La sete - Elledici

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La sete - Elledici
editoriale1
La sete
Come la cerva assetata cerca un corso d’acqua,
anch’io vado in cerca di te, di te, mio Dio.
Salmo 42,2
L’Evangelo di Giovanni possiede una ricchezza simbolica inesauribile. Alcuni esegeti2 lo definiscono il «Vangelo sacramentario» perché i segni presenti
in esso si trasformano, nell’autocoscienza della comunità cristiana che lo legge
e lo elabora nella storia, in vita e carne: mediante questi segni, Dio Padre continua cioè nel tempo la sua opera di salvezza. La Parola che «era» prima della
creazione e con la quale questa fu fatta, si «incarna», e Cristo diventa luce, vita,
pane, ma anche l’unico pastore, quello «bello», per chi lo incontra nella fede.
Nel brano de «La Samaritana» di cui qui ci occupiamo, sono fondamentali
i segni della sete e dell’acqua, peraltro ripresi più volte da Giovanni nel suo
Evangelo:3 la sete di Gesù al pozzo di Sicàr richiama ed anticipa la sete espressa con voce flebile sulla Croce, prima di «rendere lo spirito». Proprio perché
l’Evangelo di Giovanni è complesso e di non immediata interpretazione riteniamo non facile operare sulla «sete» una lettura univoca del testo. Consci di
non doverne esaurire la ricchezza, e pur nel timore di rischiare un’ermeneutica
riduttiva, vogliamo tuttavia proporne due chiavi interpretative: la sete come figura religiosa, e la sete come figura umana, specificamente familiare.
La sete come figura religiosa
Il senso religioso può essere definito come quella facoltà che abita ogni uomo e ogni donna abilitandoli a farsi capax Dei (S. Agostino), ad aprirsi cioè alla Trascendenza e a fare della propria coscienza il locus revelationis (il «luogo»
della rivelazione) ultimo e definitivo: concetto che Giovanni riassume nell’e-
Di Luigi Ghia, della Redazione di Famiglia Domani.
Si veda, ad es., ANDREA FONTANA, La dimensione battesimale nel Vangelo di Giovanni, in «Parole di
vita» 1/2004, p. 55.
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Cf, ad es., Gv 7,37-38; 19,28; 19,34.
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spressione «In spirito e verità». In questo orizzonte, esprimere la propria sete
rappresenta la suprema invocazione dell’essere umano, una invocazione di senso in un mondo privo di senso. Di qui la ragione ultima di una speranza: è non
solo possibile, ma anche già presente, un atteggiamento religioso dell’essere
umano nella storia.4
Il segno dell’acqua che estingue questa sete è il dono di Dio: un dono pacificante che calma l’arsura dell’essere umano, mentre nessuna acqua di pozzo
può estinguere la sete fisica: dopo che è stata sedata si ha nuovamente sete (cf
Gv 7,37-39). Non riteniamo insignificante mettere in relazione la sete di senso
con l’offerta (gratuita) dell’acqua che la estingue. La sete è, insieme con la fame, un bisogno primario, legato dunque all’esistere, alla sopravvivenza stessa,
anteriore ad altre esperienze, anche a quella dell’amore umano. Attraverso l’esperienza della sete l’uomo e la donna percepiscono la loro creaturalità, il loro
limite, e sono indotti a cercare fuori di sé l’appagamento di un desiderio vitale.
Scrive il monaco Natanaele Fantini: «L’uomo ha fame e sete, ma è il cibo-bevanda che lo fa essere. La fame e la sete non nutrono l’uomo, non colmano il
suo bisogno. Essi sono il segnale di una necessità di apertura ad altro da sé.
