1 Carlo Natali Piacere, desiderio e deliberazione Donald Davidson

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1 Carlo Natali Piacere, desiderio e deliberazione Donald Davidson
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Carlo Natali
Piacere, desiderio e deliberazione
Donald Davidson nel 1963, in un saggio che ha determinato una svolta nello studio
moderno della teoria delle azioni, ha proposto un ritorno alla tesi antica, ed accettata dal senso
comune sia nel mondo greco, sia oggi, secondo cui spiegare un’azione è darne le ragioni, nel
senso di individuare un rapporto causale tra l’agente e la sua azione. Fare un’azione è
causarla.
In sintonia con la teoria aristotelica della deliberazione, Davidson ulteriormente propose
di considerare cause delle azioni non semplicemente gli individui (Marco acquista un’auto)
ma una serie di atteggiamenti, valutazioni e credenze dell’individuo, cioè alcuni elementi
interni a lui, che ne determinano i movimenti fisici. In prima istanza, si può dire che Marco
ha fatto un’azione perché essa gli piaceva; ma per spiegare causalmente l’azione dobbiamo
dire cosa esattamente gli piaceva in quell’azione. L’azione viene determinata da una specie di
atteggiamento emotivo favorevole ad un’azione di un certo tipo, e, insieme, dall’opinione che
l’azione da fare – o che si sta facendo – appartiene a quel determinato tipo.
La nozione di causalità usata da Davidson, una connessione tra eventi tale che, dato un
evento x esso è causa di y se senza x non si ha y e c’è una legge generale che connette gli
eventi del tipo x a quelli del tipo y, non ha più nulla anche fare con la nozione aristotelica di
causa, e da questo punto di vista l’analisi contemporanea dell’azione è completamente lontana
dall’analisi data da Aristotele e dai suoi successori; ma in un altro paio di punti, molto
importanti, Davidson, che era un buon conoscitore del pensiero antico, recupera l’analisi
aristotelica. Prima di tutto, nel fatto di stabilire come causa una somma di desiderio e
opinione; secondariamente nel porre come oggetto del desiderio, o più in generale
dell’atteggiamento emotivo positivo verso una certa azione, non l’azione essa stessa, ma il
tipo di azione in cui essa rientra.
Quando desideriamo fare una certa cosa, p. es acquistare un’auto, desideriamo sempre
un universale. Anche se cerchiamo di immaginarci la scena in tutte le sue particolarità, come
succede per le decisioni più importanti, ed esempio chiedere in sposa una persona o sostenere
un colloquio di lavoro, la realtà è sempre differente dalle nostre aspettative, e l’azione che
compiamo, sebbene dello stesso tipo di quella immaginata, non la è mai del tutto identica.
Basta andare un po’ al cinema per vedere innumerevoli volte verificarsi questo evento: A vuol
fare x, si immagina nell’atto di farlo, poi lo fa, e la cosa si svolge in realtà in modo del tutto
diverso da quello previsto – peggiore, o anche, a volte, migliore.
L’insegnamento aristotelico che Davidson rimette in circolo nella riflessione moderna è
l’idea che, all’inizio, l’oggetto del desiderio e dell’opinione che causano l’azione è un tipo di
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evento, e che solo la realizzazione concreta di esso ne determina effettivamente tutte le
caratteristiche singole, lo individualizza, per così dire.
A volte gli elementi di individualizzazione sono insignificanti: io penso che andrò a
comprare un’auto e che il meccanico avrà la tuta rossa, invece lo vedo vestito di verde. Se
non c’è una qualche particolare ragione per cui a me, in quel preciso caso, interessa che la tuta
sia rossa, questo aspetto dell’individuazione dell’evento che ho concepito in generale non mi
interessa, e non cambia nulla. Può anche accadere che io non abbia affatto immaginato o
previsto certi aspetti dell’azione che compirò, e che essi si verifichino in modo inaspettato, ma
insignificante: un clakson può suonare mentre acquisto l’auto, e io non l’avevo previsto, né
questo evento né il suo contrario, ma ciò non mi disturba. Va al di là della natura essenziale
della mia azione. Per dirla con Aristotele, gli aspetti accidentali di un evento sono infiniti, e
completamente trascurabili.
