divergenza rispetto a quel “tempio dell’alleanza tra la filosofia e la storia del diritto” che Mancini avrebbe plasticamente scorto nella mente di Pasquale Liberatore45 allorché Nicolini si risolve ad espli_______________ 43 - Anche qui si ha la sensazione che Nicolini non intenda conferire il dovuto rilievo ad un risultato capitalissimo come questo. 44 - Mezzo secolo più tardi, nell’ultimo suo scritto, che esamineremo tra breve, il vecchio Nicolini avrebbe rinnegato anche quest’altra caratteristica affermazione delle lumières. 45 - P.S. MANCINI, Della vita e delle opere di Pasquale Liberatore, Napoli, 1842 (è una lettura tenuta alla “Pontaniana” l’11 settembre, a pochi giorni dalla scomparsa del vecchio maestro lancianese, avvenuta a Gragnano il 21 agosto: Mancini, prima di riassumere e valutare il Saggio, come vedremo più avanti, e di esporre ottimamente 277 citare la densità vichiana del concetto di storia legale in termini forse leggermente deludenti: Filologia e giurisprudenza sono i due motori che svolgono a poco a poco e rendono popolari le massime della filosofia civile, dal che i mezzi e l’opportunità al legislatore di ricondurre tutta la sparsa legislazione a’ principi suoi in un codice non altro, insomma, quest’ultimo, se non una sorta, essenzialmente, di razionalizzazione restauratrice, nella continuità di filosofia civile. Nel novembre 1809, intanto, mentre il procuratore generale Nicolini, proprio in vista di una tale razionalizzazione, metteva a stampa e diffondeva una Circolare agli ofiziali della polizia giudiziaria della provincia di Terra di Lavoro, ed all’indomani del ritorno di De Thomasis in Abruzzo in qualità di ripartitore demaniale (vi torneremo tra breve) il portafoglio della Giustizia veniva assunto, dopo Cianciulli e la breve permanenza di Zurlo, da Francesco Ricciardi, la cui grandeggiante personalità si stagliava subito come protagonista, tra l’altro con la circolare sulla sorte dei detenuti e la riforma penitenziaria, emanata a pochi giorni dall’incarico ministeriale, il 22 novembre 1809, che poneva non a caso l’arbitrio al centro della propria riflessione e sarebbe stata citata e lodata come esemplare proprio da Nicolini46: Chiuse le prigioni a’ mandati illegali, e perseguitandosi con egual severità gli arresti arbitrari, scomparirà per sempre questo abuso distruttore d’ogni sicurezza individuale, la quale costituisce un oggetto così essenziale del vostro ministro come lo è la persecuzione de’ delinquenti. Questo dell’arbitrio e dell’illegalità in genere, ampia a coinvolgere eventualmente i possibili risvolti deteriori della giurisdizione militare, sarebbe stato, com’è noto, terreno di asperrimi e caratteristici scontri tra Ricciardi e Zurlo ministro dell’Interno, sia che nel maggio 1811 il gran giudice si pronunciasse per l’amnistia e contro le esorbitanze di Manhés I preti, i canonici, i parroci, sono costretti a marciare armati. Questo spettacolo contrario alle leggi ecclesiastiche scandalizza il popolo; bisogna rispettare anche i pregiudizi, quando sono generali, non si deve urtare l’opinione47 _______________ i presupposti ed i risultati del quindicennio d’insegnamento privato 1821-1837 del Liberatore, aveva esattamente ritenuto che egli nei Pensieri ragionasse “de’ bisogni dell’agricoltura, delle arti e del commercio non, come purtroppo si suole anche oggi, intermini vaghi e generali, ma in modo concreto e positivo”). Sull’argomento si veda ultimamente G. OLDRINI, La missione filosofica del diritto nella Napoli del giovane Mancini in PASQUALE Stanislao Mancini: l’uomo, lo studioso, il politico, introduzione di Giovanni Spadolini, Napoli, 1991, p. 402. 46 - N. NICOLINI, Instruzione.per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace, Napoli, 1812, pp. 229-231 (vi torneremo più avanti). 47 - Su questo aspetto constateremo il diverso avviso di Nicolini, anche se non indirizzato specificamente contro Ricciardi. 278 sia che nell’aprile 1814 si elevasse a massime generali dal particolare dibattito circa l’adozione di misure straordinarie in Abruzzo: L’arbitrio è il principale difetto di un governo... Lo spirito pubblico non si dirige né con fogli pubblici né con scritti incendiari. Sono queste anni che hanno perduto la loro forza. Nel regno le popolazioni sono divise, altre sono nemiche, talune inclinate al male, la maggior parte indifferenti. Contro le inclinate al male si debba procedere con molto rigore ma nelle forme legali... Da tutta la classe dei proprietari del regno si desidera l’adempimento delle promesse, molte volte reiterate, di presentarsi la costituzione48. Ma forse di maggior interesse, nel nostro ambito attualmente circoscritto, è la valutazione che di Francesco Ricciardi e della sua opera fornì il gruppo abbastanza omogeneo, ed a lui di massima profondamente affine, di cui ci stiamo occupando, sia nella dialettica quotidiana e, per così dire, militante, dell’esercizio della magistratura, sia nella più riposata prospettiva e considerazione storica. Ci sia consentito peraltro a questo punto aprire una sorta di parentesi per seguire l’iter di Giuseppe De Thomasis, il cui ufficio di ripartitore demaniale lo poneva ovviamente in assai più stretto contatto con Mosbourg e con Zurlo anziché con Ricciardi, fino almeno all’aprile 1812 quando, avendo rifiutato la designazione ad intendente di Cosenza, anch’egli entrò, come consigliere di Cassazione, alle dipendenze del giurista foggiano, dove sarebbe restato fino all’ottobre 1813, allorché avrebbe assunto l’ufficio di procuratore generale della corte dei Conti. Fin dal luglio 1807, nei rapporti conclusivi su biblioteca e scuole di disegno a Sulmona prima della partenza per la Calabria, De Thomasis aveva insistito sulla priorità d’iniziative del genere distruggendo gli errori a furia d’istruzione e diradando l’ignoranza con la luce delle umane coscienze, Ora che tornava in Abruzzo, con sede regionale a Chieti, donde il 20 maggio 1810 emanava un primo proclama circa i criteri da seguire nella ripartizione dei beni feudali e demaniali, biblioteca e scuole di disegno erano state messe nel cassetto in favore della gran corte civile istituita a Lanciano ma soprattutto della repressione militare di Manhès, sicché l’aspetto sociale, di disoccupazione di massa, del problema post pastorale erompeva con tutta la sua forza. Non a caso il proclama di Chieti precedeva di pochi giorni l’impostazione del canale del Sagittario come corrispondente di quello di Corfinio sul versante opposto della conca peligna, mentre se ne progettava uno analogo per il medio Aterno, le cui acque venivano nel frattempo restituite all’uso comunitario, e si studiavano strade che dalle gole del Pescara a Popoli s’irradiassero in direzione dell’Adriatico e di Teramo. _______________ 48 - A. VALENTE, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, 1976 (edizioni precedenti 1941 e 1965), pp. 70-72 e 196-197. 279 Ma soprattutto con una lettera a Delfico 5 luglio 1810 ed un rapporto ministeriale dell’11 settembre successivo, seguito il 30 ottobre da un secondo proclama collegante intelligentemente il fiorire del brigantaggio con la ripartizione demaniale in corso, e minacciante perciò “come i veri nemici dell’umanità” coloro che dissuadessero e spaventassero i poveri perché non richiedessero la terra, De Thomasis, avendo l’occhio a vecchie abitudini migratorie dalle zone attualmente scottanti dell’insorgenza, proponeva il trasferimento degli abitanti della valle Castellana e della montagna di Roseto, sul versante teramano del Gran Sasso, nella zona del basso Chietino compresa fra il Sangro ed il Trigno. Si sarebbe trattato, nel pensiero del Nostro, di subordinare i turbolenti albanesi molisani ed abruzzesi, protagonisti del Novantanove e dei suoi strascichi “anarchici”, al comunitarismo ben più organico e disciplinabile dei pastori appenninici, ed intanto chiudere la pagina dell’insorgenza e dell’armentizia ad un tempo nella montagna teramana, che di entrambe era stata la roccaforte inesauribile sin da fine Cinquecento. Il progetto di De Thomasis non ebbe neanche un principio d’attuazione, mentre nel dicembre 1810 la sua proposta d’istituire un liceo a Sulmona si fondava sull’importante riflessione che nel resto degli Abruzzi l’educazione materiale e morale è tuttavia la pro-prietà dei preti, il che sotto molti rapporti è un male, ma nella provincia di Aquila è la proprietà di