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Chiara Macconi
NELLE PIEGHE
DI UN SEGRETO
Yolanda Oreamuno, una storia
Armando
editore
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Sommario
L’ultima foglia tardiva
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Prologo9
Capitolo primo
1936 Cile, verso il futuro17
Capitolo secondo
1937 Ritorno a casa33
Capitolo terzo
1944 Città del Messico, incontri e scoperte49
Capitolo quarto
1944 Fantasie
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Capitolo quinto
1944 Arrendersi all’evidenza71
Capitolo sesto
1948 Città del Guatemala, tempo di successi79
Capitolo settimo
1948 Città del Guatemala, tempo di sofferenze91
Capitolo ottavo
1949 Il silenzio che affoga101
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Capitolo nono
1951 Città del Messico, compagni d’esilio109
Capitolo decimo
1954 Città del Messico: incontri, ricordi, confidenze
Capitolo undicesimo
1955 Una spirale che si avvolge
135
145
Capitolo dodicesimo
Il tempo breve147
Capitolo tredicesimo
Amen
Capitolo quattordicesimo
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Epilogo
155
Lettera a Yolanda 157
Note dell’Autrice e ringraziamenti 162
La morte non chiude: le sue rappresentazioni164
Galleria fotografica169
Cronologia172
I suoi scritti173
I personaggi citati174
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L’ultima foglia tardiva
Resta sempre su qualche albero un’ultima foglia, aggrappata al suo
ramo per il miracolo di un’inesplicabile resistenza, e tutte le mattine, passando, le diamo un addio perché temiamo di non trovarla più il giorno
seguente. è tanto fragile il suo aspetto, scomoda la sua posizione, morto il
suo colore, che non possiamo spiegarci per quale fenomeno si mantenga al
suo posto, invulnerabile al vento, alla brina e al freddo. Simbolizza il confuso ricordo di quel che era stato in primavera ed estate il sontuoso abito
dell’albero, è la manifestazione unica del suo aspetto precedente, la sigla
del suo lignaggio, il sintomo della sua specie.
Malgrado tutta la precarietà che questa foglia solitaria rappresenta, nella sua umiltà, nella sua mancanza di difesa c’è un nobile elemento di forza.
Ogni mattina la cerchiamo per constatare l’effetto delle intemperie sul
suo stelo delicato o sul contorno del suo corpicino intirizzito, e ripetiamo
il malinconico addio. Però vedendola di nuovo, inalterabile e sola, ci chiediamo sorpresi se resisterà lì tutto l’inverno. Tanta tenacia senza nome desta in noi una certa sfumatura di sospetto: perché resiste? Resterà lì malgrado tutto? A che scopo la sua inalterabilità? E cominciamo ad abituarci
alla sua presenza sull’albero di fronte alla nostra casa. Lentamente, con
la famigliarità dell’inevitabile, cominciamo a dimenticare la foglia fedele.
Una mattina qualsiasi non alziamo la testa per cercarla, né ci congediamo
da lei per sempre. è entrata a far parte del paesaggio inalterabile, di quel
paesaggio che rimane al di là delle stagioni e delle temperature. E molti
giorni dopo, quasi senza pensarci, gettiamo uno sguardo disattento che ci
rivela la sua assenza. è andata via col vento. Non c’è. Se ne è andata senza
congedarsi, senza addii, senza lacrime. Neppure ha lasciato un ricordo.
Semplicemente, andata.
Yolanda Oreamuno, La strada della sua evasione, cap. XIX
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Prologo
Quando scriveva si firmava YO.
Le sue iniziali, senza dubbio, ma anche un’affermazione precisa, tassativa. Scriveva IO, un’identità, una presenza. In fondo, così era lei, assertiva, aperta ma anche fragile a volte, impegnata nell’eterno combattimento
fra luce e ombra. Yolanda Oreamuno l’aveva inscritto nel nome – fior di
viola in greco – all’apparenza modesto ma con qualcosa di oscuro e nel cognome rotondo, vibrante e sonoro, un nome aperto come un mare azzurro.
Un nome che ricorda una donna e una scrittrice fuori dagli schemi del suo
tempo e del suo paese.
Era nata il pomeriggio dell’8 aprile 1916, sotto il segno dell’ariete, a
San José di Costa Rica, allora poco più di un villaggio di meticci sull’altopiano centrale. Era stata battezzata il mese dopo nella parrocchia di El Carmen come Yolanda Maria Socorro de los Angeles. Non abitava nel quartiere di lusso dove i ricchi proprietari avevano i maggiordomi, le domestiche
e i giardinieri: San José era un borgo che cresceva e tentava di trovare una
strada fra la selva e le piantagioni di caffè che creavano la nuova ricchezza.
Tutti si conoscevano, pur appartenendo a diversi ceti sociali che rimanevano differenziati per classe ma restava, forte, l’identità familiare.
