I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi

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I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi
I collaboratori abruzzesi
di Francesco Ricciardi*
di
Raffaele Colapietra
Vi era forse Carlo Lauberg tra gli Scolopi, ed i loro allievi, che la mattina del
7 marzo 1788, dalle alte finestre posteriori del loro collegio chietino, la fondazione
secentesca patrocinata dall’arcivescovo genovese Stefano Sauli nella quale aveva
trovato conforto e rifugio (ed opportuna base mediatrice per i suoi contatti col
ribelle Carafa di Castelnuovo) Francesco d’Andrea1 assistevano alla discesa del
corteo funebre per l’interramento del marchese Romualdo de Sterlich, morto il
giorno prima, dall’ampio e movimentato palazzo sulla sinistra alla sottostante chiesa
di S. Francesco di Paola.
La venuta di Lauberg, l’anno prima, ed i suoi scritti di aggiornato scientismo
naturalistico e di garbata tradizione empiristica lockiana, tra la dedica ad Acton ed il
ricordo di Genovesi2 non aveva fatto altro, in verità, che ratificare e suggellare il
ruolo del tutto particolare che, nel corso degli anni Ottanta, e magari già prima, era
stato ricoperto dagli Scolopi di Chieti, malgrado i posteriori forse immeritati sarcasmi del Galanti3 in un contrappunto precisamente con De Sterlich che sarebbe
tutto da precisare e da chiarire in una chiave determinata4.
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* -Relazione letta al Convegno di Studi su: “Le istituzioni nel Mezzogiorno e l’opera di
Francesco Ricciardi” tenuto a Foggia il 15 aprile 1993. Sullo stesso tema saranno pubblicate, in
seguito, le relazioni dei dott. Antonio Vitulli e dei prof. Saverio Russo.
1 - Per una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti, insieme con una discussione
delle tesi all’epoca prevalenti in proposito, non modificate sostanzialmente a tutt’oggi dall’ed.
Ascione degli Avvertimenti ai nipoti, mi permetto di rimandare essenzialmente al mio vecchio
articolo Le insorgenze di massa nell’Abruzzo in età mderna in “STORIA E POLITICA” Milano,
1980, V, pp. 557-642 e, 1981, 1, pp. 1-46 qui lV, 612-633 il cui contenuto ,è ripreso ne L’amabile
fierezza di Francesco d’Andrea - Il Seicento napoletano nel carteggio con Gian Andrea, Poria, Milano,
1981, pp. 95-113 e, più stringatamente, in STORIA del Mezzogiorno diretta da G. Galasso e R.
Romeo, VI Napoli, 1988, pp. 115-121.
2 - B. CROCE, La vita di un rivoluzionario Carlo Lauberg in Vite di avventura di fede e di passione, Bari, 1953, pp. 365 ss. per la venuta a Chieti del venticinquenne scolopio di origine vallone e per i suoi rarissimi scritti, personalmente posseduti dal Croce, ed editi prima del ritorno a
Napoli a fine 1788, Analisi chimico fisica sulle pvprietà de’ quattro principali agenti della natura seguita
da un saggio sulle principali funzioni degli esseri organizzati e Riflessioni sulle operazioni dell’umano intendimento entrambi con dedica al ministro Acton, all’ epoca all’apice della sua autorità.
3 - Nella relazione 25 marzo 1792 in G.M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a m di Franca Assante e Domenico Demarco, Napoli, 1969, pp. 479-512 passim.
4 - Mentre scrivo (primavera 1992) è in corso l’edizione dei carteggi letterari e filosofici
di De Sterlich col Lami e col Bianchi, nonché con minori corrispondenti, a cura di Umberto
Russo e dei suoi collaboratori, a cui io affiancherò l’esame, d’indole più specificamente proprietaria ed antropologica, intesi i termini con tutte le virgolettature
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Resta il fatto che presso gli Scolopi aveva anzitutto studiato, sullo scorcio iniziale del decennio precedente, Antonio Nolli, nato nel 1755 da Camillo, barone di
Tollo, e da Rosaria Petrini, una dama bergamasca la cui tenera amicizia con De
Sterlich aveva dato molto da ridire, ed era stata comunque senza dubbio all’origine
di un vincolo singolarmente stretto fra l’attempato patrizio ed il giovane virgulto di
una famiglia di alto artigianato lombardo, trasferitasi nell’Abruzzo aquilano e poi
nel chietino nel secondo Seicento, e che appunto con Camillo, morto nel febbraio
1777, aveva acquistato per 25 mila ducati dai De Ruggero, poco più di due anni
innanzi, il ricco feudo nelle pertinenze della città5.
Antonio si trovava all’epoca nella capitale, dopo gli studi universitari compiuti a Bologna, e, rientrato in patria, vi aveva ricoperto nel 1779 la carica di camerlengo, a Chieti investita di potestà e privilegi del tutto particolari nel panorama
meridionale6 prodromo di ben più delicato e significativo ufficio, nell’ottobre
1788, all’indomani della scomparsa di De Sterlich (e di quella, di poco posteriore, e
ben più de stabilizzatrice, di Filangieri), la presidenza della società patriottica istituita
a Chieti da Nicola Codronchi in contemporaneità e coordinamento con gli altri
due capoluoghi abruzzesi7.
Senza che qui sia possibile entrare nel dettaglio di un’iniziativa così significativa e complessa, ci limiteremo ad osservare anzitutto che essa coinvolgeva a Chieti,
fin dal suo esordio, in qualità di segretari del sodalizio, almeno un paio di importanti personaggi, il lancianese Vincenzo Ravizza, di vent’anni più anziano del Nolli,
letterato ed erudito che aveva mandato a studiare agli Scolopi, e poi a Napoli, entrambi i suoi figli, Gennaro, che avrebbe ripreso autorevolmente nel primo Ottocento la tradizione erudita paterna 8 e Giuseppe, futuro segretario generale
dell’intendenza di Abruzzo Citra dall’istituzione nel 1806, per oltre vent’anni fino
alla morte nel 1828, e Tommaso Durini, del ramo cadetto dei baroni di Bolognano, che avrebbe avuto in Giuseppe Nicola, cugino del Nostro, un ben noto scrittore di cose economiche, collega di Tommaso come consigliere d’Intendenza sin
dalle origini (quest’ultimo vi sarebbe rimasto fino alla morte, nel 1827, a segnare
una continuità rimarchevole d’indirizzo murattiano-borbonica, analoga a quella di
Giuseppe
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possibili, di un altro carteggio scoperto solo di recente, quello col cugino aquilano marchese
Gaspare da Torres. Ma il problema degli Scolopi andrebbe impostato ed indagato su moduli
assai diversi.
5 - G. BONO, Le ultime intestazioni feudali nei Cedolari degli Abruzzi, Napoli, 1991, p. 33.
6 - Si veda in merito la classica ed interessante trattazione, sottilmente polemica in senso anti aristocratico tanto da costargli la vita, in seguito anche alla successiva asperrima schermaglia con Niccolò Toppi (anche per questo, forse, i Nicolini di Tolto, dei quali stiamo per fare
menzione, avrebbero tanto tenuto alla loro discendenza da lui), di G. NICOLINO, De auctoritate Camerarii Regiae Civitatis Theatinae, Ascoli Piceno, 1639.
7 - Sulla vicenda, che andrebbe ripensata e riconsiderata alla luce di quanto ci ha fatto
conoscere A. PLACANICA Galanti e la Calabria saggio introduttivo all’edizione critica di G.M.
GALANTI, Giornale di viaggio in Calabria (1792), Napoli, 1981, si vedano per il momento le
puntualizzazioni tematiche e cronologiche di G. DE LUCIA, Le società economiche abruzzesi
1788-1845 già apparso in “ABRUZZO”, Pescara, 1967 e che ora si può rileggere in ABRUZZO
borbonico - Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Vasto, 1984, pp. 105-140, qui pp. 108111.
8 - Si vedano fin d’ora di lui, per quanto attualmente ci concerne, e perché profondamente connesse con l’atmosfera culturale che viene tratteggiata nel testo, Notizie biografiche
che riguardano gli uomini illustri della città di Chieti e domiciliati in essa, Napoli, 1830, con relativa
appendice edita a Chieti nel 1834, da vedere alle pp. 36-38, 56-57 e 101-105 per le biografie rispettivamente di Antonio Nolli, Tommaso Durini, Vincenzo e Giuseppe Ravizza.
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Ravizza) e più tardi sottointendente a Vasto ed a Penne, intendente di Teramo e
consigliere di Stato 9.
Non solo: ma l’attività della società patriottica si apriva, sullo scorcio finale del 1788, con la presentazione di una memoria di un giovane concittadino
lancianese dei Ravizza, l’avvocato venticinquenne Pasquale Liberatore10 il quale,
con la concretezza nervosa che gli sarebbe stata riconosciuta ed elogiata in
morte da un ben noto scritto del Mancini, sul cui intervento torneremo a suo
tempo, poneva l’accento sulle cause dell’arretratezza economica della provincia,
l’ignoranza dei proprietari, la mancanza di buoi da lavoro, la brevità degli affitti,
“l’abusivo consumo dei grano d’India”, una tematica perfettamente armonizzata, insomma, con le prospettive del Codronchi, e che non a caso, i li a tre
anni, sarebbe stata largamente riecheggiata nel Galanti.
Si accingeva intanto a partire per Napoli, a completarvi gli studi, un giovanissimo precocissimo vassallo del Nolli (avrebbe compiuto diciassette anni il
30 settembre 1789, partenza verificandosi il 3 novembre successivo) che grazie
ad una versatilità singolare improvvisatore in rima avrebbe ricordato l’episodio
con un sonetto indirizzato alla madre Teresa De Horatiis11 ed allo zio e protettore, l’abate Luigi Nicolini12.
Si trattava lo si è compreso già dall’accenno a Tollo, anche a prescindere
da quest’ultima esplicita indicazione, di Nicola Nicolini, che quarant’anni più
tardi, prendo spunto dal necrologio di uno degli esponenti di spicco di quel
cenacolo di giovani d’eccezione che negli anni Ottanta si era raccolto intorno a
De Sterlich, ed al dioscuro insostituibile della generazione post genovesiana,
Melchiorre Delfico, il marsicano Franco Saverio Petroni, da lui appena incontrato dialetticamente, per così dire, quale indente di Chieti, dopo una carriera
tipica di tutta questa generazione medesima, ormai
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9 - I Durini richiamano ben più prestigiosamente dei Nolli all’ambiente milanese e
lombardo, donde in effetti provenivano quali grossi mercanti all’Aquila ed a Chieti già nel
primo Seicento, il fondaco suggellato dal feudo a danno degli aquilani Branconio, ed in
una localizzazione che non va ambientalmente sottovalutata, al pari di quella di Tollo,
quest’ultima al centro della migliore zona vinicola abruzzese facente capo ad Ortona, Bolognano, falde della Maiella a controllo del passaggio dei Pescara a S. Clemente a Casauria.
10 - Lo ricorda egli stesso, e ne riassume il contenuto, in P. LIBERATORE, Pensieri civili economici sul miglioramento della provincia di Chieti umiliati al regal trono, II, Napoli, 1806,
8-11, l’opera di fondamentale importanza su cui avremo modo di tornare con ampiezza, e
nella quale si fa parola sia del sostanziale fallimento, perché sottoposte a Napoli, delle
scuole normali d’agricoltura istituite nella circostanza, sia della presentazione nel 1791 di
una seconda memoria sul commercio, che anch’essa viene sintetizzata dall’autore. Si ricordi
che nel 1788 al Nolli si affiancavano nella società patriottica Francesco Valignani, che
s’intitolava duca d’Alanno quale crede defunta consorte Anna Leognani Ferramosca (in
realtà il feudo sarebbe andato alla loro figlia Giovanna, e per essa al di lei marito Michele
Bassi, nipote di Francesco Saverio arcivescovo di Chieti fino alla morte nel 182 1, più tardi
primo sindaco di Chieti ed intendente all’Aquila ed a Capua) ed una dozzina di altri soci,
sulla base di un No regio di 250 ducati annui. La menzione dei Bassi, infine, già generale
dei Celestini, ed il cui trentennale i ed articolato governo epíscopale meriterebbe uno studio specifico, ci richiama ad un suo confratello, Francesco Saverio Durini, fratello di Tommaso, anch’egli allievo degli Scolopi, più tardi vescovo dei Marsi e di Aversa, un ambiente,
quello tardosettecentesco dei Celestini, che non andrebbe perso di vista, sia per i suoi co ntatti con De Sterlich (Gutierrez, Ciavarella) sia soprattutto per l’eredità del Galiani senior, il
soggiorno teatino del cui fratello Matteo, com’è fin troppo noto, aveva occasionato la nascita abruzzese di Ferdinando.
11 - Appartiene alla famiglia il sacerdote Cesare, a lungo segretario perpetuo della
Società Economica di Abruzzo Citra, del quale dovremo far parola tra breve.
12 - Vedilo in N. NICOLINI, La musa di famiglia memorie domestiche, Napoli, 1849,
p. 9.
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identificatasi tout court col riformismo murattiano 13 ne tracciava un ritratto indimenticabile, a partire appunto dal Delfico, che, poco più che quarantenne,
rappresentava una sorta di transizione tra l’ortodossia genovesiana di De Sterlich ed i nuovi tempi di Filangieri (proprio dalla proposta di quest’ultimo per
l’affitto sessennale del Tavoliere, l’estrema sua fatica riformistica, avrebbe preso
le mosse, sempre nel 1788 da cui siamo partiti, il Delfico per il suo Discorso ultraprivatistico e modernamente proprietario, con in prospettiva il Palmieri) e
nella casa chietina del giovane Nolli
formava il suo incanto, meno per le conoscenze, che
vastissime, come ognuna, e svariatissime erano in lui, che per la
sobrietà nel fame uso, per l’intelligenza onde giudicava gli
uomini e le cose, e per quella sua perpetua serenità onde, o
lieto o triste il presente, ce lo dipingeva sempre nella ridente
prospettiva d’un felice avvenire.
Accanto a lui, appunto, il pupillo di De Sterlich
men rispettivo, più fervido d’ingegno, più pronto e decisivo
ne’ giudizi, più impaziente di freno
e poi ancora il barone Durini, Giuseppe Nicola, “d’indole più placida”, i fratelli
Ravizza “di assai facil natura”, lui, il Petroni, e finalmente il coetaneo e l’amico
con cui fin dal 1787 si era trasferito a Napoli, sui vent’anni entrambi, a consigliere saviamente come
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13 - Nato nel 1766, un anno prima di De Thomasis, di cui stiamo appunto per far
parola nel testo, ad Ortona dei Marsi, nella valle dei Giovenco, e perciò nella contea di Celano, all’epoca feudo dei romani Sforza Cesarini (un legame, questo con Roma, che si riproporrà per un altro dei nostri protagonisti, Pasquale Borrelli, ponendo un problema
plurisecolare, e non soltanto culturale, che andrebbe affrontato organicamente) il Petroni
era stato subito chiamato nell’agosto 1806 come segretario generale del primo intendente
Pietro De Sterlich, figlio di Romualdo, a Teramo, dove aveva rappresentato, con i successivi intendenti francesi, una continuità “nazionale” napoletana sulla quale torneremo più
avanti, ancora con le parole suggestive di Nicolini, fino al 1812, allorché era stato traslocato
in Terra di Lavoro, prima come sottointendente a Piedimonte e poi ancora quale segretario
generale a Capua, dove aveva incontrato come intendente il Bassi duca d’Alanno di cui
appena si è fatta menzione, proveniente dall’Aquila. Incaricato in Terra di Lavoro della
divisione dei demani del Matese, in un chiaroscuro tutto da precisare con Biase Zurlo, che
curava il versante molisano del massiccio, Petroni era passato nel 1814 in Calabria Ultra
come intendente al posto del vecchio amico De Thomasis, ed aveva provveduto al delicatissimo compito di dividere l’ampia provincia nelle due ripartizioni i cui capoluoghi venivano fissati a Catanzaro, nuovamente al posto di Monteleone, ed a Reggio. Mantenuto,
anche qui sintomaticamente, in servizio dall’amministrazione borbonica sino al fatale, e
per tanti versi discriminante 1821, Petroni era stato intendente di Basilicata e di Abruzzo
Ultra Primo (Teramo) salvo essere richiamato da Ferdinando 11, nel 1831, all’intendenza
di Chieti, dove appunto Nicolini lo aveva incontrato nell’assumere la carica di presidente di
quel consiglio generale. Le parole che riportiamo o riassumiamo nel testo sono infatti
tratte dal N. NICOLINI, Discorso pronunciato all’apertura del consiglio generale della provincia di
Chieti nel dì 1° maggio 1835 in risposta al discorso dell’intendente Francesco Saverio Petroni, Napoli, 1835, e più precisamente dall’appendice contenente la biografia del Petroni, scomparso
settuagenario di lì a qualche mese, biografia che sarebbe stata ripresa ed ampliata da Nicolini in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI”, Napoli,
l’intelligente iniziativa di Pasquale de Virgiliis di cui torneremo a far parola a suo tempo,
nel fascicolo gennaio-giugno 1838, pp. 166-183, donde felicemente cita (e citererno anche
noi, qui di seguito) G. DE LUCIA, La cultura abruzzese nel periodo borbonico già in
“ABRUZZO”, Pescara, 1968 ora in ABRUZZO borbonico... cit. pp. 23-42 qui pp. 26-27.