L’uomo non può colmare da sé il desiderio che lo abita, quel desiderio di vita,
di pienezza di vita, che fa esclamare al salmista: “Ha sete l’anima mia, anela
la mia carne come terra deserta, arida, senza acqua” (Sal 62,2)».5
È qui, a questo livello esistenziale, che Gesù si propone come «pozzo», dal
quale attingere un’acqua donata. L’iniziativa di Dio è assolutamente gratuita:
«Se tu conoscessi il dono di Dio...» (Gv 4,10). Un dono non meritato, non garantito dal diritto, non elargito con la pretesa di uno scambio, e che neppure
può essere preteso dall’essere umano come ricompensa per una vita ritenuta
irreprensibile: dono gratuito, appunto.
Gesù aveva ben chiaro questo movimento. Studi di etnologia6 hanno messo
in luce che nelle società arcaiche (nel saggio di Mauss le società maori) «regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi»7 in quanto il
vincolo attraverso la cosa si configura come un «legame di anime». In questo
quadro di sistema delle idee, dunque, accettare qualcosa da qualcuno equivale
ad «accettare qualcosa della sua essenza spirituale, della sua anima».8 E poiché
una (qualsiasi) cosa donata non è inerte, ma animata, essa conferisce una presa religiosa al soggetto che la riceve ed implica una restituzione, pena la fine
4
Il teologo riformato W. PANNENBERG afferma nel saggio Cristianesimo in un mondo secolarizzato,
Morcelliana, Brescia 1991, che più la società si secolarizza, più cresce tra i soggetti secolarizzati una domanda di senso.
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NATANAELE FANTINI, Il dono di Gesù alla sete dell’umanità, in «Parole di vita» 2/2004, p. 50.
6
Si veda di MARCEL MAUSS il fondamentale «Saggio sul dono», in Teoria generale della magia, Einaudi, Torino 1991, pp. 155ss.
7
Ivi, p. 172.
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Ivi.
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EDITORIALE
dell’alleanza e della comunione. Obbligo di donare, obbligo di ricevere il dono, obbligo di restituirlo erano (sono?) i presupposti del rapporto tra i soggetti, e non solo nelle società cosiddette arcaiche.
Gesù aveva ben chiaro questo movimento... e lo supera. Il dono di Dio è
gratuito, non implica l’obbligo di riceverlo, né di restituirlo. Un’autentica rivoluzione teologica, ma soprattutto antropologica. Da questo dono (l’acqua viva) nasce una creatura nuova, non un alleato-discepolo vincolato ad una fede
formale nel Dio-donatore. Il dono di Dio diventa allora il fondamento ultimo
non solo della Chiesa visibile, ma anche di quella invisibile, la chiesa dello spirito e non della lettera. Una promessa incondizionata di comunione universale,
non ancora pienamente realizzata, ma intravista per ora come orizzonte. «Ciò
che tarda avverrà»... (cf Ab 2,1-2). Quando diciamo che Dio è amore non pronunciamo una formula, ma diciamo questa capacità totale di dono di cui l’uomo e la donna non sono ancora capaci di fare esperienza piena. L’amore umano è una tensione sempre irrisolta verso questo dono totale, una sete, una invocazione profonda, autentica figura religiosa.
La sete come figura umana, specificamente familiare e di coppia
In questo orizzonte, che è l’orizzonte pasquale, si coglie il paradosso di Cristo che esprime la sua sete prima di effondere il suo Spirito, dono gratuito per
tutta l’umanità, e nel contempo si percepisce tutta la «sete» che gli esseri umani esprimono attraverso la loro fatica dell’esistere. Anche la coppia e la famiglia
vivono questa dimensione di sete: pur con il rischio di una riduzione fenomenologica, ne identifichiamo tre componenti.