Carlos Oreamuno Pacheco discendeva da una famiglia conosciuta, parte dell’immigrazione di origine spagnola e dell’élite che governava durante
il tempo della Colonia. Erano famiglie che venivano da Panama, dal Guatemala, dal Nicaragua, che avevano dato vita alle antiche e importanti casate
costaricensi con avi governatori, intellettuali, possidenti, mogli e genitori
di presidenti del Paese, con alterne vicende economiche. Si era sposato nel
1915 nella cappella episcopale con Margarita Unger Saborio. Un matrimonio
importante, all’altezza del parentado illustre delle due parti; lui gestiva una
piantagione di banane e nel registro matrimoniale veniva dichiarato tecnico.
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Di Margarita, la madre, si sapeva che la sua famiglia, per parte paterna, era
originaria dell’Alsazia, al tempo tedesca, e era coinvolta nella costruzione
della ferrovia; che era casalinga; che aveva dieci anni meno del marito; che
era parrocchiana della Chiesa de La Merced, in San José.
Yolanda, che non aveva ancora nove mesi alla morte del padre, fu allevata dalla madre con la partecipazione di un gruppo di donne affettuose e ammirate, come la nonna materna Eudoxia, forse eccessiva nelle sue
coccole e le zie paterne Claudia e Luisa Oreamuno – le divine, come le
chiamava lei. Un mondo femminile. E nonostante la dignitosa ricerca di
mantenere uno status all’altezza dei loro desideri e forse della tradizione
familiare, le donne di casa cucivano per sé e per gli altri.
Si dice che il padre fosse morto suicida e si sa che le voci, nelle piccole
società, costituiscono la Storia secondaria, silenziosa ma non troppo, sussurrata per essere moltiplicata. Era per una perdita al gioco non solvibile o
per una questione di donne? Lo descrivono di bell’aspetto, l’uomo di mondo che diceva di essere fortunato con le ragazze. Deve aver avuto capelli
scuri e baffi alla moda, come un vero maschio centroamericano. Era morto
in un duello? C’era una specie di riservatezza e forse anche di opacità,
quella che copre le informazioni più private, quelle che comunque si ponevano fuori dall’ortodossia sociale. Potrebbe anche essere morto di polmonite ma di uno che morisse non si diceva di cosa fosse stato vittima, di uno
che si ammalasse neppure. Era una società così rigorosa e inflessibile? No
davvero, c’era già il divorzio in Costa Rica, ma le cronache del tempo, così
come accadeva altrove, utilizzavano i codici di comportamento dalla caratteristica “meravigliosa” del non detto. Neppure molto si sa del legame fra
i genitori: se la sposa “tedesca” fosse contenta del marito, l’avesse sposato
per amore o solo per destino, silenziosamente.
Allora era impensabile esprimerlo.
E quindi chi fosse quella madre dalla forte pronuncia straniera non sappiamo con certezza: cosa avesse ricevuto in dote emotiva dai suoi genitori, cosa avesse scambiato nel breve rapporto con un marito troppo presto
mancato e con cui non avrebbe potuto condividere quella complice intimità
di chi sa le cose del mondo, davanti alle domande insidiose di una bimba
precoce. Era la tipica donna che soffriva il matrimonio, scontrosa e bigotta,
o semplicemente triste e aspra, che disprezzava il marito per i suoi appetiti
sessuali o invece sapeva godere la vita a cui chiedeva molto? O cos’altro
ancora? E quale suo ricordo affettivo e sentimentale questa mamma aveva
da trasmettere alla sua bambina? L’avrà abbracciata e accarezzata, ninnata
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affettuosamente? Ma non era certo un’attenzione del tempo, c’era da occuparsi di cose più importanti e qualcuno dice che avesse esercitato una “tirannica incomprensione” nei confronti della figlia. La nonna sì, la copriva
di carezze e nelle sue grandi braccia si rifugiava quando aveva problemi.
Il caso di Yolanda era molto comune al suo tempo: quante ragazze orfane,
molto più spesso di padre, si incontrano nelle storie, ragazze che si immettevano su una strada di difficoltà e di scelte anche dolorose proprio a causa
della loro condizione di partenza.
Ci sono molte belle immagini che la ritraggono e che ce la restituiscono
in vari momenti della vita. Una fotografia a 4 anni la mostra su un triciclo
dalla ruota anteriore più grande: l’immagine di una bambina, bella come
tante a tutte le latitudini, i capelli ben pettinati e agghindati con un nastro
bianco, tanto impegnativo per dimensione da farla sembrare un uovo di
Pasqua. Il vestitino bianco, con svolazzi come si conveniva secondo gli usi
del tempo, le calzine corte bianche, come le scarpe. Ma lei sul triciclo non
è solo seduta, lei sta pedalando. La foto non è da studio fotografico.
Dicono che da piccola si sentisse brutta, forse perché la sua bellezza
non rispondeva ai canoni classici. Da quando prese coscienza di questa disarmonia Yolanda probabilmente decise di voler diventare almeno interessante, di coltivare la sua intelligenza e il suo portamento, per supplire alla
mancanza di bellezza da lei percepita. E, determinata, raggiunse i risultati
desiderati. Era impossibile che passasse inosservata per il suo stile e la sua
bellezza è stata oggetto di tutte le possibili narrazioni.