Però non sempre è così. A volte degli aspetti importanti di un’azione sfuggono alle
nostre previsioni e sconvolgono le nostre attese. La deliberazione permette il passaggio
dall’universale al particolare, ma ogni sua specificazione ha un elemento di rischio.
Se certi aspetti dell’individuazione di una azione sono irrilevanti, nel passaggio dal
desiderio universale di compiere un certo tipo di azione, al suo concretizzarsi in una scelta
concreta, si devono attraversare una serie di momenti significativi, che arricchiscono e
determinano l’oggetto del desiderio e dell’opinione, trasformandolo spesso in modo radicale.
Aristotele chiama ‘deliberazione’ il processo di arricchimento attraverso cui noi passiamo, da
un desiderio rivolto a un universale emotivo, o concettuale, ad un programma pratico di
azione. Il desiderio si rivela quindi rivolto ad un fine, di solito piacevole, ma questo fine può
essere oscuro. È un fenomeno comunissimo: esso va dalle sue forme più nobili, indicate nella
cultura alta dal termine tedesco Sehnsucht alle forme più diffuse nella cultura popolare, come
la contessa che, in una pubblicità di una marca di cioccolatini, qualche anno fa, diceva
all’autista “Ambrogio, ho voglia di qualcosa di buono”.
In quel caso la protagonista dello spot non aveva le idee chiare su cosa voleva; ma era
capace di riconoscere una proposta adeguata quando le veniva fatta. Il desiderio passava, dal
"qualcosa di buono" al cioccolatino da pubblicizzare.
Il meccanismo della deliberazione è una macchina per far passare il desiderio da un
oggetto universale ad un oggetto particolare, sempre più particolare fino a trovare un fine
realizzabile qui ed ora. Secondo Aristotele la deliberazione si esplica in una specificazione
del fine, cioè in un passaggio da un fine più generale ad un fine più particolare che sia della
stessa specie del precedente: essa deve stare al fine universale nella stessa relazione in cui
‘gatto’ sta ad ‘animale’ e questo ad ‘essere vivente’: tutti i gatti sono animali, e tutti gli
animali sono esseri viventi, ma non vale la reciproca. Infatti tra gli esseri viventi vi sono le
attinie, gli elefanti, le regine d’Inghilterra e moltissimi altri enti che non sono gatti.
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La deliberazione deve trovare un modo concreto di realizzare un fine generale in cui il
desiderio si perde nell’indeterminato, trasformandolo in un fine particolare della stessa specie.
Pena l’inefficacia, non ci deve essere salto di genere: chi vuole trovare una fidanzata, non si
accontenterà del consiglio del parroco, che lo invita a dimenticare le donne ed a venire
piuttosto a giocare a pallone all’oratorio. Il desiderio sa cosa vuole, e solo una specificazione
adeguata lo può soddisfare: voglio dire che la specificazione dell’obiettivo non deve
contenere deviazioni dall’intento originale, ma deve esserne una reale concretizzazione in una
situazione data.
Questo meccanismo comporta che tra ragione e desiderio vi sia una possibilità di
comunicazione. Le emozioni non sono chiuse ai ragionamenti, ma li ascoltano, e sono
soggette alla persuasione che la ragione esercita su di esse. Anzi, a volte, come certi bambini,
le emozioni apprendono più di quanto gli si vuole insegnare. Aristotele dice che se abbiamo
un principio etico generale, che ci impedisce di mangiare animali, e il desiderio sa, per altre
vie, magari attraverso una semplice informazione colta a caso, che un certo animale cotto alla
griglia è molto piacevole da mangiare, è facile che si ribelli.
L’emozione avrà tratto
informazioni non dal pensiero morale, che voleva guidarla al comportamento appropriato, ma
da tutto il mondo delle conoscenze che un individuo possiede, e ne ha dedotto una direzione
d’azione inaspettata.