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giureconsulti più che a fervidamente arringare quali avvocati, Giuseppe de
Thomasis da Montenerodomo, uno di quei feudi di periferia nei quali
l’aristocrazia illuminata, nella circostanza il principe di Caramanico, sul quale non
è certo il caso qui di dilungarsi, lasciava più vivi e fiorenti che mai gli “abusi” di
antica e magari retorica memoria (ma tutto l’argomento meriterebbe di venir
rimeditato a dovere)
giovane di alta mente, grave, poco sofferente, e di pronta
quanto placabile ira, tutto inteso fin d’allora alla scienza
dell’uomo e de’ suoi rapporti sociali14.
Da questo lieto e già prestigioso sodalizio l’adolescente Nicolini si distaccava per godere nella capitale delle musiche alla moda di Cimarosa e di Paisiello, circa le quali si confida con lo zio Luigi in occasione del carnevale 1790,
ma anche, più sostanziosamente, per prepararsi ad arringare a Castel Capuano,
dove esordiva, non ancora ventenne, il 16 aprile 1792, dinanzi all’auctoritas leggendariamente terrifica del Sacro Consiglio, su una piattaforma storicomatematica dell’interpretazione del diritto
Sol poche linee Euclide, e poche rime Dettommi Clio che induce a riflettere15.
Mentre infatti, nonostante le sue profferte di rigore più o meno moralistico, Nicolini si abbandonava per lunghi anni a Napoli alle seduzioni
dell’improvvisazione poetica, che lo avrebbero introdotto nel clima cortigiano
al più alto livello 16 a Chieti la tradizione della “sapienza” di Lauberg tra gli
Scolopi era tutt’altro che spenta, e l’avrebbe rievocata di ri a qualche anno 17 col
consueto fervore il più giovane di quei sodali, Pasquale Borrelli,
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14 - La vicenda degli abusi feudali, come è noto, occupa buona parte della monografia dedicata a Montenerodomo in appendice a B. CROCE, Storia del regno di Napoli, Bari,
1953, pp. 317-356 sulla base di uno scritto specifico del Nostro, che era stato segnalato da
E. GRILLI, Giuseppe De Thomasis la vita e le opere in “RIVISTA POLITICA E LETTERARIA” Roma, maggio 1900 estratto di pp. 36 e pubblicato da Croce col titolo Sulla terra di
Montenerodomo in Abruzzo in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, XLIX, 1919 (particolarmente a De Thomasis sono dedicate le pp. 315-320 della Storia ecc. nell’edizione 1925, che
ho sott’occhio, e sulla quale torneremo). Egidio Grilli, la cui pluridecennale devozione a
De Thomasis è restata purtroppo senza esiti apprezzabili, prima delle irreparabili distruzioni cagionate dalla seconda guerra mondiale (si ricordi comunque di lui, ad indispensabile integrazione del lavoro precedente, Giuseppe De Thomasis in Atti e memorie, II, del
CONGRESSO STORICO ABRUZZESE-MOLISANO, Casalbordino, 1935, pp. 577603) ricorda un incontro napoletano dei Nostro nel 1783, e quindi a sedici anni, con Ferdinando Galiani, che ha suggestionato R. FEOLA, Dall’illuminismo alla Restaurazione - Donato Tommasi e la legislazione delle Sicilie, Napoli, 1977, p. 251 fino a definire De Thomasis
“attento discepolo” dell’abate, ma sul quale né egli né lo scrivente saprebbero dire di più.
15 - N. NICOLINI, La musa difamiglia, cit. pp. 10 e 23.
16 - Ibidem p. 26, e più avanti a p. 7 degli schiarimenti biografici posti in appendice,
per il suo esordio estemporaneo alla reggia, il 7 luglio 1797, di ritorno da Foggia, dove
Maria Carofina, alla quale il Nostro era stato presentato da Giuseppe Saverio Poli, il famoso scienziato molfettese, lo aveva chiamato ad improvvisare dinanzi all’arciduchessa Maria
Clementina, durante il soggiorno della Corte in quella città per le nozze dell’erede al trono.
17 - P. BORRELLI, Principi di zoaritmia scoverti da Pasquale Borrelli e preceduti da un ragionamento istorico su la modema medicina matematica, Napoli, 1807, pp. 12-13 (l’accenno allo
scolopio Aquila come erede della “sapienza” di Lauberg è nella biografia che del Borrelli
sarebbe stata tracciata dal citato Cesare de Horatiis in “GIORNALE ABRUZZESE DI
SCIENZE, LETTERE ED ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1840, pp. 106-112).
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nato nel giugno 1782 a Tornareccio, uno dei tanti feudi abruzzesi del gran connestabile Filippo Colonna principe di Paliano e duca dei Marsi, che alla metà
degli anni Novanta era salito anche lui a Chieti a fare il suo noviziato tra gli
Scolopi:
La geometria e l’algebra, timidamente introdotti fra i monti
aprutini da un uomo capacissimo di misurarne il vigore e
dilatarne la stima, presentavano in essi appena appena l’aurora
del giorno matematico.
Quest’uomo era Paolo Aquila, uno scolopio di Rivello in Basilicata, del
quale purtroppo sappiamo pochissimo, e solo assai recentemente, grazie alla
benemerita attenzione dedicatagli da Carmelita Della Penna quale estensore
della relazione per Abruzzo Citra della statistica murattiana 18 e, poco prima, da
Domenico Demarco nella medesima prospettiva19.
Accanto a lui, nella Chieti di fine Settecento, che col 1790 aveva assistito
ai primordi di un’attività teatrale, e soprattutto ad una riforma municipale grazie
alla quale era stato abolito il “dispotismo” del camerlengo e del decurionato a
vita, un nutrito stuolo di amici, come Tommaso Maria Verri, il distinto letterato
vicario vescovile di Ortona, e di condiscepoli più o meno brillanti del Borrelli, a
cominciare dal compaesano Vincenzo Daniele, che sarebbe finito rettore del
liceo dell’Aquila, e poi il Gaetani lettore di filosofia e matematica nel collegio di
Vasto, il Berardini suo collega ad Ortona, il chietino Vincenzo De Ritis, il vastese Benedetto Betti, filologo e filosofo, l’abate Coletti di Atri, l’altro teramano,
di Mosciano, medico e matematico, Giuseppe Saliceti.
Tutto questo mondo aveva una sua precisa e circoscritta connotazione
culturale, che ancora Pasquale Borrelli si preoccupa di definire20 allorché si appella agli Scolopi di Caravaggio, dai quali era stato ospitato a Napoli nel 1798,
per dimostrare che all’epoca
egli non avea letto né Rosseau né Voltaire ma aveva esposto in
conclusioni solenni i principi matematici della filosofia naturale
di Newton, e conosceva egli gli offici di Cicerone.
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18 - C. DELLA PENNA, Aspetti della vita sociale ed economica dell’Abruzzo marittimo
nella statistica murattiana, Chieti, 1990, che arricchisce con opportuna documentazione le
parafrasi delle relazioni di Giovanni Thaulero e Paolo Aquila. Ne risulta che quest’ultimo
espletò il suo compito fra l’ottobre 1811 ed il giugno 1813, con un’attenzione ai salari
agricoli, al disboscamento, alla situazione sanitaria e cosi via, che farebbe pensare ad una
qualche forma di collegamento con i precedenti Pensieri del Liberatore, sui quali ci soffermeremo tra breve.
19 - La “statistica” del regno di Napoli nel 1811 a cura di Domenico Demarco, Roma,
1988, p. LXXII. Aquila era venuto a Chieti appena ventiseienne, nel 1795, e vi si sarebbe
trattenuto fino alla morte, quarant’anni più tardi (il nome non figura negli accuratissimi
elenchi di T. PEDIO, Dizionario dei patrioti lucani, vol. V, Bari, 1991, dove vi sono bensì i
Dall’Aquila, ma sono di Calvello). È da ricordare che Aquila sarebbe stato a più riprese
presidente della Società Economica, e che il primo suo cenno biografico ed elenco degli
scritti sono in G. TRAVAGLINI, Religione e storia, Pescara, 1932, pp. 230-231, senza peraltro che si riesca a seguire bene il nesso fra il retroterra schiettamente matematico, e perciò
scientifico e filosofico, delineato da Borrelli, e la successiva attività compilativa, informativa
e riformistica in senso lato.
20 - Memoria storica sulla condotta politica di Pasquale Borrelli in SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA, ms. XXX A 9 ce. 118-127 dove si fa cenno anche della
liberazione a furor di popolo che lo scrittore aveva ottenuto nel ‘99 a Sanseverino dinanzi
alle masse di Barrella che lo avevano arrestato.
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E c’è da credergli, con l’analogo esempio eloquente di Nicola Nicolini il
quale, indotto dalle burrasche giacobine e sanfediste, e più dalle incertezze della
prima restaurazione, a riparare in patria (lo fa infatti soltanto nel giugno 1800, nei
giomi di Marengo e dell’occupazione napoletana di Roma) vi si dedica significativament ed espressamente, risiedendo tra l’altro a Vacri, nel feudo tradizionale dei
Valignani, a studi danteschi e vichiani che caratterizzeranno con forza la linea culturale della sua età matura, con la più volte asserita e difesa fratellanza d’armi tra filologia e filosofia:
E qualor pur ricado in basso loco Tra gli empi dell’Inferno e
degli Annali La Scienza Nuova e il Paradiso invoco... Voi (scil.
le Muse) fra l’ire civili al patrio tetto Mi riduceste illeso: e a
Dante e a Vico Gli ozi miei deste in guardia e l’intelletto 21.
Tacito è dunque a tutte lettere, e con lui le nequizie del dispotismo (e
dell’anarchia) il nemico da battere: e perciò non è meraviglia che, tra una meditazione e l’altra, l’ottimo Nicolini torni alla prediletta improvvisazione poetica, e vi
tomi per celebrare la pace, che gli sta per restituire Napoli e l’arringo forense, non
solo la pace internazionale di Firenze, nei suoi risvolti per tutt’altro che trascurabili
di circolazione rinnovata delle merci e delle idee, quanto soprattutto la pace interna,
che non può non fondarsi appunto, in via preliminare, sul debellamento
dell’anarchia.
Viene fuori così La pace poemetto in verso sciolto di D. Nicola Nicolini per il dì 24
giugno di S. Giovanni Battista nome che porta S.E. il signor marchese Rodio preside e comandante delle armi in provincia di Teramo che il maggiore Giuseppe Clary fa mettere a stampa
precisamente nel capoluogo aprutino con dedica al Rodio come opera “del celebre
vate estemporaneo D. Nicola Nicolini” a glorificazione del quale si evocano in folla
Anacreonte, Orazio, Virgilio, Petrarca, l’Alighieri e, sintomaticamente buon ultimo,
il Gessner.
Don Nicola, quanto a lui, data il suo poemetto Torre dei Passeri 22 giugno
1801, mentre sta tornando a Chieti reduce da Pietranico, alle falde del Gran Sasso,
dove si è imbattuto in Rodio, il primo preside recatosi di persona in quelle alpestri
contrade, ed ivi amministrante patriarcalmente giustizia nel bel mezzo di una processione, come si narra diffusamente nel poemetto, e da Castiglione a Casauria,
dove era avvenuto il primo incontro col giovane eroe, poi accompagnato dal Nostro a Pietranico, ospiti entrambi della marchesa Maria Anna Marciano Simonetti
Depetris Fraggianni, la cui figurina suonante al piano fa da delizioso suggello per
tutta l’arcadica scenetta.
Ma, naturalmente, la pace non è soltanto l’Arcadia, così come Dante e Vico
non servono soltanto alla metodologia interpretativa del diritto.
Nicolini lo afferma a chiare note:
Oh Astrea figlia del Ciel! tu sola formi Il desio delle genti: e se
di Pace Tu compagna non sei, vive ancor Marte In false forme
_______________
21 - N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit. pp. 28 e 30, sonetti datati, rispettivamente,
Vacri 10 maggio e Chieti 30 ottobre 1801.
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come appunto in Abruzzo, dove era “surto un mostro infernal” il quale, in
mezzo ad altri affini spaventevoli atteggiamenti,
al tuono Che già dal Po fremer si udia, ei l’ire Ralluma alto
ululando....
Ma ecco che sopraggiunge Rodio
e il mostro è spento. Salve, o Alcide novello...
un’immagine scontatissima, quest’ultima, ma che pure non possiamo fare a meno di riscontrare identica in Nicola Palma22
Rodio fu l’Ercole che distrusse tanti mostri e per questo titolo
la provincia gli ha una obbligazione infinita
a sancire il respiro di sollievo con cui tutto il moderatismo abruzzese accolse la
repressione degli strascichi dell’anarchia sanfedista, una volta chiusa in parentesi,
per così dire, la persecuzione antigiacobina.
Ma in Nicolini, l’abbiamo detto, c’è anche altro, c’è la preoccupazione,
viva dai tempi tempestosi di Latouche-Tréville e di Nelson, dell’indispensabilità
della pace marittima per garantire le città costiere, a cominciare dalla capitale,
dai pericoli dell’apparizione improvvisa di una flotta ostile, e specialmente per
ripristinare il rapporto con l’Europa ormai da gran tempo minacciato o interrotto:
E tu dell’arti nudritor... Industre padre, che trasformi e cangi Il
superfluo in ricchezza, ed il selvaggio In colto cittadin, languente cadi Tu, o Com-mercio infelice: ed ogni colpo Che si
vibra sul mar, fere il tuo petto.
Vi erano per la verità altri colpi da cui guardarsi, come quelli di cui si lagna Pasquale Borrelli, divenuto nel frattempo, appena ventenne, professore
straordinario presso l’ospedale di S. Giacomo degli Spagnoli, nel proemiare nel
1803, con dedica al cappellano maggiore Agostino Gervasio, ai suoi Principia
Zoognosiae medicinam physicae legibus scientifica methodo superstruentia concinnata ad usum
domestici auditorii allorché denunzia polemicamente23 la persecuzione subita da
falsi teologi naturali
recentium systematum, imo veritatis, patriaeque hostes, obscuriorum epocharum barbariem stuite revocantes.
In realtà, molti anni più tardi, nella piena e tarda età ferdinandea, tomando su questo periodo immediatamente precedente al decennio, tanto Borrelli
quanto Nicolini, nella
_______________
22 -L. COPPA ZUCCARI, L’invasione francese negli Abruzzi 1798-1810, II, Aquila,
1928,749, doc. CDLXXXV annotazioni alla cronaca dei Tullj.
23 - P. BORRELLI, Principia... cit, pp. VIII-IX.
268
prospettiva essenziale della continuità e dello sviluppo sulla quale avremo modo di
tornare più volte, avrebbero sottolineato la solidità del momento politico e culturale, temperato le ombre, presentato il tutto come semplice, e robustissima, fase
preparatoria ai successivi, pressoché naturali, risultati riformistici.
Scriveva Borrelli, nel novembre 1832, in una circostanza particolarmente impegnativa e per sé stesso e per il personaggio trattato 24 che il Giampaolo arciprete
di Ripalimosani presso Campobasso aveva ribadito e sancito il ruolo degli ecclesiastici nelle riforme, sia con la sua “morale mistica”, sia col suo appoggiare la metafisica alla fisica, e col conseguente rifiutare, pur non esaurendo nella sensazione la sua
prospettiva gnoseologica,
quelle distinzioni affollate e ricercate e sottili le quali, a luogo di
chiarire, assiepan lo spirito
sicché bene aveva fatto Giuseppe Bonaparte a chiamarlo nel Consiglio di Stato,
poiché
stimò sanamente che a consigliare il sovrano non occorresse
che il senno, e non già quello degli avi, che son polvere ed
ombra, ma il proprio.
Ed incalzava Nicolini, a proposito dell’amico Petroni25 e del clima che aveva
accompagnato il suo noviziato nel quindicennio 1790-1805, che era pure, lo sappiamo, sostanzialmente il suo:
Tutto spirava repressione degli abusi feudali, ripristinamento
dell’unità e della forza legale nelle amministrazioni municipali,
equità nella ripartizione de’ dazi, restituzione all’agricoltura de’
demani sottrattine dal pregiudizio e dall’orgoglio, bonificazione delle terre paludose, abolizione de’ passi e de’ dritti proibitivi, svolgimento il più ampio e consentaneo alla pubblica utilità de’ rapporti della pastorizia d’Abruzzo con la coltura del
tavoliere di Puglia.