A 10 anni scriveva racconti per bambini. Voleva essere ascoltata e affermava con decisione la sua volontà, come tutti i bambini nelle fasi di cambiamento. Alcune fotografie la mostrano con amiche e amici, passeggiate
di adolescenti a Desamparados, un quartiere popolare di San José, altre al
vulcano Irazù in tenuta sportiva, ed anche a Siquierres, un paese vicino alla
zona bananiera, a San Isidro, a Cartago, la prima capitale del paese. Sempre invitata da cugini e fratelli delle compagne di scuola, Carmen Marin
Cañas, Virginia Clare, Vera Tinoco, Olga de Benedictis: donne che hanno
ricoperto più tardi un ruolo in società, per meriti propri o più spesso delle
loro famiglie d’origine o dei loro mariti.
Yolanda aveva compiuto i suoi studi secondari al Colegio Superior de
Senoritas: fondato nel 1888, annoverato come successo dei politici liberali
nei confronti dei conservatori, è stata la culla della preparazione accademica delle donne costaricensi e in seguito, del femminismo.
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Un’educazione gratuita e laica con insegnanti e pedagogisti che in parte
venivano dall’Europa e specialmente dal Belgio. Questo Collegio, importante
edificio dal punto di vista architettonico, di modello rinascimentale, era situato
nel centro della città e decorato con un libro aperto, un clarinetto, un compasso
e alcuni motivi floreali. Simboli evocativi di varie influenze. Era il corrispettivo al femminile del Liceo de Costa Rica per la futura classe dirigente
maschile.
A questa istituzione arrivavano ragazze di tutte le classi sociali, che
venivano invogliate a frequentare, accordando, tra l’altro, borse di studio,
allo scopo di avere un contingente di persone preparate che potessero poi
tornare nei luoghi di provenienza e diffondere la cultura nel Paese. Qui
si sono formate le donne che si sono battute per il voto femminile, ottenuto finalmente nel 1950. Ma anche negli anni ’20 le insegnanti della
Lega Femminista, fondata nel Collegio, lottarono e scioperarono per il
riconoscimento dell’uguaglianza salariale fra insegnanti maschi e femmine. Proprio perché era terreno fertile di novità, ci sono stati anni in cui
la scuola ha diminuito la sua offerta educativa nei confronti delle ragazze
limitandola solo a corsi professionali: l’apertura mentale dei vari Presidenti del Paese incideva su queste decisioni. In questa famosa istituzione
studiarono donne che hanno ricoperto ruoli importanti nel Paese e alcune conosciute anche fuori dal Paese, come Carmen Lyra, Angela Acuña
Braun, Lilia Ramos, Carmen Naranjo e Carmen Granados.
Era stata una precisa scelta dei governanti quella di eleggere a capitale
la città sull’altipiano centrale, circondata totalmente da enormi piantagioni
di caffè, la cui terra era stata strappata alla boscaglia, e progressivamente
allargata e costruita per dare identità nazionale ai suoi abitanti e immagine
di modernità agli sparuti viaggiatori che per diversi motivi si avventuravano da quelle parti.
Ci si poteva muovere con il “flemmatico tranvai” lungo arterie che si
incrociavano a scacchiera, come si usava nelle città coloniali sul modello
spagnolo e, mentre la città si allargava, furono costruiti parchi e nuovi quartieri con la partecipazione di imprese private e della municipalità, in uno
scambio di utilità che prevedeva la costruzione dei servizi pubblici come la
distribuzione dell’acqua, la rete delle canalizzazioni igieniche, l’illuminazione elettrica, molto in anticipo rispetto ad altri Paesi.
Yolanda frequentava il Dipartimento professionale al Colegio dove, in
seguito, si specializzò in segretariato commerciale (utile per guadagnarsi
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da vivere – in accordo con il pensiero della componente femminile della
famiglia –) e dattilografia (utile per scrivere):
«Non si può scrivere un libro a mano», la ragazza aveva affermato.
Le sue vaste letture di Cervantes, Galdos, Proust e Mann si devono
all’amicizia con Vera e Olga (poi moglie del Presidente della Repubblica
Mario Echandi). Questo terzetto di “moschettiere” otteneva facilmente libri in prestito dalla biblioteca del padre di Vera e li divorava, li commentavano poi tra loro. Proust non era ancora stato tradotto e le ragazze a scuola
imparavano il francese.
Yolanda partecipava anche alle attività del Circulo de Amigos del Arte
che ebbe un ruolo molto importante per lo sviluppo della cultura in Costa
Rica: aperto all’inizio degli anni ’30 chiuse i battenti nel 1938. Riuniva intellettuali ed artisti, un cenacolo fondamentale per lo scambio intellettuale,
dato che la comunicazione col resto del mondo non era facile. I libri più recenti erano appannaggio di pochissimi come Joaquin Garcia Monge, direttore della Biblioteca Nazionale e poi della rivista «Repertorio Americano»,
figura tanto importante per le lettere e le arti del Costa Rica. Queste pochissime persone fortunate offrivano gratuitamente corsi per i giovani che
variavano nei temi, a scelta dei maestri: storia della musica, filosofia classica, storia dell’arte, lingua inglese. Frequentavano gli incontri le ragazze,
con tanto desiderio d’imparare e forse anche in attesa di trovare marito. E
sicuramente qualche commento su possibili attrazioni non è mancato.
