Piccola Patria

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Piccola Patria
FEDERAZIONE ITALIANA DEI CINEFORUM
www.cineforumsanbonifacio.it
CINEFORUM DI
SAN BONIFACIO (VR)
PICCOLA PATRIA
In un’estate calda e soffocante due ragazze - Roberta e Renata – cercano di fuggire dal paese dove
vivono, una piccola comunità di allevatori del Nordest italiano, tra rigurgiti indipendentisti e istinti
xenofobi. La loro vita è disinibita e trasgressiva quanto arrabbiata e affettivamente spoglia. Così
orchestrano un ricatto a sfondo sessuale verso Menon, uno del posto, con la complicità ignara di
Bilal, il fidanzato albanese di Renata.
REGIA
Alessandro Rossetto
SCENEGGIATURA
Alessandro Rossetto,
Caterina Serra,
Maurizio Braucci
SCENOGRAFIA
Renza Mara Calabrese
FOTOGRAFIA
Daniel Mazza
MONTAGGIO
Jacopo Quadri
SOGGETTO
Alessandro Rossetto,
Caterina Serra
INTERPRETI
Maria Roveran,
Roberta Da Soller,
Vladimir Doda,
Diego Ribon,
Lucia Mascino,
Mirko Artuso,
Nicoletta Maragno,
Giulio Brogi
PRODUZIONE
Arsenali Medicei,
Jump Cut
DISTRIBUZIONE
Cinecittà Luce
"Vàrdate intorno", guardati intorno, canta un coro fuori campo mentre la
macchina da presa vola alta sopra capannoni grigi, campagne stuprate, case
serrate dentro se stesse, strade che non portano in alcuna piazza. Inizia così,
"Piccola patria" , con questo invito a guardarsi intorno, e a vedere il niente che
riempie quei capannoni, quelle campagne, quelle case, quelle strade. Siamo in
un piccolo paese, nel Veneto profondo. Quando scende tra chi ci vive, l'occhio
del cinema è smarrito, incapace di scorgere e mostrare storie di vita. Poi, pian
piano, volti e dialoghi si legano fra loro, e dall'intrecciarsi di desideri e rancori
emergono uomini e donne dai profili opachi, non personaggi pieni, ma loro
frammenti. Come quello fisico, anche il paesaggio umano è stuprato, serrato
nella solitudine. Lo domina la paura di perdere un benessere che è stato
raggiunto troppo in fretta, e che troppo in fretta è andato in crisi. A questa paura
si legano il sospetto e l'odio per gli stranieri che quel benessere vorrebbero
rubare. Sono loro i responsabili d'ogni difficoltà, loro con il loro diverso modo
di parlare, di pregare, di vivere. Occorre dunque difendersi, affidarsi a
capipopolo vocianti, invocare confini sempre più chiusi, immaginare una patria
sempre più piccola. In questo modo la miseria morale cerca di liberarsi di se
stessa, e in questo modo non fa che crescere su se stessa. È schèi, soldi, la
parola che spicca già alla fine della prima sequenza. E attorno ai soldi finisce
per costruirsi la vicenda narrata dall'esordiente Alessandro Rossetto e dai suoi
cosceneggiatori Caterina Serra e Maurizio Braucci. Luisa (Maria Roveran) e
Renata (Roberta Da Soller) hanno poco più di vent'anni, e soffrono la miseria
del loro mondo. Per riuscire a fuggirne, così immagina la prima, occorrono
soldi. Per averli, basta scattare qualche foto ignobile, scrivere una lettera
ricattatoria, intascare una busta. Non conta chi si ferisce e chi si tradisce. Conta
la voglia di andarsene. Conta il diritto di trovare una nuova vita. Sono vittime
del loro piccolo mondo, Luisa e Renata. Lo sono perché il suo buio le
imprigiona, e lo sono perché immaginano di potersene affrancare affidandosi
alla sua stessa cattiveria, confidando nel suo stesso odio. «Vàrdate intorno»,
canta di nuovo il coro fuori campo quando il film finisce. Intanto, la macchina
da presa torna ad alzarsi sopra capannoni, campagne, case, strade, e sopra il loro
niente.”