niuno, il che è assai peggio. Anziché la colonizzazione in grande stile, alla quale si era opposto specialmente il ministro Zurlo, fu adottato, tra il febbraio 1811 e l’aprile 1812, quando De Thomasis lasciava l’ufficio abruzzese dopo essersi a più riprese lamentato della mancata collaborazione di Teramo e del sabotaggio di Winspeare, tutte cose che andrebbero definite e chiarite, l’alquanto più modesto criterio di popolare i feudi rustici di Roccapizzi e Carcere sull’alto Sangro, a cui fu imposto il classicheggiante nome di Ateleta in quanto esenti da tributi. Si trattò di una realizzazione circoscritta ma quanto mai significativa perché, insieme con i canali peligni e con la strada considdetta Napoleonica sull’opposto versante dell’altopiano delle Cinque Miglia, rimane il solo grosso risultato tangibile di modificazione ambientale nel periodo murattiano in Abruzzo, e proprio ai margini o nel cuore del mondo pastorale, a ribadirne la centralità, quanto meno problematica, all’interno del tessuto regionale. Torniamo ora a Francesco Ricciardi ed anzitutto a quella sorta di bilancio del suo primo triennio ministeriale che viene tracciato da Nicola Nicolini49 interrompendosi significativamente a fine 1812, allorché, per ordine del gran giudice, egli scrive l’Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace di cui parleremo tra breve. Ricciardi, esordisce Nicolini con parole che vanno lette in controluce a quanto si è visto più sopra, si distingueva come avvocato _______________ 49 - N. NICOLINI, Le notizie sulla vita di Francesco Ricciardi in SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA, ms. XXX A 9 cc. 114-117 (subito prima la citata Memoria del Borrelli) sono anonime ma autografe di Nicolini, secondo quanto Fausto Nicolini persuasivamente afferma in Nicola Nicolini... cit., p. XLII. 280 pel sistema di trarre non già da’ forensi, le cui citazioni fissavano a’ suoi tempi la ragione di decidere le cause, ma dall’intima filosofia e dal diritto pubblico le sue difese. La vichiana storia legale sembra pertanto qui assumere una densità ed un ritmo più propriamente storicistici rispetto alla giurisprudenza un po’ formalistica ed esteriore delle precedenti formulazioni nicoliniane. Comunque ciò sia, ecco Francesco Ricciardi subito nel 1806 segretario di Stato nel consiglio di Stato con diritto di voto e nel novembre 1809 ministro della Giustizia in uno stato di cose troppo evidentemente egemonizzato da Cristoforo Saliceti al dicastero della Polizia (dove, non si dimentichi, era Borrelli, un chiaroscuro che andrebbe seguito con cura) donde l’esigenza di eliminare codesta egemonia, di rivendicare l’indipendenza dei magistrati, di proibire a Saliceti di corrispondere con essi se non tramite il Guardasigilli. Nicolini si era trovato al centro di queste radicali novità, perché Ricciardi non aveva tardato, nell’agosto 18 10, a chiamarlo da Capua alla presidenza della gran corte criminale A Napoli, e ad insediarlo nel novembre successivo, accanto a Poerio, Winspeare, Saponara e Amodio Ricciardi, nella commissione incaricata di tradurre ed adattare i codici francesi, che avrebbe concluso i suoi lavori tre mesi più tardi. Nel frattempo, ricorda Nicolini, lavorava in un’altra commissione, quella del consiglio di Stato per lo scrutinio dei magistrati e la valutazione dei meriti che avevano fatto concedere la toga, un compito delicatissimo, che era stato espletato nell’aprile 1811 con la messa a ritiro, ad un terzo del soldo, di una buona trentina di magistrati, per i quali tra stata accertata non più che una vera o presunta persecuzione antigiacobina. Sappiamo quanto placidamente e contemplativamente Nicolini avesse attraversato le burrasche del Novantanove ed i loro riflessi napoletani e provinciali50. Ma è molto significativo che trent’anni più tardi anche Pasquale Borrelli, nel suo Discorso pronunziato presso al feretro del conte di Camaldoli Francesco Ricciardi presidente interino della Società Reale Borbonica51 si soffermasse in particolare sull’epurazione della magistratura, e sulle sue conseguenze, come uno dei risultati più consistenti e durevoli del governo di Ricciardi: Non la sua ambizione, ma la riputazion del suo merito lo indicò agli stranieri che nel 1806 occuparono il regno. Dopo il volger di pochi anni ei fu collocato nell’apice dell’amministrazione della giustizia: e parve allora che si assidesse nel natural suo posto 52... Una magistratura sapiente, _______________ 50 - Nicolini era tornato a Napoli nel novembre 1801 e, almeno in pubblico, aveva abbandonato una volta per sempre la cetra del poeta in pro della toga dell’avvocato. 51 - Apparso primamente sull’OMNIBUS, Napoli, 22 dicembre 1842, fu raccolto subito dopo in opuscolo dal Porcelli, e va letto istruttivamente, s’intende, col discorso pronunziato tre mesi prima da Mancini in morte di Pasquale Liberatore, in una dialettica interpretativa che fa riflettere. Ricciardi, com’è noto, era morto il 17 dicembre. 52 - Questo era diventato per la verità una specie di luogo comune a proposito di Francesco Ricciardi. Tessendo infatti un Elogio del conte Giuseppe Zurlo, Napoli, 1832 (il discorso era stato pronunziato il 17 gennaio nell’Accademia delle Scienze presieduta da Ricciardi, e co mmemorava con sintomatico ritardo Zurlo, morto nel novembre 1828) Gaspare Capone aveva retto il portafoglio della Giustizia “che poscia passò a chi per lungo tempo il resse in modo da non lasciare ad alcuno di saper immaginare il meglio”. 281 incorrotta, operosa, circondò questo capo: e benché di fresco educata nelle nuove leggi civili, potè sostenere il confronto con le più illuminate d’Europa53. All’interno di questa magistratura, nell’aprile 1812, mentre si deliberava di far entrare in vigore col 1° ottobre successivo il nuovo codice penale, Nicola Nicolini assumeva l’ufficio di avvocato generale della Cassazione, avendo a colleghi Winspeare e Filippo Cianciulli, Poerio come procuratore generale, e Giuseppe De Thomasis sedendogli dirimpetto, quale consigliere, nella magistratura giudicante. Fa che l’util di ognun forte io ritiri Verso i principi e l’unità del dritto invocava il Nostro della Giustizia personificata54 nell’atto d’insediarsi, il 2 giugno 1812, con un discorso 55 che Raffaele Feola giudica “bellissimo” in quanto conferma che i limiti imposti alla Cassazione dovevano essere un baluardo contro il mai sopito potere dei magistrati56 ma probabilmente va letto in ambito più vasto, come caposaldo cospicuo di quella filosofia della continuità che abbiamo visto caratteristica di Nicolini, e che sostanzia il suo concetto di storia legale. Il tema preso a trattare dal Nostro, infatti, ci informa Fausto Nicolini57 è significativamente La Corte Suprema di Giustizia nelle sue relazioni con le antiche istituzioni del regno, e l’esordio non ne potrebbe essere più pugnace nel ravvisare non più che “miglioramento e continuazione” nella nuova rispetto all’antica legislazione, entrambe rinvenendo il proprio fondamento comune nel diritto romano ancorché alterato, sicché l’una poteva dirsi dall’altra “non solo preconizzata ma quasi germogliata” attraverso un processo a sua volta definibile “non pur analisi ma filiazione”. E Nicolini prosegue, con un linguaggio tutt’altro che equivoco: Noi, prima delle leggi nuove, non eravamo certo senza legge né giurisprudenza... Sì mancava, è vero, come mancava a tutta l’Europa, un corpo _______________ 53 - La conclusione del discorso (di cui ci si tiene a notare che era stato pronunziato dinanzi ad un’adunanza “delle più solenni che abbiano mai avuto luogo”, e cioè la Società Reale a classi riunite ed una folla d’invitati e d’intervenuti) è anch’essa assai deludente, nel topos del grand’uomo fine a sé stesso: “Fu in certa guisa il confluente delle celebrità viaggiatrici. Così niuna ve n’ebbe alla quale non paresse di aver poco veduto in questo nostro paese, se non avesse veduto il conte di Camaldoli” (le citazioni alle pp. 4 e 6). 54 - N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit., p. 33. 55 - N. NICOLINI, Discorso dell’avvocato generale Nicola Nicolini pronunziato all’udienza della Corte di Cassazione nel dì 2 giugno 1812 ristampato con note relative alla giurisprudenza e alle leggi posteriori, Napoli, 1835 (le citazioni del testo sono alle pp. 6-9, 14-15, 19, 21, 28, 42). 56 - R. FEOLA, Dall’illuminismo ... cit., p. 283. 