Durante il periodo di formazione, Yolanda aveva partecipato ad un concorso dal tema, ambizioso e audace per il tempo, “Mezzi da suggerire al
Collegio per liberare la donna costaricense dalla frivolezza dell’ambiente”. Presentò il lavoro Que Ora Es? in cui motivava le sue idee contro gli
stereo­tipi della doppia morale – gli atteggiamenti maschilisti e l’autocompassione e autodenigrazione femminile, il machismo e il marinismo.
Era il 1932 e lei aveva 16 anni. La sua posizione, giocata con grande capacità di persuasione e un leggero umorismo, è precisa e i suoi fendenti colpiscono le donnette, le ricche, le femministe, quelle centrate solo sulla vita
sociale, quelle cieche di fronte alla ricerca interiore. Le è molto chiaro che
la differenza economica gioca un ruolo potente. Lei promuove l’identità
femminile che deve portare alla coscienza di genere, quella che le permetta
di essere compagna, amica e non nemica né tantomeno schiava dell’uomo.
Nel suo tema scriveva della “figlia di famiglia”:
Essere “Figlia di famiglia” è un termine ambiguo che significa essere soggetta alla tutela intellettuale e morale dei nostri genitori, per sempre… è il
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prodotto di un nucleo piccolo e chiuso – chiuso, questo è grave – rispetto
all’esterno di cui il padre è la porta e a volte anche la chiave. Le influenze
esterne sono mediate e filtrate dallo stesso mentore, le opinioni controllate
direttamente e le attività volitive cancellate nella loro quasi totalità. Lì vige
la completa obbedienza, senza nessuna amichevole discussione. Bisognerebbe chiarire cosa è docilità.
Lei non aveva un padre che le facesse da mentore, che le suggerisse
quale strada percorrere, forse nessuno che le impartisse le regole precise
di comportamento, il compito tipico del padre. E neanche una madre che
la proteggesse e la preparasse alla vita. La sua dotazione sentimentale era
decisamente carente. Quella professionale era in espansione.
Finita la scuola, col suo diploma, trovò lavoro all’Anagrafe, – il reparto dell’edificio della Poste dove ci si sporcava le dita con l’inchiostro –
scrivendo a mano le nascite sui registroni. Era iniziato il suo percorso di autonomia, almeno nei desideri. In seguito si annunciò una posizione all’Ambasciata del Cile, come segretaria.
La sua bellezza e il carisma della sua personalità non la aiutarono. Era
molto ambita e nello stesso tempo diventava facile oggetto d’invidia e di
chiacchiera.
Forse per questa ragione decise di affrontare il suo futuro guardandolo
in viso, consapevole e in parte incosciente, coraggiosa e fragile nelle sue
emozioni sentimentali, ancora acerbe. Le stelle, nel suo cielo natale, indicavano perdite, violenze, malattia e rinuncia. Se l’entrata nel mondo era già
regolata in quel modo come superare quel destino infausto fin dall’origine
– ci sarebbe voluto tempo per imparare a gestire quel suo fato drammatico.
E il tempo concessole fu molto limitato.
In quegli anni nel mondo, lontano dal Costa Rica, tuoni e lampi scuotevano la Storia, tanto diversamente da questo Paese caldo con la tendenza
a rimandare alla tranquillità del corso del tempo. Si combatteva la Prima
Guerra Mondiale in Europa, sui fronti italiani e austriaci, insanguinando la
terra, per valli, monti e fiumi. Erano state sancite e si erano disfatte alleanze
strategiche nella diplomazia. Movimenti innovatori nelle arti agitavano il
nuovo secolo mentre gli scambi fra Paesi si facevano sempre più possibili. A Londra il gruppo di Bloomsbury in letteratura, la mostra dei postimpressionisti francesi e la scoperta di una nuova forma d’arte; in Russia
Anna Achmatova, poetessa coraggiosa e ribelle con le romanziere Marina
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Cvetaeva e Nina Berberova; in Danimarca Karen Blixen che cercava continuamente qualcuno che potesse tenerle testa; negli Stati Uniti l’astro
nascente di F. Scott Fitzgerald; in Francia confluivano tutti i movimenti
artistici che rendevano Parigi il luogo magico dove essere e condividere
esperienze.
Ogni forma di espressione era contagiata e sollecitata dai nuovi modi
di pensare e vivere, l’esperienza della vita contemporanea suggeriva anche
una sensazione di sospensione, come essere sul bordo di un sentiero di
montagna a strapiombo sul mare sapendo che qualcosa sarebbe successo. I
vecchi equilibri avevano perso vigore nel nuovo secolo.