La consulenza filosofica, per accennare la tema del nostro incontro, ha molto spazio per
intervenire in questo meccanismo: la deliberazione e il trovare modi di soddisfare i propri fini
è una delle sfere principali del sapere pratico.
La filosofia morale si è quasi sempre
concentrata, invece, sulla posizione dei fini: la concretizzazione del fine in una scelta concreta
è spesso sembrata una questione tecnica, non degna del filosofo. Ma il dibattito sui fini è
sempre soggetto al pericolo di restare puramente intellettuale, o di giungere a risultati piatti e
scontati: il bene comune, l’eguaglianza, la democrazia. Il problema morale spesso non si
annida nei sommi problemi, ma nella loro concretizzazione in una certa circostanza, quando
l’adattamento del principio di fa difficile e i criteri entrano in conflitto tra loro.
L’ermeneutica del Novecento ha insistito spesso sull’importanza di concretizzare i fini,
e sulla relativa irrilevanza di un fine troppo universale. Dato che ogni azione è un evento
individuale, e che ogni fine, per essere attuato, deve dare vita a delle scelte da farsi qui ed ora,
la parte più importante del sapere pratico pare essere l’implementazione concreta della
tendenza universale, e non lo stabilire in astratto cosa è preferibile d ogni altra realtà.
La deliberazione, come modo razionale di dirigere il desiderio, si svolge entro argini
ben stabiliti. A differenza della scommessa sartriana, del salto nel vuoto del pensiero
esistenzialistico, alla deliberazione necessita la conoscenza della realtà, essa deve avere esatte
previsioni sulle reazioni degli attori in gioco, e la conoscenza di un mondo stabile. Solo se
sono ragionevolmente certo delle reazioni del mio prossimo posso stabilire un programma
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d’azione. Un individuo che si trova d’improvviso in una cultura totalmente estranea, in cui
per esempio tendere la mano sia considerato un insulto, non saprà realizzare i propri desideri e
forse sopravviverà pochissimo.
La deliberazione, infine, è il modo di liberarsi dalla catena del destino. Come dice
Alessandro di Afrodisia, solo i bambini piccoli e le bestie reagiscono in modo fisso ad un
impulso dato.
Gli uomini, esseri razionali, si danno fini diversi, e questi fini, pur non
costringendoli ad agire, determinano le loro reazioni e i loro comportamenti.
Qui si annida la sorpresa, spesso, nei rapporti umani. Il nostro interlocutore può aver
fini diversi da quelli che noi siamo autorizzati ad aspettarci dalla nostra cultura, dalla
situazione, dalla conoscenza che abbiamo di lui e del suo passato. Questa è una delle ragioni
per cui il successo nella deliberazione è sempre aleatorio; anche se abbiamo deliberato bene il
risultato può essere deludente.
Da ciò deriva l’espressione ‘saper vivere’. Si tratta delle capacità di conoscere il
proprio ambiente e le persone che ci circondano, e di rivelarsi capace di portare a buon fine i
propri disegni. Secondo l’etica di Aristotele l’uomo saggio è efficace, non è un idealista o un
profeta disarmato. La sua azione è definita dal fine cui tiene, e il mancato raggiungimento del
risultato rende l’azione manchevole, anche se moralmente corretta e benintenzionata. Anche
questo elemento, insieme all’analisi dell’azione da compiere che si usa chiamare
deliberazione, è un momento centrale della nozione aristotelica di sapere pratico.
Riferimenti bibliografici
Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari 1999 (testo greco, introduzione,
traduzione e note): libri III e VII
Alessandro di Afrodisia, Il destino, Rusconi, Milano 1996 (introduzione, traduzione e
commento)
D. Davidson, Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna 1992 (traduzione italiana): Saggio I:
Azioni, ragioni, cause
H. G. Gadamer, Verità e metodo 2. Integrazioni, Bompiani, Milano 1996: Saggio 21:
Ermeneutica come compito teoretico e pratico
C. Natali, L’action efficace. Etudes sur la philosophie de l’action d’Aristote, Peeters,
Louvain La Neuve 2004
M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia
greca, Il Mulino, Bologna 2004.