La coppia e la famiglia hanno sete di stabilità
La coppia e la famiglia vivono oggi l’esperienza devastante della precarietà:
nelle relazioni di lavoro e nelle relazioni di coppia, sempre più instabili. Queste precarietà non sono scollegate fra loro, perché coppia e lavoro sono due poli attraverso i quali si realizza il progetto di Dio nella storia. Il precariato professionale non favorisce la crescita della coppia, ne impedisce spesso la costituzione, ne trasferisce al suo interno il modello; l’instabilità della vita affettiva,
per contro, ha pesanti ricadute anche sul piano del rendimento lavorativo. Questo al di là di ogni determinismo. Ora, qual è il «male» che noi dobbiamo combattere: le coppie «precarie» (coppie di fatto, conviventi...) che alcuni, in nome
di uno stato etico nonché della pretesa ineluttabilità delle leggi economiche,
vorrebbero private dei diritti competenti alle coppie «stabili», oppure la precarietà generata dalle situazioni economico-sociali in cui ci si trova a vivere?
Con quale coraggio possiamo parlare oggi di «etica della solidarietà»? Le leggi economiche non sono le supreme, e va detto con forza che tutto ciò che concorre alla precarietà è contro la vita e contro l’amore.
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La coppia e la famiglia hanno sete di concretezza e di trasparenza
Diciamolo subito, a scanso d’equivoci: la famiglia stabile, monogama, fondata sul patto d’amore «per sempre» (ma da realizzare giorno dopo giorno...) è il
nostro orizzonte, quello verso cui tendiamo con il nostro lavoro. È per noi una
sofferenza intima, profonda, vedere coppie di nostri amici il cui matrimonio si
sfascia, per immaturità, per situazioni concretamente insostenibili, o perché in
realtà esso non è mai esistito. Nel contempo, però, come negare che spesso vengano messi in atto nei loro confronti azioni discriminatorie e punitive? Questa
cultura, a giudizio di chi scrive, non è sufficientemente contrastata dalla stessa
comunità cristiana che a parole offre a queste coppie comprensione e misericordia e poi, di fatto, le marginalizza in vari momenti della vita ecclesiale.9 Ci piacerebbe almeno che tanto sacro zelo fosse dedicato anche nei confronti dei «formatori» alla instabilità di coppia, degli educatori occulti, dei «cattivi» maestri...
Scrive Roberto Cociancich sulla rivista scout per educatori: «...Non riesco
proprio a capire come impedire agli altri di fare una famiglia possa aiutare o
proteggere la mia famiglia. Se volete davvero aiutarmi (...) cercate piuttosto di
sostenermi nella fatica di tutti i giorni, nel ridurre significativamente il peso
delle imposte che devo pagare pur avendo molti figli, nell’offrirmi servizi sociali, scuole, ospedali di qualità (...). Anche se mi sforzassi non riuscirei assolutamente a capire come le preferenze sessuali di una persona possano rappresentare una minaccia per qualcuno nel mondo. Le minacce sono quelle di coloro che preparano e sganciano grappoli di bombe sui villaggi, disseminano di
mine le campagne, incitano all’odio i mussulmani, gli ebrei, i cristiani, diffondono menzogne, pregiudizi, falsificano le prove dei processi, inquinano la Terra (...) così come quelli che, nella grande storia della Salvezza, tracciano le definizioni e le righe e decidono loro chi sta dentro e chi sta fuori...».10
Anche, ma non esclusivamente, per la comunità cristiana sarebbe un utile
esercizio di umiltà intercettare questo bisogno di trasparenza e di concretezza
senza lasciarsi incantare dalle sirene di chi difende (solo) a parole la famiglia.
La coppia e la famiglia hanno sete di incontrare persone «vive»,
comprensive, solidali
È l’esperienza della Samaritana che ha incontrato una Persona viva, capace
di cogliere tutta la fatica dell’esistere, in lei «costretta» dalla sua situazione
9
Non può che essere apprezzato il fatto che il card. DIONIGI TETTAMANZI, arcivescovo di Milano, in «Il
Signore è vicino a chi ha il cuore ferito. Lettera agli sposi in situazione di separazione, divorzio e nuova
unione», Centro Ambrosiano, Milano 2008, pur non discostandosi dall’insegnamento tradizionale del Papa e dei vescovi su questo tema, si rivolga a chi si trova in tali situazioni con un atteggiamento ed un linguaggio sicuramente nuovi, fraterni, esprimendo il proprio dispiacere se nel loro cammino queste persone
e queste coppie hanno incontrato uomini e donne della comunità cristiana che li hanno in qualche modo ferite con il loro comportamento e le loro parole.