Contemporaneamente in Costa Rica, la coltivazione delle banane sulla
costa atlantica e del caffè sugli altopiani centrali aprivano un nuovo mercato: l’“élite” del caffè diventava anche la nuova classe politica. La terra era
divisa ancora in piccoli appezzamenti che un coltivatore singolo potesse
lavorare, dato che mancava forza lavoro a basso costo o schiavitù. Dopo
la depressione del 1929, le cui ripercussioni si erano avvertite anche nel
Paese, si girava con carretto e cavallo a San José, una città di 3000 abitanti:
molti vivevano in case di mattoni crudi (adobe) e altri costruivano case in
stile coloniale californiano. Questi ultimi proteggevano le loro proprietà
con muri alti per garantirsi sicurezza. Fin dagli anni ’30 i tram assicuravano i trasporti in città. Col passare degli anni si affermava il latifondismo,
l’aumentare della popolazione in città peggiorava la situazione abitativa
e sanitaria e nel 1943 si ebbe il primo sciopero generale. Era necessario
intervenire e i governi dovevano affrontare povertà e relativi problemi, fino
alla promulgazione delle Leggi di garanzia sociale per i lavoratori, nonché
una breve guerra civile che era, più che altro, una rivolta. Da questo processo storico le classi medie del Paese si erano formate e l’intervento dello
Stato nell’economia nazionale era diventato più evidente, con l’abolizione
dell’esercito, l’istruzione gratuita per tutti, la fondazione della casa editrice
Editorial Costa Rica e l’Università.
Le arti, nel loro insieme, avevano vita e forze proprie: pittori, scultori
avevano saputo catturare l’attenzione e ottenere ammirazione. Gli scrittori
della generazione del ’40 scrivevano romanzi di denuncia in cui la collettività era protagonista e l’intento principale della narrazione era lo sviluppo
della consapevolezza delle lotte sociali e il cambiamento.
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Capitolo primo
1936 Cile, verso il futuro
– No – disse Yolanda – ora deve essere bellissimo! –.
Ci volevano occhi grandi come il mare per poter abbracciare quello che
aveva dinnanzi. Era tutto uno sventolio di fazzoletti e di fiori, mentre la
nave si staccava dal molo del porto di Puntarenas: era diretta a Valparaiso,
in Cile e si sarebbe fermata solo in qualche porto intermedio. La si riconosceva da lontano, con la sua ciminiera verde, la nave della Grace Line in
servizio sul Pacifico.
I passeggeri del ponte di prima classe – le donne in abiti bianchi leggeri
e svolazzanti, gli uomini con i cappelli in mano – salutavano gli amici e
i parenti ormai lontani perché il molo dell’imbarco, un’opera di alta ingegneria per il suo tempo, si spingeva come un lungo braccio su palafitte
metalliche nell’oceano. La locomotiva della Pacific Railway arrivava fino
all’imbarco, per portare le merci. A chi partiva tutto questo non interessava. Nessuno, né dal molo né dalla nave, aveva il coraggio di interrompere
il contatto degli affetti anche se la nave si stava allontanando. Quando la
distanza li rendeva ormai irriconoscibili, qualche fazzoletto bagnato di lacrime veniva ancora sventolato, come se si fosse trattato solo di un arrivederci. Le coppie, le famiglie, i gruppi rimasti a terra formavano capannelli
distinti ed erano stretti fra di loro come a conservare quella vicinanza che si
era persa nella partenza. Per qualcuno era un commiato pieno di speranza
e stupore, per altri un ritorno agognato o angoscioso, per altri ancora il
brivido dell’avventura per contrastare l’anonimato di notti senza stelle in
paesi lontani. La nave era carica di aspettative e di emozioni che i singoli si
erano portati dietro come un bagaglio in più, impalpabile ma presente e pesante, talvolta. Il sorriso rendeva i visi aperti e il dolore li richiudeva in una
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dimensione oscura. Era fin troppo facile capire, guardando quei passeggeri,
quali portassero con sé l’esperienza buia e quali quella luminosa, quali
avessero il cuore gonfio di rancore e amari desideri, quali invece lieti di
fuggire da una patria infame, quali avessero ancora gli occhi annegati in
quelli di una donna. Molti cercavano un nuovo capitolo d’esistenza e nel
viaggio portavano con sé le loro cose o la loro vita.
Anche lei, Yolanda. E se indugiava così tanto in quello sguardo lontano,
che sembrava non essere messo a fuoco, era perché non aveva altro come
termine di riferimento: gli altri e suo marito.
– Finalmente mi cambierò questo vestito! I fiori sulla giacca si sono
ormai appassiti – gli disse prendendolo sotto braccio con aria complice
mentre si dirigevano verso l’interno della nave. Jorge rispondeva sempre
alle sue iniziative:
«Hanno resistito molto bene e hanno fatto di questo tailleur decisamente elegante qualcosa di sofisticato. In America le donne portano piccoli
bouquet di fiori al polso e li chiamano corsage».
Sembrava un intenditore, frequentava il bel mondo dei diplomatici al
quale apparteneva, ed ora esibiva l’anello luccicante da sposo novello.
«Eri splendida stamane in chiesa», aggiunse Jorge.
Sorridendo lei si allontanò per cambiarsi – quel vestito da sposa lo indossava fin dal mattino – poi ritornò sui suoi passi e gli diede un bacio
schioccante che lo stupì, e gli provocò un inaspettato sorriso stereotipato.