Non solo: ma a dire del Borrelli26 i metodi antecedenti al 1806 erano
“alcune volte più semplici e meno dispendiosi de’ moderni”, e si collocavano sulla
via regia che, addirittura dallo “spirito della disciplina” di Accursio e dall’estro di
Dante, esempio insigne della “forza pensante che ispira i poeti”, aveva condotto a
Galileo col suo “spirito osservatore e geometrico”, alla filologia di Vico,
all’indulgenza di Beccaria, ed infine al “Cosmopolismo scientifico” di Antonio Genovesi, il quale non solo “non ascese alle acute e nebbiose sommità dei priorismo"
avendo reso la logica "capitale delle scienze” e non
_______________
24 - P. BORRELLI, Elogio dedicato alla memoria del cavaliere Paolo Nicola Giampaolo dal suo
successore nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli Pasquale Borrelli e letto nella seconda tornata del
novembre 1832 (cito dalla seconda edizione riveduta e corretta, Napoli, 1836, pp. 10, 16, 23, 26).
25 - Leggiamo sempre il testo del “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE E ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1838, p. 171.
26 - Ibidem gennaio-giugno 1840 pp. 21-27 intervento 4 febbraio 1840 del Borrelli
all’Accademia delle Scienze intorno alle considerazioni del marchese di Pietracatella sulle opere
pubbliche delle Due Sicilie.
269
“ergastolo isolato”, ma si rese benemerito per aver promosso le riforme dei principi anziché quelle dei popoli, dal momento che le une procedono “blandendo” e
le altre “devastando”27.
Pasquale Liberatore non era stato esattamente, a suo tempo, in quell’ordine
d’idee, mentre Antonio Nolli, il solo, insieme con lui, dei “novatori” degli anni Ottanta rimasto in Abruzzo Citra a misurarsi con la seconda, e più modesta generazione, il padre Aquila ed i suoi allievi al di fuori di Borrelli, per intenderci, girava
l’Europa col fratello Giustino, dopo aver avuto "molta parte in conservar la quiete"
tra le burrasche del Novantanove, per dirla con Gennaro Ravizza, a studiare nuove
tecniche agricole, ed in particolare l’introduzione di prati artificiali, anche questo un
tenersi in riserva, insomma, che l’avrebbe abilitato non a caso ad assumere la presidenza della giunta esecutiva incaricata di amministrare il gettito della censuazione e
della fondiaria all’indomani immediato della legge 21 maggio 1806 sul Tavoliere di
Puglia, nonché della cassa d’amministrazione a questo scopo istituita, in attesa di
succedere a Giuseppe Poerio quale secondo intendente di Capitanata27 bis .
Proprio quella legge, che sanciva le vedute proprietarie e privatistiche di.
Melchiorre Delfico nel 1788, l’anno dal quale abbiamo preso le mosse, induceva
presumibilmente Liberatore, nel giugno-luglio 1806, a dare l’ultima mano ai suoi
Pensieri ed a metterli a stampa, con un breve cenno in appendice a prendere atto
della legge del 6 agosto abolitrice della feudalità.
Anche Borrelli stava lavorando in quei mesi ai suoi Principi di zoaritmia, che
sarebbero stati pubblicati ai primi dell’anno successivo, con una dedica “all’ombra
di Rosina Scotti” ed un ricordo dello zio Marcello, annoverato tra i “forti immolati
per la mano della barbarie” che non ci interessano esclusivamente in chiave patetica
e patriottica:
Ricevi, o figliuola della virtù, se non i primi i più teneri omaggi
del talento e del cuore... I primi le sono stati resi dall’attuale
giudice del tribunale straordinario della Calabria Pasquale Liberatore28 ne’ suoi eruditi, sensatissimi e patriottici Pensieri civili economici. La provincia di Chieti debbe ad essi i migliori progetti
di riorganizzazione29.
_______________
27 -P. BORRELLI, Su’ principali restauratori della civiltà italiana discorsi dedicati al settimo
congresso degli scienziati italiani, Mendrisio, Lampati, 1845, soprattutto pp. 64 e 68.
27 bis - Nel frattempo Nolli era stato nominato per brevissimo tempo preside di Teramo, di cui in seguito avrebbe rifiutato di diventare intendente, lasciando l’ufficio al suo antico e più giovane amico e concittadino Pietro De Sterlich figlio del marchese Romualdo (G.
CIVILE, Appunti per una ricerca sull’amministrazione civile delle provincie napoletane in
“QUADERNI STORICI: Notabili e funzionari nell’Italia napoleonica”, Bologna, gennaio-aprile
1978, p. 235).
28 - A. DE MARTINO, Antico regime e rivoluzione nel regno di Napoli crisi e trasformazione dell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, p. 139 fissa al 10 novembre 1806 la data della
nomina ma parla di presidenza, mentre la testimonianza di Borrelli avvalora il cenno biografico
di R. AURINI, Dizionario bibliografico della gente d’Abruzzo, III, Teramo, 1952 e ss., 129-136 che
fissa a Matera la sede del tribunale.
29 - I Principi di zoaritmia non sono altro che un’applicazione più o meno adattata della
teoria dell’eccitabilità di Brown alla filosofia di Condillac. Notevole, benché canonica, a p. 20,
l’evocazione di Genovesi “il distruttore della barbarie patria” che sembra confermare Borrelli
nella linea moderata caratteristica di Nicolini, mentre Liberatore avrebbe aderito più animosamente a certi “estremismi” di Filangieri, come meglio vedremo nel testo, e qui di seguito in
nota.
270
In realtà era proprio quest’ultima, nel senso tutto francese e moderno del
termine, al centro dell’esordio di Liberatore, a confermare non solo la prontezza
con cui egli recepiva le novità del 1806 ma anche e specialmente l’analogia di presupposti e di obiettivi sulla quale si era preparato a recepirle:
Nell’imminente organizzazione che vanno a ricevere le nostre
provincie, quella di Chieti osa far pervenire i suoi voti fino ai
piedi dei rigeneratore della nazione napoletana.
Ché in verità di rigenerazione, e radicale, si trattava, a cominciare dal codice,
in uno stato di cose le mille miglia distante dalle rievocazioni ottimistiche di Borrelli
e di Nicolini (sulla strenua e coraggiosa militanza di quest’ultimo in favore della
continuità prima e dopo il 1806 avremo modo di soffermarci ampiamente) che
viceversa anche il tardo Liberatore non avrebbe mai fatto proprie30 fermo nella
raffigurazione di un regno di Napoli
la di cui legislazione è formata da quell’immenso complesso di
casi presso che tutti particolari, che mette capo nella grandezza
e nelle vicende del Lazio, nel vario dispotismo de’ Cesari, nella
diversa barbarie de’ nuovi conquistatori, nelle pie frodi chiesastiche, nella conculcatrice politica vi-ceregnale31, nel cieco ni coerente impero de’ re, e nell’ammasso indigesto di usi eterogenei e di giudizi sovente contradditori
secondo la dimostrazione fornita, una volta per tutte, da Melchiorre Delfico, la cui
stroncatura della giurisprudenza romana il Nostro non si sarebbe peraltro sentito di
condividere sino in fondo32.
Il codice, dunque, quanto alla cui coerenza col sistema politico napoletano
Liberatore si astiene da ogni decisione, rimettendosi a Giuseppe e riservandosi in tal
modo implicitamente il suggerimento di modifiche che avrebbe caratterizzato il
saggio del 1814.
_______________
30 - In questo senso è da leggersi P. LIBERATORE, Filangieri vindicato dalle ingiurie di
M. Lerminier in “FILOLOGIA ABRUZZESE”, Napoli, giugno-agosto 1836, pp. 23-28 e 7889 (è il primo fascicolo di quello che in seguito sarebbe stato il “GIORNALE”, Napoli, di De
Virgiliis, e l’intervento di Liberatore riproduce una memoria letta alla Pontaniana). Nel contestare le tendenziose interpretazioni dello scrittore francese, e prima di lui, naturalmente, di
Constant, il Nostro si preoccupa, rifacendosi significativamente al classico parallelo con Beccaria
ed all’elogio 1788 di Donato Tommasi, di collocare Filangieri su una linea che risale a Vico, ma
che inserisce anche quest’ultimo in una tradizione scaturita da Bruno e da Campanella, anticipatrice di Montesquieu nello studiare il diritto “colla fiaccola della storia” secondo quanto suggerito dall’Aulisio fino a Giuseppe Pasquale Cirillo ed appunto a Filangieri, che perciò precede
anche Savigny e si apparenta degnamente a Muratori nel rifiutare le aberrazioni del diritto romano. “Un dritto tutto nuovo - conclude Liberatore, quasi condensando all’ombra di Filangieri quella che potrebbe chiamarsi la filosofia del 1806 - proclamò egli che fosse necessario,
profittando delle lezioni de’ nostri padri in.ciò che fosse conveniente allo stato delle nazioni...
allontanandosi egualmente dalla servile pedanteria di coloro che niente vogliono mutare e
dall’arrogante stranezza di coloro che vorrebbero tutto distruggere”.
31 - È questo, s’intende, un ormai consolidato luogo comune, su cui vedremo tornare
con eloquenza, ed in occasione solenne, il Nicolini.
32 - P. LIBERATORE, Introduzione allo studio della legislazione del regno delle Due Sicilie,
Napoli, 1832, pp. 32-33.
271
Per il momento, nel 1806, e prima della legge del 6 agosto, il problema
pressante è quello della feudalità, a proposito del quale Liberatore preferisce attestarsi sulla linea di Filangieri e Palmieri, recupero dell’aristocrazia come ordo a sostegno della monarchia ma non privilegiato, conservazione di titoli, rendite e ordini
cavallereschi, l’honneur, insomma, tanto caro a Montesquieu, ma niente diritti feudali
“odiose usurpazioni e mezzi atroci di oppressione” secondo quanto già si è cominciato sistematicamente a fare per iniziativa del Di Gennaro duca di Cantalupo:
Non sono il nemico del baronaggio, né mi lascio trarre dalla
corrente de’ publicisti moderni i più accreditati, che pel bene
universale ne declamano l’abolizione... Io non so se nella
costituzione che forse avremo rimarranno i feudi, ma...
dovrebbero assolutamente riunirsi allo Stato le giurisdizioni...
per togliere quell’odiosa differenza tra città demaniali e terre
baronali che tanto distrugge la politica eguaglianza.
Liberatore aveva l’occhio alla sua Lanciano ed alla causa più che secolare
contro gli Avalos marchesi del Vasto, un municipalismo appassionato che più
avanti gli avrebbe suggerito di proporre la riapertura del porto di S. Vito, la restituzione della fiera, soprattutto l’installazione di un tribunale di prima istanza, che nel
gennaio 1809 si sarebbe eretto addirittura in forma di magistratura d’appello, non
sappiamo fino a qual punto per interessamento dei personaggi chietini dei quali ci
stiamo occupando (ma della provincia, nessuno del capoluogo!) e solo nel maggio
1817 si sarebbe trasferito all’Aquila33.
Per il momento, a parte l’excursus storico su Lanciano, culminante con
Championnet, che l’aveva dicharata “centrale della provincia”, una soluzione amministrativa che il Nostro non vedrebbe di malocchio in bilanciamento a Chieti, le
istanze riformistiche generali sono le più assillanti, da quelle giudiziarie ed amministrative (gratuita amministrazione della giustizia, abolizione della venalità degli uffici
con risarcimento, unificazione della giurisdizione locale con pronta eliminazione di
quella doganale, eleggibilità dei giudici da parte di un parlamento universale comunitario opportunamente rinnovato e dinamizzato) alle riforme dell’istruzione, accentrate su università provinciali, ed a quelle finanziarie, miranti a proporzionare i
tributi alle capacità abolendo il focatico e concentrandosi sulla fondiaria e sulla liquidazione dei demani “avanzo delle barbarie de’ nostri padri” al pari dei diritti
proibitivi, a cominciare da quello delicatissimo del sale.
_______________
33 - Nel 1806, infatti, Liberatore prevedeva Chieti quale sede della gran corte civile, e
perciò capoluogo giudiziario dell’intero Abruzzo. Queste sue proposte, d’altronde, non temperavano l’assidua polemica, che si direbbe di eredità galantiana, e che, ancora una volta, non si
sarebbe trovata mai in Nicolini, contro la “turba immensa di legali cavillosi”, un’espressione di
Cose patrie in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoli,
luglio 1838, pp. 3-15 dove si deplora anche l’abbandono della strada Frentana per Palena a
Roccaraso, sulla quale, come vedremo, tre anni prima si era intrattenuto Nicolini. Già nei Pensieri, peraltro, è plasticamente, e qui si direbbe sulla traccia di Genovesi, vivissima la polemica
contro il pagliettismo, e più latamente lo pseudo culturalismo improduttivo, allorché si parla
di Agnone e del suo “splendore non atteso” in mezzo ad una natura straordina-riamente ingrata per difficoltà di comunicazioni, l’arte del rame donde scaturisce “il denaro, e seco tutti
comodi della vita” salvo peraltro “quei bravi artefici” cominciare a trascurarla “e, vedendo la
gran considerazione del passato governo per gli oziosi (sic!), sono in procinto di passare alla
classe de’ medesimi, col procurare a’ figli le lauree, e far consumare il frutto de’ loro sudori nella
capitale”: e poco prima aveva scritto incisivamente,
272
Quanto specificamente ad Abruzzo Citra, l’intervento governativo avrebbe
dovuto aver di mira l’identificazione delle “sorgenti della ricchezza” nell’agricoltura,
nelle arti e nel commercio, allo scopo di “rapprossimar gli estremi al più che sia
possibile”, secondo l’ammonimento di Rousseau.
La forbice tra l’emigrazione bracciantile e la scarsezza dei raccolti,
l’insicurezza delle campagne donde l’impossibilità di una colonizzazione razionale, la
mancata utilizzazione delle acque del Sangro e dell’Aventino per i lanifici di Palena e
della zona contermine, le prepotenze feudali che impediscono il completamento
della litoranea della Puglia e soprattutto il passaggio dei fiumi, insieme con le rivalità
municipali, tutto ciò tratteggia per Abruzzo Citra un quadro largamente prevedibile
ma non per questo meno suscettibile d’interventi particolari, che Liberatore sostanzia nella rivitalizzazione della struttura confraternale in forma di “compagnie agrarie” o altrimenti assistenziali, appoggiate dai monti frumentari, nella canalizzazione
del Pescara, in una rete organica di ponti34.
I Pensieri costituivano la testimonianza concreta, tangibile, della maturità con
cui la classe dirigente formatasi in Abruzzo Citra nell’ultimo quindicennio del Settecento era in grado di recepire, assimilare e soprattutto far rapidamente fruttificare
le sollecitazioni del nuovo regime.
Perciò esso si avvalse con prontezza, ed al più alto livello, della sua collaborazione, Nolli e Liberatore, l’abbiamo visto, rispettivamente in Capitanata ed in
Calabria, donde l’avvocato lancianese sarebbe passato nel 1808 procuratore generale alla gran corte criminale dell’Aquila, dove avrebbe lasciato fama duratura di
rigore35, Borrelli nel 1807 alla segreteria della commissione feudale e due anni più
tardi a quella della prefettura di polizia, che gli avrebbe procurato un’ardua convivenza col ministro Maghella ed il trasloco, con pratico danno finanziario, alla gran
corte civile di Napoli36, Nicolini rimasto avvocato dei poveri alla conquista francese
e solo nel novembre 1808, a quanto pare contro la sua volontà, designato alla procura generale della gran corte criminale di Terra di Lavoro, il De Thomasis, infine,
subito nell’ottobre 1806 sottintendente di Sulmona, e dopo pochi mesi, nel luglio
successivo, intendente di Calabria Ultra.
_______________
mostrando di aver già assimilato a dovere il vichismo di Filangieri: “Non più la filosofia e la
storia sono le basi della scienza legale”.
34 - Ho citato e riassunto dai Pensieri civili economici sul miglioramento dellaprovincia di Chieti
umiliati al regal trono, Napoli, 1806 soprattutto 1, 1-3, 16-27 passim, 31-32, 51, 60-77 passim, 85
ss., 92, 116-125 passim e II, 4, 38-39.
35 - Se ne rende interprete ancora in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENTE
LETTERE ED ARTI”, Napoli, aprile 1840 pp. 41-47 il ben noto sacerdote liberale ed educatore sulmonese Leopoldo Dorrucci, in un profilo biografico di Liberatore che ricorda il suo
cancellierato, nel 1798, alla doganella di Abruzzo Citra, da lui così acremente stigmatizzata nei
Pensieri, dove avrebbe avuto modo di conoscere Pasquale Borrelli.