57 - F. NICOLINI, Nicola Nicolini ... cit., p. XLVI con ampie citazioni. 282 intero e concorde di leggi58... Non vi ha dubbio però che in ogni materia luminosi erano i nostri principi... Tutto qui menava alla unità e perfezione de’ principi legali, ed alla fusione di tante e sì diverse leggi in un codice solo. Uno dei consueti excursus storici giova a confermare un’affermazione impegnativa come questa ed il mito che le è irresistibilmente alle spalle, quello dell’indipendenza napoletana, dal momento che l’età vicereale, nella più classica delle presentazioni possibili, fu l’epoca che spopolò, impoverì e rendette nidi di malfattori e di briganti le provincie del regno... Se qualche vicerè ha sentito mai alcun stimolo di gloria, niun d’essi al certo fu accessibile a’ sentimenti di vera giustizia e di amor nazionale. E riprende la rivendicazione della continuità, avendo Roma e Vico quali strutture portanti: La pubblicità della discussione, intesa a ridestar ne’ giudici il pudore della giustizia, veniva appo noi portata quasi all’eccesso 59... Le leggi propriamente dette civili, se per la maggior parte ci son venute di Francia, ritengono in ogni articolo la fisonomia ed i principi della romana origine e della italica sapienza: le leggi penali e di procedura penale meno dalle francesi che dalle romane o dalle nostre patrie leggi dipendono? La conclusione formale, dice bene Feola, è l’ammonimento alla Cassazione “corpo conservatore delle leggi” a non esorbitare dalle proprie ben precise funzioni: Voi dichiarate nulli e rescindete tutti gli atti che travalicano il segno. Ma la conclusione sostanziale, storica, che vorrebb’essere storicista, ed è senza dubbio squisitamente politica ben al di là dell’opinabilità estrema della definizione, è tutt’altra, è quella che ravvisa nella Cassazione d’importazione francese né più né meno che _______________ 58 - Ancora una volta si ha l’invincibile sensazione che Nicolini pretenda di poter sottovalutare un risultato fondamentale come questo. 59 - Che vi potesse essere in merito un eccesso sarebbe parso probabilmente inconcepibile a Pasquale Liberatore. Si veda con quanta appassionata convinzione disserti Della pubblica discussione ne’ giudizi penali con Giuseppe Devincenzi in “FILOLOGIA ABRUZZESE”, Roma, settembre-dicembre 1836 pp. 15-21 allorché si parlava di farla rimanere soltanto per i misfatti capitali, suscettibili di condanna a morte o all’ergastolo: “Non è il riguardo alla pena che deve farci desiderare la pubblica discussione, ma il riguardo alla verità de’ giudizi; che difficilmente può trovarsi senza questo validissimo aiuto; e, tolta la verità suddetta, ogni pena, per minima che sia, è capitale, perché ingiusta, ogni giudice un carnefice, se non della vita almeno dell’onore e della libertà d’un condannato, ogni società odiosa, perché mancante al suo fine di assicurare la pubblica e privata tranquillità”. 283 l’immagine, anzi l’erede ex asse di quell’antichissimo Sacro Consiglio de’ di cui presidenti si formò poscia la camera reale60. L’unità più o meno machiavelliana del diritto “richiamato a’ suoi principi” è dunque essenzialmente l’unità infrangibile della tradizione giuridica napoletana e della storia legale sollevatasi attraverso la giurisprudenza a filosofia civile: questo è il punto d’arrivo sistematico di Nicola Nicolini dinanzi a Francesco Ricciardi, per ordine del quale compila in quell’estate 1812 la Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace sicché, lo afferma a tutte lettere nella dedica datata 12 settembre al gran giudice il mio lavoro è più un repertorio di disposizioni ministeriali che un’opera mia. Essa dovrà dunque leggersi in filigrana, in contrappunto, fra Ricciardi e Nicolini, con in testa una sentenza di Filangieri che per la verità si sarebbe potuta applicare solo con grandissimo stento a quella tradizione di Castel Capuano della quale il giurista di Tollo andava tanto orgoglioso: La parte della legislazione destinata a regolare la procedura criminale dev’essere e la più semplice e la più chiara e la più inviolabilmente eseguita: altrimenti non vi è delitto, per manifesto che sia, che non possa rimanere impunito; e non v’è innocenza, per conosciuta che sia, che possa essere sicura della sua tranquillità e della sua pace61. Questo contrappunto si fonda, per quanto concerne Ricciardi, essenzialmente sulle sue dense e robuste circolari62 mentre Nicolini interviene con una serie di commenti e _______________ 60 - Si ricordi che ancora nel discorso Dell’ufficio più proprio della Corte Suprema: ritirare i giudizi verso i principi pronunziato il 7 gennaio 1835 (vedilo in N. NICOLINI, Discorsi di Nicola Nicolini pronunziati in adunanze solenni, Napoli, s.d., p. 7) il Nostro avrebbe ribadito la derivazione di quel consesso dal Sacro Consiglio, i cui membri “ricchi di propria luce, prima ancor degli aiuti della seconda giurisprudenza francese... si elevaron magnanimi a contemplar le occasioni, la ragione e la volontà vera della legge”. In questa medesima raccolta non si trascuri De’ resti di sangue commessi per effetto di un pregiudizio con cui, il 27 novembre 1833, Nicolini fa respingere dalla Corte Suprema il ricorso per un omicidio per fattura verificatosi a Barile in Basilicata, mostrando con ciò maggior rigore rispetto a quel che abbiamo letto più sopra in Ricciardi, ed anche nei confronti della bella sensibilità antropologica che egli stesso avrebbe mostrato nel brano che stiamo per leggere nel testo: “Gli errori della mente - afferma qui invece Nicolini non scusano mai un reato quando nascono da folli e risibili pregiudizi”. 61 - Filangieri, è appena il caso di dirlo, costituiva con Gravina e Vico un “illustre triumvirato” alla cui ombra Nicolini si poneva nell’atto di aprire la cattedra di diritto penale, il 1° dicembre 1831 (si veda il discorso nella raccolta testè citata p. 21). In uno dei suoi corsi, nel 1833, egli avrebbe trattato Della discussione pubblica nei giudizi penali, ritenendola, riassume A. DE MARTINO Antico regime... cit.,pp. 150 e 211, insieme con l’obbligo di motivare le sentenze sulla base delle leggi, “elementi fondamentali del nuovo tipo di processo penale”, a proposito del quale, a giudizio dello studioso (che avrebbe potuto forse tenere opportunamente presente l’opinione analoga, e che abbiamo visto ancor più rigida, di Pasquale Liberatore) il Nicolini e il Poerio “dalla loro disposizione favorevole alle riforme murattiane avevano tratto motivo di elogi troppo spesso eccessivi”. 62 - Si vedano ad esempio quella dei 22 novembre 1809 già citata, quella del 24 novembre integrata il 20 dicembre 1809 intorno alla gendarmeria ed ai suoi rapporti con l’autorità giudiziaria in Terra di Lavoro dove Nicolini, lo sappiamo, era ancora procuratore generale presso la gran corte criminale, la circolare 24 luglio 1811 284 di richiami che dimostra come e quanto l’esigenza di efficientismo e di razionalizzazione sia stata assimilata da lui Invano io mi ho aspettato finora quella uniformità, quella precisione, quella esattezza di procedura che, stabilita dalla legge per garantire il giudice da ogni funesta omissione, lo conduce passo a passo, e quasi per mano ma anche con una seria e fattiva distinzione tra il compito dello storico e quello dell’inquisitore, tenuto, quest’ultimo, ad una rigorosa applicazione della lettera della legge, senza doverne indagare pericolosamente lo spirito: Se non si vuol rischiare di sostituire all’opera della verità quella della fantasia, del sempre aversi presente che il processo è tanto più lodevole quanto è più fedele. L’Istruzione è peraltro soprattutto, forse, per l’antico avvocato che è Nicolini, e che le circostanze lo costringeranno di lì a pochi anni a tornare ad essere sino alla fine della sua lunghissima vita, compreso il prestigioso insegnamento universitario 63 una sorta di patto solenne stretto con i magistrati nel senso di ravvivare insieme, grazie alla giurisprudenza, ed alla razionalizzazione intervenuta, il vecchio tronco della legislazione, che rischiava di poter rimanere infecondo, fine a sé stesso, senza la profonda, radicale trasformazione della società che magistrati ed avvocati hanno insieme il compito di comprendere ed interpretare nelle sue più riposte articolazioni e strutture: È singolare come gli scrittori i più profondi si scaglino sempre contro l’ignoranza e la balordaggine de’ magistrati, mentre la sapienza di questi corrigeva riduceva al giusto la barbarie de’ legislatori... Fortunatamente i tempi son cangiati. Il sommo legislatore ha troncato dalla radice ogni male... Quale ufizio difficile e penoso è egli mai questo nostro? Fondato principalmente sulla profonda conoscenza del cuore umano, nulla di ciò che ci circonda è ad esso estraneo; il mondo fisico, il morale, il civile, tutto _______________ sulla facoltà di delegare, quelle 28 dicembre 1811 e 22 agosto 1812, alla vigilia della compilazione nicoliniana, ricche di direttive particolarmente interessanti, allorché Ricciardi reputa che i giudici di pace “nel più immediato contatto con le popolazioni possono avere molta influenza così nel male come nel bene delle famiglie” o li ammonisce con una tinta di moralismo non infrequente in lui (si veda anche la circolare 29 aprile 1812 sulle competenze): “Dai funzionari amministrativi voi dovete esigere più rettitudine che istruzione” (N. NICOLINI, Instruzione... cit., pp. 10-11, 33, 39, 43, 50). 