(Roberto Escobar – L’Espresso)
“Con i venti secessionisti che di nuovo spirano in Padania, cade a proposito
Piccola patria, affresco di una provincia veneta profonda in bilico fra orrori e
contraddizioni (…) Di esperienza documentarista, Rossetto esordisce nella
PAESE
ITALIA,patria”
2013 di Alessandro
fiction
intrecciando
frammenti sgradevole,
di
storie
in in una
chiavedi
“Piccola
Rossetto,
film forte e necessariamente
ambientato
un Triveneto
fenomenologica/antropologica
a
lui
congeniale:
ogni
tanto
il
film
si
fa
troppo
fango e fuliggine, capannoni industriali, terreni agricoli, alberghi sgraziati. Qui si muove un’umanità meschina,
DURATA
avida, ansiosa di fuggire. “Schei”,
soldi,e èricercato,
la parola d’ordine,
e al dialetto
veneto e èallo
linguaggio
Rossetto di
ondivago
ma più spesso
a prevalere
sguardo brutale
forte, incisivo
111’
un cineasta che sa il fatto suo.”
(Alessandra Levantesi Kezich – La Stampa)
“Piccola patria” di Alessandro Rossetto (Orizzonti), film forte e necessariamente sgradevole, ambientato in un
Triveneto di fango e fuliggine, capannoni industriali, terreni agricoli, alberghi sgraziati. Qui si muove
un’umanità meschina, avida, ansiosa di fuggire. “Schei”, soldi, è la parola d’ordine, e al dialetto veneto e al
linguaggio brutale Rossetto risparmia soltanto la bestemmia (c’era in una prima versione del film). Il
cinquantenne cineasta usa il suo sguardo da documentarista per osservare un territorio lacerato: «Sono attratto
da zone dove la campagna e la città si toccano o faticano a toccarsi. Qui la cultura del lavoro industriale è
entrata in conflitto con quella contadina e i cambiamenti sono stati veloci e hanno creato una lacerazione». Al
centro della storia due ragazze che lavorano come cameriere in un albergo, l’annoiata Luisa e la manipolatrice
Renata. Una usa l’altra, insieme organizzano un ricatto sessuale nei confronti del viscido Rino , utilizzando
l’inconsapevole albanese Bilal e scatenando la furia del padre di Luisa imprenditore in crisi, xenofobo. Lo
vediamo a un comizio organizzato da un gruppo indipendentista veneto. Il regista spiega di non aver voluto fare
polemica: «È una sequenza utile alla storia. Quello era il reale comizio di un vero partito indipendentista.
Volevo fare vedere come i protagonisti siano più arrabbiati e disperati dell’oratore». “Piccola patria” è stato
finanziato da quattro Film commission, «tutte le storie che racconto sono vere, le ho conosciute in modo diretto
o indiretto», garantisce Rossetto. Ottimo il lavoro fatto con gli attori, soprattutto con i tre giovani Maria
Roveran, Vladimir Doda e Roberta Da Soller. «Ho portato i miei attori a vivere, mangiare, dormire in quei
luoghi per lungo tempo, lasciandoli poi liberi d’improvvisare e dare una chiave personale alle scene, ho usato
gli strumenti più affini al concetto di documentario mettendoli al servizio della finzione».
(Arianna Finos 31-08-2013)
“Lasciamo da parte per ora quello che Alessandro Rossetto, un po' scherzosamente, chiama il 'fattore D'.
Ovvero il documentario con cui si è allenato all'immagine «totale» - è uno dei pochi registi italiani che sta
anche in macchina - riuscendo a scavare tra le crepe sottili dei malesseri evidenti nel nostro paese. Senza enfasi,
anzi quasi sotto-tono, per mettere al centro le sfumature più che le cesure violente, il rito quotidiano più che i
grandi eventi, quelle cose ordinarie ma indispensabili per non arrivare stupefatti di fronte alle grandi esplosioni.