36 - A queste vicende, senza che qui sia possibile, s’intende, approfondire né tanto meno documentare l’argomento, accenna la citata Memoria con lo specificare che Borrelli avrebbe
combatutto lo spionaggio, eliminato il delitto di Stato ed i provocatori e macchinatori di cospirazioni politiche, con la conseguente frequenza di condanne a morte più o meno arbitrarie. La
repressione del contrabbando, l’istituzione di un consiglio medico e la sistemazione igienica
delle carceri sono altre benemerenze rivendicate in Bibliografla di Pasquale Borrelli, Koblentz,
1840, pp, 6-7, mentre F. NICOLINI, Nicola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del secolo
XIX, Napoli, 1907, p. XXXVIII accenna all’inflessibilità di Pietro Colletta e di altri magistrati
militari nei cui confronti Nicolini aveva
273
L’atmosfera del trapasso sarebbe stata rievocata col consueto fervore,
trent’anni più tardi, nell’agosto 1835, nell’Elogio dedicato alla memoria di Amodio Ricciardi
che Pasquale Borrelli pronunziava in casa di Giuseppe Poerio sintetizzando
l’esperienza dì una generazione in quella di uno dei suoi più cospicui e rappresentativi esponenti proprio in quell’ordine giudiziario e più latamente giuridico che è il
protagonista del nostro discorso37:
Innanzi di spiegare presso questo collegio (scil. la magistratura)
le proprie funzioni, era uopo formarlo. Era uopo bandire,
senza punto irritare, le antiche abitudini: era uopo farne sorgere
gradatamente delle nuove, senz’aver l’aria d’imporle: era uopo
insegnare, senza prender giammai la fisonomia del maestro: ed
a forza di lodare il poco era uopo spingere destramente gli
animi al molto. In opera si disagevole e la soverchia lentezza e
la fretta soverchia avrebbero potuto essere fatali
all’amministrazione della giustizia. Indamo il saper legale
avrebbe avuto l’ambizione di giunger da sé solo al fine
prefisso. Era mestieri congiungergli quella modestia disinvolta
che, senza urtar l’amor proprio, istruisce e dirige: quella purità
d’intenzione che disarma la calunnia: quell’amor di giustizia che
sorprende ed edifica, pur quando dispiace.
Quasi contemporaneamente ad Amodio Ricciardi, come sappiamo, scompariva il Petroni, e qui era il Nicolini38 a calare nel concreto dell’attività quotidiana
del, responsabile di un’amministrazione periferica ciò di cui Borrelli aveva delineato
la “filosofia”:
Sue furon la divisione territoriale, la formazione de’ decurionati
e de’ consigli distrettuali e provinciali, la istituzione de’ collegi e
delle scuole primarie, la forma e la ripartizione della coscrizione militare e de’ tribunali, le prime traccie delle strade interne,
le prime linee di separazione tra l’amministrativo e il giudiziario
nella provincia39, le prime applicazioni delle leggi abolitrici
della feudalità e de’ dritti proibitivi.
_______________
dovuto competere in un’atmosfera di tensione analoga a quella di Borrelli, tensione che viene
ampiamente ridimensionata in A. DE MARTINO, Antico regime... cit. p. 134.
37 -L’Elogio, stampato in opuscolo nello stesso 1835 presso la stamperia dell’Aquila, è
oggi riprodotto, privo di note, in A. RICCIARDI, Memoria sugli avvenimenti di Napoli nell’anno
1799 edizione critica a cura di R. Lalli, Campobasso, s.d., pp. 111-120. È il caso di ricordare che
il Ricciardi, molisano di Trivento, di ricchissima famiglia originaria dell’altra sponda, quella
abruzzese, del Trigno, era uno dei tanti magistrati richiamati in ufficio da Ferdinando II dopo
un decennio di decadenza a seguito dell’elezione a deputato nel 1820, che faceva seguito alla
nomina a procuratore generale presso la gran corte civile di Napoli nel 1808 (il Ricciardi si era
ritirato a Torino, e già lì era entrato autorevolmente nella magistratura subalpina), a consigliere
di Cassazione nel maggio 1812, presidente nella gran corte civile appena trasferita all’Aquila nel
giugno 1817, intervallati questi ultimi uffici dalla presidenza del consiglio generale di Molise. La
citazione del testo è a p. 10 dell’opuscolo.
38 - Facciamo sempre, e conclusivamente, capo a “GIORNALE ABRUZZESE DI
SCIENZE LETFERE ED ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1838, p. 174, lo stesso fascicolo,
si noti, nel quale, alle pp. 115-123, era apparsa una prima Bibliografia di Giuseppe De Thomasis a
firma P.C. (Pasquale Castagna) contenente il famoso aneddoto dell’inginocchiamento reciproco
a cui il Nostro avrebbe costretto un postulante calabrese, poi ripreso dal Croce e divenuto pressoché emblematico della gravitas del De Thomasis.
39 - Si tratta, l’abbiamo visto, di Teramo, dove Petroni era stato segretario generale dal
1806 al 1812.
274
L’uomo che aveva saputo meglio congiungere nella propria personale attività la poesia di Borrelli e la prosa di Nicolini, per così dire, era stato il loro amico
e comprovinciale Giuseppe De Thomasis, quanto meno per quel che sappiamo di
lui dall’abruzzese Egidio Grilli, in attesa che opportune ricerche ci facciano conoscere qualche cosa di più della sua successiva molteplice attività in Calabria e nella
capitale40.
Dall’ottobre 1806 al luglio 1807 sottintendente di Sulmona
paese mancante di ogni risorsa, avvilito dalle passate sciagure,
nel quale le piaghe dell’anarchia sono ancora fresche
(il riformatore intransigente che è De Thomasis non parla, naturalmente,
dell’abolizione del regime doganale e dell’avvio dell’affrancamento del Tavoliere,
che aveva sovvertito alla lettera una vasta zona appenninica tradizionalmente e
compattamente armentaria) egli avanzava infatti con immediata concretezza la proposta, che si sarebbe realizzata tra il marzo ed il luglio 1807, per la bonifica di circa
8 niíla ettari della conca peligna grazie alla riapertura ed al riassestamento
dell’antichissimo canale di Corfinium, ora diventata Pentima, allo scopo di far rientrare dall’Agro romano la gioventù emigrata nella stagione invernale, e cosi sottrarla al
brigantaggio.
Coinvolgeva inoltre il De Thomasis la pubblica opinione con l’immissione di
una sorta di assegnati mensili e con una serie di appalti particolari, il cui governo
peraltro non poteva non rimanere affidato all’aristocrazia ex feudale, con le conseguenze e le vischiosità del caso.
Quest’ultima clausola, ed il paternalismo tanto dei presupposti quanto delle
finalità dell’impresa, s’inquadravano perfettamente e precocemente nella filosofia
della continuità propria della monarchia amministrativa in Abruzzo a livello ambientale, ma che vedremo tra poco ragionata compiutamente da Nicolini nella sua
cornice culturale, e nella più impegnativa delle circostanze.
Essa s’irrobustiva, peraltro, nel sistema di De Thomasis volto alla formazione di una classe dirigente post gesuitica (a Sulmona c’era stata la Compagnia, non
c’erano stati gli Scolopi, come invece, in Abruzzo, oltre che a Chieti, soltanto a
Lanciano ed a Scanno) con un collegio regionale d’istruzione ed educazione istituito
a Sulmona nel maggio 1807, affiancato da scuole di disegno e da una biblioteca,
che sarebbero rimaste di massima sulla carta.
Simile sorte sarebbe parimenti toccata all’ambizioso progetto per
un’autentica università provinciale (si rammentino le analoghe idee di Liberatore),
anch’esso comunque indicativo della necessità di prendere le cose da lontano, se
s’intendeva riassestare lo sbandamento strutturale della società post armentaria, denunziato cosi drasticamente
_______________
40 - R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit. p. 251 reputa De Thomasis “uno dei fautori della
ri forma del contenzioso amministrativo e in perfetta sintonia con l’opera riformatrice del ministro della Giustizia (scil Donato Tommasi) in questo campo” ma in realtà non riesce ad andare oltre Grilli (pp. 217 e 251) a parte alcune importanti precisazioni che si vedranno più avanti. È Grilli, infatti, che ci informa della corrispondenza con Murat durante la permanenza a
Monteleone e delle dimissioni respinte dal sovrano nel febbraio-marzo 1809, prima cioè del
ritorno in Abruzzo, nell’ottobre dello stesso anno, sul quale ci soffermeremo più avanti, sempre peraltro sulla traccia esclusiva del benemerito Grilli, che è altresì la fonte di ciò che si dice nel
testo.
275
dall’insorgenza, e soprattutto dalla disoccupazione od emarginazione di migliaia
d’individui e d’intere comunità e zone appenniniche, che intorno alla pastorizia
si erano strutturate.
Il 14 novembre 1808, mentre gli amici e conterranei Borrelli, De Thomasis e Liberatore lavoravano rispettivamente a Napoli, Monteleone ed Aquila,
il Nicolini era nominato a S. Maria di Capua.
All’infelice D’Astrea raggiunto dalla spada ultrice Scudo io finor, d’un Dio non senza aita, La stessa ultrice spada ecco ho
brandita, Campion d’Astrea... Ma d’alto imposte, e non richieste, io prendo Le insegne sue....
Sembra sincerissimo, e significativamente sincero, in questo rammarico
per lo scambio della toga d’avvocato con quella di magistrato, Nicola Nicolini
in questo sonetto datato 7 gennaio 180941 lo stesso giorno del discorso
d’insediamento quale procuratore generale nella gran corte criminale, stampato
col titolo istruttivo ed eloquente Del passaggio dall’antica alla nuova legislazione nel
regno delle Due Sicilie42 e che qui riassumiamo e citiamo nei suoi fondamentali,
importantissimi concetti.
Una successione di leggi, nella progressione assidua de’ bisogni
civili e de’ lumi, dettandolo le cose stesse, le ha si portate a
questo termine che noi, per isnodare ed applicare le leggi nuove, non faremo altro che richia-marle, con la storia legale alle
antiche.
Nicolini enuncia in esordio il postulato machiavelliano del “ritiramento a’
principi” che gli sarà sempre carissimo, ma vi affianca, nella prospettiva comune della continuità, il concetto tutto vichiano della “storia legale” che attende di
essere schiarito nello svolgimento del discorso.
Oggi si è fatta di tante leggi una sorta di revision secolare; ed il
passaggio dalla vecchia alla nuova legislazione è assai meno
sensibile di ciò ch’ogni volgare può scorgere... Nel regno dove
nacque Filangieri nulla può esser nuovo di quanto andrò divisando... La legge penale, lungi dall’esser copia della legge penale francese, ha le sue prime disposizioni generali tratte dal
Filangieri
(è notevole questo discrimen analogo a quello di Liberatore, ma con
un’accentuazione polemica e formalistica assai più risentita che in lui).
E Nicolini prosegue, affrontando un tema sul quale Liberatore sarebbe
stato assai meno ottimistico nei confronti del passato e Francesco Ricciardi,
come ministro, legalisticamente intrattabile:
_______________
41 - Vedilo in N. NICOLINI, La musa di famiglia...cit. p. 32.
42 - Lo leggiamo nella seconda edizione, Napoli, 1840.
276
Noi dobbiamo celebrare nei giudizi i principi umanissimi che,
sviluppati da’ nostri giuspubblicisti, temperavano appo noi
quell’arbitrio il quale imperava nelle cause per l’applicazione
delle pene. Senonché oggi ogni arbitrio è cessato: niun fatto
può dichiararsi punibile se non è tale espressamente dichiarato
dalle legge; niuna pena può essere applicata se non è dalla legge
indicata qual sanzione espressa dell’infrazione.
Sembra invece che Nicolini sottovalutati in certo senso ciò che con maggior
fervore di novità aveva auspicato Liberatore nell’attesa legislazione francese
La parte che può apparire più nuova è la giurisdizionale... Ridotte ad unità tutte le giurisdizioni, l’abolizione della feudalità,
di questo flagello ignoto ai nostri paesi quando Capua era Capua (sic!), cospira meravigliosamente alla restaurazione della
forza necessaria a’ giudizi
prima di tornare, una volta dissoltisi i fantasmi della barbarie gotica, all’illustrazione
di ciò che gli sta massimamente a cuore:
Noi non cominciamo con la novella legislazione una novella
civiltà ma proseguiamo in quella che si godeva (sic!), sciolti però dalle difficoltà del numero e contraddizione delle leggi43,
distrigati dalle autorità incerte di oscuri scrittori, purgati
nell’aperta luce di semplici e ben collegati e fecondi principi,
certi di noi per forme sicure d’interpretazione, rendute intelligibili e popolari per la sostituzione del linguaggio universale
d’Italia al gergo barbaro e basso insinuato nelle leggi e ne’ giudizi dalla ignoranza e da municipale mal inteso amor proprio 44.
La civiltà di cui godeva il regno di Napoli è quella che viene sintetizzata
nell’introduzione storica, ferma nel prendere le distanze, anche qui in sintomatico
dissenso da Liberatore, dall’empietà e dallo scetticismo di Giordano Bruno, ma
tenace nel rivendicare ad una linea costante dall’inevitabile Ciccio d’Andrea del Redi
fino a Giuseppe Pasquale Cirillo, attraverso Niccolò Capasso, la riduzione ad unità
quanto meno concettuale della legislazione del regno, grazie ad un diritto romano
visto anche qui ben più favorevolmente che non da Liberatore, a non parlare di
Delfico.
Ed anche nella conclusione pare di poter vedere una certa divergenza rispetto a quel “tempio dell’alleanza tra la filosofia e la storia del diritto” che Mancini
avrebbe plasticamente scorto nella mente di Pasquale Liberatore45 allorché Nicolini
si risolve ad espli_______________
43 - Anche qui si ha la sensazione che Nicolini non intenda conferire il dovuto rilievo
ad un risultato capitalissimo come questo.
44 - Mezzo secolo più tardi, nell’ultimo suo scritto, che esamineremo tra breve, il vecchio Nicolini avrebbe rinnegato anche quest’altra caratteristica affermazione delle lumières.
45 - P.S. MANCINI, Della vita e delle opere di Pasquale Liberatore, Napoli, 1842 (è una lettura tenuta alla “Pontaniana” l’11 settembre, a pochi giorni dalla scomparsa del vecchio maestro lancianese, avvenuta a Gragnano il 21 agosto: Mancini, prima di riassumere e valutare il
Saggio, come vedremo più avanti, e di esporre ottimamente
277
citare la densità vichiana del concetto di storia legale in termini forse leggermente
deludenti:
Filologia e giurisprudenza sono i due motori che svolgono a
poco a poco e rendono popolari le massime della filosofia
civile, dal che i mezzi e l’opportunità al legislatore di ricondurre
tutta la sparsa legislazione a’ principi suoi in un codice
non altro, insomma, quest’ultimo, se non una sorta, essenzialmente, di razionalizzazione restauratrice, nella continuità di filosofia civile.
Nel novembre 1809, intanto, mentre il procuratore generale Nicolini, proprio in vista di una tale razionalizzazione, metteva a stampa e diffondeva una Circolare agli ofiziali della polizia giudiziaria della provincia di Terra di Lavoro, ed all’indomani
del ritorno di De Thomasis in Abruzzo in qualità di ripartitore demaniale (vi torneremo tra breve) il portafoglio della Giustizia veniva assunto, dopo Cianciulli e la
breve permanenza di Zurlo, da Francesco Ricciardi, la cui grandeggiante personalità
si stagliava subito come protagonista, tra l’altro con la circolare sulla sorte dei detenuti e la riforma penitenziaria, emanata a pochi giorni dall’incarico ministeriale, il 22
novembre 1809, che poneva non a caso l’arbitrio al centro della propria riflessione
e sarebbe stata citata e lodata come esemplare proprio da Nicolini46:
Chiuse le prigioni a’ mandati illegali, e perseguitandosi con
egual severità gli arresti arbitrari, scomparirà per sempre
questo abuso distruttore d’ogni sicurezza individuale, la quale
costituisce un oggetto così essenziale del vostro ministro come
lo è la persecuzione de’ delinquenti.
Questo dell’arbitrio e dell’illegalità in genere, ampia a coinvolgere eventualmente i possibili risvolti deteriori della giurisdizione militare, sarebbe stato, com’è
noto, terreno di asperrimi e caratteristici scontri tra Ricciardi e Zurlo ministro
dell’Interno, sia che nel maggio 1811 il gran giudice si pronunciasse per l’amnistia e
contro le esorbitanze di Manhés
I preti, i canonici, i parroci, sono costretti a marciare armati.