63 - In quest’attività di avvocato troviamo spesso e vigorosamente ripresi i temi centrali della continuità che avevano contraddistinto l’opera dello studioso e quella del magistrato. Leggiamo ad esempio nelle allegazioni a stampa per le cause Fersini contro Macri e Villani, e De Nola contro Della Ratta-Bozzicorsi, discusse dinanzi alla Corte Suprema rispettivamente nel 1821 data dell’edizione presso De Bonis e p. 8 e 25 novembre 1823 p. 27: “Quando le leggi francesi si promulgaron fra noi, non cessammo d’esser napoletani. Niuna legge fondamentale di Francia fu nostra: il nostro diritto pubblico rimase l’istesso; e se qualche alterazione vi si produsse, esso fu tutto ripristinato nel 1815... La commissione feudale fu un tribunale nuovo, ma non tutti i suoi arresti furon pronunziati sull’appoggio delle leggi nuove”. 285 entra nella sua sfera; e finanché le usanze, i costumi, le particolari inclinazioni, il linguaggio de’ più negletti borghi e de’ mestieri più vili gli sono utili, anzi indispensabili. Chi non porta queste vedute nella investigazione de’ fatti morali, sarà sempre scrivano e non giudice64. Francesco Ricciardi intendeva ed apprezzava a dovere il concetto informatore che aveva presieduto alla fatica di Nicolini65 e gliene dava atto il 24 febbraio 1813 mostrando di aderire soprattutto al criterio organicistico che gli era alle spalle: Tutto è a suo luogo, tutto è giudiziosamente adoperato, specialmente l’erudizioni di cui l’opera è ricolma, e che, lungi dal turbare l’ordine delle idee, spargono anzi del lume così sull’antico come sul rito attuale, e su quel che avrà luogo dopo la pubblicazione del nuovo codice d’istruzione criminale, e mostrano il nesso che tutt’e tre han fra loro. Perciò il gran giudice ne disponeva l’invio d’ufficio ai procuratori dei tribunali di prima istanza66, il duca di Campochiaro ministro di polizia generale lo imitava il 17 marzo per gli intendenti lo stesso Zurlo ministro dell’Interno diramava l’8 maggio una circolare per farla acquistare dai sindaci, mentre ancora nel 1815 Donato Tommasi avrebbe giudicato in via ufficiale lo scritto del Nicolini pieno d’idee utili e giuste relative alla vecchia ed all’attuale legislazione... adatto ad agevolare il passaggio alla nuova legislazione che S.M. è intesa a pubblicare67. A quella data, peraltro, molte cose erano cambiate, e non soltanto nella chiave meramente politica della restaurazione borbonica. Il 13 febbraio 1814, mentre Petroni si accingeva a realizzare il disegno di De Thomasis per la suddivisione amministrativa di Calabria Ultra e Liberatore stava per scambiare la procura generale alla gran corte criminale dell’Aquila tenuta per sei anni, con quella di Napoli, dove già era stato presidente il più giovane Nicolini, Giuseppe De Thomasis, da soli quattro mesi, come sappiamo, procuratore generale alla corte dei Conti, veniva nominato da re Gioacchino commissario governativo per Benevento, dove avrebbe trovato quale segretario Pasquale Borrelli, anche lui, l’abbiamo visto, consigliere alla gran corte civile di Napoli dal 1812, e che due anni prima, su consiglio di Melchiorre Delfico 68 aveva pubblicato nella “Biblioteca analitica di scienze e belle arti” e poi in _______________ 64 - N. NICOLINI, Istruzione... cit., pp. 31, 82, 114, 213. 65 - Essa veniva completata con un terzo volume di formulari (in appendice i brani e le notizie del testo) e con un Supplimento che nel 1818 raccoglieva tutto il corso della posteriore legislazione sui giudici di pace per i tipi di Giovanni De Bonis. 66 - Nelle Notizie… cit., Nicolini sottolinea la predilezione di Ricciardi per la corrispondenza con i rappresentanti del pubblico ministero, incaricati della vigilanza universale sulla pubblica amministrazione, e la sua estrema severità in proposito. 67 - R. FEOLA, Dall’illuminismo… cit., p. 277. 68 - Lo afferma F. FIORENTINO, Pasquale Borrelli in G. GENTILE, Ritratti storici e saggi critici raccolti da 286 opuscolo presso Nobile un trattatello Su la imitabilità de’ poemi di Ossian che qui non abbiamo motivo di esaminare, benché l’estrosità eccezionale dell’autore vi si confermi in chiave preromantica, risolvendosi il quesito in senso negativo senza l’intervento della spontaneità e della passione. De Thomasis, com’è noto, si sarebbe trattenuto a Benevento quindici mesi, fino al 21 maggio 1815, prima di riprendere il suo ufficio alla corte dei Conti69 un periodo breve, ma non tanto da non consentirgli di stendere un quadro della situazione ed un rapporto analogo, andati, come tutto il resto della documentazione che lo concerne, deplorevolmente dispersi, dopo l’arduo braccio di ferro che l’aveva opposto ad un avversario degno di lui, Louis de Beer, commissario di Talleyrand nel principato di Benevento. Nel frattempo, il 21 maggio 1814, il ministro Ricciardi aveva insediato la commissione per la revisione generale dei codici presieduta da Poerio, e della quale faceva parte Nicolini, ma evidentemente sollecitava in privato anche altre collaborazioni, se è vero che il 20 dicembre Pasquale Liberatore avrebbe dedicato a lui, per i tipi di Agnello Nobile, il meritatamente famoso Saggio sulla giurisprudenza penale del regno di Napoli. Parecchi anni più tardi, ridotto all’esercizio dell’avvocatura e dell’ insegnamento privato dal “ripurgo” della primavera 1821, e dissertando, nel 1828, per Tramater, Sulle istituzioni giudiziarie del regno delle Due Sicilie cenno storico70 Liberatore avrebbe ricordato queste vicende, partendo dall’adozione del codice penale francese, dopo le interminabili incertezze protrattesi dal febbraio 1811 all’ottobre 1812, con picciole variazioni che onorano la commissione incaricata del suo esame; e non v’ha dubbio che questo nuovo codice riempì innumerevoli vuoti, rifuse molti articoli, rese più complete le definizioni, classificò meglio i delitti, accrebbe e proporzionò il numero delle pene, diè più campo al magistrato, e presentò alla società una sicurezza maggiore. Ma... _______________ Giovanni Gentile, Firenze, 1935, pp. 280-287 e già in “GIORNALE NAPOLETANO DELLA DOMENICA”, Napoli, I, 10, 5 marzo 1882 e in Commemorazioni di giureconsulti napoletani: biografie. Napoli, 1882, pp. 1-17 nel centenario della nascita ed in occasione dello scoprimento del busto a Castel Capuano. Tutto il problema rilevantissimo dei rapporti di Borrelli con Delfico rientra nell’ambito dei suoi preminenti interessi filosofici, che in questa sede non ci interessano, e per una puntualizzazione bibliografica dei quali si veda G. OLDRINI, L’Ottocento filosof ico napoletano nella letteratura dell’ultimo decennio, Napoli, 1986, p. 51 n. (il Delfico, si ricordi, avrebbe fatto nominare, sempre secondo Fiorentino, il ventiquattrenne Borrelli, fin qui noto esclusivamente come medico, segretario della commissione feudale, donde un altro viluppo di problemi che andrebbe districato e chiarito). 69 - Sull’episodio rimane fondamentale A. ZAZO, L’occupazione napoletana e austriaca e i primordi della Restaurazione in Benevento (1814-1816), Napoli, 1958. 