– Tu sai, però, che desideravo un abito diverso, bianco con pizzi e velo,
come sulle riviste – gli disse Yolanda allontanandosi. Chissà se sarebbe mai
stato in grado lui di capire i misteri delle ragazze che andavano spose e che
diventavano ghiotto argomento per articoli sui giornali, con spiegazioni
sugli abiti e le vite degli sposi. Scese nella sua cabina, aveva bisogno di un
po’ di silenzio.
Tutto era successo così rapidamente, il matrimonio al mattino nella
Chiesa de La Soledad a San José, celebrato dal Monsignore alla presenza
dell’ambasciatore cileno di stanza in Costa Rica che aveva fatto da testimone insieme alla mamma. Le zie carissime, che le erano sempre state vicine
dopo la morte del babbo tanti anni prima, erano felici e l’avevano guardata
con amore. Poi il viaggio in treno fino a Puntarenas: quante novità! Quello
era stato un punto d’arrivo e anche di partenza, non solo metaforica.
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Era cominciata proprio così quell’avventura.
Le era stato proposto di lavorare come segretaria all’Ambasciata del
Cile. Era preparata per quel tipo di lavoro, sapeva scrivere a macchina
molto bene, stenografare e seguire un capo, come richiedeva il ruolo. Era
una delle prime donne che aveva preso il diploma. Lì aveva conosciuto
il bel diplomatico che sarebbe diventato suo marito. Un uomo colto e
raffinato che era solito bere con aristocratico distacco il suo Ron Panama
mentre accendeva un sigaro cubano. Aveva 33 anni, quel che bastava per
pensare a una situazione stabile di vita. Aveva scelto proprio lei fra le
belle di San José e il corteggiamento, ancorché breve, l’aveva fatta sentire una vera dama: fiori e attenzioni come mai prima. Come era potuto
succedere, date le circostanze, era fin troppo facile da capire e da quel
momento era entrata in un vortice. In certe situazioni, quando qualche
piccolissimo passaggio sfugge al controllo, le cose si rovesciano e cambiano posizione e il quadro che si forma è totalmente diverso, come le
forme che mutano in un caleidoscopio.
Lo chiamano destino… Cosa fosse stato precisamente lei non lo sapeva,
ma sapeva che tutto ad un tratto le si erano aperte porte impensate, un’idea
di futuro ampio, dimensioni internazionali, ipotesi di una vita sociale ad alto
livello, bei vestiti, prospettive insolite e magnifiche. Era stato a quel punto
che aveva cominciato a costruire castelli di sabbia in cui le sue aspettative e
i suoi sogni prendevano forma, sconvolgendo le idee di sua madre, tutte basate sulle apparenze che avrebbero dovuto essere sobrie. Il diplomatico dagli
occhi chiari l’aveva chiesta in moglie in tempi brevissimi e le aveva proposto
un compito di fiducia che solo ai dipendenti cileni sarebbe stato concesso. O
forse prima le aveva proposto il lavoro e poi il matrimonio? Le aveva promesso anche che avrebbe vigilato sulla sua indipendenza morale e materiale,
che poteva scrivere quanto voleva e coltivare la sua ambizione di scrittrice, e
che doveva impegnarsi per ottenere quei risultati che desiderava. Non si era
certamente spaventata di fronte a quella spinta a lavorare senza risparmiarsi. Tutto sembrava aperto per lei, offerto su un piatto d’argento… non aveva
mai pensato che potesse esserci la testa di Giovanni Battista su quel piatto di
Salomè, non si era mai chiesta quale sarebbe stato il prezzo di quel favore.
Come non essere felice di stare al centro dell’attenzione di un uomo bello e
affascinante che le avrebbe aperto le porte oltre la soglia di casa, che l’amava,
come ripeteva spesso? Se tutto fosse andato per il meglio il suo stipendio sarebbe stato molto superiore a quello che percepiva all’Anagrafe e sicuramente
non avrebbe avuto le dita sporche d’inchiostro. E, in più, Jorge aveva anche il
fascino esotico dello straniero. Per tutto questo gli era totalmente grata.
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Purtroppo era intervenuta qualche complicazione e la proposta del suo
impiego non era stata accettata. Doveva essere sposata ad un cileno, per ottenere la cittadinanza e poter quindi occupare a buon diritto posizioni riservate
solo a cittadini cileni. E così si erano sposati in tutta fretta e immediatamente
dopo partiti in luna di miele per il Cile, dove Jorge era stato richiamato.
«Così era avvenuto. L’ordine dei fatti era stato proprio quello» rievocava in cabina mentre toglieva il corsage di fiori dalla giacca dell’abito.
Era successo qualcos’altro dopo la cerimonia: Jorge le aveva detto parole che si erano fermate lì, fra di loro, e che si erano condensate come un
blocco di ghiaccio sopra le loro teste. Aveva sentito bene o non aveva ben
capito quando lui le aveva sussurrato che non avrebbero potuto avere un
figlio?