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ROBERTO COCIANCICH, Pensieri di un villico, prima che attacchi il generale Santana, in «Servire»,
3/2007, pp. 23-24.
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EDITORIALE
anomala a venire al pozzo nell’ora più calda della giornata, quell’ora sesta in cui
il sole è a picco e le persone «normali» si apprestano a sedersi a tavola. Gesù
non ha rifiutato l’incontro, non le ha proposto un dialogo con accenti falsamente misericordiosi, l’ha semplicemente accettata, così com’era e non come
(forse) avrebbe voluto che fosse. Molte coppie e molte famiglie vivono oggi
una terribile delusione: percepire cioè che l’uomo rischia di conoscere l’esilio
dal cuore dei cristiani o di coloro che si professano tali, spesso più attenti formalmente alle 597 domande del Catechismo della Chiesa Cattolica che non ai
valori reali che esse dovrebbero incarnare; e accorgersi che per molti amare
l’uomo e la donna significa tenersene separati, comunque separarsi dai loro
problemi reali, dai loro drammi, dalle loro fatiche.
Gli uomini e le donne del nostro tempo, stanchi ed assetati per un cammino
spesso molto tortuoso, che ha lasciato sul loro volto tracce di polvere e di sudore, hanno il desiderio profondo di incontrare persone vive, capaci di dare loro accoglienza e ristoro, non giudizi e condanne. Non hanno bisogno che qualcuno ricordi loro ciò di cui soffrono: le proprie fatiche le conoscono benissimo.
Non hanno molto interesse a discettare sui percorsi che hanno fatto per giungere
al pozzo, un po’ di più invece a trovare qualcuno che offra loro da bere, e faccia loro un po’ di compagnia sulla strada che devono ancora percorrere. Qualcuno libero dalle molte ossessioni che oggi serpeggiano nelle nostre comunità,
prima fra tutte quella della sessualità.
La misericordia non è un dato della teologia, ma un atteggiamento del cuore, umile, povero, accogliente. È il luogo d’incontro tra due cuori assetati. Se la
comunità cristiana si pone in questo orizzonte ha buone probabilità di rispondere alle molte domande del cuore umano, da qualunque parte provengano: in caso contrario, essa è destinata a diventare irrilevante, marginale. Rischia l’insignificanza. Oggi la Chiesa non è più minacciata dalle eresie, ma dall’indifferenza generata dalla profonda crisi di profezia che la attraversa. Anche nel passato ha vissuto la tensione tra due anime: quella della conservazione dell’esistente (Pietro) e quella del rinnovamento mediante il contatto con i «gentili»
(Paolo). La tensione fu risolta con l’atteggiamento della parresia, la franchezza,
ma soprattutto con l’ascolto interiore dello Spirito, nella consapevolezza intima
che «l’ispirazione è il nome religioso della libertà» (F. Schleiermacher). Ma oggi siamo capaci di questo ascolto? E di questa franchezza tra fratelli nella fede?
* * *
Sete come figura religiosa, sete come figura umana. Gesù stesso ce ne propone una sintesi. L’incontro del Maestro con la Samaritana è proprio l’incontro
tra due «nudità», tra due fatiche, soprattutto tra due seti. Forse è utopico sognare
una Chiesa così, in cui la povertà del Cristo che si incontra con la povertà umana si fa irrinunciabile e definitivo modello ecclesiologico. Ma, ne siamo certi,
ciò che tarda avverrà.
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