Questo spettacolo contrario alle leggi ecclesiastiche scandalizza
il popolo; bisogna rispettare anche i pregiudizi, quando sono
generali, non si deve urtare l’opinione47
_______________
i presupposti ed i risultati del quindicennio d’insegnamento privato 1821-1837 del Liberatore,
aveva esattamente ritenuto che egli nei Pensieri ragionasse “de’ bisogni dell’agricoltura, delle arti
e del commercio non, come purtroppo si suole anche oggi, intermini vaghi e generali, ma in
modo concreto e positivo”). Sull’argomento si veda ultimamente G. OLDRINI, La missione
filosofica del diritto nella Napoli del giovane Mancini in PASQUALE Stanislao Mancini: l’uomo, lo
studioso, il politico, introduzione di Giovanni Spadolini, Napoli, 1991, p. 402.
46 - N. NICOLINI, Instruzione.per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace, Napoli, 1812, pp. 229-231 (vi torneremo più avanti).
47 - Su questo aspetto constateremo il diverso avviso di Nicolini, anche se non indirizzato specificamente contro Ricciardi.
278
sia che nell’aprile 1814 si elevasse a massime generali dal particolare dibattito circa
l’adozione di misure straordinarie in Abruzzo:
L’arbitrio è il principale difetto di un governo... Lo spirito
pubblico non si dirige né con fogli pubblici né con scritti incendiari. Sono queste anni che hanno perduto la loro forza.
Nel regno le popolazioni sono divise, altre sono nemiche, talune inclinate al male, la maggior parte indifferenti. Contro le inclinate al male si debba procedere con molto rigore ma nelle
forme legali... Da tutta la classe dei proprietari del regno si desidera l’adempimento delle promesse, molte volte reiterate, di
presentarsi la costituzione48.
Ma forse di maggior interesse, nel nostro ambito attualmente circoscritto, è
la valutazione che di Francesco Ricciardi e della sua opera fornì il gruppo abbastanza omogeneo, ed a lui di massima profondamente affine, di cui ci stiamo occupando, sia nella dialettica quotidiana e, per così dire, militante, dell’esercizio della
magistratura, sia nella più riposata prospettiva e considerazione storica.
Ci sia consentito peraltro a questo punto aprire una sorta di parentesi per seguire l’iter di Giuseppe De Thomasis, il cui ufficio di ripartitore demaniale lo poneva ovviamente in assai più stretto contatto con Mosbourg e con Zurlo anziché
con Ricciardi, fino almeno all’aprile 1812 quando, avendo rifiutato la designazione
ad intendente di Cosenza, anch’egli entrò, come consigliere di Cassazione, alle dipendenze del giurista foggiano, dove sarebbe restato fino all’ottobre 1813, allorché
avrebbe assunto l’ufficio di procuratore generale della corte dei Conti.
Fin dal luglio 1807, nei rapporti conclusivi su biblioteca e scuole di disegno a
Sulmona prima della partenza per la Calabria, De Thomasis aveva insistito sulla
priorità d’iniziative del genere
distruggendo gli errori a furia d’istruzione e diradando
l’ignoranza con la luce delle umane coscienze,
Ora che tornava in Abruzzo, con sede regionale a Chieti, donde il 20 maggio 1810 emanava un primo proclama circa i criteri da seguire nella ripartizione dei
beni feudali e demaniali, biblioteca e scuole di disegno erano state messe nel cassetto in favore della gran corte civile istituita a Lanciano ma soprattutto della repressione militare di Manhès, sicché l’aspetto sociale, di disoccupazione di massa,
del problema post pastorale erompeva con tutta la sua forza.
Non a caso il proclama di Chieti precedeva di pochi giorni l’impostazione
del canale del Sagittario come corrispondente di quello di Corfinio sul versante
opposto della conca peligna, mentre se ne progettava uno analogo per il medio
Aterno, le cui acque venivano nel frattempo restituite all’uso comunitario, e si studiavano strade che dalle gole del Pescara a Popoli s’irradiassero in direzione
dell’Adriatico e di Teramo.
_______________
48 - A. VALENTE, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, 1976 (edizioni precedenti 1941 e 1965), pp. 70-72 e 196-197.
279
Ma soprattutto con una lettera a Delfico 5 luglio 1810 ed un rapporto
ministeriale dell’11 settembre successivo, seguito il 30 ottobre da un secondo
proclama collegante intelligentemente il fiorire del brigantaggio con la ripartizione demaniale in corso, e minacciante perciò “come i veri nemici
dell’umanità” coloro che dissuadessero e spaventassero i poveri perché non
richiedessero la terra, De Thomasis, avendo l’occhio a vecchie abitudini migratorie dalle zone attualmente scottanti dell’insorgenza, proponeva il trasferimento degli abitanti della valle Castellana e della montagna di Roseto, sul versante teramano del Gran Sasso, nella zona del basso Chietino compresa fra il
Sangro ed il Trigno.
Si sarebbe trattato, nel pensiero del Nostro, di subordinare i turbolenti
albanesi molisani ed abruzzesi, protagonisti del Novantanove e dei suoi strascichi “anarchici”, al comunitarismo ben più organico e disciplinabile dei pastori
appenninici, ed intanto chiudere la pagina dell’insorgenza e dell’armentizia ad un
tempo nella montagna teramana, che di entrambe era stata la roccaforte inesauribile sin da fine Cinquecento.
Il progetto di De Thomasis non ebbe neanche un principio d’attuazione,
mentre nel dicembre 1810 la sua proposta d’istituire un liceo a Sulmona si fondava sull’importante riflessione che
nel resto degli Abruzzi l’educazione materiale e morale è tuttavia la pro-prietà dei preti, il che sotto molti rapporti è un male,
ma nella provincia di Aquila è la proprietà di niuno, il che è assai peggio.
Anziché la colonizzazione in grande stile, alla quale si era opposto specialmente il ministro Zurlo, fu adottato, tra il febbraio 1811 e l’aprile 1812,
quando De Thomasis lasciava l’ufficio abruzzese dopo essersi a più riprese lamentato della mancata collaborazione di Teramo e del sabotaggio di Winspeare, tutte cose che andrebbero definite e chiarite, l’alquanto più modesto criterio
di popolare i feudi rustici di Roccapizzi e Carcere sull’alto Sangro, a cui fu imposto il classicheggiante nome di Ateleta in quanto esenti da tributi.
Si trattò di una realizzazione circoscritta ma quanto mai significativa perché, insieme con i canali peligni e con la strada considdetta Napoleonica
sull’opposto versante dell’altopiano delle Cinque Miglia, rimane il solo grosso
risultato tangibile di modificazione ambientale nel periodo murattiano in
Abruzzo, e proprio ai margini o nel cuore del mondo pastorale, a ribadirne la
centralità, quanto meno problematica, all’interno del tessuto regionale.
Torniamo ora a Francesco Ricciardi ed anzitutto a quella sorta di bilancio del suo primo triennio ministeriale che viene tracciato da Nicola Nicolini49
interrompendosi significativamente a fine 1812, allorché, per ordine del gran
giudice, egli scrive l’Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace di
cui parleremo tra breve.
Ricciardi, esordisce Nicolini con parole che vanno lette in controluce a
quanto si è visto più sopra, si distingueva come avvocato
_______________
49 - N. NICOLINI, Le notizie sulla vita di Francesco Ricciardi in SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA, ms. XXX A 9 cc. 114-117 (subito prima la citata Memoria del Borrelli) sono anonime ma autografe di Nicolini, secondo quanto Fausto Nicolini
persuasivamente afferma in Nicola Nicolini... cit., p. XLII.
280
pel sistema di trarre non già da’ forensi, le cui citazioni
fissavano a’ suoi tempi la ragione di decidere le cause, ma
dall’intima filosofia e dal diritto pubblico le sue difese.
La vichiana storia legale sembra pertanto qui assumere una densità ed un
ritmo più propriamente storicistici rispetto alla giurisprudenza un po’ formalistica
ed esteriore delle precedenti formulazioni nicoliniane.
Comunque ciò sia, ecco Francesco Ricciardi subito nel 1806 segretario di
Stato nel consiglio di Stato con diritto di voto e nel novembre 1809 ministro della
Giustizia in uno stato di cose troppo evidentemente egemonizzato da Cristoforo
Saliceti al dicastero della Polizia (dove, non si dimentichi, era Borrelli, un chiaroscuro che andrebbe seguito con cura) donde l’esigenza di eliminare codesta egemonia,
di rivendicare l’indipendenza dei magistrati, di proibire a Saliceti di corrispondere
con essi se non tramite il Guardasigilli.
Nicolini si era trovato al centro di queste radicali novità, perché Ricciardi non
aveva tardato, nell’agosto 18 10, a chiamarlo da Capua alla presidenza della gran
corte criminale A Napoli, e ad insediarlo nel novembre successivo, accanto a Poerio, Winspeare, Saponara e Amodio Ricciardi, nella commissione incaricata di tradurre ed adattare i codici francesi, che avrebbe concluso i suoi lavori tre mesi più
tardi.
Nel frattempo, ricorda Nicolini, lavorava in un’altra commissione, quella del
consiglio di Stato per lo scrutinio dei magistrati e la valutazione dei meriti che avevano fatto concedere la toga, un compito delicatissimo, che era stato espletato
nell’aprile 1811 con la messa a ritiro, ad un terzo del soldo, di una buona trentina di
magistrati, per i quali tra stata accertata non più che una vera o presunta persecuzione antigiacobina.
Sappiamo quanto placidamente e contemplativamente Nicolini avesse attraversato le burrasche del Novantanove ed i loro riflessi napoletani e provinciali50.
Ma è molto significativo che trent’anni più tardi anche Pasquale Borrelli, nel
suo Discorso pronunziato presso al feretro del conte di Camaldoli Francesco Ricciardi presidente
interino della Società Reale Borbonica51 si soffermasse in particolare sull’epurazione della
magistratura, e sulle sue conseguenze, come uno dei risultati più consistenti e durevoli del governo di Ricciardi:
Non la sua ambizione, ma la riputazion del suo merito lo indicò agli stranieri che nel 1806 occuparono il regno. Dopo il
volger di pochi anni ei fu collocato nell’apice
dell’amministrazione della giustizia: e parve allora che si assidesse nel natural suo posto 52... Una magistratura sapiente,
_______________
50 - Nicolini era tornato a Napoli nel novembre 1801 e, almeno in pubblico, aveva abbandonato una volta per sempre la cetra del poeta in pro della toga dell’avvocato.
51 - Apparso primamente sull’OMNIBUS, Napoli, 22 dicembre 1842, fu raccolto subito dopo in opuscolo dal Porcelli, e va letto istruttivamente, s’intende, col discorso pronunziato tre mesi prima da Mancini in morte di Pasquale Liberatore, in una dialettica interpretativa
che fa riflettere. Ricciardi, com’è noto, era morto il 17 dicembre.
52 - Questo era diventato per la verità una specie di luogo comune a proposito di Francesco Ricciardi. Tessendo infatti un Elogio del conte Giuseppe Zurlo, Napoli, 1832 (il discorso era
stato pronunziato il 17 gennaio nell’Accademia delle Scienze presieduta da Ricciardi, e co mmemorava con sintomatico ritardo Zurlo, morto nel novembre 1828) Gaspare Capone aveva
retto il portafoglio della Giustizia “che poscia passò a chi per lungo tempo il resse in modo da
non lasciare ad alcuno di saper immaginare il meglio”.
281
incorrotta, operosa, circondò questo capo: e benché di fresco
educata nelle nuove leggi civili, potè sostenere il confronto con
le più illuminate d’Europa53.
All’interno di questa magistratura, nell’aprile 1812, mentre si deliberava di
far entrare in vigore col 1° ottobre successivo il nuovo codice penale, Nicola
Nicolini assumeva l’ufficio di avvocato generale della Cassazione, avendo a
colleghi Winspeare e Filippo Cianciulli, Poerio come procuratore generale, e
Giuseppe De Thomasis sedendogli dirimpetto, quale consigliere, nella magistratura giudicante.
Fa che l’util di ognun forte io ritiri Verso i principi e l’unità del dritto
invocava il Nostro della Giustizia personificata54 nell’atto d’insediarsi, il 2 giugno 1812, con un discorso 55 che Raffaele Feola giudica “bellissimo” in quanto
conferma che
i limiti imposti alla Cassazione dovevano essere un baluardo
contro il mai sopito potere dei magistrati56
ma probabilmente va letto in ambito più vasto, come caposaldo cospicuo di
quella filosofia della continuità che abbiamo visto caratteristica di Nicolini, e che
sostanzia il suo concetto di storia legale.
Il tema preso a trattare dal Nostro, infatti, ci informa Fausto Nicolini57 è
significativamente La Corte Suprema di Giustizia nelle sue relazioni con le antiche istituzioni del regno, e l’esordio non ne potrebbe essere più pugnace nel ravvisare non
più che “miglioramento e continuazione” nella nuova rispetto all’antica legislazione, entrambe rinvenendo il proprio fondamento comune nel diritto romano
ancorché alterato, sicché l’una poteva dirsi dall’altra “non solo preconizzata ma
quasi germogliata” attraverso un processo a sua volta definibile “non pur analisi
ma filiazione”.
E Nicolini prosegue, con un linguaggio tutt’altro che equivoco:
Noi, prima delle leggi nuove, non eravamo certo senza legge
né giurisprudenza... Sì mancava, è vero, come mancava a tutta
l’Europa, un corpo
_______________
53 - La conclusione del discorso (di cui ci si tiene a notare che era stato pronunziato
dinanzi ad un’adunanza “delle più solenni che abbiano mai avuto luogo”, e cioè la Società
Reale a classi riunite ed una folla d’invitati e d’intervenuti) è anch’essa assai deludente, nel
topos del grand’uomo fine a sé stesso: “Fu in certa guisa il confluente delle celebrità viaggiatrici. Così niuna ve n’ebbe alla quale non paresse di aver poco veduto in questo nostro
paese, se non avesse veduto il conte di Camaldoli” (le citazioni alle pp. 4 e 6).
54 - N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit., p. 33.
55 - N. NICOLINI, Discorso dell’avvocato generale Nicola Nicolini pronunziato
all’udienza della Corte di Cassazione nel dì 2 giugno 1812 ristampato con note relative alla giurisprudenza e alle leggi posteriori, Napoli, 1835 (le citazioni del testo sono alle pp. 6-9, 14-15, 19,
21, 28, 42).
56 - R. FEOLA, Dall’illuminismo ... cit., p. 283.
57 - F. NICOLINI, Nicola Nicolini ... cit., p. XLVI con ampie citazioni.
282
intero e concorde di leggi58... Non vi ha dubbio però che in
ogni materia luminosi erano i nostri principi... Tutto qui menava alla unità e perfezione de’ principi legali, ed alla fusione di
tante e sì diverse leggi in un codice solo.
Uno dei consueti excursus storici giova a confermare un’affermazione impegnativa come questa ed il mito che le è irresistibilmente alle spalle, quello
dell’indipendenza napoletana, dal momento che l’età vicereale, nella più classica
delle presentazioni possibili,
fu l’epoca che spopolò, impoverì e rendette nidi di malfattori
e di briganti le provincie del regno... Se qualche vicerè ha
sentito mai alcun stimolo di gloria, niun d’essi al certo fu
accessibile a’ sentimenti di vera giustizia e di amor nazionale.
E riprende la rivendicazione della continuità, avendo Roma e Vico quali
strutture portanti:
La pubblicità della discussione, intesa a ridestar ne’ giudici il
pudore della giustizia, veniva appo noi portata quasi
all’eccesso 59... Le leggi propriamente dette civili, se per la maggior parte ci son venute di Francia, ritengono in ogni articolo la
fisonomia ed i principi della romana origine e della italica sapienza: le leggi penali e di procedura penale meno dalle francesi che dalle romane o dalle nostre patrie leggi dipendono?
La conclusione formale, dice bene Feola, è l’ammonimento alla Cassazione
“corpo conservatore delle leggi” a non esorbitare dalle proprie ben precise funzioni:
Voi dichiarate nulli e rescindete tutti gli atti che travalicano il
segno.
Ma la conclusione sostanziale, storica, che vorrebb’essere storicista, ed è senza dubbio squisitamente politica ben al di là dell’opinabilità estrema della definizione, è tutt’altra, è quella che ravvisa nella Cassazione d’importazione francese né più
né meno che
_______________
58 - Ancora una volta si ha l’invincibile sensazione che Nicolini pretenda di poter sottovalutare un risultato fondamentale come questo.