(...) 'Piccola patria' (...) ci porta di nuovo lì, in un nordest dai confini incerti e dai malumori strumentalmente fissi
in cui si agitano i furori separatisti del Veneto insinuanti e diffusi più di quanto non dica l'attualità di questi
giorni. Siamo in una zona di confine dove campagna e città cozzano senza entrare l'una nell'altra. Un hotel con
piscina, un maneggio, capannoni, casali agricoli lasciati in abbandono, le strade diritte che tagliano l'orizzonte
senza fuga. Qui vivono due ragazze, Luisa e Renata a cui danno vita Maria Roveran e Roberta Da Soller. E
apriamo una parentesi: sono bravissime, Maria Roveran è anche musicista, è lei che ha composto e che interpreta
alcune delle canzoni del film, rivisitando anche i cori di ispirazione popolare. Recitano in dialetto, coi personaggi
fanno vivere un corpo a corpo pieno di suspense e di verità. Lo stesso vale per gli altri attori, da Lucia Mascino
nel ruolo di mamma molto o troppo poco «imperfetta», a Vladimir Doda e Diego Ribon, che Rossetto
accompagna in un movimento d'improvvisazione sempre controllata. Così come la sua regia che cerca di far
affiorare un sentimento scostante, e un approccio fisico alle zone d'ombra, spiazzando la sceneggiatura (scritta
dal regista insieme a Caterina Serra e Maurizio Braucci). O meglio contro l'idea che uccide molto cinema
italiano secondo cui il film deve esserne più o meno l'illustrazione. (...) Meschinità, gelosie, silenzi, chiacchiere e
pettegolezzi cattivi, il gusto amaro di una rabbia sorda, crescono fino a diventare incontenibili. La «realtà», certo,
e le sue epifanie improvvise come il comizio di Gianluca Busato, teorico del movimento indipendentista veneto.
O la festa country di vino e malinconia. E soprattutto i luoghi, protagonisti in sé come se nell'aria ferma di caldo
e umidità quegli umori cattivi vi si condensassero prima che nel cuore. E però questa analisi approfondita del
malessere nordestino è molto lontana dalle modalità della cronaca, anzi ne è l'opposto. Forse c'entra quel 'fattore
D' di cui si diceva, almeno come lo ha interpretato nella sua ricerca il regista, ponendosi rispettoso sulla soglia
per affidare il racconto alle immagini e non a un paradigma dimostrativo. Qui siamo in un diverso piano della
narrazione, ma Rossetto come il nostro cinema migliore certe distinzioni (documentario/ finzione ecc) le ha già
abbandonate (e va dato merito alla produzione sveglia e indipendente di Gianpaolo Smiraglia e Luigi Pepe). Sa
dove dirigere lo sguardo, e sa che la sorpresa deve essere reciproca, deve coinvolgere cioè lo spettatore quanto il
regista o l'attore. È su queste traiettorie mai giudicanti, disegnate negli stacchi dal montaggio sensibile di Jacopo
Quadri, che si avventura, in una sequenza narrativa frammentaria, quasi come un thriller, punteggiata con tocco
lieve di interni e esterni, vita domestica, sesso, desideri, bugie; di immaginario - non si può non pensare a
'Signori e Signore' di Germi - di paradossi che non diventano «genere», commedia o quant'altro. La provincia,
questa 'Piccola patria' e la sua universalità che non è solo sorrisi compiaciuti sul sagrato domenicale della chiesa.
Dentro Rossetto vi estrae obliquamente un magma ambiguità, perdita di Storia, crisi economica, spasmodica
ricerca di un colpevole in cui si specchia il nostro tempo, inventando un suo grande cinema."
(Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 11 aprile 2014)
Alessandro Rossetto ci parla di “Piccola Patria”
“Una sceneggiatura, quella di “Piccola Patria”, nata 5 anni fa, poi il progetto è entrato in fase operativa negli ultimi
due anni. “La storia è drammatica, ci sono elementi di amore, di ricatto, c’è pure action - ci racconta il regista
Rossetto - ma resta una tragedia con una sua parabola classica. Poi ho utilizzato, con molta libertà, la forma del
linguaggio cinematografico”. Un film indipendente che ha compiuto “l’impresa” di essere sostenuto dalle Film
Commission dell’intero Triveneto, Veneto, Friuli e le province autonome di Trento e Bolzano: “Sì, c’è stato un
grande lavoro per questo ed è bello averle riunite, anche se la prima che ha creduto nel progetto è la Film
Commission del Veneto”. E, seppur ambientata a Nordest, la storia potrebbe trovare collocazione “in ogni dove ricorda Rossetto - ciò che viene descritto è la periferia.”Una periferia-enclave, una “Piccola Patria” appunto, in cui si
parla veneto e albanese ma non per collocare da un punto di vista territoriale la vicenda, piuttosto per essere più
intimamente e profondamente vicini ai sentimenti dei personaggi che si esprimono con la lingua del territorio cui
appartengono: "sì, i personaggi usano il dialetto, abbiamo lavorato per uniformarne le inflessioni, e credo sia un punto
di grande credibilità della pellicola. Si parla anche albanese, visto che uno dei protagonisti e uno dei personaggi
secondari, provengono da questa terra; la scelta è legata a rendere un senso di appartenenza più profondo. Il dialetto
ci ha permesso di entrare di più nelle storie reali. Con Caterina Serra, con cui abbiamo scritto i soggetti - alla
sceneggiatura ha poi collaborato anche Maurizio Braucci - abbiamo tracciato i soggetti, traendoli dalle storie che
abbiamo sentito raccontare e le abbiamo sentite in dialetto". Un casting fatto dal regista in un tempo ristretto e
ricercando negli attori un certo tipo di formazione e una duttilità della lingua. Una recitazione che ha utilizzato la
tecnica dell’improvising fiction, ossia l’immersione in situazioni di realtà, per poter sviluppare le scene pensate senza
una precisa direzione ma lasciando aperta la finzione alla fluidità del reale. Rossetto li ha fatti dormire, mangiare,
vivere nello stesso luogo per un lungo periodo di tempo, sfruttando la possibilità di usare gli strumenti più affini al
concetto del documentario e mettendoli al servizio della finzione. Per far dimenticare loro di esserlo e per fargli
rivivere la storia e le sensazioni dei loro personaggi: "gli attori si sono preparati - racconta Rossetto - cercando
un'appartenenza alla realtà che li circondava. In questo modo siamo poi riusciti a costruire delle scene che partivano
da nuove idee, anche se poi alla fine non sono andati così lontano dalla sceneggiatura originale. Costretti in un
piccolo spazio per portare una finzione in un quadro di realtà, con riprese non classiche, devo dire che hanno fatto un
lavoro egregio, c’è una grande qualità nelle loro performance. E’ anche un film di corpi che narrano la vicenda". La
pellicola è stata girata la scorsa estate a Villafranca Veronese, in particolare all’hotel Antares, location al centro del
lavoro come protagonista architettonico del film, e poi nel veronese, a Bussolengo, nel padovano, a Cittadella, nel
trevigiano, in Friuli vicino Gradisca d’Isonzo, a Trieste e Monfalcone e poi, in Val di Non in Trentino e lungo la
periferia autostradale, a Bolzano e a Merano. Il Veneto è molto rappresentato fra gli interpreti del film: Maria
Roveran è della provincia di Venezia, Roberta Da Soller è trevigiana ma vive a Venezia, Mirko Artuso è trevigiano,
Diego Ribon è di Venezia ma vive a Roma, Nicoletta Maragno è padovana, poi Valerio Mazzucato è della provincia
di Padova, ed è anche padovano Stefano Scandaletti che partecipa ad una scena in maniera amicale. I giovani
protagonisti del film sono: Maria Roveran, allieva all’ultimo anno del Centro Sperimentale di Cinematografia di
Roma, Vladimir Doda, studente dell’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine e Roberta Da Soller,
curatrice di “S.A.L.E. Docks” presso i Magazzini del Sale di Venezia. Giulio Brogi infine che è stato uno dei volti, ad
esempio, nella “Strategia del Regno” di Bertolucci, fa un vecchio veronese, brusco e con un’esperienza passata
interessante. Un film corale: “Ci tengo molto a questo aspetto. I personaggi ci tengo a sottolinearlo sono stati pensati
in questo senso, la secondarietà non c’è, nessuno dei caratteri finisce per essere solo un passaggio. Luisa-Maria
Roveran e Renata-Roberta Da Soller sono le due protagoniste giovani, vivono un’amicizia abbastanza ambigua e
sono anche abbastanza stanche di stare dove stanno, senza motivi profondi; ci sono delle cose nel passato di Renata
che la rendono più solitaria e chiusa. Entrambe sono selvagge in quello che fanno. Con l’aiuto dell’ignaro BilalValdimir Doda, che è il fidanzato albanese di Luisa, un personaggio candido che si ritrova suo malgrado coinvolto in
cose da lui nemmeno immaginate, ricattano sessualmente Rino Menon-Diego Ribon, oscuro amico del padre di
Luisa, Franco Carnielo-Mirko Artuso. Franco è un personaggio sofferente da molti punti di vista, e con l’amico Rino
condivide un’amicizia grezza e in parte xenofoba, di cui Bilal sarà vittima. Anna-Lucia Mascino è la mamma di
Luisa, il loro è un rapporto complesso, la figlia “ne fa parecchie” ma lei le resta sempre vicina; Itala la sorella di Rino
Menon è interpretata da Nicoletta Maragno, con lui forma una strana coppia di famiglia, entrambi ultra cinquantenni,
con degli aspetti di ordine incestuoso, Matteo Cili è Anes, un guascone molto amico di Bilal che diventa protagonista
nel finale del film. Giulio Brogi è una presenza, in un luogo del film, che potremmo chiamare la “casa dei ricatti”.