70 - L’opera è presentata come epitome da servire da appendice a Jonas Daniel MEYER, Esprit, origine el progrès des istitutions judiciairés desprincipaux pays de l’Europe che, edito ad Amsterdam-L’Aja tra il 1819 e il 1823, Liberatore presentava tradotto al pubblico colto napoletano, nell’ambito di un imponente lavoro critico di legislazione comparata, la cui valutazione lasciamo agli specialisti, e che costituisce il maggior titolo di benemerenza culturale del Nostro, dalle osservazioni a Le leggi della procedura civile di Guillaume Louis Justin CARRÉ, cominciate a pubblicare tradotte nel 1825 e completate nel 1831, a Claude Etienne DELVINCOURT, Corso di codice civile (1828-1832), a Jean-Baptiste SIREY, Codice di istruzione criminale annotato aggiuntovi il confronto del diritto romano e delle leggi di procedura penale delle Due Sicilie (1829), a Jean DOMAT, Le leggi civili nel loro ordine naturale (1839) fino al Corso di diritto civile secondo il codice francese di Alexandre DURANTON, che, cominciato ad uscire nel 1841, sarebbe stato ultimato nel 1845, dopo la morte di Liberatore. Le citazioni sono tratte dalle pp. 71-72. 287 questo codice tanto encomiato in Francia non soddisfece in questa meri-dionale Italia al voto dell’universale. La patria di Briganti, di Pagano, di Filangieri, attendeva qualche cosa di meglio. L’analogia letterale nell’espressione non deve far trascurare il ben diverso spirito con cui Liberatore si riferisce alle novità francesi rispetto a Nicolini. Comunque, nominata la commissione di revisione e dedicato il Saggio a Ricciardi, furono il successore di costui Tommasi ed il nuovo consesso borbonico nominato il 2 agosto 1815, su una linea che faceva capo ampiamente a De Thomasis71, a quasi tutte adottare e proporre le deboli mie osservazioni secondo quanto Liberatore constata con legittimo compiacimento, fino alla legge organica 29 maggio 1817 da lui incondizionatamente elogiata per i suoi tre caposaldi fondamentali (il potere giudiziario subordinato esclusivamente alla sua propria gerarchia, medesimezza di condizione identificata con quella di giurisprudenza, nessuna privazione di diritto se non per sentenza passata in giudicato) e forse non a caso di poco precedente l’assunzione da parte sua, il 12 luglio 1817, della presidenza della gran corte criminale di Napoli, di cui per tre anni era stato procuratore generale. Quali erano state, a fine 1814, le “deboli osservazioni” di Pasquale Liberatore? Mancini le riassume con brillante efficacia, lodando a buon diritto nel Saggio filosofia di principi, originalità di pensieri, aggiustatezza di ordine, ed anche vivacità di stile e segnalandone le denunzie emergenti, l’equiparazione fra il tentativo e il delitto consumato, il ricorso frequente alla pena di morte ed alle anacronistiche pene infamanti dei marchio e della gogna, la sproporzione nei gradi della complicità, il silenzio sul pentimento, sull’ubriachezza, sull’omicidio in rissa, l’assenza di criterio quanto alla gravità delle ferite, l’ambigua impunità per il furto tra consaguinei, l’esclusione delle attenuanti nell’infanticidio per onore o nell’uccisione della figlia sorpresa dal padre “in turpe flagranza”, ed ancora le considerazioni sul giurì, sulla grazia, e così via, che rendevano il Saggio, dopo trent’anni, tuttora attualissimo72. _______________ 71 - R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit., p. 217 ricorda che, avendo De Thomasis, tornato alla corte dei Conti, fornito un parere radicalmente contrario a qualsiasi modifica legislativa in materia feudale, Donato Tommasi avrebbe affidato a lui, il 27 gennaio 1816, le attribuzioni già di Winspeare procuratore generale della commissione feudale. 72 – “Reso l’ultimo supplizio più frequente - scrive Liberatore - togliesi quel salutare ribrezzo che sempre si estenua colla reiterazione degli atti”: ed aggiunge, con fine penetrazione politica: “Quante volte l’evento ha fatto comparir eroe un traditore, e viceversa?”. Quanto invece all’ubriachezza, che la legislazione inglese esclude come attenuante nella sua ipocrita austerità (è un’osservazione di Bentham, che Liberatore fa propria, al pari di quella sua e di Beccaria circa l’infanticidio per onore, o di quella del non nominato Galanti quanto allo stupro, nel quale “la mancanza dei consenso non indica sempre l’uso della forza”) c’è da notare che Nicolini non è dell’opinione di Liberatore, e fa confermare una condanna per omicidio volontario, mentre invece è del tutto con lui circa i gradi della complicità e il tentativo, che vanno accuratamente differenziati, tanto che Nicolini avrebbe dedicato a que- 288 Vale la pena s’intende, soffermarsi anzitutto su questi rigorismi di costume, che inducono Liberatore a sollecitare l’aggravante (e l’avrebbe ottenuta) per i furti commessi in chiesa o in tribunale, e ad appellarsi concitatamente a Filangieri contro la non punibilità del ratto consensuale della maggiore di sedici anni: Questo distrugge l’idea della pubblica morale, il riguardo all’ordine della famiglia, il rispetto alla patria potestà. Un tale rigorismo a fondo sacrale e sessuale trova la sua origine, oltre che in profondissime stratificazioni della mentalità collettiva, ancora una volta nello “spirito di perfezione” di Filangieri e di Palmieri che, in via generale (e lo si era visto all’Aquila!) il Nostro fa incondizionatamente proprio: La legge sotto l’austera sua forma non attende che l’obbedienza, già per sé stessa spiacevole, né sa spogliarsi della sua inflessibilità per parlare agli uomini il linguaggio del buon padre di famiglia a’ suoi figli. Lo scrittore che vi supplisce teme sempre di violarne la santità o scemare il rispetto che le è dovuto, e dubita che i suoi sforzi innocenti non si uniscano alle grida ingiuste o sediziose de’ malvagi che aspirano a romperne il freno. E tuttavia proprio dall’austerità inflessibile della legge, che non ammette “l’abuso della filosofia impiegata in difesa dell’umanità”, che rifiuta, con Bentham, di preferire la libertà del colpevole alla condanna dell’innocente, che severamente denunzia, l’abbiamo visto in Nicolini, il pericolo cui si esporrebbe il cittadino se si accordasse al giudice la facoltà d’interpretare la legge penale, specialmente se col pretesto d’indagarne lo spirito si opponesse questo all’espressione letterale proprio da quell’austerità scaturiscono da un lato la dialettica della clemenza, e perciò della grazia, come unico mezzo che, al di là dell’onore invocato da Montesquieu, consente all’Inghilterra, e soprattutto alla giovane società nordamericana, di avviare “la riforma dei malfattori”, secondo le vedute, sociali meglio che filantropiche, di Francesco Ricciardi, dall’altro la denunzia implacabile dell’arbitrio, che avvicina ancora una volta Liberatore al gran giudice, e non gli permette di aderire senz’altro alla prospettiva di continuità così cara a Nicolini, e preminente, lo vedremo ancora, nelle sue vaste ricostruzioni. Liberatore confessa di limitarsi a riassumere ciò che con “somma robustezza” aveva scritto intorno al processo criminale Mario Pagano: ma ciò non toglie che la presentazione del mondo giuridico napoletano anteriore al 1806 sia in lui assai più scura che non nel giurista di Tollo: _______________ st’ultimo un’apposita trattazione (si vedano N. NICOLINI, Discorsi... cit., rispettivamente le cause 9 marzo 1835 e 8 marzo 1837). 289 Furon questi i grandi difetti dell’antica nostra legislazione criminale, mancanza di proporzione, mancanza di precisione. L’una e l’altra produssero l’arbitrio, e, tolto per conseguenza il pregio maggiore della legge, sconvolsero le idee della maggiore della legge, sconvolsero le idee della giustizia... Tutte le pene furono straordinarie, niuna legge potea citarsi perché non era essa ma il magistrato che dettava la pena: si sostennero tutti gli errori, tutti i paradossi... Oltre al favorir l’impunità de’ colpevoli, (la procedura) metteva spesso in pericolo la libertà e la vita degl’innocenti... essendo posta l’impunità del reo e l’oppressione dell’imputato nelle mani dell’inquisitore donde l’indicibile “gioia del regno” al ritorno al processo accusatorio pubblico, che si staglia nella commossa pagina di Pasquale Liberatore come un’autentica liberazione, una Bastiglia napoletana che aveva finalmente fatto crollare vetuste tirannidi73. Altre tirannidi ed altri imperi, è ben noto, si dileguavano in quel tramonto del 1814 e schiudersi dell’anno successivo, così fatale all’Europa ed a Napoli: ed è interessante osservare come i nostri protagonisti sintetizzassero e valutassero quest’esperienza a più o meno grande distanza di tempo, allorché la prospettiva cominciava a potersi strutturare come autenticamente storica, a cominciare ancora da Liberatore nel 183774: Quel