59 - Che vi potesse essere in merito un eccesso sarebbe parso probabilmente inconcepibile a Pasquale Liberatore. Si veda con quanta appassionata convinzione disserti Della pubblica
discussione ne’ giudizi penali con Giuseppe Devincenzi in “FILOLOGIA ABRUZZESE”, Roma,
settembre-dicembre 1836 pp. 15-21 allorché si parlava di farla rimanere soltanto per i misfatti
capitali, suscettibili di condanna a morte o all’ergastolo: “Non è il riguardo alla pena che deve
farci desiderare la pubblica discussione, ma il riguardo alla verità de’ giudizi; che difficilmente
può trovarsi senza questo validissimo aiuto; e, tolta la verità suddetta, ogni pena, per minima
che sia, è capitale, perché ingiusta, ogni giudice un carnefice, se non della vita almeno dell’onore
e della libertà d’un condannato, ogni società odiosa, perché mancante al suo fine di assicurare la
pubblica e privata tranquillità”.
283
l’immagine, anzi l’erede ex asse di quell’antichissimo Sacro Consiglio de’ di cui presidenti si formò poscia la camera reale60.
L’unità più o meno machiavelliana del diritto “richiamato a’ suoi principi” è
dunque essenzialmente l’unità infrangibile della tradizione giuridica napoletana e
della storia legale sollevatasi attraverso la giurisprudenza a filosofia civile: questo è il
punto d’arrivo sistematico di Nicola Nicolini dinanzi a Francesco Ricciardi, per
ordine del quale compila in quell’estate 1812 la Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace sicché, lo afferma a tutte lettere nella dedica datata 12 settembre al gran giudice
il mio lavoro è più un repertorio di disposizioni ministeriali che
un’opera mia.
Essa dovrà dunque leggersi in filigrana, in contrappunto, fra Ricciardi e Nicolini, con in testa una sentenza di Filangieri che per la verità si sarebbe potuta applicare solo con grandissimo stento a quella tradizione di Castel Capuano della
quale il giurista di Tollo andava tanto orgoglioso:
La parte della legislazione destinata a regolare la procedura
criminale dev’essere e la più semplice e la più chiara e la più inviolabilmente eseguita: altrimenti non vi è delitto, per manifesto che sia, che non possa rimanere impunito; e non v’è innocenza, per conosciuta che sia, che possa essere sicura della sua
tranquillità e della sua pace61.
Questo contrappunto si fonda, per quanto concerne Ricciardi, essenzialmente sulle sue dense e robuste circolari62 mentre Nicolini interviene con una serie
di commenti e
_______________
60 - Si ricordi che ancora nel discorso Dell’ufficio più proprio della Corte Suprema: ritirare i
giudizi verso i principi pronunziato il 7 gennaio 1835 (vedilo in N. NICOLINI, Discorsi di Nicola
Nicolini pronunziati in adunanze solenni, Napoli, s.d., p. 7) il Nostro avrebbe ribadito la derivazione di quel consesso dal Sacro Consiglio, i cui membri “ricchi di propria luce, prima ancor
degli aiuti della seconda giurisprudenza francese... si elevaron magnanimi a contemplar le occasioni, la ragione e la volontà vera della legge”. In questa medesima raccolta non si trascuri De’
resti di sangue commessi per effetto di un pregiudizio con cui, il 27 novembre 1833, Nicolini fa respingere dalla Corte Suprema il ricorso per un omicidio per fattura verificatosi a Barile in Basilicata, mostrando con ciò maggior rigore rispetto a quel che abbiamo letto più sopra in Ricciardi,
ed anche nei confronti della bella sensibilità antropologica che egli stesso avrebbe mostrato nel
brano che stiamo per leggere nel testo: “Gli errori della mente - afferma qui invece Nicolini non scusano mai un reato quando nascono da folli e risibili pregiudizi”.
61 - Filangieri, è appena il caso di dirlo, costituiva con Gravina e Vico un “illustre
triumvirato” alla cui ombra Nicolini si poneva nell’atto di aprire la cattedra di diritto penale, il
1° dicembre 1831 (si veda il discorso nella raccolta testè citata p. 21). In uno dei suoi corsi, nel
1833, egli avrebbe trattato Della discussione pubblica nei giudizi penali, ritenendola, riassume A. DE
MARTINO Antico regime... cit.,pp. 150 e 211, insieme con l’obbligo di motivare le sentenze
sulla base delle leggi, “elementi fondamentali del nuovo tipo di processo penale”, a proposito
del quale, a giudizio dello studioso (che avrebbe potuto forse tenere opportunamente presente
l’opinione analoga, e che abbiamo visto ancor più rigida, di Pasquale Liberatore) il Nicolini e il
Poerio “dalla loro disposizione favorevole alle riforme murattiane avevano tratto motivo di
elogi troppo spesso eccessivi”.
62 - Si vedano ad esempio quella dei 22 novembre 1809 già citata, quella del 24 novembre integrata il 20 dicembre 1809 intorno alla gendarmeria ed ai suoi rapporti con l’autorità
giudiziaria in Terra di Lavoro dove Nicolini, lo sappiamo, era ancora procuratore generale presso la gran corte criminale, la circolare 24 luglio 1811
284
di richiami che dimostra come e quanto l’esigenza di efficientismo e di razionalizzazione sia stata assimilata da lui
Invano io mi ho aspettato finora quella uniformità, quella
precisione, quella esattezza di procedura che, stabilita dalla
legge per garantire il giudice da ogni funesta omissione, lo
conduce passo a passo, e quasi per mano
ma anche con una seria e fattiva distinzione tra il compito dello storico e quello
dell’inquisitore, tenuto, quest’ultimo, ad una rigorosa applicazione della lettera della
legge, senza doverne indagare pericolosamente lo spirito:
Se non si vuol rischiare di sostituire all’opera della verità quella
della fantasia, del sempre aversi presente che il processo è
tanto più lodevole quanto è più fedele.
L’Istruzione è peraltro soprattutto, forse, per l’antico avvocato che è Nicolini,
e che le circostanze lo costringeranno di lì a pochi anni a tornare ad essere sino alla
fine della sua lunghissima vita, compreso il prestigioso insegnamento universitario 63
una sorta di patto solenne stretto con i magistrati nel senso di ravvivare insieme,
grazie alla giurisprudenza, ed alla razionalizzazione intervenuta, il vecchio tronco
della legislazione, che rischiava di poter rimanere infecondo, fine a sé stesso, senza
la profonda, radicale trasformazione della società che magistrati ed avvocati hanno
insieme il compito di comprendere ed interpretare nelle sue più riposte articolazioni
e strutture:
È singolare come gli scrittori i più profondi si scaglino sempre
contro l’ignoranza e la balordaggine de’ magistrati, mentre la
sapienza di questi corrigeva riduceva al giusto la barbarie de’
legislatori... Fortunatamente i tempi son cangiati. Il sommo
legislatore ha troncato dalla radice ogni male... Quale ufizio
difficile e penoso è egli mai questo nostro? Fondato
principalmente sulla profonda conoscenza del cuore umano,
nulla di ciò che ci circonda è ad esso estraneo; il mondo fisico,
il morale, il civile, tutto
_______________
sulla facoltà di delegare, quelle 28 dicembre 1811 e 22 agosto 1812, alla vigilia della compilazione nicoliniana, ricche di direttive particolarmente interessanti, allorché Ricciardi reputa che i giudici di pace “nel più immediato contatto con le popolazioni possono avere molta influenza
così nel male come nel bene delle famiglie” o li ammonisce con una tinta di moralismo non
infrequente in lui (si veda anche la circolare 29 aprile 1812 sulle competenze): “Dai funzionari
amministrativi voi dovete esigere più rettitudine che istruzione” (N. NICOLINI, Instruzione...
cit., pp. 10-11, 33, 39, 43, 50).
63 - In quest’attività di avvocato troviamo spesso e vigorosamente ripresi i temi centrali
della continuità che avevano contraddistinto l’opera dello studioso e quella del magistrato.
Leggiamo ad esempio nelle allegazioni a stampa per le cause Fersini contro Macri e Villani, e De
Nola contro Della Ratta-Bozzicorsi, discusse dinanzi alla Corte Suprema rispettivamente nel
1821 data dell’edizione presso De Bonis e p. 8 e 25 novembre 1823 p. 27: “Quando le leggi
francesi si promulgaron fra noi, non cessammo d’esser napoletani. Niuna legge fondamentale
di Francia fu nostra: il nostro diritto pubblico rimase l’istesso; e se qualche alterazione vi si
produsse, esso fu tutto ripristinato nel 1815... La commissione feudale fu un tribunale nuovo,
ma non tutti i suoi arresti furon pronunziati sull’appoggio delle leggi nuove”.
285
entra nella sua sfera; e finanché le usanze, i costumi, le particolari inclinazioni, il linguaggio de’ più negletti borghi e de’ mestieri più vili gli sono utili, anzi indispensabili. Chi non porta
queste vedute nella investigazione de’ fatti morali, sarà sempre
scrivano e non giudice64.
Francesco Ricciardi intendeva ed apprezzava a dovere il concetto informatore che aveva presieduto alla fatica di Nicolini65 e gliene dava atto il 24 febbraio
1813 mostrando di aderire soprattutto al criterio organicistico che gli era alle spalle:
Tutto è a suo luogo, tutto è giudiziosamente adoperato,
specialmente l’erudizioni di cui l’opera è ricolma, e che, lungi
dal turbare l’ordine delle idee, spargono anzi del lume così
sull’antico come sul rito attuale, e su quel che avrà luogo dopo
la pubblicazione del nuovo codice d’istruzione criminale, e
mostrano il nesso che tutt’e tre han fra loro.
Perciò il gran giudice ne disponeva l’invio d’ufficio ai procuratori dei tribunali di prima istanza66, il duca di Campochiaro ministro di polizia generale lo imitava il 17 marzo per gli intendenti lo stesso Zurlo ministro dell’Interno diramava l’8
maggio una circolare per farla acquistare dai sindaci, mentre ancora nel 1815 Donato Tommasi avrebbe giudicato in via ufficiale lo scritto del Nicolini
pieno d’idee utili e giuste relative alla vecchia ed all’attuale legislazione... adatto ad agevolare il passaggio alla nuova legislazione che S.M. è intesa a pubblicare67.
A quella data, peraltro, molte cose erano cambiate, e non soltanto nella chiave meramente politica della restaurazione borbonica.
Il 13 febbraio 1814, mentre Petroni si accingeva a realizzare il disegno di De
Thomasis per la suddivisione amministrativa di Calabria Ultra e Liberatore stava
per scambiare la procura generale alla gran corte criminale dell’Aquila tenuta per sei
anni, con quella di Napoli, dove già era stato presidente il più giovane Nicolini,
Giuseppe De Thomasis, da soli quattro mesi, come sappiamo, procuratore generale alla corte dei Conti, veniva nominato da re Gioacchino commissario governativo per Benevento, dove avrebbe trovato quale segretario Pasquale Borrelli, anche
lui, l’abbiamo visto, consigliere alla gran corte civile di Napoli dal 1812, e che due
anni prima, su consiglio di Melchiorre Delfico 68 aveva pubblicato nella “Biblioteca
analitica di scienze e belle arti” e poi in
_______________
64 - N. NICOLINI, Istruzione... cit., pp. 31, 82, 114, 213.
65 - Essa veniva completata con un terzo volume di formulari (in appendice i brani e le
notizie del testo) e con un Supplimento che nel 1818 raccoglieva tutto il corso della posteriore
legislazione sui giudici di pace per i tipi di Giovanni De Bonis.
66 - Nelle Notizie… cit., Nicolini sottolinea la predilezione di Ricciardi per la corrispondenza con i rappresentanti del pubblico ministero, incaricati della vigilanza universale sulla
pubblica amministrazione, e la sua estrema severità in proposito.
67 - R. FEOLA, Dall’illuminismo… cit., p. 277.
68 - Lo afferma F. FIORENTINO, Pasquale Borrelli in G. GENTILE, Ritratti storici e
saggi critici raccolti da
286
opuscolo presso Nobile un trattatello Su la imitabilità de’ poemi di Ossian che qui non
abbiamo motivo di esaminare, benché l’estrosità eccezionale dell’autore vi si confermi in chiave preromantica, risolvendosi il quesito in senso negativo senza
l’intervento della spontaneità e della passione.
De Thomasis, com’è noto, si sarebbe trattenuto a Benevento quindici mesi,
fino al 21 maggio 1815, prima di riprendere il suo ufficio alla corte dei Conti69 un
periodo breve, ma non tanto da non consentirgli di stendere un quadro della situazione ed un rapporto analogo, andati, come tutto il resto della documentazione che
lo concerne, deplorevolmente dispersi, dopo l’arduo braccio di ferro che l’aveva
opposto ad un avversario degno di lui, Louis de Beer, commissario di Talleyrand
nel principato di Benevento.
Nel frattempo, il 21 maggio 1814, il ministro Ricciardi aveva insediato la
commissione per la revisione generale dei codici presieduta da Poerio, e della quale
faceva parte Nicolini, ma evidentemente sollecitava in privato anche altre collaborazioni, se è vero che il 20 dicembre Pasquale Liberatore avrebbe dedicato a lui, per i
tipi di Agnello Nobile, il meritatamente famoso Saggio sulla giurisprudenza penale del
regno di Napoli.
Parecchi anni più tardi, ridotto all’esercizio dell’avvocatura e dell’ insegnamento privato dal “ripurgo” della primavera 1821, e dissertando, nel 1828, per
Tramater, Sulle istituzioni giudiziarie del regno delle Due Sicilie cenno storico70 Liberatore
avrebbe ricordato queste vicende, partendo dall’adozione del codice penale francese, dopo le interminabili incertezze protrattesi dal febbraio 1811 all’ottobre 1812,
con picciole variazioni che onorano la commissione incaricata
del suo esame; e non v’ha dubbio che questo nuovo codice
riempì innumerevoli vuoti, rifuse molti articoli, rese più
complete le definizioni, classificò meglio i delitti, accrebbe e
proporzionò il numero delle pene, diè più campo al
magistrato, e presentò alla società una sicurezza maggiore.
Ma...
_______________
Giovanni Gentile, Firenze, 1935, pp. 280-287 e già in “GIORNALE NAPOLETANO DELLA
DOMENICA”, Napoli, I, 10, 5 marzo 1882 e in Commemorazioni di giureconsulti napoletani: biografie. Napoli, 1882, pp. 1-17 nel centenario della nascita ed in occasione dello scoprimento del
busto a Castel Capuano. Tutto il problema rilevantissimo dei rapporti di Borrelli con Delfico
rientra nell’ambito dei suoi preminenti interessi filosofici, che in questa sede non ci interessano, e per una puntualizzazione bibliografica dei quali si veda G. OLDRINI, L’Ottocento filosof ico napoletano nella letteratura dell’ultimo decennio, Napoli, 1986, p. 51 n. (il Delfico, si ricordi,
avrebbe fatto nominare, sempre secondo Fiorentino, il ventiquattrenne Borrelli, fin qui noto
esclusivamente come medico, segretario della commissione feudale, donde un altro viluppo di
problemi che andrebbe districato e chiarito).
69 - Sull’episodio rimane fondamentale A. ZAZO, L’occupazione napoletana e austriaca e i
primordi della Restaurazione in Benevento (1814-1816), Napoli, 1958.
70 - L’opera è presentata come epitome da servire da appendice a Jonas Daniel
MEYER, Esprit, origine el progrès des istitutions judiciairés desprincipaux pays de l’Europe che, edito
ad Amsterdam-L’Aja tra il 1819 e il 1823, Liberatore presentava tradotto al pubblico colto napoletano, nell’ambito di un imponente lavoro critico di legislazione comparata, la cui valutazione lasciamo agli specialisti, e che costituisce il maggior titolo di benemerenza culturale del
Nostro, dalle osservazioni a Le leggi della procedura civile di Guillaume Louis Justin CARRÉ,
cominciate a pubblicare tradotte nel 1825 e completate nel 1831, a Claude Etienne DELVINCOURT, Corso di codice civile (1828-1832), a Jean-Baptiste SIREY, Codice di istruzione criminale
annotato aggiuntovi il confronto del diritto romano e delle leggi di procedura penale delle Due Sicilie (1829),
a Jean DOMAT, Le leggi civili nel loro ordine naturale (1839) fino al Corso di diritto civile secondo il
codice francese di Alexandre DURANTON, che, cominciato ad uscire nel 1841, sarebbe stato
ultimato nel 1845, dopo la morte di Liberatore. Le citazioni sono tratte dalle pp. 71-72.
287
questo codice tanto encomiato in Francia non soddisfece in
questa meri-dionale Italia al voto dell’universale. La patria di
Briganti, di Pagano, di Filangieri, attendeva qualche cosa di
meglio.
L’analogia letterale nell’espressione non deve far trascurare il ben diverso spirito con cui Liberatore si riferisce alle novità francesi rispetto a Nicolini.