Mazzucato e Scandaletti fanno gli amici di Franco e Rino”. Per la distribuzione – conclude Rossetto - ci sono degli
interessi diffusi”. Interessi da sondare lungo la Mostra, dove sono iniziate le proiezioni del film che è già stato
selezionato per la 7° edizione del Queer Lion, premio collaterale della rassegna, premio cinematografico attribuito al
“miglior film con Tematiche Omosessuali & Queer Culture”. Un Nordest fuligginoso, fangoso e torbido, quello di
Rossetto, ma pure disperatamente vitale in cui fra città e campagna si muovono e crescono le vite ai margini dei suoi
protagonisti.
(Silvia Gorgi www.sherwood.it)
Piccola Patria”, amata e disperata Provincia. Intervista a Maria Roveran, l’attrice del film “Piccola patria”
“Nascere e crescere in Provincia ha un suo valore e peso specifico. È qualcosa che quando sei piccolo ti fa rimbalzare
dai vicoli intorno a casa fino alla piazza del paese, a ritmo dei rintocchi del campanile, rinchiuso in una bolla che
vorrebbe esplodere senza quasi mai riuscirci. Significa prendersi delle responsabilità sin da piccoli come per esempio
imparare ad andare dal fornaio a ritirare il pane, andare in tabaccheria a comprare le sigarette per il nonno, tornare
sempre a casa da scuola da solo, gironzolare sotto il sole cocente delle tre del pomeriggio quando la scuola è finita e
in paese non c’è niente da fare e nessuno con cui giocare. Allora con gli amici ci si ritrova al parchetto prima, al bar
in piazza poi, nella panchina del viale. Significa imparare ad evitare le droghe che fingono di movimentare la noia e
l’alcol che stordisce e ovatta il tempo che passa. Ci si ritrova seduti sui gradini sotto casa per innamorarsi, per
consolarsi, per fumare la prima sigaretta, cantare le canzoni del momento a squarciagola, andare in campagna in
bicicletta a prendere il sole lontano dagli sguardi dei ragazzi. Significa essere già piccole donne e piccoli uomini a 15
anni, significa sentirsi indipendenti, volere essere liberi e quando possibile molto curiosi. Se si cresce in Provincia
bisogna trovare, a un certo punto, da qualche parte, il coraggio di volere andare via. Perché spesso la provincia che
culla è la stessa che poi imprigiona i sogni, i talenti, le passioni, in nome di una non ben definita tranquillità. La
Provincia è qualcosa di molto concreto e tangibile, un grande paese che Alessandro Rossetto racconta con intensità e
maestria nel film “Piccola Patria”. Alessandro Rossetto ne ha raccontato il Nord Est, quello degli indipendentisti
veneti, quello del razzismo all’ordine del giorno, quello in cui si svolgono comizi in cui ci si impone di parlare solo in
dialetto per dimenticare e cancellare l’italiano. Comizi in cui a sventolare le bandiere della chiusura e della
regressione sono sempre più i giovani plurilaureati, piccoli imprenditori delusi. Il Nord Est tradito e impoverito da
una crisi economica feroce dove gli edifici che poco tempo fa erano fabbriche laboriose oggi sono capannoni
abbandonati, arrugginiti e in disuso, volto amareggiato di una parte di popolazione che ha perso molto, forse tutto e
non crede più nel suo paese, dà la caccia allo straniero, perché da qualche parte, un colpevole per tanta tristezza, si
deve trovare. “Piccola Patria” è un semplice capolavoro che racconta anche questo e lo fa attraverso gli errori e gli
sguardi di due giovani amiche: Luisa (Maria Roveran che ha anche composto e interpretato le musiche del film) e
Renata (Roberta De Soller), con cui ho avuto il piacere di parlare.