terribile uragano che sconvolse tutta Europa quando il grande de’ troni crollò si fè sentir anche tra noi, e ci rese, meno per conquista che per lacrimevole abbandono (sic!) soggetti ad altra dinastia: ed ogni speranza di commercio svanì per i decreti di Milano e di Berlino che, dettati dal dispotismo e dall’ingiustizia, non ammisero potenze neutrali in tempo di guerra, ed attentarono al diritto pubblico universale; il che produsse l’ultima coalizione, e la caduta del despota ambizioso, che non cessò neppure allora di esser grande. _______________ 73 - Ho citato e riassunto da P. LIBERATORE, Saggio... cit., pp. 15-22 passim, 26, 34, 56, 76, 90-92, 114, 134, 142,149,153,244-245 e 258. Si ricordi, sempre nello spirito rigoroso di legalità che accomunava così congenialmente Liberatore e Francesco Ricciardi, che a p. 217, pur ammettendo una procedura speciale solo a danno dei briganti e dei malfattori recidivi, il Nostro (che compie in merito un originale excursus storico, distinguendo correttamente il fuoruscitismo ed il banditismo della tradizione dal moderno termine criminalizzante francese) osserva che soltanto da pochi mesi, tra il maggio ed il luglio 1814, sono stati definiti briganti “coloro che scorrono armati in campagna ad oggetto di rovesciare il governo”, ed allora occorre specificare ulteriormente che si tratta di assassini preparati mediante attruppamenti armati, che vanno giudicati da corti speciali, sempre peraltro i magistrati in maggioranza sui militari. 74 - Della polizia commerciale p. 12 quarta parte delle Istituzioni della legislazione amministrativa vigente nel regno delle Due Sicilie, Napoli, 1837 preceduta in organica connessione dai Prolegemoni della amministrazione pubblica considerata nei suoi principi e nella loro applicazione, Napoli, 1836, nei quali, alle pp. 133-181, Liberatore aveva pubblicato la prolusione letta alla “Pontaniana” nello stesso anno Della economia politica base fondamentale della pubblica amministrazione e de’suoi più celebri scrittori, fra i quali principalissimo Romagnosi, di cui erano stati riproposti i Principi fondamentali del diritto amministrativo con l’applicazione da parte di De Gerando (fin dal 1832, all’indomani dell’autorizzazione ufficiale, un’ennesima novità di Ferdinando II, a tener scuola privata, che il Nostro aveva tenuto in pratica già lungo il decennio precedente, Liberatore aveva precisato che tutta l’Italia attendeva da Romagnosi la formulazione scientifica del diritto amministrativo cfr. P. LIBERATORE, Introduzione allo studio... cit., p. 28). 290 Liberatore resta dunque fermo al giudizio d’inadeguatezza politica per un riformismo borbonico ormai esaurito e, se scorge e denunzia i pericoli dell’egemonia napoleonica, non ne sottovaluta i risultati radicalmente innovativi, che solo fino ad un certo punto si sono riusciti ad integrare e perfezionare con la restaurazione75. Tutt’altro è il panorama che l’ottantaquatrenne Nicolini, dal 1854 primo presidente della Corte Suprema, traccia meno di tre mesi prima della morte, il 12 dicembre 1856, parlando dinanzi alla classe di scienze morali dell’Accademia delle Scienze nella Società Reale Borbonica Della vita del marchese Giovanni d’Andrea. L’insania e le infernali bestemmie della rivoluzione francese, coalizzate contro la metafisica e la teologia, sono infatti quelli che hanno sorpreso e commosso il ventenne Nicolini e il di poco più giovane discendente di Francesco d’Andrea all’interno del cenacolo del marchese Palmieri, in testa, più frenetica ancora, l’Italia dei Nord, la quale corrotta anch’essa, e insieme corruttrice... insorse contro la patria gloria e la sapienza italica antichissima... e sconobbe la stessa lingua del Lazio 76. A questo punto, peraltro, Nicolini introduce una presentazione singolarmente vichiana, e solo formalmente ed esteriormente manzoniana, di Napoleone, che gli giova a strutturare ancora una volta una continuità storicistica il cui banco di prova è costituito dall’empietà fine a sé stessa, dall’irreligione, dalla “pagana licenza del divorzio” alla quale d’Andrea non si era voluto sottomettere, rinunziando dopo appena due mesi, nel gennaio 1809, all’ufficio di giudice della gran corte civile di Napoli77 e cioè da un postulato morale, e magari da un pregiudizio moralistico che, lo vedremo, aveva sommerso anche Liberatore nei suoi ultimi anni, e dinanzi al quale il discorso giuridico, è più latamente politico, chiaramente si arresta: Intanto volgeva al suo termine, affrettando il moto vorticoso della breve sua ruota, la trista genia... Ella, caduta dall’intera giustizia, facea tutto il diverso da essa, e con più furore anche il contrario, per servire a’ bisogni variabili, dettati, come a’ bruti, da’ sensi esterni corporei: indi intempera_______________ 75 - Un bilancio in proposito è quello che Liberatore traccia nel trattato Degli ufiziali di polizia giudiziaria nella istruzione delle pruove ne’ processi penali, Napoli, 1826, che prende espressamente a modello l’analoga compilazione sui giudici di pace del “nostro ottimo amico, co mprovinciale e collega” Nicola Nicolini già avvocato generale presso la Corte Suprema (il “ripurgo” del 1821 non lo aveva risparmiato, nonostante che egli avesse fatto di tutto per sottrarsi alla “aura popolare” cfr. il sonetto 22 agosto 1820 in N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit., p. 34). Liberatore si compiace che la legge 22 settembre 1817 abbia fissato attribuzioni e limiti della polizia giudiziaria e amministrativa, cosa “assai difficile di stabilire per tutto il tempo dell’occupazione militare” ed enumera con altrettanta soddisfazione i buoni esiti legislativi suggeriti dal Saggio, ma deplora di non aver ottenuto il risultato fondamentale, che cioé “tutte le materie penali si fossero riunite in un solo codice, anche perché il cittadino sapesse quale sia l’azione vietata, e come punibile” (cfr. P. LIBERATORE, Degli ufiziali... cit.). 76 - Abbiamo già segnalato questa significativa involuzione del Nicolini, a cui qui è da aggiungere l’evidente strumentalizzazione di Vico, che si accentua e trionfa nel successivo brano citato nel testo. 77 - È appena il caso di ricordare che proprio per aver sposato una donna divorziata, caso unico e clamoroso nel regno di Napoli, Pasquale Borrelli era stato allontanato dalla medesima gran corte civile di Napoli nello stesso anno 1817 che vedeva Liberatore ascendere alla presidenza della gran corte criminale. Le successive turbinosissime vicende politiche di Borrelli, insieme con la sua parabola filosofica, non ci interessano in questa sede. 291 tissima, e di proprio peso in ruina, la sua forza scevra di consiglio. Ma Dio sempre provvidente, nell’Europa lacerata da guerre fraterne, suscitò un italo ingegno (sic!), che a passioni sì incomposte freno impose e silenzio, ed arbitrio in mezzo ad esse si assise. Costui i popoli dissociati costrinse a vivere con giustizia e celebrar la cognazione, che per la loro socievolezza nativa la Provvidenza Divina costituì in prima tra gli uomini. Quindi il codice, che prese tosto il nome di lui, si arricchì dell’antichissima sapienza degl’itali giureconsulti. Senonché, forse contro il grido della propria coscienza (sic!) non sempre ei ne fecondò il principio massimo, con l’unità del culto esteriore verso Dio. Però che dove la cattolica religione esige che sia sancita in suo nome e renduta sacra da’ suoi ministri la indissolubilità del nodo coniugale, ivi per l’appunto ci discese a transazione con l’empietà non ancor doma...78. Non vi è dubbio, tuttavia, che il frutto più maturo e più organico della riflessione di pensiero del nostro gruppo sull’esperienza riformistica di governo che l’aveva visto protagonista sia rappresentato dall’Introduzione allo studio del diritto pubblico e privato del regno di Napoli di Giuseppe De Thomasis79 che, quantunque pubblicata postuma nel 183180 per i tipi della Pietà dei Turchini, circolava già da qualche anno manoscritta, o comunque era a sufficienza conosciuta nel suo contenuto, se è vero che Pasquale Liberatore aderisce già nel 1828 alla “dimostrazione rigorosa” dei dieci casi identificati da De Thomasis come quelli nei quali il giudice può contravvenire alla legge, donde l’intervento e la competenza della Corte Suprema, che il giurista di Montenerodomo circoscrive esattamente negli stessi termini precisati da Nicolini81 e che nel 1830 ancora Liberatore anticipa vivamente e diffusamente il concetto “dogmatico” della proprietà che, affermato da De Thomasis, sarebbe stato confutato con altrettanta vivacità, come vedremo, da Niccolò Tommaseo 82. _______________ 78 - P.S. MANCINI, Della vita... cit., pp. 18-19 e 25-26. 