Naturalmente si era stupita, lo aveva guardato con sorpresa e chiesto il
motivo. La risposta si era mescolata alle parole degli invitati che li accerchiavano e che volevano trattenersi in loro compagnia, prima della partenza. Furono risucchiati, ognuno nel suo circolo di conoscenze e parentele
dal quale nessuno di loro sembrava volersi allontanare. Yolanda si chiedeva come mai avesse indossato quel suo completo a giacca grigio perla,
elegante e impreziosito da quel mazzolino di fiori freschi che sembrava un
gioiello. Era certamente bello quell’abito, ma pur sempre grigio.
Era consapevole che quello non fosse esattamente il vestito da sposa
dei sogni delle fanciulle che scivolano lungo la navata. Sembrava piuttosto
un abito da viaggio, l’avvio per un destino che l’avrebbe portata lontano.
L’abito giusto per un viaggio – e il matrimonio è anche un viaggio – ma
decisamente una soluzione in tono minore. Le riusciva difficile ricordare
come tutto era successo e come si erano accavallate le cose, nei preparativi.
Le sue amiche erano felici, sorridenti, forse qualcuna invidiosa anche se
non lo mostrava, i suoi compagni di passeggiate la guardavano come donna, ormai, e la distanza fra loro aumentava.
Era la prima che s’involava, verso lidi alti e sogni senza limiti.
– Ora bisogna pensare a Panama, la prossima tappa, deve essere bellissimo, non può essere diverso, è la nostra luna di miele –, pensò guardandosi nello specchio e girandosi per vedere l’effetto di quell’abito vaporoso
appena indossato, pieno di balze, che ondeggiava leggero come se fosse
pieno di vento. Quello l’aveva cucito sua madre, come aveva fatto in tante
altre situazioni, da quando aveva deciso di arrotondare le entrate familiari
con quell’attività sartoriale.
Sentiva come sempre il desiderio di verificare negli occhi degli altri la
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conferma di complimenti che spesso le venivano fatti a proposito della sua
“sfolgorante presenza”.
La notte, dopo la cena, si era fatta molto buia e l’oscurità dei tropici li
avvolse, stanchi e provati dalle loro emozioni. Rientrarono nelle loro cabine. Due cabine. Mancava una luna piena e un cielo pazzo di stelle per avere
un quadro perfetto. O quasi. Veramente mancava molto altro: un abbraccio
senza limiti, un tempo senza ore, una felicità senza tregua, il tempo e lo
spazio a loro disposizione perché l’incontro fosse decisivo, totale.
Era così diverso, invece. Il tempo scandito dalle ore e dalle mezz’ore
invece dei respiri, il silenzio riempito dai rumori. Ma era così che avrebbe
dovuto essere? Sicuramente se lo era chiesto ma non aveva nessuno con
cui parlare e l’uomo che sarebbe stato con lei “per sempre” era chiuso in
uno spazio diverso e in un silenzio d’altrove. Era sola, ma con lucidità si
ripeteva che non doveva sentirsi abbandonata. Eppure ci sono momenti in
cui si deve essere insieme, pensava, altrimenti i significati si perdono. I suoi
pensieri e le sue emozioni non trovavano pace e si alternavano senza sosta,
in un groviglio insensato di deduzioni e controdeduzioni.
Non capiva, era totalmente impotente, si sentiva disperata. Non poteva dormire! come l’avrebbe guardato il giorno dopo? Lacrime erano
ferme sul limitare delle ciglia, indecise, cariche. Non le lasciò scorrere,
voleva una pausa in quel caldo umido senza risposte. Desiderava solo
non pensare. Staccare il pensiero e trovare al risveglio, il mattino dopo,
il problema risolto.
La nave arrivò a Panama, la città li accolse in una radiosa giornata e li
travolse nei rituali degli arrivi e delle partenze, delle sirene che sorprendono le giornate con i loro suoni improvvisi. Scesero a terra e passeggiarono,
nelle ore meno calde, lungo la strada rialzata fiancheggiata di palme che
collega i quattro isolotti con la terraferma. Su quel percorso vide stormi
di pellicani neri che si tuffavano in mare. E non le piacque. Sull’avenida
Central, che attraversava la città vecchia con la sua architettura coloniale,
echeggiava il richiamo del famoso pirata Morgan alla ricerca delle navi
spagnole cariche d’oro e d’argento, nel rumore di cannoni e polvere da
sparo. Era già passata da quella strada, qualche ora prima per una breve
incursione, e ne era tornata immediatamente: sembrava esserci movimento, invece le persone si trascinavano lungo la strada come lumache che si
portassero appresso la casa. Segno di chiusura, di isolamento, di vitalità
succhiata dal calore che saliva dalla terra. Meglio tornare.
Tanto caldo e tanto rumore a Panama. Un caldo soffocante e l’umidità
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feroce. Da sempre. Jorge ricevette corrispondenza dall’ambasciata. Furono
invitati a cena con altre persone, panamensi e americane.