Come si diventa attrici con una quasi Laurea in Fisica?
Mi piaceva moltissimo studiare ma lo studio per me era un rifugio, mi veniva bene ma era anche un modo per non
dirmi certe cose e andava tutto bene. Ho due fratelli con una storia complicata, uno più grande e uno più piccolo, uno
ha 35 anni ed è autistico e l’altro è il mio opposto anche se siamo quasi gemelli. Io ero quella più rigida dei tre, ho
fatto quindici anni di scoutismo e quando stavo per andarmene è arrivato un assistente sociale che ha presentato un
progetto di teatro sociale e il mio capo scout mi ha proposto di partecipare.
Dal teatro al cinema quindi…
Il gruppo di teatro sociale collaborava con un gruppo più ampio, di Belluno, con un passato più importante alle spalle
e lì c’era un ragazzo che voleva fare il centro sperimentale di cinematografia di Roma e ci è riuscito. Così mi sono
incuriosita e ho cercato su internet informazioni sul centro sperimentale, ho scoperto che quel giorni, il 21 luglio a
mezzanotte scadeva il bando per iscriversi. Con me c’era un mio compagno di corso che mi ha detto “fatti due foto e
mandale”. Sotto casa ho trovato un fotografo di matrimoni e ho tentato, solo dopo molta insistenza lui ha chiuso il
negozio, mi ha caricato sullo scooter e mi ha portato a fare due foto. E’ iniziata così, poi sono stata chiamata per il
colloquio (…).
Il film è uscito, purtroppo o per fortuna, in concomitanza con l’ondata indipendentista veneta…
La tematica dell’immigrazione, legata all’indipendentismo è molto presente nel film, noi la respiriamo ma neanche
così tanto, per esempio non tutti sanno quando e dove si svolgono i comizi indipendentisti. Io ci sono stata, in
borghese, prima di girare il film, ricordo un signore napoletano trapiantato a Venezia, indipendentista, che aveva un
rifiuto per la propria gente pazzesco. La cosa che più mi stupisce è che le teste calde non sono più gli anziani di una
volta ma i giovani plurilaureati, piccoli imprenditori, il movente non voglio giudicarlo, evidenzia dei problemi legati
a un decadimento di un certo tipo di status che non c’è più e forse non ci potrà essere per evoluzione storica ed
economica. In questa situazione le etichette ti fanno sentire più forte, magari una volta i padri di questi giovani
laureati avevano una personalità ben definita e questo non portava a fare distinzioni razziali, c’era una centratura
diversa, non avevi tutto questo bisogno di cacciare l’immigrato, adesso mancano invece la centratura, le basi e il
contesto storico sociale che un tempo dava la garanzia di sentirsi qualcuno.
Nella sua famiglia come sarebbe stato accolto un fidanzato albanese?
Io ho la “fortuna” di avere un fratello disabile, nella mia famiglia conosciamo la diversità. Ho una cugina adottata, di
35 anni, quindi adottata parecchi anni fa, che era stata un caso nel mio paese, la prima bambina di colore adottata, la
gente si fermava a guardarla, ma lei era semplicemente una bellissima bambina di colore. Mia nonna per esempio,
persona importantissima della mia vita, quando le dico che ho un ragazzo la domanda principale non è chi è cosa fa,
è “zeo dei nostri” cioè è nostro o di giù? Anche romano per esempio…e risponde “ah va ben, va ben”. I miei genitori
sono insegnanti, il mio papà insegna in un istituto professionale ricchissimo di ragazzi stranieri e mia mamma alla
scuola materna, mi dicono ogni giorno quanto sia bello confrontarsi con genitori e bambini di altri paesi”.
[Alessia Arcolaci]