Comunque, nominata la commissione di revisione e dedicato il Saggio a Ricciardi, furono il successore di costui Tommasi ed il nuovo consesso borbonico
nominato il 2 agosto 1815, su una linea che faceva capo ampiamente a De Thomasis71, a
quasi tutte adottare e proporre le deboli mie osservazioni
secondo quanto Liberatore constata con legittimo compiacimento, fino alla
legge organica 29 maggio 1817 da lui incondizionatamente elogiata per i suoi tre
caposaldi fondamentali (il potere giudiziario subordinato esclusivamente alla sua
propria gerarchia, medesimezza di condizione identificata con quella di giurisprudenza, nessuna privazione di diritto se non per sentenza passata in giudicato) e forse
non a caso di poco precedente l’assunzione da parte sua, il 12 luglio 1817, della
presidenza della gran corte criminale di Napoli, di cui per tre anni era stato procuratore generale.
Quali erano state, a fine 1814, le “deboli osservazioni” di Pasquale Liberatore?
Mancini le riassume con brillante efficacia, lodando a buon diritto nel Saggio
filosofia di principi, originalità di pensieri, aggiustatezza di
ordine, ed anche vivacità di stile
e segnalandone le denunzie emergenti, l’equiparazione fra il tentativo e il delitto consumato, il ricorso frequente alla pena di morte ed alle anacronistiche pene
infamanti dei marchio e della gogna, la sproporzione nei gradi della complicità, il
silenzio sul pentimento, sull’ubriachezza, sull’omicidio in rissa, l’assenza di criterio
quanto alla gravità delle ferite, l’ambigua impunità per il furto tra consaguinei,
l’esclusione delle attenuanti nell’infanticidio per onore o nell’uccisione della figlia
sorpresa dal padre “in turpe flagranza”, ed ancora le considerazioni sul giurì, sulla
grazia, e così via, che rendevano il Saggio, dopo trent’anni, tuttora attualissimo72.
_______________
71 - R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit., p. 217 ricorda che, avendo De Thomasis, tornato alla corte dei Conti, fornito un parere radicalmente contrario a qualsiasi modifica legislativa
in materia feudale, Donato Tommasi avrebbe affidato a lui, il 27 gennaio 1816, le attribuzioni
già di Winspeare procuratore generale della commissione feudale.
72 – “Reso l’ultimo supplizio più frequente - scrive Liberatore - togliesi quel salutare
ribrezzo che sempre si estenua colla reiterazione degli atti”: ed aggiunge, con fine penetrazione
politica: “Quante volte l’evento ha fatto comparir eroe un traditore, e viceversa?”. Quanto invece all’ubriachezza, che la legislazione inglese esclude come attenuante nella sua ipocrita austerità
(è un’osservazione di Bentham, che Liberatore fa propria, al pari di quella sua e di Beccaria circa
l’infanticidio per onore, o di quella del non nominato Galanti quanto allo stupro, nel quale “la
mancanza dei consenso non indica sempre l’uso della forza”) c’è da notare che Nicolini non è
dell’opinione di Liberatore, e fa confermare una condanna per omicidio volontario, mentre
invece è del tutto con lui circa i gradi della complicità e il tentativo, che vanno accuratamente
differenziati, tanto che Nicolini avrebbe dedicato a que-
288
Vale la pena s’intende, soffermarsi anzitutto su questi rigorismi di costume, che inducono Liberatore a sollecitare l’aggravante (e l’avrebbe ottenuta) per
i furti commessi in chiesa o in tribunale, e ad appellarsi concitatamente a Filangieri contro la non punibilità del ratto consensuale della maggiore di sedici anni:
Questo distrugge l’idea della pubblica morale, il riguardo
all’ordine della famiglia, il rispetto alla patria potestà.
Un tale rigorismo a fondo sacrale e sessuale trova la sua origine, oltre
che in profondissime stratificazioni della mentalità collettiva, ancora una volta
nello “spirito di perfezione” di Filangieri e di Palmieri che, in via generale (e lo
si era visto all’Aquila!) il Nostro fa incondizionatamente proprio:
La legge sotto l’austera sua forma non attende che
l’obbedienza, già per sé stessa spiacevole, né sa spogliarsi della
sua inflessibilità per parlare agli uomini il linguaggio del buon
padre di famiglia a’ suoi figli. Lo scrittore che vi supplisce
teme sempre di violarne la santità o scemare il rispetto che le è
dovuto, e dubita che i suoi sforzi innocenti non si uniscano alle
grida ingiuste o sediziose de’ malvagi che aspirano a romperne
il freno.
E tuttavia proprio dall’austerità inflessibile della legge, che non ammette
“l’abuso della filosofia impiegata in difesa dell’umanità”, che rifiuta, con Bentham, di preferire la libertà del colpevole alla condanna dell’innocente, che severamente denunzia, l’abbiamo visto in Nicolini,
il pericolo cui si esporrebbe il cittadino se si accordasse al giudice la facoltà d’interpretare la legge penale, specialmente se col
pretesto d’indagarne lo spirito si opponesse questo
all’espressione letterale
proprio da quell’austerità scaturiscono da un lato la dialettica della clemenza, e
perciò della grazia, come unico mezzo che, al di là dell’onore invocato da
Montesquieu, consente all’Inghilterra, e soprattutto alla giovane società nordamericana, di avviare “la riforma dei malfattori”, secondo le vedute, sociali meglio che filantropiche, di Francesco Ricciardi, dall’altro la denunzia implacabile
dell’arbitrio, che avvicina ancora una volta Liberatore al gran giudice, e non gli
permette di aderire senz’altro alla prospettiva di continuità così cara a Nicolini,
e preminente, lo vedremo ancora, nelle sue vaste ricostruzioni.
Liberatore confessa di limitarsi a riassumere ciò che con “somma robustezza” aveva scritto intorno al processo criminale Mario Pagano: ma ciò non
toglie che la presentazione del mondo giuridico napoletano anteriore al 1806 sia
in lui assai più scura che non nel giurista di Tollo:
_______________
st’ultimo un’apposita trattazione (si vedano N. NICOLINI, Discorsi... cit., rispettivamente
le cause 9 marzo 1835 e 8 marzo 1837).
289
Furon questi i grandi difetti dell’antica nostra legislazione criminale, mancanza di proporzione, mancanza di precisione.
L’una e l’altra produssero l’arbitrio, e, tolto per conseguenza il
pregio maggiore della legge, sconvolsero le idee della maggiore della legge, sconvolsero le idee della giustizia... Tutte le pene
furono straordinarie, niuna legge potea citarsi perché non era
essa ma il magistrato che dettava la pena: si sostennero tutti gli
errori, tutti i paradossi... Oltre al favorir l’impunità de’ colpevoli, (la procedura) metteva spesso in pericolo la libertà e la
vita degl’innocenti... essendo posta l’impunità del reo e
l’oppressione dell’imputato nelle mani dell’inquisitore
donde l’indicibile “gioia del regno” al ritorno al processo accusatorio pubblico, che
si staglia nella commossa pagina di Pasquale Liberatore come un’autentica liberazione, una Bastiglia napoletana che aveva finalmente fatto crollare vetuste tirannidi73.
Altre tirannidi ed altri imperi, è ben noto, si dileguavano in quel tramonto del
1814 e schiudersi dell’anno successivo, così fatale all’Europa ed a Napoli: ed è interessante osservare come i nostri protagonisti sintetizzassero e valutassero
quest’esperienza a più o meno grande distanza di tempo, allorché la prospettiva
cominciava a potersi strutturare come autenticamente storica, a cominciare ancora
da Liberatore nel 183774:
Quel terribile uragano che sconvolse tutta Europa quando il
grande de’ troni crollò si fè sentir anche tra noi, e ci rese, meno
per conquista che per lacrimevole abbandono (sic!) soggetti ad
altra dinastia: ed ogni speranza di commercio svanì per i decreti di Milano e di Berlino che, dettati dal dispotismo e
dall’ingiustizia, non ammisero potenze neutrali in tempo di
guerra, ed attentarono al diritto pubblico universale; il che
produsse l’ultima coalizione, e la caduta del despota ambizioso, che non cessò neppure allora di esser grande.
_______________
73 - Ho citato e riassunto da P. LIBERATORE, Saggio... cit., pp. 15-22 passim, 26, 34,
56, 76, 90-92, 114, 134, 142,149,153,244-245 e 258. Si ricordi, sempre nello spirito rigoroso di
legalità che accomunava così congenialmente Liberatore e Francesco Ricciardi, che a p. 217, pur
ammettendo una procedura speciale solo a danno dei briganti e dei malfattori recidivi, il Nostro (che compie in merito un originale excursus storico, distinguendo correttamente il fuoruscitismo ed il banditismo della tradizione dal moderno termine criminalizzante francese) osserva che soltanto da pochi mesi, tra il maggio ed il luglio 1814, sono stati definiti briganti
“coloro che scorrono armati in campagna ad oggetto di rovesciare il governo”, ed allora occorre
specificare ulteriormente che si tratta di assassini preparati mediante attruppamenti armati, che
vanno giudicati da corti speciali, sempre peraltro i magistrati in maggioranza sui militari.
74 - Della polizia commerciale p. 12 quarta parte delle Istituzioni della legislazione amministrativa vigente nel regno delle Due Sicilie, Napoli, 1837 preceduta in organica connessione dai Prolegemoni della amministrazione pubblica considerata nei suoi principi e nella loro applicazione,
Napoli, 1836, nei quali, alle pp. 133-181, Liberatore aveva pubblicato la prolusione letta alla
“Pontaniana” nello stesso anno Della economia politica base fondamentale della pubblica amministrazione e de’suoi più celebri scrittori, fra i quali principalissimo Romagnosi, di cui erano stati riproposti i Principi fondamentali del diritto amministrativo con l’applicazione da parte di De Gerando
(fin dal 1832, all’indomani dell’autorizzazione ufficiale, un’ennesima novità di Ferdinando II,
a tener scuola privata, che il Nostro aveva tenuto in pratica già lungo il decennio precedente,
Liberatore aveva precisato che tutta l’Italia attendeva da Romagnosi la formulazione scientifica
del diritto amministrativo cfr. P. LIBERATORE, Introduzione allo studio... cit., p. 28).
290
Liberatore resta dunque fermo al giudizio d’inadeguatezza politica per un riformismo borbonico ormai esaurito e, se scorge e denunzia i pericoli
dell’egemonia napoleonica, non ne sottovaluta i risultati radicalmente innovativi, che
solo fino ad un certo punto si sono riusciti ad integrare e perfezionare con la restaurazione75.
Tutt’altro è il panorama che l’ottantaquatrenne Nicolini, dal 1854 primo presidente della Corte Suprema, traccia meno di tre mesi prima della morte, il 12 dicembre 1856, parlando dinanzi alla classe di scienze morali dell’Accademia delle
Scienze nella Società Reale Borbonica Della vita del marchese Giovanni d’Andrea.
L’insania e le infernali bestemmie della rivoluzione francese, coalizzate contro
la metafisica e la teologia, sono infatti quelli che hanno sorpreso e commosso il
ventenne Nicolini e il di poco più giovane discendente di Francesco d’Andrea
all’interno del cenacolo del marchese Palmieri, in testa, più frenetica ancora, l’Italia
dei Nord, la quale
corrotta anch’essa, e insieme corruttrice... insorse contro la patria gloria e la sapienza italica antichissima... e sconobbe la stessa lingua del Lazio 76.
A questo punto, peraltro, Nicolini introduce una presentazione singolarmente vichiana, e solo formalmente ed esteriormente manzoniana, di Napoleone,
che gli giova a strutturare ancora una volta una continuità storicistica il cui banco di
prova è costituito dall’empietà fine a sé stessa, dall’irreligione, dalla “pagana licenza
del divorzio” alla quale d’Andrea non si era voluto sottomettere, rinunziando dopo
appena due mesi, nel gennaio 1809, all’ufficio di giudice della gran corte civile di
Napoli77 e cioè da un postulato morale, e magari da un pregiudizio moralistico
che, lo vedremo, aveva sommerso anche Liberatore nei suoi ultimi anni, e dinanzi
al quale il discorso giuridico, è più latamente politico, chiaramente si arresta:
Intanto volgeva al suo termine, affrettando il moto vorticoso
della breve sua ruota, la trista genia... Ella, caduta dall’intera
giustizia, facea tutto il diverso da essa, e con più furore anche il
contrario, per servire a’ bisogni variabili, dettati, come a’ bruti,
da’ sensi esterni corporei: indi intempera_______________
75 - Un bilancio in proposito è quello che Liberatore traccia nel trattato Degli ufiziali di
polizia giudiziaria nella istruzione delle pruove ne’ processi penali, Napoli, 1826, che prende espressamente a modello l’analoga compilazione sui giudici di pace del “nostro ottimo amico, co mprovinciale e collega” Nicola Nicolini già avvocato generale presso la Corte Suprema (il
“ripurgo” del 1821 non lo aveva risparmiato, nonostante che egli avesse fatto di tutto per sottrarsi alla “aura popolare” cfr. il sonetto 22 agosto 1820 in N. NICOLINI, La musa di famiglia...
cit., p. 34). Liberatore si compiace che la legge 22 settembre 1817 abbia fissato attribuzioni e
limiti della polizia giudiziaria e amministrativa, cosa “assai difficile di stabilire per tutto il tempo dell’occupazione militare” ed enumera con altrettanta soddisfazione i buoni esiti legislativi
suggeriti dal Saggio, ma deplora di non aver ottenuto il risultato fondamentale, che cioé “tutte
le materie penali si fossero riunite in un solo codice, anche perché il cittadino sapesse quale sia
l’azione vietata, e come punibile” (cfr. P. LIBERATORE, Degli ufiziali... cit.).
76 - Abbiamo già segnalato questa significativa involuzione del Nicolini, a cui qui è da
aggiungere l’evidente strumentalizzazione di Vico, che si accentua e trionfa nel successivo brano citato nel testo.
77 - È appena il caso di ricordare che proprio per aver sposato una donna divorziata,
caso unico e clamoroso nel regno di Napoli, Pasquale Borrelli era stato allontanato dalla medesima gran corte civile di Napoli nello stesso anno 1817 che vedeva Liberatore ascendere alla
presidenza della gran corte criminale. Le successive turbinosissime vicende politiche di Borrelli,
insieme con la sua parabola filosofica, non ci interessano in questa sede.
291
tissima, e di proprio peso in ruina, la sua forza scevra di consiglio. Ma
Dio sempre provvidente, nell’Europa lacerata da guerre fraterne, suscitò
un italo ingegno (sic!), che a passioni sì incomposte freno impose e silenzio, ed arbitrio in mezzo ad esse si assise. Costui i popoli dissociati costrinse a vivere con giustizia e celebrar la cognazione, che per la loro socievolezza nativa la Provvidenza Divina costituì in prima tra gli uomini.
Quindi il codice, che prese tosto il nome di lui, si arricchì
dell’antichissima sapienza degl’itali giureconsulti. Senonché, forse contro il
grido della propria coscienza (sic!) non sempre ei ne fecondò il principio
massimo, con l’unità del culto esteriore verso Dio. Però che dove la
cattolica religione esige che sia sancita in suo nome e renduta sacra da’
suoi ministri la indissolubilità del nodo coniugale, ivi per l’appunto ci discese a transazione con l’empietà non ancor doma...78.
Non vi è dubbio, tuttavia, che il frutto più maturo e più organico della
riflessione di pensiero del nostro gruppo sull’esperienza riformistica di governo
che l’aveva visto protagonista sia rappresentato dall’Introduzione allo studio del diritto pubblico e privato del regno di Napoli di Giuseppe De Thomasis79 che, quantunque pubblicata postuma nel 183180 per i tipi della Pietà dei Turchini, circolava
già da qualche anno manoscritta, o comunque era a sufficienza conosciuta nel
suo contenuto, se è vero che Pasquale Liberatore aderisce già nel 1828 alla
“dimostrazione rigorosa” dei dieci casi identificati da De Thomasis come quelli
nei quali il giudice può contravvenire alla legge, donde l’intervento e la competenza della Corte Suprema, che il giurista di Montenerodomo circoscrive esattamente negli stessi termini precisati da Nicolini81 e che nel 1830 ancora Liberatore anticipa vivamente e diffusamente il concetto “dogmatico” della proprietà che, affermato da De Thomasis, sarebbe stato confutato con altrettanta
vivacità, come vedremo, da Niccolò Tommaseo 82.
_______________
78 - P.S. MANCINI, Della vita... cit., pp. 18-19 e 25-26.
79 - Come per Borrelli, anche per De Thomasis ci asteniamo dal soffermarci sulle
importantissime vicende politiche del nomimestre costituzionale e sul successivo e conseguente esilio toscano.