79 - Come per Borrelli, anche per De Thomasis ci asteniamo dal soffermarci sulle importantissime vicende politiche del nomimestre costituzionale e sul successivo e conseguente esilio toscano. 80 - De Thomasis era morto il 10 settembre 1830, subito dopo essere rientrato in contatto con la Corte a livello confidenziale di cui purtroppo ci manca la documentazione, ed a Raffaele Liberatore, il ben noto letterato figlio di Pasquale, era stato impedito di tenerne un pubblico necrologio. 81 - Nell’opuscolo Della Gran Corte di Cassazione ultimamente denominata Suprema Corte di Giustizia s.l., s.d. (ma post 1815) De Thomasis, senza nominare Nicolini, illustra le funzioni di rescissione, e non di riforma delle sentenze affidate a quel consesso, sull’interessante criterio secondo il quale (p. 5) “gli uomini per naturale istinto tendono ad ampliare i loro poteri, e spesso disfanno il fatto unicamente per voglia di rifarlo a loro modo... Le autorità superiori credono di buona fede che la maggioranza del grado dia sempre la superiorità del sapere”. Il brano di Liberatore su De Thomasis è in Sulle istituzioni giudiziarie ... cit, pp. 83-85. Si veda anche R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit., p. 281. 82 - “Il rispetto dovuto al diritto individuale di proprietà è uno di quei dogmi politici che l’uomo in qualunque posizione si trovi, non può non riconoscere facendo uso della sua propria ragione... Tutti i titoli del Codice civile non sono che un’esposizione delle regole relative all’esercizio del diritto di proprietà... Chi non sa... che l’assoluta eguaglianza è la chimera dell’età dell’oro non esistente che nella fantasia dei poeti?... L’ineguaglianza delle fortune va perfettamente d’accordo con l’ordine pubblico, e questa verità è così evidente che sarebbe superfluo lo svilupparla” (N TOMMASEO, Osservazioni per servir di comento alle leggi civili del regno delle Due Sicilie, Napoli, 1830, 292 Testimonianza critica autorevole di tale organica maturità dell’opera di De Thomasis è nella pagina di Benedetto Croce83 secondo la quale l’Introduzione ha singolar valore di documento, perché attesta la meraviglia e lo scon-certo onde furono presi coloro che, educati nell’intellettualismo settecentesco, avevano bramato e domandato con tanta insistenza l’unificazione delle molteplici antiche legislazioni, e la formazione dei codici, per far cessare l’incertezza nell’interpretazione delle leggi; e ora, avuti i codici, vedevano risorgere perplessità, incertezze e dissidi d’interpretazione. Il De Thomasis, esso stesso uno di cotali illusi, s’industriava a ricercar le cause contingenti e a proporre i rimedi di quell’impreveduto ripresentarsi del vecchio inconveniente e non sospettava ciò che un suo tardo conterraneo e filosofo ora potrebbe dirgli, che questo inconveniente (se tale può chiamarsi) è nella natura stessa delle leggi, cioè di qualsiasi legge e di qualsiasi loro formula, e nasce dalla vita, che non si sta mai ferma e sempre si muove e cangia. La testimonianza, s’intende, è da leggere in chiave, per così dire, rovesciata, giacché ciò che a Croce appare meraviglia, sconcerto, industria, destinato ad infrangersi miseramente contro i ben solidi baluardi della Filosofia della pratica, è in realtà esso stesso la vita “che non si sta mai ferma e sempre si muove e cangia”, i giovani che vanno istruiti con le leggi vigenti e l’attuale terminologia senza disturbar Giustiniano ma senza altresì far propria la stroncatura di Melchiorre Delfico, il quale mirò a ritrarre il carattere politico del legislatore, i vizi della costituzione di Roma, più che il merito delle loro dottrine e delle loro leggi dal momento che i difetti vistosissimi di legislazione penale nel diritto romano o non sono colpe o imputar si debbono alla costituzione politica di que’ tempi, anziché al poco senno de’ loro autori uno storicismo che richiede prudenza e discrezione, e non la “profonda ideologia” di Savigny e della scuola storica, che vanno “ingombrando di tenebre la giurisprudenza attuale” 84. _______________ II, 55 opportunamente cit. in A. DE MARTINO, Tra legislatori e interpreti. Saggio di storia delle idee giuridiche in Italia meridionale, Napoli, 1974, p. 5). 83 - B. CROCE, Storia del regno di Napoli... cit., p. 318. 84 - Prontissima a tal proposito l’adesione di Pasquale Liberatore nelle Nozioni preliminari all’Introduzione allo studio... cit. (che, come si è visto, è del 1832) e l’esplicita attestazione di una comune collaborazione che lo induce a seguire De Thomasis anche quanto alle riserve su Delfico ed alla polemica sul “metodo vizioso” che impedisce un collegamento seriamente critico tra il nuovo codice civile e l’antica legislazione (le Nozioni occupano le pp. 1-83 dell’opera, cfr. pp. 32-33, 39 ss.; sulla derivazione vichiana di Hegel e Gans e della loro scuola giuridica e “filosofica”, 60 e 64). 293 Quanto all’unificazione legislativa prodromo indispensabile dell’uniformità operativa, essa costituisce un presupposto razionalizzatore su cui tutti i riformatori, a partire, l’abbiamo visto, da Nicolini, non possono non trovarsi d’accordo, dal momento che, scrive polemicamente De Thomasis, ogni uomo del Foro ha una sua propria religione, una moral sua, i suoi particolari pregiudizi che coltiva come Dei familiari. Questo presupposto metodologico ha due corrispondenti sistematici, la proprietà e la famiglia, su cui De Thomasis costruisce rigorosamente la nuova filosofia civile, per dirla con Nicolini, che scaturisce dal codice: I moderni, trattando ogni economia politica in modo da insinuar l’idea che ella possa star senza la morale e la giustizia, ne sottraggono le più solide basi... Il rispetto de’ figli a’ padri, delle mogli ai mariti, e di tutti alle obbligazioni contratte, sono i primi garanti dell’ordine sociale85... Il pregio della proprietà consiste precisamente nella facoltà di goderne e disporne come più ne aggrada. È precisamente su questo secondo caposaldo, definito nel senso che da De Thomasis veniva dicharata naturale sia la proprietà esclusiva dei prodotti della natura sia quella territoriale, sia pure per quest’ultima con l’intervento delle leggi sociali86 che si sarebbe concentrata la tarda critica di Tommaseo 87 significativa tanto per l’autorevolezza dello scrittore, appartenente ormai ad una generazione che poco o nulla aveva in comune con i superstiti murattiani, quanto soprattutto perché, malgrado questa obiettiva sfasatura di criterio e di giudizio, Tommaseo fa ampiamente propria, in prospettiva storica, la filosofia della continuità tanto cara a Nicolini88 strumentalizzandola, magari, ai fini di quella democratizzazione della coscienza giuridica, per così dire, che è nel fervido auspicio della sua mentalità progressista e romantica. _______________ 85 - P. LIBERATORE, Introduzione... cit., pp. XI-XVIII passim, 228, 330. Si ricordi viceversa la spigliata opinione di Borrelli (“La civiltà sociale e l’oppressione della donna non fecero giammai dimora in una terra medesima” cfr. Bibliografia... cit., p. 28) che lo differenzia nettamente dagli amici del gruppo chietino. 86 - P. LIBERATORE, Introduzione... cit., pp. 284 e 423. 87 - “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoli, aprile 1839, pp. 20-31 da Parigi, col rammarico, espresso in esordio dello scrittore, di non aver conosciuto di persona De Thomasis. 88 - Di Nicolini sono nel frattempo da ricordare i due discorsi pronunziati nella qualità di presidente di consiglio generale, quello del 1835 a Chieti, di cui già si è fatta menzione, e che qui ricordiamo per la ribadita e sottolineata importanza della strada Frentana per i lanifici di Palena, già proposta da Liberatore nel 1806 (ma lo stesso Liberatore, l’abbiamo visto, ne avrebbe constatato nel 1838 il fallimento) e Della importanza de’ consigli generali di provincia discorso pronunziato il 1° maggio 1836 a Caserta per l’inaugurazione di quello di Terra di Lavoro che va tenuto presente per il ritorno, promosso dal nuovo giovane sovrano, a quelle rappresentanze comunitarie più o meno tradizionali ed efficienti di cui ancora nel 1839 avrebbe parlato positivamente Tommaseo (“Fin da’ primi tempi di sì salutare istituzione quegli stessi che fra di noi la introdussero la tennero più come vana forma che come mezzo efficace di miglioramento civile. E da ciò di anno in anno lo scadimento sempre crescente della importanza e della riputazione de’ consigli generali... Ma salì Ferdinando II sul trono...”). 