Dopo le presentazioni, l’attribuzione dei posti a tavola la collocò fra
suo marito (stava cercando di abituarsi a questo nuovo status, con un certo
sussiego) e un ufficiale americano, un pilota di stanza a Panama voglioso
di raccontarle le sue avventure. Durante la cena il suo sposo era tutto preso
da un vicino inglese con cui parlava di argomenti che la lasciavano indifferente. Il pilota invece aveva catalizzato la sua attenzione: sapeva rapirla
con il suo fascino e il suo eloquio. Le raccontava che ogni giorno doveva
perlustrare l’area dell’istmo: non per divertimento e neppure per motivi di
tensione, solamente routine d’osservazione. Il modo in cui lui le descriveva
i suoi compiti quotidiani le dava la sensazione che volesse sdrammatizzare
il suo compito, a metà fra il segreto e l’understatement.
Era incantata all’idea di poter volare nella piena libertà, nel cielo,
nell’azzurro. Una magia. L’uomo era giovane, forse solo qualche anno più
di lei, un po’ sbiadito nella sua pelle chiara che stava acquistando un certo
colorito, confermato dalle lentiggini appena accennate. Un ciuffo scomposto di capelli biondi gli ricadeva sulla fronte conferendogli un’aria sbarazzina. Tutto in lui richiamava l’immagine dell’eroe e la divisa ne accentuava
l’impronta virile. L’uniforme è sempre affascinante, basta quella a renderli
invincibili, non aveva mancato di notare.
«Sembrate una coppia in viaggio di nozze o mi sbaglio?».
– Sì, ci siamo sposati proprio ieri a San José – disse Yolanda quasi
schernendosi.
«Gli anelli sono lucenti e nuovi. E qual è la vostra meta?».
La destinazione di Valparaiso come porto di arrivo lo aveva lasciato un
po’ sospeso, o forse sorpreso:
«Sicuramente proseguirete per Santiago. La conosce già o è la prima
volta? Non sono sicuro che la città le possa piacere: dicono che la gente sia
triste e che siano affetti da saturnismo».
– In effetti è la prima volta. Mi piaceranno anche se sono tristi –.
«Anche se non dovessero piacerle, sarà la sua bellezza radiosa a conquistarli».
Le sue parole e il suo modo di guardarla erano singolari, come se volesse entrarle negli occhi, penetrare il suo mondo. In quel momento era
davvero radiosa.
Parlarono del tempo naturalmente e del caldo di Panama che non dava
tregua, che lasciava sempre i vestiti umidi di sudore e per quel motivo le
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donne sceglievano abiti dai colori vivaci. Si parlava di Panama come di un
paradiso «ma non lo dicono i suoi abitanti, che dimostrano insoddisfazione
e disaffezione nei confronti di noi americani» aveva aggiunto il pilota che
proseguì:
«Il Trattato del 1904 ci ha concesso la Zona del Canale perpetuamente,
e noi cerchiamo di colpire i trafficanti di droga. I panamensi li abbiamo
difesi e ancora li difendiamo, ma non ci amano. E si comportano come se
fosse un obbligo da parte nostra proteggerli. Il sorvolo quotidiano dell’istmo fa parte di questo processo».
– È un’operazione coperta da segreto? e come mai ha deciso di fare il
pilota qui? –.
«In effetti è segreto di stato dove e quando vengono fatte queste ricognizioni. Come militare sono stato destinato a questa base. Mi piace il
lavoro che faccio, se non fosse per l’umidità asfissiante di Panama!».
Il gringo aveva parlato della sua voglia di libertà e di cielo nelle dimensioni del lavoro quotidiano e le sue domande – forse un po’ ingenue
– l’avevano fatto sorridere. Avrebbe potuto rivolgersi anche al suo sposo, seduto alla sua sinistra, ma l’argomento delle sue conversazioni con
l’inglese, che sembrava così coinvolgente per loro, non interessava lei.
Da questa parte invece, nei segreti, aveva trovato qualcosa di eccitante e
speciale. Mentre tornavano alla nave aggiornò Jorge sui suoi entusiasmi,
sull’argenteria che aveva fatto sfoggio di sé sulla tavola, sulla bontà dei
piatti offerti, sui vasi di fiori che decoravano l’ambiente, così imponenti,
senza risparmio.
Era come una bimba davanti al negozio di giocattoli, ed era sul punto
di poterli avere. Il suo entusiasmo si bloccò bruscamente quando Jorge
iniziò a spiegarle come avrebbe dovuto osservare tutti i dettagli per essere
in grado di fare altrettanto quando fosse stato il loro turno a ricevere ospiti
di riguardo. Disse che la compagnia non era stata spettacolare ma il suo
vicino aveva attirato davvero la sua attenzione. Si erano salutati molto calorosamente.
I lampioni nella notte illuminavano il ritorno di un’opaca luce gialla
che rifletteva sull’acqua del porto un tremolio ipnotico. Guardando verso
l’oceano si vedevano le isole, la strada rialzata e l’immancabile fila di navi
alla fonda, in attesa del loro turno per passare sotto il Ponte delle Americhe.
Una lunga fila di luci contro l’orizzonte nero. Nel porto c’era un fastoso
piroscafo italiano dal nome nobile: il Conte Biancamano le fece sognare
mete lontane.
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