80 - De Thomasis era morto il 10 settembre 1830, subito dopo essere rientrato in
contatto con la Corte a livello confidenziale di cui purtroppo ci manca la documentazione,
ed a Raffaele Liberatore, il ben noto letterato figlio di Pasquale, era stato impedito di tenerne un pubblico necrologio.
81 - Nell’opuscolo Della Gran Corte di Cassazione ultimamente denominata Suprema
Corte di Giustizia s.l., s.d. (ma post 1815) De Thomasis, senza nominare Nicolini, illustra
le funzioni di rescissione, e non di riforma delle sentenze affidate a quel consesso,
sull’interessante criterio secondo il quale (p. 5) “gli uomini per naturale istinto tendono ad
ampliare i loro poteri, e spesso disfanno il fatto unicamente per voglia di rifarlo a loro
modo... Le autorità superiori credono di buona fede che la maggioranza del grado dia
sempre la superiorità del sapere”. Il brano di Liberatore su De Thomasis è in Sulle istituzioni giudiziarie ... cit, pp. 83-85. Si veda anche R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit., p. 281.
82 - “Il rispetto dovuto al diritto individuale di proprietà è uno di quei dogmi politici che l’uomo in qualunque posizione si trovi, non può non riconoscere facendo uso
della sua propria ragione... Tutti i titoli del Codice civile non sono che un’esposizione delle
regole relative all’esercizio del diritto di proprietà... Chi non sa... che l’assoluta eguaglianza
è la chimera dell’età dell’oro non esistente che nella fantasia dei poeti?... L’ineguaglianza
delle fortune va perfettamente d’accordo con l’ordine pubblico, e questa verità è così evidente che sarebbe superfluo lo svilupparla” (N TOMMASEO, Osservazioni per servir di comento alle leggi civili del regno delle Due Sicilie, Napoli, 1830,
292
Testimonianza critica autorevole di tale organica maturità dell’opera di
De Thomasis è nella pagina di Benedetto Croce83 secondo la quale l’Introduzione
ha singolar valore di documento, perché attesta la meraviglia e
lo scon-certo onde furono presi coloro che, educati
nell’intellettualismo settecentesco, avevano bramato e
domandato con tanta insistenza l’unificazione delle molteplici
antiche legislazioni, e la formazione dei codici, per far cessare
l’incertezza nell’interpretazione delle leggi; e ora, avuti i codici,
vedevano risorgere perplessità, incertezze e dissidi
d’interpretazione. Il De Thomasis, esso stesso uno di cotali
illusi, s’industriava a ricercar le cause contingenti e a proporre i
rimedi di quell’impreveduto ripresentarsi del vecchio
inconveniente e non sospettava ciò che un suo tardo
conterraneo e filosofo ora potrebbe dirgli, che questo
inconveniente (se tale può chiamarsi) è nella natura stessa delle
leggi, cioè di qualsiasi legge e di qualsiasi loro formula, e nasce
dalla vita, che non si sta mai ferma e sempre si muove e
cangia.
La testimonianza, s’intende, è da leggere in chiave, per così dire, rovesciata, giacché ciò che a Croce appare meraviglia, sconcerto, industria, destinato
ad infrangersi miseramente contro i ben solidi baluardi della Filosofia della pratica,
è in realtà esso stesso la vita “che non si sta mai ferma e sempre si muove e
cangia”, i giovani che vanno istruiti con le leggi vigenti e l’attuale terminologia
senza disturbar Giustiniano ma senza altresì far propria la stroncatura di Melchiorre Delfico, il quale
mirò a ritrarre il carattere politico del legislatore, i vizi della
costituzione di Roma, più che il merito delle loro dottrine e
delle loro leggi
dal momento che i difetti vistosissimi di legislazione penale nel diritto romano
o non sono colpe o imputar si debbono alla costituzione
politica di que’ tempi, anziché al poco senno de’ loro autori
uno storicismo che richiede prudenza e discrezione, e non la “profonda ideologia” di Savigny e della scuola storica, che vanno “ingombrando di tenebre la
giurisprudenza attuale” 84.
_______________
II, 55 opportunamente cit. in A. DE MARTINO, Tra legislatori e interpreti. Saggio di storia
delle idee giuridiche in Italia meridionale, Napoli, 1974, p. 5).
83 - B. CROCE, Storia del regno di Napoli... cit., p. 318.
84 - Prontissima a tal proposito l’adesione di Pasquale Liberatore nelle Nozioni
preliminari all’Introduzione allo studio... cit. (che, come si è visto, è del 1832) e l’esplicita
attestazione di una comune collaborazione che lo induce a seguire De Thomasis anche
quanto alle riserve su Delfico ed alla polemica sul “metodo vizioso” che impedisce un
collegamento seriamente critico tra il nuovo codice civile e l’antica legislazione (le Nozioni
occupano le pp. 1-83 dell’opera, cfr. pp. 32-33, 39 ss.; sulla derivazione vichiana di Hegel e
Gans e della loro scuola giuridica e “filosofica”, 60 e 64).
293
Quanto all’unificazione legislativa prodromo indispensabile dell’uniformità
operativa, essa costituisce un presupposto razionalizzatore su cui tutti i riformatori,
a partire, l’abbiamo visto, da Nicolini, non possono non trovarsi d’accordo, dal
momento che, scrive polemicamente De Thomasis,
ogni uomo del Foro ha una sua propria religione, una moral
sua, i suoi particolari pregiudizi che coltiva come Dei familiari.
Questo presupposto metodologico ha due corrispondenti sistematici, la
proprietà e la famiglia, su cui De Thomasis costruisce rigorosamente la nuova filosofia civile, per dirla con Nicolini, che scaturisce dal codice:
I moderni, trattando ogni economia politica in modo da insinuar l’idea che ella possa star senza la morale e la giustizia, ne
sottraggono le più solide basi... Il rispetto de’ figli a’ padri,
delle mogli ai mariti, e di tutti alle obbligazioni contratte, sono i
primi garanti dell’ordine sociale85... Il pregio della proprietà
consiste precisamente nella facoltà di goderne e disporne come
più ne aggrada.
È precisamente su questo secondo caposaldo, definito nel senso che da De
Thomasis veniva dicharata naturale sia la proprietà esclusiva dei prodotti della natura sia quella territoriale, sia pure per quest’ultima con l’intervento delle leggi sociali86
che si sarebbe concentrata la tarda critica di Tommaseo 87 significativa tanto per
l’autorevolezza dello scrittore, appartenente ormai ad una generazione che poco o
nulla aveva in comune con i superstiti murattiani, quanto soprattutto perché, malgrado questa obiettiva sfasatura di criterio e di giudizio, Tommaseo fa ampiamente
propria, in prospettiva storica, la filosofia della continuità tanto cara a Nicolini88
strumentalizzandola, magari, ai fini di quella democratizzazione della coscienza giuridica, per così dire, che è nel fervido auspicio della sua mentalità progressista e
romantica.
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85 - P. LIBERATORE, Introduzione... cit., pp. XI-XVIII passim, 228, 330. Si ricordi viceversa la spigliata opinione di Borrelli (“La civiltà sociale e l’oppressione della donna non fecero giammai dimora in una terra medesima” cfr. Bibliografia... cit., p. 28) che lo differenzia nettamente dagli amici del gruppo chietino.
86 - P. LIBERATORE, Introduzione... cit., pp. 284 e 423.
87 - “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoli,
aprile 1839, pp. 20-31 da Parigi, col rammarico, espresso in esordio dello scrittore, di non aver
conosciuto di persona De Thomasis.
88 - Di Nicolini sono nel frattempo da ricordare i due discorsi pronunziati nella qualità
di presidente di consiglio generale, quello del 1835 a Chieti, di cui già si è fatta menzione, e che
qui ricordiamo per la ribadita e sottolineata importanza della strada Frentana per i lanifici di
Palena, già proposta da Liberatore nel 1806 (ma lo stesso Liberatore, l’abbiamo visto, ne
avrebbe constatato nel 1838 il fallimento) e Della importanza de’ consigli generali di provincia discorso
pronunziato il 1° maggio 1836 a Caserta per l’inaugurazione di quello di Terra di Lavoro che va tenuto
presente per il ritorno, promosso dal nuovo giovane sovrano, a quelle rappresentanze comunitarie più o meno tradizionali ed efficienti di cui ancora nel 1839 avrebbe parlato positivamente Tommaseo (“Fin da’ primi tempi di sì salutare istituzione quegli stessi che fra di noi la introdussero la tennero più come vana forma che come mezzo efficace di miglioramento civile. E
da ciò di anno in anno lo scadimento sempre crescente della importanza e della riputazione de’
consigli generali... Ma salì Ferdinando II sul trono...”).
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L’antico ordinamento, osserva Tommaseo, presentava infatti senza dubbio
confusione strana che alla giustizia veniva dalle inopportune
suddivisioni de’ poteri e dall’accumulazione peggio che importuna. Né già la presente ordinazione è condotta, cred’io,
alla possibile semplicità... Ma in questo miscuglio degli ordini
antichi l’intenzione sovente era buona, santa l’origine... (Dinanzi
alle) antiche istituzioni municipali dalla francese prepotenza (sic!)
abolite... ciascun vede le municipali franchigie (che gl’ignari di
vera libertà chiaman privilegi) esser state innanzi la francese invasione più rispettate che poi...
In quest’ambito di libertas comunale guelfa chiaramente, e naturalmente, prediletta dal Tommaseo, i giudici conciliatori venivano ad assumere un rilievo circa il
quale ci dice molte cose l’attenzione riservata ad essi da Nicolini e, in subordine, da
Liberatore, mentre, in campo giurisdizionale, pur reputando “inevitabile e cristiana”
l’abolizione del tribunale misto, di cui singolarmente De Thomasis non parla,
Tommaseo presta probabilmente a lui i suoi propri sentimenti allorché ritiene che
egli
sentiva che fino a tanto che non sia popolare la conoscenza
delle istituzioni le quali governano le sorti nostre, il popolo sarà
sempre bestia tosata e macellata a piacere di pochi.
Un protagonista tutto moderno e romantico, insomma, fa la sua irruzione
impetuosa tra lo Stato e la Chiesa di giurisdizionale memoria, ed appunto per questo Tommaseo non può consentire a De Thomasis una rivendicazione così schiettamente individualistica come quella della proprietà in quanto diritto naturale, tutt’al
più acconsentendo a prenderlo per “transitorio”, mezzo e non fine, con sullo sfondo insomma una persona umana, e più o meno cristiana, che ha ben poco da spartire col suddito, ma anche col cittadino e col borghese oltre i quali De Thomasis
non aveva certo inteso procedere.
E non lo intende Pasquale Liberatore in quella che sarebbe stata l’ultima fatica della sua laboriosissima vita ottuagenaria, il trattato Della pubblica educazione che
viene fuori dai torchi napoletani di Palma nel 1840, l’anno dopo della recensione di
Tommaseo sulla rivista di De Virgiliis, che continuerà ad ospitare un paio di scritti
sparsi di Liberatore, divenuto, si direbbe, “contento e pio” come il figlio Raffaele
nella feroce satira leopardiana dei Nuovi credenti, qui L’alfabeto reso grazie alla stampa
‘9 più grande strumento della civilizzazione... madre di tutte le utili riforme" grazie a
cui l’uomo eseguirà ciò che Cristo ha decretato “il regno cioè della pace, è la pratica
della carità e di tutte le virtù sociali”, lì, postumo, Dell’alto incivilimento, sue pretenzioni e
suoi prodotti, echeggiante un simile e non meno graffiante Leopardi, quello della Palinodia e della “comun felicitade”, nel deplorare stavolta il danno della stampa, che ha
provocato l’insubordinazione dei domestici, la fine della vita patriarcale,
l’indifferenza esteriore nel vestire e nel comportamento, l’autodistruzione del
l’aristocrazia dinanzi agli speculatori ed ai giocatori
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di borsa, ed altre siffatte calamità infinite, dimentichi come sono i moderni, ammonisce Liberatore, che “più si migliora la condizione fisica dell’uomo più diventerà
necessario aumentare la sua moralità”89.
Della pubblica educazione è dunque, dal punto di vista del costume e della
mentalità collettiva, quella che i giovani chietini raccolti intorno ad Antonio Nolli a
ricevere ed ascoltare Delfico 90 avrebbero chiamato filosofia morale, un punto
d’arrivo pressoché definitivo, analogo a quello che, nella filosofia civile, la lunghissima vita avrebbe consentito a Nicola Nicolini di continuare più o meno pateticamente a testimoniare fin nel pieno di quegli anni cinquanta che avrebbero assistito al
definitivo esaurirsi politico della parabola murattiana.
Al centro dell’una come dell’altra filosofia è, modernamente ed irrevocabilmente, anche quando l’istruzione e l’educazione debbano di necessità affidarsi agli
ecclesiastici, lo Stato:
Tutti i cittadini di uno Stato debbono avere costumi e
cognizioni relativi ai bisogni e al bene di quello Stato
medesimo, e perciò l’educazione anche privata dev’essere
analoga ai bisogni ed alla costituzione di quella società.
Pilastro di quest’ultima è la proprietà, ed è significativo che Liberatore riprenda alla lettera nel 1840 la sua definizione di dieci anni prima di “dogma politico” per la proprietà
antica quanto l’uomo, non risultamento di convenzione umana
o di legge positiva, nella stessa costituzione del nostro essere e
nelle diverse nostre relazioni cogli oggetti che ci circondano.
Sia lo Stato che la proprietà, peraltro, hanno a proprio elemento mediatore
quella società a cui Tommaseo aveva rivolto modernamente lo sguardo, e che Liberatore è pronto a recepire sul piano del costume, anche se non altrettanto su
quello del diritto, dove la sua adesione a De Thomasis permane ostentata e fermissima.
Al centro di questa società è la donna in quanto moglie e madre, a cui il Nostro attribuisce compiti e funzioni del tutto particolari, col latino che non esclude il
ballo nella formazione della personalità, e perciò, si potrebbe dire, la dama ottocentesca, a governare il salotto non meno che il focolare:
Ciò che per l’avvenire bisogna soprattutto tentar per le ragazze è di dar loro
una istruzione necessaria per intervenire utilmente in ciò che tocca gl’interessi de’ lor
mariti, per preparare con intelligenza i loro figli ai gravi studi di collegio, e per seguir senza neja que’ serii trattenimenti che ne’ nostri circoli son succeduti al vagare
de’ farfallini.
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89 - “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoligennaio 1841 pp. 3-16 e marzo 1843 pp. 173-180.
90 - Il primo era morto fin dal 1830, l’anno stesso dell’assai più giovane De Thomasis,
ritirato a Chieti a vita privata lungo tutta la Restaurazione, Delfico lo aveva seguito nella tomba, vecchissimo, due anni più tardi.
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Ma la donna e la famiglia non esauriscono atomisticamente la società, il cui
protagonista genuino, e collettivo, è lo spirito pubblico, per seguire ed analizzare il
quale è indispensabile anzitutto, classicamente, tener presente il condizionamento
climatico, poi quello religioso, nelle sue manifestazioni superstiziose e meramente
devozionali ma anche negli esercizi di pietà, a cominciare dall’accompagno dei
morti in quanto primario servizio sociale, e poi ancora gli spettacoli, l’alimentazione,
i pregiudizii e le “false idee”, che sono da combattere con un rigorismo alla Nicolini, e così via, fino agli asili infantili della più recente tematica assistenziale.
Al vertice dell’educazione sociale sono peraltro l’informazione e la lettura, e
qui sembra davvero di scorgere in controluce, nelle pagine del vecchio Liberatore,
ciò che di sé stesso, e della sua giovane generazione, in quegli anni medesimi, a Napoli, avrebbe scritto Francesco de Sanctis:
I gabinetti di lettura sono, o almeno dovrebbero essere,
l’emporio del sapere e della dottrina, il convegno dei dotti e
degli studiosi... Noi crediamo al piacere che ispirano i buoni
romanzi, perché presentano un’immagine abbellita
dell’esistenza, trasportandoci in un mondo in cui le facoltà
dell’uomo agiscono con più libertà, in cui gli esseri spiegano
maggior forza pel bene come pel male, ed in cui le avventure,
uscendo dalla ristretta sfera delle nostre abitudini, aprono più
vasto campo all’umana attività91.
È difficile sintetizzare meglio, con maggiore efficacia, la temperie romantica,
con sullo sfondo il Quarantotto: averla saputa cogliere ed intendere senza farsene
travolgere, ma anche senza rifiutarla per partito preso, costituisce la migliore testimonianza di freschezza mentale, di agilità metodologica, per il gruppo chietino che
mezzo secolo prima aveva lasciato le colline adriatiche e la montagna appenninica
per la Napoli del riformismo, della rivoluzione e della monarchia amministrativa.
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ss.
91 - F. DE SANCTIS, Della pubblica educazione... cit., pp. 91, 94, 118, 171, 223-224, 232
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