294 L’antico ordinamento, osserva Tommaseo, presentava infatti senza dubbio confusione strana che alla giustizia veniva dalle inopportune suddivisioni de’ poteri e dall’accumulazione peggio che importuna. Né già la presente ordinazione è condotta, cred’io, alla possibile semplicità... Ma in questo miscuglio degli ordini antichi l’intenzione sovente era buona, santa l’origine... (Dinanzi alle) antiche istituzioni municipali dalla francese prepotenza (sic!) abolite... ciascun vede le municipali franchigie (che gl’ignari di vera libertà chiaman privilegi) esser state innanzi la francese invasione più rispettate che poi... In quest’ambito di libertas comunale guelfa chiaramente, e naturalmente, prediletta dal Tommaseo, i giudici conciliatori venivano ad assumere un rilievo circa il quale ci dice molte cose l’attenzione riservata ad essi da Nicolini e, in subordine, da Liberatore, mentre, in campo giurisdizionale, pur reputando “inevitabile e cristiana” l’abolizione del tribunale misto, di cui singolarmente De Thomasis non parla, Tommaseo presta probabilmente a lui i suoi propri sentimenti allorché ritiene che egli sentiva che fino a tanto che non sia popolare la conoscenza delle istituzioni le quali governano le sorti nostre, il popolo sarà sempre bestia tosata e macellata a piacere di pochi. Un protagonista tutto moderno e romantico, insomma, fa la sua irruzione impetuosa tra lo Stato e la Chiesa di giurisdizionale memoria, ed appunto per questo Tommaseo non può consentire a De Thomasis una rivendicazione così schiettamente individualistica come quella della proprietà in quanto diritto naturale, tutt’al più acconsentendo a prenderlo per “transitorio”, mezzo e non fine, con sullo sfondo insomma una persona umana, e più o meno cristiana, che ha ben poco da spartire col suddito, ma anche col cittadino e col borghese oltre i quali De Thomasis non aveva certo inteso procedere. E non lo intende Pasquale Liberatore in quella che sarebbe stata l’ultima fatica della sua laboriosissima vita ottuagenaria, il trattato Della pubblica educazione che viene fuori dai torchi napoletani di Palma nel 1840, l’anno dopo della recensione di Tommaseo sulla rivista di De Virgiliis, che continuerà ad ospitare un paio di scritti sparsi di Liberatore, divenuto, si direbbe, “contento e pio” come il figlio Raffaele nella feroce satira leopardiana dei Nuovi credenti, qui L’alfabeto reso grazie alla stampa ‘9 più grande strumento della civilizzazione... madre di tutte le utili riforme" grazie a cui l’uomo eseguirà ciò che Cristo ha decretato “il regno cioè della pace, è la pratica della carità e di tutte le virtù sociali”, lì, postumo, Dell’alto incivilimento, sue pretenzioni e suoi prodotti, echeggiante un simile e non meno graffiante Leopardi, quello della Palinodia e della “comun felicitade”, nel deplorare stavolta il danno della stampa, che ha provocato l’insubordinazione dei domestici, la fine della vita patriarcale, l’indifferenza esteriore nel vestire e nel comportamento, l’autodistruzione del l’aristocrazia dinanzi agli speculatori ed ai giocatori 295 di borsa, ed altre siffatte calamità infinite, dimentichi come sono i moderni, ammonisce Liberatore, che “più si migliora la condizione fisica dell’uomo più diventerà necessario aumentare la sua moralità”89. Della pubblica educazione è dunque, dal punto di vista del costume e della mentalità collettiva, quella che i giovani chietini raccolti intorno ad Antonio Nolli a ricevere ed ascoltare Delfico 90 avrebbero chiamato filosofia morale, un punto d’arrivo pressoché definitivo, analogo a quello che, nella filosofia civile, la lunghissima vita avrebbe consentito a Nicola Nicolini di continuare più o meno pateticamente a testimoniare fin nel pieno di quegli anni cinquanta che avrebbero assistito al definitivo esaurirsi politico della parabola murattiana. Al centro dell’una come dell’altra filosofia è, modernamente ed irrevocabilmente, anche quando l’istruzione e l’educazione debbano di necessità affidarsi agli ecclesiastici, lo Stato: Tutti i cittadini di uno Stato debbono avere costumi e cognizioni relativi ai bisogni e al bene di quello Stato medesimo, e perciò l’educazione anche privata dev’essere analoga ai bisogni ed alla costituzione di quella società. Pilastro di quest’ultima è la proprietà, ed è significativo che Liberatore riprenda alla lettera nel 1840 la sua definizione di dieci anni prima di “dogma politico” per la proprietà antica quanto l’uomo, non risultamento di convenzione umana o di legge positiva, nella stessa costituzione del nostro essere e nelle diverse nostre relazioni cogli oggetti che ci circondano. Sia lo Stato che la proprietà, peraltro, hanno a proprio elemento mediatore quella società a cui Tommaseo aveva rivolto modernamente lo sguardo, e che Liberatore è pronto a recepire sul piano del costume, anche se non altrettanto su quello del diritto, dove la sua adesione a De Thomasis permane ostentata e fermissima. Al centro di questa società è la donna in quanto moglie e madre, a cui il Nostro attribuisce compiti e funzioni del tutto particolari, col latino che non esclude il ballo nella formazione della personalità, e perciò, si potrebbe dire, la dama ottocentesca, a governare il salotto non meno che il focolare: Ciò che per l’avvenire bisogna soprattutto tentar per le ragazze è di dar loro una istruzione necessaria per intervenire utilmente in ciò che tocca gl’interessi de’ lor mariti, per preparare con intelligenza i loro figli ai gravi studi di collegio, e per seguir senza neja que’ serii trattenimenti che ne’ nostri circoli son succeduti al vagare de’ farfallini. _______________ 89 - “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoligennaio 1841 pp. 3-16 e marzo 1843 pp. 173-180. 90 - Il primo era morto fin dal 1830, l’anno stesso dell’assai più giovane De Thomasis, ritirato a Chieti a vita privata lungo tutta la Restaurazione, Delfico lo aveva seguito nella tomba, vecchissimo, due anni più tardi. 296 Ma la donna e la famiglia non esauriscono atomisticamente la società, il cui protagonista genuino, e collettivo, è lo spirito pubblico, per seguire ed analizzare il quale è indispensabile anzitutto, classicamente, tener presente il condizionamento climatico, poi quello religioso, nelle sue manifestazioni superstiziose e meramente devozionali ma anche negli esercizi di pietà, a cominciare dall’accompagno dei morti in quanto primario servizio sociale, e poi ancora gli spettacoli, l’alimentazione, i pregiudizii e le “false idee”, che sono da combattere con un rigorismo alla Nicolini, e così via, fino agli asili infantili della più recente tematica assistenziale. Al vertice dell’educazione sociale sono peraltro l’informazione e la lettura, e qui sembra davvero di scorgere in controluce, nelle pagine del vecchio Liberatore, ciò che di sé stesso, e della sua giovane generazione, in quegli anni medesimi, a Napoli, avrebbe scritto Francesco de Sanctis: I gabinetti di lettura sono, o almeno dovrebbero essere, l’emporio del sapere e della dottrina, il convegno dei dotti e degli studiosi... Noi crediamo al piacere che ispirano i buoni romanzi, perché presentano un’immagine abbellita dell’esistenza, trasportandoci in un mondo in cui le facoltà dell’uomo agiscono con più libertà, in cui gli esseri spiegano maggior forza pel bene come pel male, ed in cui le avventure, uscendo dalla ristretta sfera delle nostre abitudini, aprono più vasto campo all’umana attività91. È difficile sintetizzare meglio, con maggiore efficacia, la temperie romantica, con sullo sfondo il Quarantotto: averla saputa cogliere ed intendere senza farsene travolgere, ma anche senza rifiutarla per partito preso, costituisce la migliore testimonianza di freschezza mentale, di agilità metodologica, per il gruppo chietino che mezzo secolo prima aveva lasciato le colline adriatiche e la montagna appenninica per la Napoli del riformismo, della rivoluzione e della monarchia amministrativa. _______________ ss. 91 - F. DE SANCTIS, Della pubblica educazione... cit., pp. 91, 94, 118, 171, 223-224, 232 297